Migrazioni. Per terra e per mare


Muri, forze di polizia, norme di legge non bastano a fermarli: la forza della disperazione li spinge a proseguire, nonostante tutto. Maurizio Pagliassotti è stato sulle rotte dei migranti e li ha raccontati in due libri, crudi. Come crudo e irrisolto è il fenomeno migratorio.

In cerca di pane e futuro. Sono migranti tunisini, nigeriani, siriani, egiziani, afghani, pachistani, bengalesi. Da un paio di mesi, in seguito al ritorno della guerra in Sudan, ci sono anche molti cittadini di quel paese africano.

Per tentare l’entrata in Europa, questi migranti hanno due possibilità, entrambe molto rischiose: prendere la strada del mare o quella della terra ferma. La prima è più scenografica e, dunque, più raccontata, la seconda è più nascosta e, pertanto, meno conosciuta.

La realtà delle migrazioni verso l’Europa viene descritta in tutta la sua durezza e disumanità nei due libri – forse imperfetti ma sicuramente pregevoli – che Maurizio Pagliassotti, giornalista (Domani, il Manifesto, ma anche Missioni Consolata) e scrittore, ha dedicato al fenomeno, non studiandolo da fuori ma calandosi in esso.

Il primo lavoro – «Ancora dodici chilometri» (2019) – è ambientato sul confine tra Italia e Francia (Claviere, Briançon, Monginevro, Bardonecchia, Colle della Maddalena, …) dove operano soprattutto gendarmi d’oltralpe, molto solerti nel riportare i migranti sul territorio italiano1.

Il secondo – «La guerra invisibile» (2023) – parte dai luoghi del primo, ma allarga l’orizzonte dalle Alpi ai Balcani, attraversando vari confini e arrivando fino al Kurdistan turco (Erzurum, Van, Igdir).

(Photo by Matteo Trevisan / NurPhoto / NurPhoto via AFP)

Vittime e novelli carnefici

«Il mondo delle migrazioni – scrive Pagliassotti – è duro […]. Il migrante sa che per tutto ciò che farà durante il suo viaggio dovrà pagare qualcosa. Con il denaro, con il lavoro, con la schiavitù, con il sesso». Pagine dalla parte dei migranti – le vittime, anzi i nemici di questa «guerra invisibile e silenziosa» -, ma senza paternalismo o pietismo e, soprattutto, senza alcun giro di parole: il racconto di Pagliassotti è crudo e senza sconti per alcuno. Neppure per gli anziani avventori di un bar di montagna che commentano una storia di migranti affogati in mezzo al mare. «L’odio di questi paesi non è quello dei quartieri periferici di Torino, o di un’altra grande città. […] in un posto così, dici “se lo meritano”, “ma chi se ne frega”, “crepino”. Solo così sei accettato. Qui non c’è il nigeriano che spaccia o ti ruba la bicicletta. Qui non c’è nulla. Lo dicono tutti, quindi lo dici anche tu. E tutti ridono nel bar, dandosi di gomito. […] Un sodalizio strapaesano tra vecchi piemontesi e vecchi meridionali accomunati da un rancore irrazionale, soprattutto i secondi: furibondi nei loro “noi siamo venuti qui per lavorare e quelli vengono a fare un c… Che se ne stessero a casa loro”. […] La vittima che diventa carnefice. Infiniti patimenti e angherie, ma poi alla fine è arrivato qualcuno ancora più reietto, ancora più scuro di pelle, ancora più terrone».

Il clima politico di questi anni complicati non aiuta. È ormai annosa la questione delle Ong del Mediterraneo da molti considerate «pull factor» (fattori di attrazione) per i barconi e i barchini dei migranti. Se – come racconta Pagliassotti in Ancora dodici chilometri – anche una piccola associazione come «Il Pulmino verde» viene minacciata perché aiuta i migranti irregolari, significa che il degrado umano è profondo.

«Che vita schifosa deve essere quando tutti ti odiano e tu odi tutti», commenta l’autore a un certo punto de La guerra invisibile. Eppure, non mancano incontri con figure tanto umane da fare notizia. Come a Trieste.

Dopo Bolzano, l’autostrada che conduce al Brennero, il confine tra Italia e Austria. Foto Tibor Pelikan – Pixabay.

Gli «eserciti» del papa

«I loro nomi si protendono lungo la rotta dei Balcani fra migranti, cooperanti, giornalisti e non sempre sono amati neppure tra noi buoni: “troppo mediatici”. Lei è una psicologa clinica, lui un ex docente di liceo in pensione. […] Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi ogni sera, da anni, vanno a ricucire le ferite di chi giunge dalla rotta dei Balcani

[…]. Lei, una signora apparentemente semplice ma dal portamento aristocratico, lava e medica i piedi luridi coperti di fango e sangue di chi arriva qui […]. Due anziani che in cambio di niente salvano la dignità di un continente […]. Indubbiamente sono sotto i riflettori ma questo che problema è?». «Esiste una vasta invidia nel nostro mondo di buoni», chiosa con sarcasmo Pagliassotti. Che non può dimenticare gli operatori e volontari della Caritas.

«Li apprezzo molto – confessa l’autore – , pur essendo ateo e molto molto critico rispetto all’altruismo fondato sulla misericordia. […] La Caritas che ho conosciuto io l’ho trovata nei campi di frutta del Nord Italia

[…]. La Caritas che mi accoglie a Šid (cittadina serba al confine con la Croazia, ndr) fa parte di un esercito della misericordia

[…] che si protende verso l’aiuto degli umiliati e offesi in marcia».

Papa Francesco, capo di questo esercito2, parla spesso in difesa dei migranti. In Ancora dodici chilometri Pagliassotti cita un suo passo: «“Spostarsi e stabilirsi altrove con la speranza di trovare una vita migliore per se stessi e le loro famiglie: è questo il desiderio profondo che ha mosso milioni di migranti nel corso dei secoli”». Ma, come ricorda l’autore, anche il pensiero del papa è spesso derubricato alla categoria denigratoria del «buonismo».

 

C’è profugo e profugo

Le guerre parevano lontane. Almeno fino al febbraio 2022, quando la Russia di Putin ha aggredito l’Ucraina e la guerra è entrata di prepotenza nell’esistenza di noi europei. Maurizio Pagliassotti abbandona il suo percorso narrativo sulla rotta balcanica e turca per portarci più a nord, in Polonia, paese appartenente al cosiddetto «gruppo di Visegrád», ovvero i quattro stati europei (oltre alla Polonia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia e l’Ungheria di Orbán) «reazionari, cementati, tra le altre cose, dall’ossessione delle frontiere chiuse che hanno trasformato i migranti in nemici».

«Sono stato nei giorni scorsi – racconta l’autore riferendosi all’inizio di marzo 2022 – al confine tra la Polonia e l’Ucraina per vedere cosa è l’umanità in fuga che viene accolta. Io arrivo da un viaggio dove ho incrociato solo l’umanità che viene respinta. Profughi delle guerre in Afghanistan e Siria sono gli esseri umani incontrati nei Balcani e in Turchia: i siriani possono perfino condividere l’origine delle bombe con gli ucraini. Bombe russe».

In definitiva, via libera a milioni di ucraini, stop indefinito per siriani, afghani, africani. Perché – si chiede l’autore – «esistono profughi che sono giustamente degni della nostra umanità e altri a cui viene concessa soltanto la nostra disumanità?».

Dall’esperienza nella stazione polacca di Przemyśl, l’autore esce (anche) con altre stoccate accuminate. «I fotografi – scrive – sono tra i più eccitati e spietati, sono tra quelli che meglio annusano il sangue: i loro obiettivi si avvicinano al volto dei bambini fino ad abusarne, e scavano alla ricerca dello scatto più duro, affamati di lacrime e senza scrupoli; le madri si ribellano, subentra la polizia che vieta di fare le foto, ma tutti se ne infischiano, ci sono discussioni. Sulla pelle dei profughi campa un sacco di gente e la sofferenza è un grande mercato da sfruttare a fondo».

«Ci servono»

I passaggi dei confini tra Italia e Francia, tra Italia e Austria e – soprattutto – tra i paesi della ex Jugoslavia e tra Grecia e Turchia sono pagine dense di storie e ingiustizie, che suscitano l’indignazione e l’impotenza di Pagliassotti.  «Perché – scrive con acuta perfidia – i muri che alziamo e le milizie che schieriamo per mari e per monti sono, in realtà, strumenti per evitare la tragedia: questo è il messaggio mai esplicitato, ma nemmeno troppo sottinteso. Una forma di bontà e altruismo con il mitra in mano».

C’è la guerra degli Stati contro i migranti e, all’interno di questa, la guerra dei penultimi contro gli ultimi. «“Ci odiano perché lavoriamo”, mi ha raccontato un ragazzo (siriano, ndr) di Erzurum. “Dicono che rubiamo il lavoro ai turchi. Ma questo non è vero […]. Lo stipendio medio di un muratore siriano è di circa 400 euro, contro gli 800-1.000 di un turco. Un panettiere 300 contro 600.

[…] il rifugiato siriano è percepito come un concorrente sleale che si vende per pochi soldi pur di non tornare al suo Paese».

Odio, razzismo, guerra: i due libri di Pagliassotti lasciano poco spazio alla speranza. Anzi, proprio non ne lasciano. Ma come si fa a dargli torto?

È triste ammetterlo, ma oggigiorno il mondo e il sistema sono questi. Prendiamo, ad esempio, l’Italia. Oggi, escludendo alcune chiese (cattolica, valdese, ecc.) e diverse organizzazioni della società civile, chi non si oppone3 all’arrivo di migranti lo fa quasi esclusivamente sulla base di un calcolo di mera convenienza: «Ci servono». Per fare i lavori che gli italiani non vogliono più fare, per garantire le nostre pensioni, perché gli italiani invecchiano e non fanno più figli.

D’altra parte, meglio essere cinicamente pratici piuttosto che dare spazio a concetti (guerra etnica, difesa della razza, suprematismo bianco, teoria della grande sostituzione, purezza razziale) bocciati dalla storia e dalla morale. Ma che potrebbero anche tornare.

Paolo Moiola

Le montagne attorno a Claviere, zona di confine con la Francia molto battuta dai migranti. Foto Piero Mobile – Unsplash.


Note

(1) Sulla questione migranti lo scontro tra Francia e Italia è aspro. Dopo aver rafforzato il confine con altri gendarmi, i transalpini hanno accusato il governo Meloni di incapacità nella gestione del problema (4 maggio).

(2) Peraltro, anche la Caritas ha i suoi problemi. Lo scorso novembre papa Francesco ha deciso di commissariare Caritas Internationalis, la confederazione delle 162 Caritas nazionali operanti nel mondo.

(3) Il clima culturale vigente è stato sintetizzato (con toni esasperati) da una copertina (riprodotta sopra) e un’inchiesta del settimanale «Panorama»: «Un’Italia senza italiani» (3 maggio).

 

I MIGRANTI SU MC

Tra i molti articoli sul tema leggibili sul sito della rivista, ne segnaliamo alcuni:




Dalla Bosnia. La porta è chiusa


Rispetto a quella del Mediterraneo, la rotta dei Balcani è meno nota ma sempre più frequentata. Qualunque sia la strada seguita, la questione delle migrazioni verso l’Europa rimane irrisolta. Reportage dai campi profughi della vicina Bosnia.

Silvia Maraone è la responsabile del progetto di Ipsia (Istituto pace sviluppo innovazione, la Ong delle Acli) a Bihać e a Lipa, in Bosnia. Schietta e cordiale, Silvia si muove con autorevolezza e determinazione con istituzioni locali, poliziotti, cittadini, volontari, operatori di varie organizzazioni e con i profughi.

Ci accompagna all’interno del campo di Lipa, raccontando come funzionano le cose, come sta evolvendo la situazione, quanto siano preziosi gli aiuti che arrivano dall’Italia.

Siamo nel distretto bosniaco di Una Sana, una terra ricca di fiumi e di boschi, con paesini caratterizzati da piccoli minareti. In questi luoghi, che trent’anni fa videro il conflitto dell’ex Jugoslavia, negli ultimi due anni si è creata un’emergenza straordinaria.

La cittadina di Bihać, che conta circa 30mila abitanti, ha visto arrivare seimila profughi, in maggioranza provenienti dal Medio Oriente e diretti in Europa. Persone che, nonostante il diritto di chiedere asilo, vengono bloccate proprio sul confine tra Bosnia e Croazia, dove si fa di tutto per non farle proseguire.

Una veduta del nuovo campo profughi di Lipa, in Bosnia, aperto il 19 novembre 2021; posto a 20 chilometri da Bihać, può ospitare fino a 1.500 persone. Foto di Geoffrey Brossard – Nangka Press – Hans Lucas – AFP.

La strategia di Frontex

Logo dell’agenzia europea Frontex.

È la «fortezza» Europa che non li vuole e che, come spesso accade, li ferma per interposta persona. In questo caso, è la Croazia – paese dell’Unione europea – che respinge i profughi, mentre la Bosnia prende il posto della Turchia o della Libia nel trattenerli. L’agenzia europea Frontex trova conveniente utilizzare la vicinanza geografica dei Balcani e la collaborazione di diversi governi desiderosi di entrare nella Ue (come la Bosnia Erzegovina), per rendere il contenimento dei migranti più semplice e, soprattutto, meno costoso.

Nel 2021, con un aumento del 125% di passaggi irregolari su questa rotta rispetto all’anno precedente, Frontex ha perseguito una logica securitaria fatta di fili spinati, campi di confinamento e militarizzazione dell’area. Ciliegina sulla torta, l’uso di moderne tecnologie, dai droni allo studio di sistemi di sorveglianza e controlli di tipo biometrico, come le impronte digitali, il riconoscimento facciale, ecc. (vedi Luca Rondi su Altreconomia n. 245). Pratiche che già molte organizzazioni contestano, considerandole illegali e pericolosissime dal punto di vista dei diritti umani e della privacy in campo digitale (lo si fa con i migranti, ma anche con i cittadini di molti paesi).

La mappa mostra i tragitti dei migranti per raggiungere la Bosnia.

Il «non luogo» di Lipa

Così la zona è divenuta una sorta di collo di bottiglia, e la radura di Lipa, a 20 chilometri da Bihać e da qualsiasi altro centro abitato, si è trasformata inizialmente in una tendopoli di quasi duemila profughi, mentre altri venivano ospitati in città, in due campi provvisori. Dopo l’incendio di un anno e mezzo fa, le organizzazioni internazionali e la municipalità di Bihać hanno deciso di attrezzare l’area, che ora si presenta più funzionale e dove in maggio è stata inaugurata una nuova zona per le attività dedicate ai bambini (grazie ai fondi inviati direttamente da papa Francesco). Ma non cambia il fatto che questo campo tra i boschi della Bosnia resti un «non luogo» in mezzo al nulla, con millecinquecento posti – fino a giugno, occupati da circa 400 ospiti – con ben poche possibilità di interazione con il territorio. Oltre alla distanza fisica, infatti, esiste anche una differenza culturale importante: la maggioranza di queste persone provengono da Afghanistan e Pakistan, ma ci sono anche siriani, iraniani e diversi africani. Oltre a un centinaio di cubani, la cui storia è davvero originale, nella sua drammaticità. Andare negli Usa può costare troppo, e allora si ripiega sull’Europa, e la Russia – non distante dal sogno europeo – è uno dei pochi paesi in cui un cubano può sbarcare senza visto (ma dove non può restare né chiedere asilo). Di respingimento in respingimento, anche i cubani sono finiti a Lipa, luogo nel quale tutti (maschi e femmine, famiglie, giovani e meno giovani, di qualsiasi provenienza) hanno un unico scopo: varcare il confine.

Alcune strutture del nuovo campo profughi di Lipa. Foto di Roberto Calza.

La struttura

Lipa è la tappa principale per chi prova e riprova «the game», il cammino verso l’Europa, ed è disposto a tutto per realizzare il proprio progetto migratorio. Un percorso sempre più ostacolato – anche con metodi brutali – dalle autorità croate che hanno persino «rasato» una striscia di bosco a ridosso del confine per individuare meglio con i droni coloro che provano ad emigrare – come cantava Ivano Fossati – «da una terra che ci odia ad un’altra che non ci vuole».

Ipsia è un’organizzazione particolarmente attiva a Bihać e nel campo, dove ha promosso alcune iniziative innovative, sostenute da molti donatori italiani, come il servizio di lavanderia, le cucine collettive, i social cafè. Il primo si era reso necessario per urgenti problemi igienico sanitari, in quanto molti migranti indossavano per giorni gli stessi vestiti senza poterli lavare e cambiare, cosa che aveva provocato diversi casi di scabbia. Le cucine – una decina di grandi bracieri a legna – sono invece una felice intuizione che permette a molti ospiti di sentirsi protagonisti nel cucinare i loro pasti, secondo la loro tradizione e le loro capacità. I social cafè sono infine una modalità per favorire le relazioni all’interno del campo, tramite un tè o un caffè, alcune attività ludico ricreative e culturali, con il supporto di operatori e volontari.

«Ora i posti a disposizione sono sufficienti e l’essenziale c’è – ci dice Silvia -, ma per proseguire con le cucine (cibo e legna costano 3/4mila euro al mese) e la lavanderia (altri 5mila) serviranno altri fondi, oppure dovremo ridurre il numero di beneficiari. Inoltre, oggi i profughi in tutta la Bosnia sono meno di duemila, ma se i numeri aumenteranno – come potrebbe accadere – rischieremo nuovamente di trovarci in difficoltà».

Oltre a Ipsia, il campo – ma anche la città di Bihać – vede la presenza di una decina di realtà internazionali e locali che hanno costruito efficaci sinergie finalizzate a rispondere alle innumerevoli esigenze portate dai migranti. Caritas Italiana (con l’appoggio di numerose Caritas diocesane), Caritas Banja Luka, Ipsia, Croce Rossa (sia internazionale che locale), l’agenzia delle Nazioni Unite per le migrazioni (Iom), alcune Ong di Danimarca e Austria e pure l’ambasciata italiana, hanno permesso di gestire la situazione in modo tutto sommato efficace, per quanto sempre emergenziale.

«All’inizio dell’emergenza – racconta il responsabile della Caritas di Banja Luka che a Bihać ha aperto un ufficio appositamente per far fronte alla complessa situazione – erano presenti una cinquantina di associazioni, che poi sono scomparse. Chi è rimasto ha capito che, perché le cose funzionassero, era necessario collaborare, facendo ognuno la propria parte».

Così il progetto lavanderia funziona grazie ai volontari e operatori Ipsia (tra cui alcune ragazze italiane in servizio civile) che raccolgono gli indumenti al campo, mentre la Croce Rossa di Bihać provvede al lavaggio e alla consegna, grazie a lavatrici industriali e furgoni finanziati dall’Italia. La Croce Rossa poi – autorizzata dal governo bosniaco a monitorare quanti si accampano nei dintorni (nei cosiddetti «jungle camp», vedi riquadro pp. 20-21) – condivide le informazioni con Caritas Bihać che, tramite tre suore di Madre Teresa, due infermiere e due psicologi, raggiunge questi dimenticati portando loro viveri, vestiti e assistenza sanitaria. Inoltre, per evitare uno sbilanciamento di risorse verso i profughi, si interviene anche sulle povertà della comunità locale. Similmente per la scuola: le attività e le risorse messe in campo per favorire l’inserimento dei bambini stranieri (in verità non molti), sono nei fatti destinate a tutti i minori, senza distinzioni.

Un migrante si prepara la cena in un rifugio di fortuna nei boschi fuori Lipa. Foto di Stefano Calza.

Sotto la cenere

Nonostante una situazione che al momento appare più tranquilla, restano impressionanti alcuni numeri forniti da Caritas Bihać, che opera grazie all’aiuto di varie Caritas in Italia e di altri donatori, nonché al supporto degli operatori Ipsia con cui collabora da tempo. Grazie ai fondi Caritas, in questi ultimi mesi la Croce Rossa locale ha distribuito 120mila pasti per il campo, a cui se ne aggiungono altri 40mila per quanti vivono accampati nei boschi e nei ruderi, mentre altri 16mila pasti vengono distribuiti in altre realtà. Allo stesso tempo si sostengono circa 400 famiglie bosniache bisognose di Bihać con aiuti di prima necessità.

Purtroppo, la questione migratoria non è l’unica preoccupazione. Daniele Bombardi, operatore di Caritas Italiana, che da anni viaggia tra Serbia, Bosnia e Kossovo, ammonisce: «Non è solo la questione migratoria a preoccupare. I compromessi su cui si è costruito il governo bosniaco dopo la guerra, appaiono sempre più fragili (riquadro a pag. 22). A livello governativo vi sono state alcune provocazioni, con richieste di autonomie che risultano divisive. E se non si presidia la situazione, basta una scintilla per riaccendere un fuoco che cova sotto la cenere».

Ogni tanto un paio di ragazzi escono dal campo con lo zaino in spalla. A loro non interessano i discorsi delle autorità venute a inaugurare il nuovo padiglione, né le beghe politiche nel governo bosniaco. Partono per «the game», alla ricerca di un futuro. Dovessero fallire e tornare indietro, Lipa probabilmente sarà ancora lì: un letto, un pasto e centinaia di compagni di sventura con cui condividere informazioni, fatiche e speranze. E qualche persona amica pronta a regalare un sorriso e a provare a salvaguardare la loro dignità.

Roberto Calza*

 (*) Già direttore della Caritas diocesana di Trento per dieci anni, attualmente referente per la pastorale Migrantes della stessa diocesi. Coordinatore della campagna «Cambiamo Rotta», promossa nel maggio 2021 da alcune realtà trentine a sostegno dei progetti di Ipsia a Bihać e Lipa in Bosnia.

Si parte per un nuovo tentativo di attraversamento del confine. Foto di Stefano Calza.


Storie di altri migranti

Ancora, ancora e ancora

Sopravvivono fuori dai campi ufficiali, ma resistono e non demordono: continueranno a provare il passaggio in Europa. Assistiti dai volontari del Jrs.

I boschi della Bosnia non sono la giungla tropicale, ma «jungle camp» è il modo in cui vengono indicati gli accampamenti nei boschi, fuori dai campi profughi autorizzati («squat» invece è il termine usato in area urbana). In mezzo agli alberi o appoggiandosi a qualche rudere nelle campagne piuttosto che a qualche capannone dismesso in una periferia urbana, alcune centinaia di persone stazionano nei pressi del confine, pronte all’ennesimo giro di giostra, per attraversare quella linea che li separa da un’Europa che, in questi anni, è divenuta una sorta di nuovo Eldorado.

All’interno delle attività del Jesuit refugee service (Jrs, in Italia rappresentato dal Centro Astalli), che ha un presidio nel campo di Lipa, c’è quella di «outreach», la ricerca di questi campi informali, con conseguenti visite a chi li popola, in particolare nella zona di Bihać e di Velika Kladuša. È un lavoro particolare, fatto di relazioni, di contatti, di condivisione di informazioni con altre organizzazioni e anche di un’attenta lettura del territorio. Se infatti alcuni luoghi sono ormai divenuti punti fermi di transito di molte persone, altre volte è necessario intuire – da un sentiero accennato in un prato, dalla presenza di volti nuovi in città, da qualche rifiuto lasciato nei boschi – dove si formano nuovi insediamenti.

Il sostegno che viene fornito da Jrs a chi vive nei jungle camp è principalmente di due livelli: quello materiale, che consiste nel rifornire i profughi di quanto può servire ad affrontare «the game» (es. vestiti e powerbank per i cellulari), e quello sanitario con visite mediche per accertare le condizioni di salute e, in caso di necessità, inviare le persone a professionisti (dentisti, oculisti, medici) convenzionati con l’associazione che paga il conto. Non è concesso consegnare viveri.

Un gruppo di volontari di Jrs visita un rifugio di migranti nei boschi attorno a Lipa. Foto di Stefano Calza.

L’altra faccia della rotta balcanica

Chi vive nei jungle camp? Per lo più si tratta di uomini, soprattutto pachistani e afghani, anche se non manca qualche famiglia (nei nostri giri abbiamo incontrato un paio di nuclei nepalesi e una famiglia iraniana) che decide di attendere in ripari di fortuna il momento buono per partire.

Sono luoghi che rappresentano l’altra faccia della rotta balcanica, che raccontano vicende che vale la pena far conoscere.

Nei pressi di una casa abbandonata alla periferia di Velika Kladuša incontriamo John, giovane camerunense che necessita di cure mediche. Ha infatti un labbro enorme, tumefatto da un pestaggio da parte delle guardie di frontiera, confermato dai segni di uno stivale sulla guancia. Gli operatori di Drc (Danish refugee council), la grande organizzazione danese che – tra i vari interventi – si occupa di fornire cure sul campo, esaminano il volto di John e sostengono che loro possono fare ben poco, meglio sarebbe se fosse sotto controllo medico per qualche giorno, per evitare complicazioni. Gli viene suggerito di farsi portare al campo di Lipa (è possibile chiamare il dipartimento per l’immigrazione bosniaco che fa questo servizio) dove l’assistenza medica è più strutturata e h24. John tentenna, non gli piace troppo dover tornare al campo, ma alla fine accetta, ponendo però una condizione: si farà trovare sulla strada principale, non vuole che il dipartimento immigrazione conosca esattamente l’ubicazione di quel rifugio né chi ci abita. Forse una sorta di rispetto per i suoi compagni di campo. Quando starà meglio, sicuramente farà tappa qui e poi, come tutti, proseguirà per fare un altro tentativo.

Un cartellone con i nomi delle organizzazioni attive nel nuovo campo di Lipa. Foto di Roberto Calza.

Dal Pakistan

Ci sono poi le storie di Sajad e Ibrahim, che troviamo insieme ad altri ragazzi pachistani in una vecchia fabbrica. Sajad, che compirà 18 anni quest’anno, ci racconta che, dopo diversi tentativi, era riuscito a passare – con un gruppo di quaranta connazionali – sia il confine croato che quello sloveno. A Novo Mosto, in Slovenia, la comitiva è stata fermata dalla polizia che ha chiesto chi fosse il capo del gruppo. Qualcuno ha indicato Sajad che – senza alcuna accusa precisa, senza una intermediazione né un traduttore e nemmeno una comunicazione formale – è stato arrestato e tenuto in carcere per sei mesi, prassi ormai piuttosto frequente. Una volta rilasciato – senza alcun processo – è stato rispedito in Bosnia.

Quella di Ibrahim, sui trent’anni, è invece una vicenda più complessa. Lui conosce quasi tutte le frontiere dell’Est Europa, avendo provato a passare da ogni pertugio possibile. Partito anche lui dal Pakistan, ha attraversato Iran, Turchia, Grecia, Kosovo, Albania, Serbia, Ungheria (passando il tristemente noto muro tra questi due paesi).

Arrivato finalmente in Austria, è stato fermato e riportato in Serbia e da qui in Bosnia. Tuttavia, Sajad e Ibrahim non demordono.

Proprio pochi giorni prima di incontrarli avevano riprovato «the game», insieme. Ma stavolta la reazione delle pattuglie che controllano il confine croato è stata particolarmente severa. Hanno preso loro i telefoni a cui hanno sparato, dando poi fuoco ai pochi soldi che avevano, ricacciandoli indietro ancora una volta.

La partita infinita

Dopo alcuni giorni passati tra queste persone diventa inevitabile chiedersi il senso di questo «gioco», che di ludico ha ben poco, e se non ci siano modi meno rischiosi e più dignitosi per arrivare in Europa. Ma il semplice fatto che qualcuno ce la faccia (e la cosa rimbalza velocemente di smartphone in smartphone) motiva tutti quelli che ancora – magari dopo aver provato 30 o 40 volte – sono in attesa. Perché qualcuno il confine lo passa comunque ogni giorno. In stazione a Zagabria, mentre torno in Italia, incrocio casualmente alcuni volti noti, sfiniti ma sorridenti. Sono ragazzi incontrati a Lipa alcuni giorni prima. Dopo tre giorni di cammino ora sono lì, forse a un passo dalla conclusione del loro progetto migratorio. Offro loro quel poco che ho, sperando arrivino alla loro meta.

Stefano Calza*

 (*) Laureando in sociologia, attualmente in tirocinio presso il Centro Astalli (Jesuit refugee service, Jrs) di Trento, da due anni vive un’esperienza di condivisione abitativa con alcuni migranti presso i padri comboniani del capoluogo trentino.

Rappresentanti di Jrs spiegano la loro presenza in Bosnia Erzegovina. Foto di Stefano Calza.


Bosnia-Erzegovina, venti di secessione

  • Superficie: 51mila Km2;
  • Popolazione: 3,8 milioni;
  • Sistema politico: dal 1995, Repubblica parlamentare federale composta da due entità: la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (croato-musulmana) e la Repubblica Serba (Republika Srpska);
  • Presidenza: tripartita, con un rappresentante per ogni gruppo etnico: Milorad Dodik (serbo), Šefik Džaferović (bosgnacco), Željko Komšić (croato);
  • Capitali: Sarajevo, con circa 300mila abitanti; Banja Luka, capoluogo della Repubblica Serba;
  • Date essenziali: secessione dalla Jugoslavia nell’aprile 1992; guerra civile (1992-1995) con 38.697 civili uccisi; accordi di pace di Dayton (Ohio, Usa) del novembre 1995;
  • Principali gruppi etnici: bosgnacchi 48% (musulmani), serbi 37,1% (ortodossi), croati 14,3% (cattolici);
  • Religioni principali: islam, cattolicesimo, Chiesa cristiana ortodossa;
  • Economia: a 27 anni dalla fine della guerra, l’economia del paese rimane di sussistenza; lo stipendio mensile medio è di 500 euro; in crescita il turismo internazionale;
  • Gas: le forniture di gas provengono dalla Russia;
  • Situazione politica: la Repubblica Serba spinge per la secessione dalla Federazione bosniaca; come il governo di Belgrado, il leader Milorad Dodik è vicino alle posizioni di Vladimir Putin;
  • Bosniaci in Italia: 21.500 persone (dati Istat al 31 dicembre 2020);
  • Rotta balcanica: è il percorso dei migranti attraverso Grecia, Macedonia del Nord, Bulgaria, Serbia, Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia.

(a cura di Paolo Moiola)

Mappa della Bosnia Erzegovina e dei paesi nati dallo smembramento della ex Jugoslavia.


Gli ultimi articoli su migranti e rotta balcanica:

Daniele Biella – Luca Lorusso, Ragazzi dimenticati, dossier, dicembre 2021;
Simona Carnino, Il «game» infinito dei respingimenti, aprile 2021.

 




Nel cuore e alle frontiere d’Europa

Il vecchio continente è il «qui e ora» della missione. Per i Missionari della Consolata è il luogo delle radici, della sorgente del loro carisma. Sempre più è vera frontiera di testimonianza, annuncio e consolazione.

Non come lupi solitari, ma come tessitori di reti.

«Le riflessioni teologiche o filosofiche sulla situazione dell’umanità e del mondo possono suonare come un messaggio ripetitivo e vuoto, se non si presentano nuovamente a partire da un confronto con il contesto attuale, in ciò che ha di inedito per la storia dell’umanità» (Laudato si’, n. 17).

Questa breve citazione di papa Francesco, tratta dall’enciclica Laudato si’, sarebbe potuta essere il cappello sotto cui collocare tutta la riflessione della prima Conferenza della neonata Regione Europa dei Missionari della Consolata.

Questo incontro, iniziato in streaming lo scorso mese di maggio e conclusosi in presenza a Fátima (Portogallo) dal 20 al 24 settembre 2021, ha di fatto sancito l’unione in un’unica circoscrizione (iniziata giuridicamente due anni fa) delle nostre comunità di Missionari della Consolata in Italia, Polonia, Portogallo e Spagna.

Ne è nato un documento interessante, il Progetto missionario regionale, una sorta di vademecum che, definendo in modo chiaro alcuni obiettivi, cerca di individuare criteri e linee di azione per giungere a una nuova comprensione, e quindi a un nuovo orientamento di ruolo e azione, del missionario della Consolata oggi in Europa.

Momenti della Conferenza e veduta dei partecipanti

Il contesto

Come emerge chiaramente dalla citazione di papa Francesco, il confronto con l’hic et nunc, il «qui e ora» della missione, deve essere l’imprescindibile punto di partenza come anche l’auspicato traguardo dell’impegno missionario nel continente.

La Conferenza ha ribadito l’importanza di dedicare tempo e attenzione all’analisi del contesto, in modo che essa possa diventare atteggiamento e metodo, ispirazione e prassi.

È inutile ricordare come la missione in Europa sia stata caratterizzata fino a non molti anni fa da una dimensione totalmente opposta: era una missione ibi et post, «lì e dopo», che si svolgeva altrove, e per la quale in Europa ci si preparava, tanto da un punto di vista accademico professionale, quanto economico e strutturale.

La Conferenza regionale ha scelto di focalizzare il proprio lavoro sull’analisi della realtà, nella consapevolezza che è il contesto che sceglie noi, ci interpella come cristiani e missionari, ci obbliga a prendere decisioni, orientare la preghiera, ispirare l’azione.

Mentre scrivo, svariati paesi dell’Europa sono nuovamente sfidati da una crescita esponenziale del Covid, le cui conseguenze economiche e sociali generano un malcontento popolare difficile da controllare e per giunta cavalcato in modo opportunista e strumentale da frange estremiste e xenofobe.

Al confine orientale dell’Unione europea va in scena una tragedia umana di dimensioni epocali con migliaia di migranti esposti ai rigori dell’inverno, che rischiano di morire di freddo, stenti o botte al confine tra Polonia e Bielorussia.

Reticolati e muri diventano la cifra delle nostre relazioni, mentre la Cop26 ha lasciato senza risposta gli interrogativi circa la volontà dei governi di assumere impegni concreti e soprattutto urgenti e credibili nei confronti della salvaguardia del pianeta (cfr il Dossier di questo numero).

In soli dieci giorni tutti questi fatti sono stati oggetto di cronaca, hanno rappresentato il «qui e ora», uno scenario in cui anche il missionario può dire la sua. Anzi, è chiamato a farlo.

11.11.2021 – Fot. Irek Dorozanski / DWOT

Dal Marocco alla Bielorussia

Ecco allora che, qualcuno dice profeticamente, la prima Conferenza della Regione Europa Imc ha dato il visto buono all’apertura della comunità di Oujda, in Marocco, vicino al confine con l’Algeria. Il Marocco non è in Europa, ma Oujda è, oggi, un punto di approdo per chi ha appena terminato di attraversare il deserto e arriva in condizioni di grande bisogno a un punto cruciale del suo viaggio della speranza verso l’Europa. Sono stati i nostri confratelli in Spagna, da anni parte di una rete/osservatorio sui movimenti migratori nel Mediterraneo, a spingere affinché l’Istituto scegliesse un impegno concreto in questa realtà.

La stessa Conferenza ha dato il via libera alla volontà dei missionari della Consolata in Polonia, di aprire una seconda comunità, in una città a trenta chilometri dalla frontiera con la Bielorussia.

Nel 2008, il nostro Istituto aveva scelto di dare vita a una presenza in Polonia per essere germe di universalità e interculturalità in una Chiesa tradizionalmente molto forte, ma che sentiva il bisogno di essere maggiormente stimolata nella propria dimensione missionaria.

Sarebbe dovuto anche essere un primo passo verso un’ulteriore apertura nell’Est Europa. Oggi, è significativo essere presenti come segno di fraternità universale in quella frontiera simbolo della chiusura delle nostre frontiere e dei nostri cuori.

Senza il bisogno di tante parole, le nostre comunità interculturali, formate da confratelli provenienti da tre diversi continenti, annunciano che la logica del Vangelo è quella del ponte, non certo quella del muro o del cavallo di frisia.

Ovviamente, è importante formarsi in maniera adeguata a questa missione. Il Progetto missionario regionale europeo ha ben chiaro che soltanto chi saprà usare in modo armonico Bibbia e giornale, spiritualità e attenzione alla realtà, riuscirà a penetrare le pieghe di una cultura in continua evoluzione e rispondere a sfide importanti come quelle che la Chiesa sta vivendo oggi in Europa: la perdita di significato e di credibilità, la marginalizzazione, l’essere divenuti minoranza.

Educarsi alla missione in Europa, oggi richiede il coraggio di cambiare paradigma formativo, associando alla ricerca di una spiritualità forte, costruita sull’incontro costante e profondo con la Parola, l’inserimento in comunità che siano allo stesso tempo apostoliche e formative, in cui la ricerca di una buona preparazione accademica si sposi con un’approfondita conoscenza della realtà e delle persone che la compongono.

Climate March

Carisma

Va da sé che la bontà o meno del Progetto regionale, la sua assunzione da parte delle comunità di missionari della Consolata e la messa in pratica nelle varie attività regionali, dipenderanno in gran parte dalla capacità che le comunità avranno di rileggere e interpretare il carisma del nostro istituto alla luce dell’oggi.

Le nostre comunità Imc in Europa, in particolare quelle in Italia, sono depositarie di un patrimonio spirituale e carismatico importante. Esse vivono e operano nei luoghi dove tutto ebbe inizio, ma guai se questi si trasformassero in una sorta di museo spirituale, dove trovare una collezione di cimeli con i quali crogiolarsi nel ricordo dei «bei tempi andati».

Oggi il nostro Istituto, come del resto altre congregazioni fondate più o meno nello stesso periodo (a cavallo fra 19° e 20° secolo), sta vivendo un’esperienza particolare: da una parte l’estinzione di una generazione di missionari che ha conosciuto o è stata molto vicina alle fonti dirette del carisma, le ha studiate e tramandate, alcune volte pubblicando testi che sono ancora imprescindibili per chi vuole conoscere la storia e lo spirito delle nostre missioni; dall’altra l’emergere di una nuova generazione di missionari che corre il rischio di perdere il legame vitale con la storia dell’Istituto e quindi di non essere capace di trasmettere con efficacia l’eredità spirituale di chi ci ha preceduto.

La Regione Europa Imc ha il dovere di continuare a essere «culla» del carisma, ma deve altresì essere anche «girello», strumento attraverso cui il pensiero di Giuseppe Allamano e le intuizioni significative dei missionari cresciuti sotto le sue ali, vengono portati per le vie della nostra missione di oggi nel continente. Pensieri e intuizioni depurati di tutto quanto non è più attuale e creativamente nutriti delle nuove e dinamiche manifestazioni dello Spirito.

Manifestante alla protesta contro il mandato vax protesta con cartello con messaggio “Nessun vaccino forzato”

Le parole della missione

Come comprendere e declinare, allora, alcune parole che fanno parte del nostro bagaglio missionario alla luce di dove e di quanto stiamo vivendo?

La parola annuncio, per esempio, attraverso la quale il missionario riscopre oggi, anche in Europa, il suo ruolo di araldo del Vangelo, di messaggero del primo annuncio, di testimone di Cristo, presentato a chi non lo ha incontrato prima o a chi, forse, ne ha soltanto sentito parlare in tempi ormai lontani.

Oggi, il missionario, per essere tale, per poter continuare a fregiarsi di un titolo che gli viene attribuito in virtù di una vocazione specifica, non può abdicare alla missione di cercare «i lontani», anche quelli che si trovano dietro l’angolo, di entrare in dialogo con quelle frange di umanità che non hanno mai frequentato, o non frequentano più, i nostri abituali recinti.

Come comprendere oggi la parola consolazione? L’assemblea dei missionari riuniti in Conferenza ha cercato di leggere la portata attuale di questo termine che è parte del nostro nome, parola con la quale ci presentiamo. Le nostre comunità non cessino di essere presenza viva, autentica e prossima a chi sta sempre ai margini, affamato di compassione e condivisione.

Che senso possiamo dare oggi alla parola parrocchia, perché indichi una realtà che sia un segno distintivo del nostro modo di vivere la missione ad gentes, soprattutto nelle periferie delle città europee?

Come ricomprendere il termine economia, riferita alla vita materiale delle nostre comunità Imc, in modo che diventi non soltanto uno strumento funzionale all’organizzazione della vita e delle opere dei missionari, ma sia una vera e propria dichiarazione di intenti nella testimonianza di giustizia, impegno per la pace e salvaguardia della casa comune nella quale viviamo?

Riempire le parole di un significato nuovo e attuale, non lasciare che risuonino vuote, fare in modo che parlino veramente alla testa e al cuore delle persone che incontriamo, è una delle prime condizioni per dare corpo alla nostra missione in Europa.

Celebrazione eucaristica presieduta da padre Alvaro Pacheco

Camminare insieme

Sappiamo che la strada da percorrere non è facile.

I missionari della Consolata riuniti a Fátima non hanno peccato di ingenuità, e sono stati ben contenti di ritrovarsi insieme in un luogo benedetto dalla presenza della Vergine Maria, loro protettrice, per affidare ancora una volta a lei le scelte impegnative che li attendono dietro l’angolo.

Alcune circostanze del contesto europeo non vanno prese sottogamba, e obbligano chi dirige oggi il cammino della Regione a fare i salti mortali per riuscire ad armonizzare l’utopia con il disincanto, la provvidenza con il realismo.

In alcuni casi saremo certo obbligati a puntare al ribasso: la nostra missione è oggi più povera di risorse, tanto umane quanto economiche, rispetto al passato; ciò avviene per tante e diverse ragioni che vanno dalla perdita, nella società, del senso religioso e dell’affezione verso il mondo missionario, al crollo di fiducia (soprattutto delle generazioni più giovani) verso la Chiesa vista come istituzione.

Stiamo diventando (fisicamente e metaforicamente) più anziani e, con l’età, non mancano gli acciacchi. Questo ci obbliga a «dimagrire», a spendere energie in un processo di spoliazione tanto doloroso quanto inevitabile. Questo fenomeno, non serve nascondersi dietro un dito, condizionerà le scelte attuali e future e andrà tenuto sempre presente per poter progettare una missione che sia anche fattibile.

Tuttavia, non siamo esentati dal sollevare la testa guardandoci intorno. Dobbiamo continuare a dire: «Possiamo», se lo vogliamo, e, soprattutto, se crediamo fermamente che lo vuole il Signore. Lui non farà mancare il suo aiuto nei momenti di aridità, di «impantanamento», di difficoltà anche drammatica, come tante volte ha dimostrato nel passato. A noi sta il compito di provarci sempre e comunque.

Nel corso dei prossimi mesi, MC vi porterà a spasso per alcune delle nostre comunità in Europa, perché vogliamo condividere con voi alcuni tentativi già in atto di vivere l’ad gentes alla luce dei tempi e dei luoghi in cui siamo inviati ad annunciare il Vangelo.

Saranno questi percorsi, accompagnati dalla viva voce dei missionari che li hanno intrapresi, a spiegare con chiarezza, sicuramente meglio delle parole di questo articolo, che cosa intendiamo per missione in Europa oggi.

Nel fare questo, inoltre, non nascondiamo il nostro desiderio di coinvolgere in questa avventura anche voi che, in questo momento, state leggendo MC.

L’invito a seguirci che vi rivolgiamo, vuole, infatti, sancire un altro dei criteri che il Progetto regionale reputa fondamentali per vivere la nostra missione nella gioia ed efficacemente: fare rete, non pensare di voler costruire il Regno di Dio da soli, camminare con altri.

La Chiesa oggi chiama questo stile «sinodalità», e dà a esso così tanta importanza da aver deciso di istituire un Sinodo su questo tema, e di voler dedicare il tempo che intercorrerà tra adesso e la sua celebrazione (ottobre 2023) a un cammino di ripensamento della Chiesa sulla base del coinvolgimento comunitario. La missione oggi in Europa non può essere fatta da «lupi solitari»; non è più il tempo per camminare da soli.

A questo riguardo, nel ribadire che il vero agente della missione è la Chiesa locale, la Conferenza dice che, pur preservando le nostre specificità e il nostro carisma, è soltanto all’interno di essa e in comunione con essa che la nostra missione sarà gioiosamente efficace, gratificante e, chissà, magari anche profetica.

Il nostro stile di presenza in un mondo caratterizzato sempre più dalla multiculturalità ci apre a bellissime esperienze di collaborazione in tutto il Continente, tanto nel catecumenato, quanto, più in generale, nella catechesi degli adulti, nella formazione dei catechisti e nella pastorale migranti.

In contesti, anche ecclesiali, tentati dalla chiusura e dall’autoreferenzialità, il nostro apporto negli uffici missionari delle varie diocesi può essere (e di fatto lo è) valorizzato come una boccata d’aria fresca. Sempre e soltanto nel momento in cui, però, la chiesa locale diventi veramente famiglia, compagna di viaggio.

Infine, sempre nello spirito della sinodalità, la nostra missione in Europa deve continuare a guardare fuori dal proprio orto. Grazie alla generosità e al sacrificio di tanti, le nostre comunità hanno potuto costantemente dare una mano a quelle degli altri continenti. Secondo il principio che si può aiutare le nuove chiese sia partendo che donando, molti nostri benefattori ci hanno permesso di non essere estranei a tante situazioni di dolore e necessità nel mondo.

Chiediamo però che questa disposizione, sempre attiva nel sostenere progetti di sviluppo, programmi di formazione e sostegno a distanza, crei rapporti di interscambio con altre realtà del mondo che, grazie al dono della loro cultura e delle loro tradizioni, possano aiutarci a far comprendere e accogliere alle nostre chiese il dono dell’altro.

Ugo Pozzoli
* Regione Europa Imc

Visione generale del Santuario di Fatima dalla spianata




Storie a Est, verso l’Europa


La rotta balcanica è assai dura. Specie in inverno. I piedi dei migranti si congelano e si disfano nel tentativo di passare la «cortina». Ecco un film che non è un documentario, ma è «cinema del reale».

Un pugno nello stomaco

Dall’11 ottobre le sale cinematografiche sono tornate ad avere la possibilità di capienza al 100%. Speriamo non sia troppo tardi. Nell’ultima settimana di ottobre, con le limitazioni dovute all’emergenza sanitaria, i cinema italiani, segnala Cinetel, hanno incassato circa quattro milioni e mezzo di euro. Il 20% in meno rispetto alla settimana precedente. Nel weekend dell’11 ottobre 2019, The Joker, di Todd Philips, aveva incassato, da solo, oltre sei milioni di euro. Presto sapremo quanto la pandemia ha cambiato le nostre abitudini di consumo cinematografico, con tutto ciò che ne consegue.

Intanto all’inizio di settembre è uscito nelle sale italiane un piccolo capolavoro, che ha fatto parlare di sé anche all’ultimo Festival del Cinema di Cannes: «Europa». A firmarlo è Haider Rashid, figlio di Erfan, giornalista e regista iracheno che da anni vive a Firenze. Haider ha 36 anni ed è nato a Fiesole, non è nuovo al successo, ma questa volta ha davvero toccato vette alte.

«Europa» è un pugno nello stomaco di straziante attualità.

La storia, se vogliamo, è semplice: Kamal è un giovane iracheno che sta cercando di entrare illegalmente in Europa attraverso la frontiera bulgara, a piedi dalla Turchia. Kamal diventa una preda per cacciatori, legali e illegali.

Sulla «rotta balcanica» abbiamo visto servizi in Tv e letto articoli, anche su MC (vedi dossier di questo numero), ma «Europa» ha il pregio di portarci dentro quella strada invernale e, in poco più di un’ora, ci fa vivere tutta l’angoscia e l’ingiustizia che subiscono, ogni giorno, migliaia di persone «colpevoli» di desiderare un futuro migliore per sé e la propria famiglia (si veda il dossier a pag 35).

Nel film di Rashid c’è qualcosa di «Fuocoammare», ultimo grande capolavoro di Gianfranco Rosi. Pur non essendo un documentario, «Europa» può tranquillamente essere catalogato come cinema del reale. Rashid quella storia la sente sulla pelle, è la storia della sua gente. E questa fortissima empatia si sente dalle prime inquadrature fino ai titoli di coda, con una dedica a chi quel viaggio per entrare nella «Fortezza Europa» lo ha iniziato, ma mai finito. Il film è rimasto nelle sale meno di un mese e ha incassato pochissimo. Presto però sarà disponibile in streaming, non perdetelo.

Fatma e la natura

Rimanendo al confine tra Est Europa e Vicino Oriente, vale la pena segnalare un titolo made in Turkey presentato in anteprima mondiale all’ultima e decima edizione del «Nuovi mondi film festival» di Valloriate, in provincia di Cuneo.

Si intitola «Untold story of Fatma Kayaci». In italiano il titolo è diventato «La storia di Fatma Kayaci, che ascoltò il richiamo della montagna». La regia è di Orhan Tekeoglu, classe 1954.

A differenza di «Europa», la vicenda di Fatma non è una storia collettiva, non è così tragica (per fortuna) e non porta con sé conseguenze che segnano i tempi, ma, nel suo piccolo, è la classica storia che dice molto di chi siamo o non siamo più.

Fatma è una donna molto anziana che da 55 anni vive da sola in una casa di pietra lontana da tutto e tutti, immersa tra gli alberi, in montagna nel distretto di Tonya, provincia di Trebisonda. Il confine armeno non è così lontano. Fatma non si è sposata, non ha avuto figli. Si è isolata da quando, a causa di un incidente avvenuto in casa, un nipote al quale era molto affezionata è morto.

Lei si sente responsabile, i genitori del bambino le hanno rimproverato imprudenza, si è arrivati allo scontro, anche fisico. Così Fatma ha scelto di chiudersi nel suo dolore e di tagliare i ponti con il mondo. La gente del villaggio sa che quanto è successo è solo frutto di un tragico destino, attorno a Fatma c’è comprensione per lei e rispetto per la scelta fatta.

Nonostante la neve la isoli per almeno quattro mesi all’anno, Fatma non scende a valle, dove le autorità locali le hanno messo a disposizione una casa. La montagna diventa il suo habitat. A farle compagnia ci sono solo un gatto e due mucche. Soprattutto diventa la custode del luogo. Se ne prende cura arbusto per arbusto, pianta per pianta. Non solo: coltiva, pianta e impedisce il taglio degli alberi di tutta l’area circostante. Solo quelli secchi possono essere abbattuti. La sua sola presenza, la sua capacità di vivere lì da sola, le conferiscono un’autorevolezza naturale.

Gli abitanti del villaggio, compresi gli uomini più avvezzi alla vita di montagna, lo ammettono candidamente: «Nessuno avrebbe resistito così tanto a una vita così dura».

L’acqua di un rigagnolo, una lampada a gas, un fuoco acceso 12 mesi all’anno, due stanze ingombre di sacchetti di plastica pieni di nulla, qualche coperta, è tutto ciò che Fatma possiede, eppure, forse senza nemmeno volerlo, a forza di prendersi cura dell’ambiente che la circonda ora ci sono decine e decine di alberi da frutta, peri, meli, pruni. La flora stessa è varia come mai prima. «È stata capace perfino di far crescere le fragole, che qui non si erano mai viste», confessa un suo parente. Tutta questa sua determinazione le vale un premio che la comunità di Tonya riserva ogni anno alla «Donna più meritevole».

Ovviamente il suo volto segnato da mille rughe e dall’assenza di denti non si lascia intenerire. Ringrazia e ribadisce che il giorno in cui morirà vorrà essere sepolta nel suo bosco, davanti alla sua casa.

La storia di Fatma sarà presto visibile in streaming sul sito amerigofilm.it.

Il mercante georgiano

Sempre a Est, a quella che fino alla fine degli anni Novanta era l’area definita «oltre cortina», merita una segnalazione «The Trader», il mercante, una piccola produzione indipendente che arriva dalla Georgia e che possono vedere gli abbonati a Netflix. La firma è della regista, classe 1986, Tamta Gabrichidze. Si tratta di un documentario breve, tutto girato on the road, che ha vinto il premio come «miglior corto» al Sundance film festival del 2020. Ventitre minuti insieme a un commerciante che, a bordo di uno sgangheratissimo furgone, parte da Tblisi e gira le campagne armene scambiando oggetti usati con chilogrammi di patate, l’unica vera moneta corrente dell’entroterra agricolo. Il baratto, alle porte dell’Europa, oggi.

Sante Altizio




Altrove in ogni dove

testo di Ugo Pozzoli |


Prima puntata di una serie di riflessioni e racconti di esperienze sul campo per inquadrare la missione nel vecchio continente. Dallo spunto del messaggio del papa per la giornata missionaria, mettiamo i primi tasselli.

«Tutto in Cristo ci ricorda che il mondo in cui viviamo e il suo bisogno di redenzione non gli sono estranei e ci chiama anche a sentirci parte attiva di questa missione». Così scrive papa Francesco nel messaggio per la Giornata missionaria mondiale in programma il 24 ottobre.

«Il mondo in cui viviamo» è il contesto nel quale ci troviamo, l’ambiente dove siamo chiamati a vivere la nostra fede come persone e comunità cristiane.

«Nessuno è estraneo – continua Francesco -, nessuno può sentirsi estraneo o lontano a questo amore di compassione», amore che avvicina, tocca, chiama, convoca, sana, perdona, riconcilia… salva.

Tutti chiamati a essere «altrove e in ogni dove», dove l’altrove è uno spazio diverso dal nostro, da quello che occupiamo, dal metro quadrato dei nostri bisogni, delle nostre certezze, del nostro io ingombrante. L’ogni dove è dappertutto, ogni spazio conosciuto e non, al di là di oceani e deserti o anche solo dietro l’angolo, magari dentro di noi.

L’altrove è lontano

Facciamo fatica ad accogliere l’idea che «altrove e in ogni dove» può essere anche qui in Europa. Questo, del resto, è anche abbastanza comprensibile, per esempio, per un Istituto come il nostro, nato in Italia all’inizio del XX secolo (1901), in un tempo di piena espansione missionaria (e coloniale), quando la terra di origine era considerata «solo» una «base logistica» di missioni concepite per altri continenti.

«Siamo per i pagani», recitava il mantra del buon missionario animato dallo spirito di quel tempo. Siamo per i non cristiani, per andare in Kenya, Etiopia, Tanzania, Mozambico; poi in America: Brasile, Argentina, Colombia; infine, in Asia. In Europa si rimaneva per servizi specifici in favore dell’Istituto, e si ritornava, obtorto collo, per dare una mano in quella che prima era chiamata «propaganda» e poi «animazione» missionaria, l’attività che aveva lo scopo di sensibilizzare le nostre Chiese alla missione, raccogliendo fondi e suscitando vocazioni, per continuare il lavoro ad gentes da un’altra parte, qualunque essa fosse.

L’altrove è qui

Oggi non è più così. Stiamo vivendo un tempo che non è soltanto un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento di epoca.

È sufficiente guardare le nostre chiese vuote e le strade piene di gente di ogni provenienza per capire che i crocicchi dove il Signore ci invia a chiamare partecipanti al banchetto del Regno (Mt 22, 9) possono essere gli incroci dei quartieri delle nostre città europee. Sentirsi chiamati e inviati ad annunciare il nome di Cristo a chi non lo ha mai sentito pronunciare non implica obbligatoriamente dei grandi spostamenti. Quegli «estremi confini» che rappresentano l’orizzonte del mandato missionario, risultano essere a volte fisicamente vicini. Eppure, non per questo più facili da raggiungere.

La missione è un dono ricevuto che a nostra volta offriamo, è il dono della fede, aperto alla speranza e reso autentico nell’amore. È il frutto di un’esperienza di incontro con il Signore, un incontro talmente profondo e significativo che cambia la vita e stimola alla condivisione, a far parte con altri della ricchezza ricevuta.

Oggi più che mai, anche in Europa, questo dono aspetta di essere scambiato.

Non possiamo tacere

«Non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» è il titolo del messaggio che il papa rivolge quest’anno alla cristianità in occasione di questa domenica speciale dedicata alla missione. È una citazione dal libro degli Atti degli Apostoli (At 4,20), il libro della missione tanto caro a Francesco, «Cosa, però, abbiamo visto e ascoltato? O per meglio dire, abbiamo visto e ascoltato qualcosa?».

Vedere e ascoltare sono verbi fondamentali per chiunque voglia imbarcarsi nell’avventura di essere discepolo missionario del Vangelo.

Ma vedere e ascoltare che cosa? Innanzitutto, la realtà. Vivere con attenzione per poter cogliere i segni dei tempi: leggere la vita che scorre nelle vene di questo nostro continente, e non leggerla soltanto attraverso le pagine di un libro.

Il missionario è persona che si cala nel contesto e incontra la cultura del suo tempo nel luogo nel quale essa esiste e si esprime: nelle persone.

La missione nasce da un incontro, si perfeziona nel dialogo e si concretizza in un abbraccio.

Eppure, lo sappiamo bene, si possono vivere un tempo e un luogo senza realmente vederli e sentirli. Anche oggi, anche qui, nel mondo dove, come dice Francesco nel suo messaggio, la pandemia ha evidenziato e amplificato il dolore, la solitudine, la povertà e le ingiustizie di cui tanti già soffrivano, si può vivere senza rendersi conto di ciò che chiama la nostra presenza e, se non ce ne rendiamo conto, neppure ce ne facciamo carico.

La pandemia colpisce in particolare le persone più vulnerabili, che restano indietro e rischiano di diventare invisibili e il cui grido rimane muto.

L’esperienza di vedere e ascoltare l’uomo non può prescindere, per il missionario, dall’esperienza del vedere e ascoltare il Maestro, Gesù.  L’incontro con l’uomo è in stretta connessione con ciò che abbiamo visto e ascoltato nell’incontro con Lui, con ciò che abbiamo appreso e che non possiamo tenere per noi stessi. Non possiamo tacere l’amore che ci sospinge. E siamo chiamati a condividerlo lì dove ci troviamo, facendo nostre le ansie, le gioie, le paure, i sogni delle persone che quotidianamente incontriamo.

YARA NARDI /ITALIAN RED CROSS – salvando un migrante in mare

Sognare l’Europa

Proprio i sogni, ci ricorda ancora papa Francesco, sono importanti, e lui ne ha riservati parecchi anche per l’Europa. Nel messaggio pronunciato il 6 maggio 2016, in occasione del conferimento del premio Carlomagno, il papa si è rivolto alla terra dei suoi avi (l’Europa appunto) confidandole i sogni che nutre per lei. Merita riportarli qui, perché ognuno di essi rappresenta un possibile impegno missionario verso una terra che ha bisogno di sentire nuovamente scorrere nelle sue vene aperte il flusso inarrestabile del Vangelo: «Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, “un costante cammino di umanizzazione”, cui servono “memoria, coraggio, sana e umana utopia”. Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita. Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo.

Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto. Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile. Sogno un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia».

Sognare missione Europa

Nei prossimi mesi, a partire da questo, MC vi porterà a spasso per il nostro vecchio continente, facendovi percorrere le strade intasate di un quartiere multietnico di una grande città del Nord Italia, partecipare alla vita che si svolge quotidianamente fra i palazzoni della periferia di Lisbona, esplorare le rotte mediterranee della miseria e della speranza che uniscono il Nord Africa con la Spagna. Vi farà incontrare persone, consacrate e non, che vivono la loro missionarietà senza farsi troppi scrupoli sul dove e il perché, ma semplicemente, come dice ancora Francesco nel suo messaggio, «lasciano fiorire il miracolo della gratuità, del dono gratuito in sé» e vivono la loro vocazione come restituzione di quanto hanno ricevuto, confidando che il sogno possa, al risveglio, trasformarsi in realtà.

Ugo Pozzoli

 * Regione Europa IMC

Senzatetto – Lisbona, Portogallo




Recovery plan: speranze e dubbi

testo di Francesco Gesualdi |


La tragedia del Covid si è trasformata nell’occasione per ripensare il ruolo dell’Unione europea. Il «Next generation Eu» prevede un intervento da 750 miliardi di euro per la ripresa e la resilienza. Tuttavia, l’ideologia economica non viene toccata.

Il Covid è stato una tragedia per le sofferenze e le morti che ha provocato, ma per qualcuno è stato come il formaggio sui maccheroni perché gli ha permesso di togliersi qualche castagna dal fuoco.

È successo, ad esempio, alla dirigenza europea che ha potuto invertire la direzione di marcia della propria politica economica senza dover ammettere nessuna colpa. La direzione abbandonata si chiama «austerità», quella intrapresa si chiama «politica espansiva». La motivazione ufficiale è superare la crisi provocata dal Covid. Quella reale è uscire dal pantano provocato da un’impostazione economica al servizio esclusivo di banche e finanza. I fatti sono noti, ma conviene riassumerli.

Finanza contro stati

Nel periodo 2008-2011 molti governi europei ampliarono il proprio debito per salvare gli istituti bancari sull’orlo della bancarotta a causa di scelte azzardate e fallimentari. Ma, invece di ringraziare per il soccorso ricevuto, la finanza approfittò per speculare sulla situazione di difficoltà in cui si erano cacciati i governi. Le vittime predilette furono Grecia e Italia, i paesi tradizionalmente più indebitati. La finanza decise di scommettere sul crollo del valore dei loro titoli di debito pubblico e si organizzò per provocarlo. Così gli italiani dovettero imparare il termine spread che, pur rimanendo misterioso nelle sue dinamiche, comunicava per certo che quando esso saliva le cose andavano male, quando scendeva andavano meglio.

Nel biennio 2010-2012 la situazione divenne catastrofica: la finanza avanzava nel proprio intento speculativo, complici i governi che, pur avendo i mezzi per poterla fermare, avevano la testa troppo intrisa di mercantilismo per utilizzarli. Convinti che le regole di mercato dovessero trionfare sopra qualsiasi altra esigenza, si guardarono bene dal porre regole, divieti e disincentivi per fermare l’offensiva posta in atto dalla grande finanza contro i titoli del debito pubblico. Così, nel tentativo di recuperare fiducia da parte dei mercati, l’unica strategia di difesa che i governi seppero mettere in campo fu quella di autoimporsi regole di finanza pubblica sempre più severe per dimostrare di saper essere debitori affidabili. Del resto, la vera preoccupazione dei governi non era cosa sarebbe potuto accadere sul piano sociale, ma i rischi che avrebbe potuto correre l’euro se anche solo uno dei paesi aderenti all’eurozona avesse dichiarato di non essere in grado di pagare gli interessi o di restituire le quote di capitale in scadenza. Un caso del genere avrebbe potuto indurre la finanza internazionale a fare di ogni erba un fascio e, prendendo le distanze da tutti i paesi che utilizzavano l’euro, avrebbe potuto provocare una svalutazione importante del valore della moneta comune.

Ricordando la Grecia

Nel 2010 la Grecia era sull’orlo della bancarotta e, per evitare che l’euro finisse nel vortice del suo dissesto, l’Unione europea decise di farsi carico dei suoi debiti. Nel contempo, però, le impose delle condizioni draconiane che la strangolavano sul piano sociale. Il patto era chiaro: l’Unione europea le avrebbe concesso nuovi prestiti per permetterle di pagare gli interessi e le rate in scadenza, ma in cambio la Grecia doveva adottare una politica rigorosissima di risparmi per risanare i propri bilanci. Con prezzi sociali altissimi. In nome del pagamento del debito la Grecia venne costretta a operare tagli drastici alla sanità, alla scuola, alle pensioni, agli stipendi stessi dei dipendenti pubblici. Gli effetti furono ospedali senza farmaci di base, masse di bimbi che andavano a scuola senza mangiare, un numero crescente di poveri, di senza tetto e di senza lavoro che potevano sopravvivere solo grazie all’intervento delle agenzie caritatevoli. In una parola era la tragedia sociale. Ma niente sembrava scuotere l’inflessibilità dei fanatici dell’austerità, in particolare i governanti dei paesi dell’Europa del Nord: Germania, Olanda, Austria. Pur di dimostrare al mondo della finanza che la priorità dell’Unione europea era la difesa dei creditori, nel corso degli anni vennero approvati una serie di provvedimenti che accrescevano il ruolo di gendarmeria assegnato all’Unione europea che ora poteva sindacare sulle scelte di bilancio effettuate dai singoli governi con diritto di veto, se non fossero state ritenute coerenti con le attese di riscossione da parte dei creditori. Ma un tarlo cominciava a insinuarsi nella fede incrollabile riposta nel rigore finanziario.

Foto Capri23auto – Pixabay.

Gli effetti dell’austerità

La minaccia avvertita si chiamava stagnazione, la consapevolezza che il taglio eccessivo delle spese governative e familiari avrebbe portato a una caduta importante della domanda, tale da fare imballare il sistema. Del resto il capitalismo è un sistema di mercato il cui epicentro è rappresentato dalle imprese, strutture produttive organizzate per la vendita: se vendono ciò che producono hanno qualche probabilità di crescere e assumere; se non vendono, interrompono la produzione e di sicuro non assumono, addirittura licenziano. Difatti le strette di bilancio si accompagnarono a un blocco della crescita del Pil, se non a una sua riduzione, specialmente fino al 2012. Assieme al blocco della produzione, ci fu anche un aumento della disoccupazione. La situazione cominciò a sbloccarsi solo dopo il 2015, ma non al ritmo voluto. Le politiche di austerità iniziavano quindi a essere viste con sospetto da parte di qualche politico, ma senza poterlo dire apertamente per paura di essere tacciato come eretico. Tuttavia, anche un’altra esigenza cominciava a farsi pressante, ma non poteva trovare attuazione finché prevaleva l’ideologia del rigore finanziario. La nuova esigenza si chiamava (e si chiama) cambio dell’infrastruttura energetica per provare ad arrestare i cambiamenti climatici. Una trasformazione che richiede investimenti per decine di miliardi, che, se dovessero essere reperiti tramite la normale via fiscale, richiederebbero un innalzamento della pressione fiscale che nessuna comunità nazionale accetterebbe. Stretta fra i due fuochi la classe politica europea rischiava la paralisi, finché non è arrivato il Covid che, con i suoi lockdown, nel 2020 ha provocato un arretramento del Pil all’Unione europea nell’ordine del 7,4%. La pandemia è, quindi, stata presa a pretesto da tutti per operare un cambio di direzione di marcia senza bisogno di lasciarsi andare a una sconfessione ideologica.

Per un’Unione europea di nuova generazione

Oggi anche il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca centrale europea (Bce) reputano il debito una necessità per il rilancio delle economie messe in crisi dal Covid. Occasione presa al balzo da Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione europea che, durante il suo discorso sullo «Stato dell’Unione» del 16 settembre 2020, ha formulato la sua proposta di rilancio europeo battezzandolo Next Generation Eu, ossia «Unione europea di nuova generazione». Un rilancio finalizzato a due grandi obiettivi: la transizione ecologica e il ritorno alla crescita economica. E come strategia ha proposto la costituzione di un fondo europeo (recovery fund) del valore di 750 miliardi di euro da mettere a disposizione degli stati membri, per la realizzazione delle loro opere di rilancio. Un piano ambizioso, facile da enunciare, ma pieno di nodi da sciogliere per renderlo operativo.

La provenienza dei soldi

Per cominciare, la costituzione del fondo: con quali soldi formarlo? L’indicazione della Commissione europea è stata di finanziarlo con soldi presi a prestito sul mercato finanziario. Una proposta insolita per l’Unione europea, ma ancora più rivoluzionaria considerato che ad essere indicato come intestatario del debito non sono i singoli stati, ma la Commissione stessa. Un vero salto di qualità sulla strada dell’integrazione europea perché è la prima volta che l’Unione europea accetta di indebitarsi in maniera collettiva. Individuata la via del debito condiviso come forma di finanziamento, si trattava di stabilire con quali risorse restituire i prestiti ottenuti. La proposta della Commissione è stata duplice: contribuzione e tassazione. Da una parte ha ipotizzato di innalzare la contribuzione annuale dei singoli stati al bilancio comunitario, facendola passare dall’attuale 1,6% del Pil fino al 2%. Dall’altra ha proposto di innalzare alcune tasse tradizionali a beneficio esclusivo della Commissione europea, o di introdurne di nuove. Fra esse una tassa sulle imprese del web, un’imposta sulle transazioni finanziarie, un nuovo dazio doganale sui livelli di anidride carbonica connessi ai prodotti importati.

Ripartizione e utilizzo

Il terzo nodo da sciogliere era la ripartizione dei fondi tra i paesi membri. Nodo che in realtà è duplice: come determinare la somma complessiva da assegnare a ogni stato membro e sotto quale forma. Per il primo aspetto si è deciso di utilizzare un mix di criteri che comprendono l’estensione della popolazione, la situazione sociale e la situazione economica. Per il secondo aspetto si è deciso che parte dei fondi sarebbero stati assegnati a fondo perduto, parte sotto forma di prestito, gravato di interessi, da restituire nel giro di un trentennio. Riferito all’Italia la conclusione è che il totale a cui può accedere corrisponde a 191,4 miliardi di euro per il 64% (122,5 miliardi) sotto forma di prestiti e il 36% (68,9 miliardi) a fondo perduto.

Il quarto nodo da sciogliere era a quali condizioni elargire i fondi agli stati richiedenti. Il regolamento approvato dal Parlamento europeo il 10 febbraio 2021 pone alcuni vincoli sia rispetto al modo di spendere i soldi ricevuti, che agli obblighi contabili e amministrativi. Rispetto all’utilizzo dei soldi, due capisaldi sono che almeno il 37% deve essere speso per investimenti utili ad abbattere l’anidride carbonica, mentre un altro 20% deve essere speso per la transizione digitale (art. 16). Quanto alla gestione contabile, il regolamento consente alla Commissione europea di sospendere i pagamenti qualora si registrino ritardi, inefficienze o altre inadempienze da parte dei paesi riceventi (art. 24).

Foto Wolfgang Eckert – Pixabay.

Positività e vecchi errori

I paesi interessati hanno fatto arrivare le loro richieste di finanziamento alla Commissione europea. La proposta italiana è stata spedita il 30 aprile e formalmente accettata il 22 giugno con la visita a Roma della presidente Von der Leyen.

Rimandiamo alla prossima puntata l’analisi del piano dell’Italia, che è stato battezzato «Piano nazionale di ripresa e resilienza» (Pnrr). Intanto, però, è possibile avanzare alcune valutazioni sull’idea complessiva del Next generation lanciata dall’Unione europea. In particolare ne emergono tre, di cui una positiva, una parzialmente positiva e una negativa.

Quella positiva è il cambio di prospettiva della Ue. Finalmente non più gelida ragioniera attenta solo ai pareggi di bilancio e agli impegni verso i creditori, ma sensibile alle condizioni di vita dei suoi cittadini: salute, lavoro, prospettive di vita. Altrettanto positiva è la determinazione con la quale l’Unione europea conduce la sua lotta contro le emissioni di anidride carbonica. Ma questa positività è offuscata dall’uguale enfasi posta sulla ricerca ossessiva della crescita del Pil, come se la transizione ecologica fosse solo una questione di tecnologia e non una necessità molto più profonda che coinvolge la necessità di ridimensionare i nostri consumi per alleggerire la nostra pressione complessiva sul pianeta in un’ottica di equità internazionale.

Per questo ritengo che gli obiettivi del Next generation siano positivi solo parzialmente. Mentre si può definire negativa la scelta di finanziare il piano tramite prestiti. L’alternativa era ottenere quel denaro direttamente dalla Banca centrale europea (Bce), anche se ciò avrebbe richiesto una revisione dei trattati affinché la moneta, al pari dei vaccini, sia gestita come un bene comune al servizio della piena occupazione, della promozione dei servizi pubblici e della tutela della natura. Il solo modo per sfuggire alla trappola del debito e mettersi definitivamente al riparo dall’austerità che l’Unione europea ha sospeso, ma non accantonato.

Francesco Gesualdi

 




Moria è bruciata

testo e foto di Alberto Sachero |


Dopo la devastazione del campo profughi nell’isola di Lesbo, cambierà qualcosa per i migranti?

Il campo di Moria sull’isola di Lesbo, il più grande d’Europa arrivato a contenere circa 20mila persone a inizio 2020, è stato per anni un periferico limbo in cui l’Europa ha parcheggiato i migranti, permettendo solo a pochi di completare l’iter di richiesta di asilo politico.

Moria è andato a fuoco il 9 settembre 2020. Gli abitanti del campo hanno perso il poco che avevano e sono fuggiti per non perdere anche la vita.

Sembra che ad appiccare il fuoco siano stati i migranti stessi. Nel campo erano stati individuati 35 casi di Covid-19, e per questo motivo era ogni giorno più blindato, fino alla completa chiusura.

Alcune persone hanno quindi dato fuoco alle tende, per evitare di essere rinchiusi a tempo indeterminato.

Moria bruciata

Arrivato sull’isola di Lesbo mi reco a vedere cosa resta di Moria (foto 1 – di apertura). Dopo cinque giorni dall’incendio, un forte odore di ulivi carbonizzati e plastica bruciata aleggia ancora nell’aria. Ovunque tende bruciate, letti, biciclette, bottiglie di acqua in plastica e ogni tipo di effetto personale. Tutto andato in fumo.

Incontro alcuni abitanti che ancora riempiono sacchi neri con quello che sono riusciti a salvare dalle fiamme. Poco più avanti, due ragazzi afghani sono saliti su un ulivo e stanno cercando di tagliare dei cavi dell’alta tensione per costruire delle corde per trainare le loro «slitte» con a bordo il poco che gli è rimasto.

L’esodo intrappolato

Fuggendo dal rogo, gran parte dei migranti si è diretta in verso Mytilini, il principale centro dell’isola di Lesbo (foto sopra). La strada però è stata bloccata dalla polizia greca che non voleva che arrivassero in città. Sulla strada che collega Mytilini e Moria, con dei bus messi di traverso, sono stati creati due blocchi, distanti circa 1,5 Km tra di loro, in modo da intrappolare le persone nella strada e non farle muovere. Sono stati chiusi i supermercati, ufficialmente per ragioni di sicurezza, in realtà per mettere in difficoltà i migranti e non permettere loro di acquistare cibo e acqua per sopravvivere.

I fuggiasci da Moria si sono costruiti ripari di fortuna, con teli, rami e paglia. Li hanno piazzati sui marciapiedi della strada, nei parcheggi dei supermercati chiusi, nei boschi adiacenti, sopra i tetti, in resti fatiscenti di vecchie costruzioni e sotto tir parcheggiati (foto qui). Tutto ciò con temperature sopra i 30 gradi.

Il governo greco, col benestare dell’Europa, non ha mosso un dito per assisterli, si è limitato a costruire in fretta e furia un altro campo per rinchiuderli il più velocemente possibile e renderli nuovamente invisibili.

Molte Ong sono così arrivate sull’isola e moltissimi giovani volontari indipendenti hanno portato il loro sostegno da tutta Europa. Mancavano solamente le istituzioni. Osteggiati dalla polizia greca, che spesso non li faceva accedere all’area o li faceva attendere ore al di fuori, hanno portato cibo, acqua, vestiti e medicinali a 13mila migranti. Questi, con una calma incredibile, hanno formato code lunghe più di un chilometro aspettando fino a due ore sotto il sole cocente, per assicurarsi un pasto o qualche bottiglia di acqua (foto 3, qui sotto).

Condizioni disumane

Mi dirigo verso la zona a circa due chilometri a Nord della città di Mytilini con Sia, una volontaria greca che deve portare dei farmaci a una donna afghana. La polizia non ci permette di entrare. Dobbiamo fare un lungo giro sulla collina per aggirare gli altri due posti di blocco e finalmente, dopo un’ora di cammino, giungiamo sul posto. L’impatto visivo è molto forte: migliaia di persone sistemate in accampamenti di fortuna, buttate per terra in condizioni disumane; interminabili code per il cibo; uomini, donne, qualche anziano e migliaia di bambini ovunque. Si stima che siano circa 13mila persone di cui 4mila sotto i 18 anni, tantissimi molto piccoli o addirittura neonati (foto 4, qui sotto).

Protezione negata

Inizio a parlare con la gente. Un ragazzo mi dice che circa l’80% di loro proviene dall’Afghanistan, un paese distrutto dalla guerra, dai Talebani, dai Daesh, dall’intervento statunitense, dai continui attentati. Mi dice in perfetto inglese: «Sono scappato, non avevo altra scelta, e ora devo arrivare in Europa, indietro non posso tornare, mi ucciderebbero». Ci sono anche Iraniani, Iracheni, Somali, Yemeniti, tutte persone che fuggono da guerra persecuzione o povertà, che avrebbero il sacrosanto diritto di chiedere protezione e accoglienza.

Una madre, con in braccio due bimbi, mi dice: «Uno è mio, ha dodici giorni. È nato qui, e dopo cinque giorni di vita siamo scappati dal campo in fiamme. L’altro ha cinque mesi, è di una mia amica in ospedale a Mytilini con grossi problemi di salute, l’ho adottato, almeno per il momento, poi si vedrà».

I bambini tengono allegra la drammatica situazione sulla strada, con i loro sorrisi e la loro spensieratezza. Sono purtroppo abituati a vivere in guerra e povertà, ma la loro voglia di ridere e di giocare vince quasi sempre sulla tristezza e dà agli adulti un motivo di speranza per un futuro migliore.

Indietro non si torna

La sera vado in un locale indicatomi da alcuni volontari, in cui ci sono parecchie persone da tutta Europa. Lì mi vengono segnalati altri locali di «destra», in cui i volontari non sono ben accetti. Il governo greco è di destra, e l’isola di Lesbo è piena di fascisti che fanno ronde. Ci sono stati moltissimi episodi di aggressioni a profughi, volontari e anche giornalisti e fotografi. Le bandiere nere sono numerose e ben visibili sulle strade isolane.

Il secondo giorno mi reco da solo nella zona in cui sono bloccate le persone. La polizia mi ferma di nuovo. Rientro in paese, incontro un gruppo di afghani che fanno la spesa e che tornano al loro rifugio. Mascherina, occhiali da sole e borse della spesa mi permettono di superare il posto di blocco. La famiglia afghana che mi ha aiutato a entrare, mi ospita. «Come Alberto, this is our house». Padre, madre e due figli. Mi offrono del cibo, anche se ne hanno poco. Ringrazio e cerco di dire che ne hanno più bisogno loro. Mi meraviglia la loro dignità, presenza e pulizia. Non so come fanno, buttati a terra in quel modo con poco cibo e scarse possibilità di lavarsi. Io che dormo in una camera con bagno privato sono molto meno presentabile.

Il figlio maggiore mi racconta che vivevano in una zona di Kabul. Da una parte i Talebani, dall’altra il Daesh. Non riusciva ad andare a scuola per le continue sparatorie, il padre lavorava saltuariamente. Hanno quindi deciso di partire per l’Europa. In due anni sono arrivati a Lesbo, dopo aver lavorato per pochissimo denaro ed essere stati rinchiusi nei campi turchi. «Non abbiamo scelta, indietro non possiamo tornare».

«No Photo, no photo»

Il terzo giorno, dopo esser nuovamente «rimbalzato» al posto di blocco, riesco ad entrare grazie ai ragazzi, tutti molto giovani e pieni di voglia di fare, di una Ong. Mi consigliano di «infilarmi» tra di loro nel momento in cui la polizia concede alla Ong di entrare nella zona. Così accade, dopo circa due ore, con il capo dei poliziotti che raccomanda ai volontari «No photo, no photo». I governi europei non vogliono che si mostri quel che sta succedendo a 13mila persone bloccate in strada dalla polizia in tenuta antisommossa e tenute in condizioni disumane, senza cibo, riparo, servizi e assistenza. La sopravvivenza di questa gente è stata garantita esclusivamente dal lavoro straordinario svolto dalle Ong e dai volontari, che si sono fatti in quattro per portare viveri, acqua e beni di prima necessità.

Il nuovo campo prigione

Tutto quello che ha fatto l’Europa è stato di dare soldi alla Grecia per costruire un nuovo campo (foto 6, sopra).

I migranti sono poi stati lasciati privi di cibo e riparo per una settimana, per costringerli a entrare nel nuovo campo. In quei giorni ho assistito personalmente a dialoghi tra funzionari greci e migranti in cui i primi esortano i secondi a prepararsi per entrare nel nuovo campo. Ma questi ultimi rispondono di no, che non volgliono essere rinchiusi in un nuovo campo prigione.

Tutte le mattine ci sono manifestazioni, con in testa centinaia di bambini, che fanno la spola tra un blocco e l’altro della polizia, urlando «Asadi» (libertà in lingua farsi), «We don’t go in the new camp» e «Freedom» (foto 7, qui).

Davanti al rifiuto della gente, i funzionari cercano di convincerla che solo nel nuovo campo di Kara Tepe troverà ristoro, tende, farmaci e WiFi. Dai migranti ancora risposta negativa. Alla seconda risposta negativa, dato che i migranti mostrano di fidarsi più dei volontari e dei giornalisti che dei poliziotti e funzionari greci, questi provano a convincerli che il governo vuole solo il loro bene, mentre Ong e giornali vogliono solo usarli.

Infine, visto che con le buone non ottengono niente, iniziano a minacciare: «O entrate nel campo o la vostra richiesta di asilo non verrà processata».

Il giorno successivo, dopo aver sigillato l’area tenendo fuori tutti, in primis i giornalisti, viene messo in atto un vero e proprio rastrellamento. Ingenti forze di polizia in tenuta anti sommossa armate fino ai denti, passano lentamente intimando ai migranti di recarsi nel nuovo campo. Le persone a questo punto cedono e formano code interminabili per la registrazione. È vietato accedere con cinture, accendini e qualsiasi tipo di oggetto appuntito, come in galera.

Il nuovo campo di Kara Tepe viene riempito da circa 10mila «ospiti». Sorge in un’area in riva al mare, già zona militare contaminata da residui bellici e pallottole inesplose, certo luogo non ideale per le migliaia di bimbi che in quella terra giocano. L’area è nota per essere molto fredda e piovosa nella brutta stagione.

Le famiglie sono ammassate in grossi tendoni in plastica, caldi in estate e freddi in inverno. Duecento in ogni tenda su letti a castello, contro ogni regola anti Covid. I bagni sono in tutto venti.

L’unica buona notizia è che gli abitanti potranno uscire dalle 8.00 alle 20.00, con obbligo di rientro. Almeno per ora.

Spero di sbagliarmi ma il mio presentimento è che con gli inevitabili casi di Covid positivi, il campo sarà presto sigillato.

Rientrato in Italia, il 23 settembre apprendo alla radio che è stata approvata la bozza per il nuovo «Patto di solidarietà» sul tema migranti: verranno stanziati dall’Europa più soldi per i paesi periferici come Italia e Grecia e saranno finanziati e agevolati i rimpatri forzati.

Solidarietà tra i paesi europei nel cacciare i poveracci, non solidarietà verso gli esseri umani.

Alcuni amici afghani mi informano che, come era prevedibile, le prime piogge autunnali hanno completamente inondato il campo e le tende, che il cibo è scarso e di pessima qualità, e che si fanno code in continuazione, per mangiare, per uscire e rientrare al campo, per andare in bagno.

Moria è bruciata, cambierà qualcosa per i migranti?

No, anzi, sì. Sarà ancora più duro per loro richiedere asilo ad una «fortezza» Europa sempre più arroccata e solidale solo con i propri interessi economici e con la protezione dei propri confini.

Alberto Sachero




Bulgaria: un piede in Europa (e l’altro fuori)

Testi e foto di Piergiogio Pescali |


Indice

Introduzione:
Da quella provincia chiamata Tracia

Le radici storiche della situazione attuale:
Un presente modellato sul passato.

I paesi dell’Est e l’Unione europea:
Soltanto per soldi

Ha firmato questo dossier:


Introduzione:
Da quella provincia chiamata Tracia

Editto bulgaro, maggioranza bulgara, il Pippero di Elio e le Storie Tese, i danzatori a piedi nudi sui bracieri ardenti di Franco Battiato: quando in Italia si parla di Bulgaria, le immagini che si materializzano nelle nostre menti sono divise tra autoritarismo, spettacolo e i braccianti di Mondragone, vittime di caporalato e coronavirus.

Eppure, con questo popolo balcanico, noi italiani abbiamo in comune insospettabili legami. Nel 46 d.C., Claudio inglobò la provincia della Tracia nel suo impero. Nel VII secolo d.C. l’Orda bulgara che, dalle steppe del Volga, si spostò nella pianura danubiana, si divise: una parte, guidata da Asparuh, fondò quello che è considerato il primo stato bulgaro, mentre altre frange si dispersero tra il Mar d’Azov e l’Europa. Una di esse, con a capo l’avaro Alcek, trovò rifugio nell’Italia meridionale, allora dominata dai Longobardi di Grimoaldo. Ancora oggi vi sono paesini nel Cilento, nel Salento, sulle montagne della Basilicata o tra le valli del Molise, i cui abitanti mostrano di avere origini bulgare. E a ricordo della migrazione, a Celle di Bulgheria, in provincia di Salerno, c’è anche una statua dedicata ad Alcek.

Numerosi personaggi dello spettacolo, della letteratura, della scienza e dello sport hanno origini bulgare: l’artista Moni Ovadia, la cantante Sylvie Vartan, lo scrittore Elias Canetti, l’artista Christo (morto lo scorso 31 maggio), il filosofo Tzvetan Todorov, il fisico Fritz Zwicky, la soprano Raina Kabaivanska. Spartaco era tracio e a lui sono dedicate le squadre di calcio denominate Spartak, particolarmente numerose nell’Europa dell’Est.

I cultori di Harry Potter non possono dimenticare Viktor Krum, il campione bulgaro di Quidditch, il cui cognome ricorda il sovrano che gettò le basi per la creazione di uno stato centralizzato, mentre gli appassionati di spionaggio restano ancora affascinati dall’«ombrello bulgaro» usato per iniettare la ricina con cui i servizi segreti uccisero a Londra, nel 1978, lo scrittore dissidente Georgi Markov. Un macabro regalo di compleanno per il presidente Todor Živkov, di cui Markov era scomodo oppositore.

Piergiorgio Pescali

Il teatro romano di Plovdiv dove ancora oggi si organizzano commedie e concerti. Foto di Piergiorgio Pescali.

Le radici storiche della situazione attuale:
Un presente modellato sul passato

Dopo 35 anni di governo comunista, dopo 13 anni nell’Unione europea, la Bulgaria rimane un paese nazionalista. Con politici inadeguati e corrotti. Piccola, la Bulgaria. Sul suo territorio, oggi solo una minima parte di quello che un tempo fu uno degli imperi più potenti d’Europa, vivono sette milioni di persone di cui meno dell’80% possono considerarsi discendenti di quei proto bulgari che, nel II secolo d.C., emigrarono dalla regione del Volga per innestarsi sulle popolazioni tracie già presenti sul territorio sin dal I millennio a.C..

Le montagne e le pianure bulgare erano il passaggio obbligato tra l’Europa centrale e l’Asia minore e questa posizione geografica ha portato una varietà culturale e culinaria tra le più fertili e gustose in Europa.

«La crocifissione di Cristo», icona al Museo delle icone di Plovdiv. Foto di Piergiorgio Pescali.

La chiesa ortodossa ha rivestito un ruolo decisivo nel modellare la società: poco dopo la conversione al cristianesimo, nel IX secolo d.C., il greco-bizantino Cirillo inventò in Moravia un nuovo alfabeto, il glagolitico. Dopo la sua morte, i seguaci del fratello Metodio, perseguitati dai Franchi, trovarono rifugio in Bulgaria dove San Clemente di Ocride trasformò il glagolitico nell’alfabeto cirillico tramandato sino ai nostri giorni. Fu quindi la Bulgaria, e non la Russia, come spesso di crede, la vera patria del cirillico, scrittura che oggi viene utilizzata in gran parte dei paesi slavi. Fu la Bulgaria la prima nazione ad adottare, nell’886, l’alfabeto cirillico. Nell’893 l’impero bulgaro abbandonò la lingua greca a favore del bulgaro decretando la sua volontà di indipendenza non solo politica, ma culturale, dai bizantini. Nel 917 Simeone I, sconfiggendo Costantinopoli si fece incoronare zar (titolo slavo che sta per Cesare), trasformando la Bulgaria in uno dei più grandi imperi d’Europa. Nel 927, pochi mesi dopo la sua morte, la chiesa bulgara ottenne l’autocefalia da quella di Costantinopoli.

L’ortodossia dell’esarcato di Sofia fu una delle caratteristiche principali su cui si modellò la società della Bulgaria: né con Costantinopoli né con Roma, ma fieramente autonoma. Questa sorta di sovranità religiosa ha evitato alla Chiesa ortodossa di Bulgaria i contrasti con Roma che invece caratterizzarono la storia della Chiesa greco ortodossa. È questo uno dei motivi per cui i pope bulgari hanno un atteggiamento molto più aperto e ospitale rispetto a quelli greci nei confronti dei cattolici. Nelle chiese e nei monasteri della Bulgaria, un cattolico non sente quella ostilità e quell’acredine che invece respira visitando i monasteri ortodossi greci o nella stessa basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme.

Dalla dittatura di Živkov alla grande fuga

Le ricchezze storiche sparse in Bulgaria sono immense e – forse sorprende saperlo – tutte ben tenute: splendidi monasteri sperduti nelle valli, città medioevali come Veliko Tarnovo, moschee retaggio della dominazione ottomana (dal 1396 al 1878), musei che espongono elaborati oggetti traci d’oro cesellato, incomparabili icone venerate dai fedeli. Nel 2019 l’affascinante città di Plovdiv ha condiviso con Matera il titolo di «capitale europea della cultura».

Anche il periodo socialista, solitamente così parco di retaggi, qui ha tramandato i suoi lasciti: il museo dell’arte socialista di Sofia raccoglie statue che altrimenti sarebbero andate perdute dalla furia distruttiva e vendicativa del nuovo corso democratico. Il 17 giugno 2011 gli abitanti di Sofia si sono divertiti o indignati, a seconda dell’orientamento politico e della visione storica, trovando il monumento all’Armata rossa sovietica rielaborato in loco nottetempo da un gruppo di giovani artisti appartenenti al movimento di Distruzione creativa. I soldati erano stati dipinti in modo da risultare vestiti con indumenti della cultura capitalista statunitense: McDonald, Santa Claus, Superman, Wonder Woman, Capital America, The Mask, Wolverine, Robin e Joker.

Nel paese si trovano ancora lasciti dell’architettura socialista, come il memoriale di Buzludzha o diversi monumenti troppo mastodontici per essere smantellati.

Negli anni Settanta il paese ha conosciuto un revival culturale assolutamente unico nel mondo dell’Est Europa per volontà della controversa figura di Lyudmila Živkova, figlia di Todor Živkov, segretario del Partito comunista bulgaro dal 1954 al 1989. Sotto di lei il mondo artistico bulgaro godette di una libertà di espressione impensabile in altri paesi del blocco sovietico, ma al tempo stesso la Živkova introdusse una cultura new age che fece storcere il naso a molti materialisti, e non solo in Bulgaria. Ammaliata da figure come Baba Vanga o Nikolai Roerich, si appassionò alla teosofia e all’esoterismo sino ad entusiasmarsi per le pratiche mistiche degli Aztechi e dei Maya.

La piazza centrale di Panagyurishte e il centro multifunzionale «Videlina». Foto di Piergiorgio Pescali.

Questa apertura artistica però poco importava alla maggioranza dei concittadini di Lyudmila: dopo il crollo del regime socialista di Todor Živkov, migliaia di suoi connazionali si riversarono in Italia cercando fortuna, tanto che quasi 59mila (dati del 2016) di loro vivono nella penisola.

Dal «liberi tutti» segnato dall’arrivo al potere dell’Unione delle forze democratiche, la popolazione del paese è in continuo calo: nel 1989, alla vigilia della caduta di Živkov, i bulgari in patria erano nove milioni, due in più di quanti ce ne sono attualmente. Secondo un rapporto redatto dall’Open Society di Sofia, il saldo negativo è dovuto per il 52% alla denatalità e per il 48% all’emigrazione.

Tra il 1985 e il 2016 circa 880mila bulgari si sono trasferiti all’estero. Di questi, la metà (465mila) tra il 1985 e il 1992. Negli ultimi anni il flusso sta ritrovando un suo equilibrio: nel quinquennio 2011-2016 solo 25mila persone hanno lasciato il territorio nazionale e l’emorragia è stata in parte assorbita dal ritorno di 21mila emigrati.

Circa metà di chi ha abbandonato la Bulgaria era di origine turca: fu lo stesso Živkov, alla metà degli anni Ottanta a dare il via a questo esodo quando inaugurò il «Processo di rinascita nazionale» costringendo la popolazione di etnia turca a cambiare i loro patronimici in nomi bulgari e proibendo la fede islamica. In tre mesi, tra il maggio e l’agosto 1989, 360mila di loro preferirono spostarsi in Turchia approfittando di una temporanea apertura delle frontiere. Oltre ad essere stato un disastro economico (si privò l’agricoltura di manodopera preziosa), il piano fu una delle cause che costrinsero Živkov a rassegnare le dimissioni, e rappresentò una delle più grandi pulizie etniche nell’Europa del dopoguerra come riconobbe anche lo stesso governo bulgaro l’11 gennaio 2012.

Nesebar, la chiesa di Cristo Pantocratore. Foto: Piergiorgio Pescali.

Le minoranze rom e turca

I bulgari hanno sempre avuto un rapporto conflittuale con le etnie minoritarie presenti sul loro territorio. Durante la Seconda guerra mondiale, se da una parte consegnarono senza fiatare ai tedeschi 11mila ebrei residenti nei territori di Tracia e Macedonia che Berlino aveva assegnato a Sofia in cambio della sua alleanza, dall’altro ci furono singole figure e organizzazioni che cercarono di salvare i 48mila giudei presenti nelle province più interne. «Non sapevamo noi che cos’era il ghetto. Non abbiamo visto le mura alte, folle di ebrei – bambini, giovani, vecchi, donne – portati come merce viva», scrisse la poetessa bulgara di origine ebraica Dora Gabe evidenziando la situazione di privilegio in cui vivevano gli ebrei di Sofia rispetto a quelli di Varsavia.

Il merito fu da ascrivere soprattutto a Dimitar Peshev (vedi MC 4/2020) e alla Chiesa ortodossa, mentre il re Boris III, che guardava al fascismo con molta indulgenza (anche per aver sposato la figlia di re Vittorio Emanuele III), ebbe verso gli ebrei dei comportamenti ambigui che ancora oggi dividono gli studiosi.

Questo pezzo di storia, lungi dall’essere archiviato, è spesso seme di discordia tra la Bulgaria e i paesi confinanti. Recentemente stampa, governo ed alcuni storici nazionalisti hanno tacciato di falsificazione e di incitamento all’odio il film Third half realizzato dalle televisioni macedone, ceca e serba, nel quale si accusa la polizia e il governo bulgaro degli anni Trenta e Quaranta di collaborazionismo con i nazisti.

La diffidenza verso lo straniero si ripercuote sia all’interno che all’esterno della nazione, mascherandosi con connotati nazionalistici.

Plovdiv, architettura tipica del rinascimento bulgaro che celebra la città come «Capitale europea della cultura 2019» (assieme a Matera). Foto: Piergiorgio Pescali.

La forte presenza rom (il 4,4% della popolazione) e la convivenza forzata con la minoranza turca (8% della popolazione) sono forse gli elementi più evidenti di questa tensione sociale. Tuttavia, mentre i turchi sono concentrati principalmente nelle regioni Nord orientali del paese e nella provincia di Kardhali, i rom sono sparsi a macchia di leopardo e convivono porta a porta con i bulgari in ogni villaggio della nazione. Il che rende la coabitazione sempre più problematica.

Il movimento «Ataka» (Attacco), attualmente presente in parlamento in coalizione con altri due partiti a forte connotazione etnica e nazionalista, rappresenta forse la parte più estrema del fronte xenofobo e razzista. Il suo leader e fondatore è Volen Siderov, giornalista, fotografo e scrittore che, all’inizio degli anni Duemila, condusse un programma molto popolare sul canale televisivo privato Skat dal titolo, appunto, di Ataka.

Fortemente antisemita, antiturco, antieuropeo e pro Russia, Siderov è critico verso le clausole che hanno permesso alla Bulgaria di aderire all’Unione europea, come il forte ridimensionamento della centrale nucleare di Kozloduy. Ha definito l’adesione alla Nato un tradimento verso la nazione al pari del Trattato di Neuilly-sur-Seine che il 27 novembre 1919 aveva costretto la Bulgaria a cedere la Tracia alla Grecia e altri territori alla Yugoslavia. Secondo Ataka, Nato e Unione europea avrebbero permesso a non meglio precisati gruppi sovranazionali di redigere un piano per distruggere la Bulgaria e sterminare il suo popolo. Più volte Siderov ha definito i rom come «umanoidi» che sopravvivono «rubando ed ingannando». Nel 2014 è stato anche protagonista di un violento attacco verbale compiuto a bordo di un volo di linea Sofia-Varna contro Stéphanie Dumortier, una collaboratrice dell’ambasciata francese insultandola, tra l’altro, per il suo accento spiccatamente francese ed «effemminato».

L’incidente, che ha rischiato di creare una crisi diplomatica tra i due paesi, non è un isolato atto di fanatismo, bensì riflette la percezione sociale di una Bulgaria che si sente alla periferia di tutto: dell’Europa, dell’Asia, della Russia. Essendo ai margini, si sente al tempo stesso isolata, manipolata, ma anche pedina vitale (e, a volte, sacrificabile) nei giochi tra le potenze.

Il risultato è l’avanzata di un forte nazionalismo e settarismo con velleitarie nostalgie verso il passato dei grandi imperi.

L’Unione europea, dopo essere stata considerata la deus ex machina per lo sviluppo economico nel decorso post socialista, è ora sempre più spesso additata come causa dei problemi che affliggono la nazione, tra cui l’immigrazione.

La cattedrale ortodossa di Alexandar Nevski, a Sofia. Foto di Piergiorgio Pescali.

La storia del «cacciatore di migranti»

Dinko Valev è una delle tante figure oscure e preoccupanti di questa ondata revanscista. Accanto al suo lavoro di commercio di parti di ricambio per bus e camion che, a suo dire, già a 23 anni lo ha portato a guadagnare il suo primo milione di lev, ha organizzato un vero e proprio esercito personale di 1.500 volontari che dispongono di quattro veicoli corazzati, un elicottero militare e diversi droni e quad. Ogni giorno, a turno, decine di questi paramilitari pattugliano la zona di confine con la Turchia alla ricerca di migranti che scavalcano illegalmente la rete di filo spinato costruita dal governo di Sofia.

Valev si definisce «un uomo d’affari di successo, un padre di famiglia e un patriota. Difendo la mia madrepatria e i paesi slavi dall’invasione di migranti illegali. Migranti, lo ripeto, perché non sono rifugiati. Sono siriani, afghani, pakistani, somali, sudanesi, iraniani…».

Nonostante l’ufficio locale del Comitato Helsinki per i diritti umani abbia accusato Dinko di violazione dei diritti umani, giornali e Tv (tra cui anche la Tv di stato) lo hanno più volte incensato definendolo un «supereroe». La sua è ormai una presenza fissa nei reality show e nei varietà. Nei programmi a lui dedicati, lo si vede trattenere a forza migranti e chiedere loro documenti e informazioni sulla loro presenza in Bulgaria. A quale titolo lo faccia non è mai stato spiegato, ma questo ai bulgari interessa poco.

«Dinko ha fatto ciò che l’Unione europea non è stata capace di fare: ha chiuso i confini all’immigrazione clandestina», lo difende un suo ammiratore. Non è un giudizio isolato visto che, secondo un sondaggio condotto dalla televisione nazionale, verrebbe condiviso dall’86% dei suoi connazionali.

A pochi interessa sapere che il numero di rifugiati ospitati nei due centri di accoglienza di Busmantsi e Lyubimets (un terzo centro, quello di Elhoyo è stato chiuso nel 2018) era di soli 2.184 nel 2019 rispetto agli 11.314 del 2016.

Come l’Italia, anche la Bulgaria è considerata dai richiedenti asilo come semplice paese di transito. Quindi, i profughi che vi arrivano cercano di attraversarne al più presto le frontiere per dirigersi verso Nord.

Fedeli nella cattedrale di Alexandar Nevski durante le festività pasquali, a Sofia. Foto: Piergiorgio Pescali.

La Bulgaria e l’Unione europea

L’Unione europea è dunque ormai vista da molti come un peso, più che come un traino all’economia, o un’opportunità per cambiare un paese troppo ancorato al bullismo sociale e politico.

A tredici anni dall’entrata nella comunità europea (2007), le speranze dei bulgari in un cambiamento delle proprie condizioni sociali sembrano ormai essere svanite: in un sondaggio effettuato nel 2016, solo il 50% voterebbe ancora per l’accesso all’Unione. Nel 2013 era il 70%.

Eppure l’Ue ha giocato un ruolo determinante per lo sviluppo economico della nazione: tra il 2014 e il 2020, ha elargito fondi strutturali per 11,7 miliardi di euro, pari al 9% del Pil con un saldo attivo di 1,67 miliardi di euro per il solo 2018 (l’Italia, tanto per fare un esempio, ha un saldo negativo di 5,06 miliardi di euro e la Germania di 13,41 miliardi).

È un paradosso, ma i paesi che più si oppongono alle politiche di integrazione sociale ed economica dell’Ue sono proprio quelli che, dalla comunità, ricevono i maggiori benefici economici (cfr. articolo a pag. 47). È però altrettanto vero che rispetto all’Italia, la Bulgaria (così come gli altri paesi dell’Est Europa) riesce a gestire meglio i fondi europei: al 2019, degli 11 miliardi di euro stanziati, 9,3 avevano già una destinazione e 4,7 erano già stati spesi (a titolo di paragone, l’Italia ha ricevuto dall’Europa 75 miliardi di euro; ma solo per 54,6 miliardi – il 73% – è stato deciso l’utilizzo e solo 26,3, il 35%, sono stati spesi).

L’economia bulgara, dal 2007 a oggi, ha fatto passi da gigante: il lev è la moneta più stabile dell’Europa orientale, il Pil si sviluppa su una media del 3-4% annuo e la disoccupazione è del 4,2%, un livello paragonabile a quello dell’Austria e la metà rispetto all’Italia.

Questi segnali positivi però non sembrano ripercuotersi sul benessere individuale: la popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà è rimasta invariata rispetto al 2008 stabilizzandosi sul 22%. Deboli indicazioni di miglioramento sono le impercettibili variazioni al ribasso della percentuale di bulgari costretti a vivere sotto la soglia di 5,5 dollari al giorno, considerata dal governo come il limite minimo di sopravvivenza: 6,7% nel 2019 quando nel 2017 era il 7,5%.

Troppo poco per far innamorare di un’Unione europea che viene vista (o viene mostrata) sempre più come un intralcio alla libertà individuale che qui, dai palazzi del potere sino alle case del più piccolo villaggio, è sempre stata vista come libertà di farsi leggi ad personam. I bulgari, come la maggior parte dei popoli mediterranei, hanno un forte spirito anarcoide e, anche durante il periodo socialista, si sono ingegnati ad aggirare i proclami, più che a seguirli. L’Ue, con la miriade di leggi e restrizioni che emana in continuazione è un «di più» che poteva essere utile per permettere la libera circolazione delle persone in paesi sino ad allora considerati un miraggio nei sogni di molti bulgari o come mucca da mungere per sfamare cittadini allo stremo.

Le aspettative del popolo sono state mirabilmente descritte da Stefan Tzanev, uno dei poeti bulgari contemporanei più lucidi e critici della nuova società: «Tutto si aggiusterà. Restituiamo la terra alla gente. Avremo pane e carne a sufficienza. Uova e verdure. L’industria la faremo moderna ed ecologica. Avremo frigoriferi a bizzeffe, conserve, lavatrici e televisori. Domineremo l’inflazione. Avremo la valuta convertibile. Non mendicheremo qualche dollaro come bambini abbandonati davanti alle porte dell’Europa. Aggiusteremo i rapporti nazionali ed internazionali. Tutto aggiusteremo. Tutto decideremo». Tzanev conclude la sua poesia con un «Tremendo destino, quello di essere liberi… Salvate le nostre anime!».

Quando la crisi ha iniziato a farsi sentire anche nelle economie ricche, i fondi comunitari hanno iniziato ad essere elargiti con più parsimonia e, soprattutto, a Bruxelles hanno richiesto garanzie di spesa e di qualità che in molti casi non potevano essere date. E allora ecco svanire l’incanto dell’Unione europea.

Plovdiv, architettura tipica del Rinascimento bulgaro. Foto Piergiorgio Pescali.

Politici di ieri, politici di oggi

Un altro dei motivi per cui i bulgari mostrano sfiducia nell’Ue è la delusione nel constatare che quasi nulla nella politica nazionale è cambiato dopo le speranze emerse dal tracollo del precedente regime socialista.

Se solo il 33% dei bulgari esprime una fiducia nelle istituzioni gestite dall’Unione, la percentuale crolla ad un misero 10% per quelli che danno credito al proprio governo di Sofia.

Quasi tutti i politici succedutisi alla guida della nazione hanno avuto ruoli di responsabilità nel passato sistema e non solo all’interno del Bsp (Bălgarska Socialističeska Partija, Partito socialista bulgaro), erede in salsa democratica del vecchio Partito comunista.

Boyko Borisov, l’attuale primo ministro e leader del populista e conservatore Gerb (Graždani za evropejsko razvitie na Bălgarija, Cittadini per uno sviluppo europeo della Bulgaria) è stato guardia del corpo di Todor Živkov; Krasimir Karakachanov, attuale ministro della difesa e leader dell’Unione patriottica era consigliere di Živkov sui temi per la Macedonia; il già citato Siderov era fotografo al Museo di letteratura nazionale.

«C’erano una volta dei tempi più oscuri. C’erano una volta dei tempi più terribili, tempi di terrore, tempi di misteri sanguinosi. Ma la storia non ricorda dei tempi più vergognosi. Il mio tempo, il tempo della grande ipocrisia. I marescialli di ieri, che sventolavano manganelli e bastoni, oggi sono nelle prime file dei combattenti per la democrazia», scrive ancora con estrema trasparenza Stefan Tzanev.

Tutti i politici, collusi o no con il vecchio sistema, esprimono comunque un carattere spaccone e smargiasso che sembra essere apprezzato e premiato da una grande fetta di elettori. I bulgari non hanno avuto un Sessantotto o un Settantasette che hanno insegnato alle generazioni giovanili che opporsi al sistema non solo è possibile, ma conduce anche ad un rafforzamento della democrazia.

In Bulgaria, il «lei non sa chi sono io» è ancora una frase d’effetto che porta al risultato voluto: anziché suscitare la giusta indignazione, fa chinare la testa.

Il governo di Borisov, nonostante abbia mostrato un incredibile scenario di incompetenza politica, di sciatteria sociale e di corruzione, continua ad essere l’ago indicatore della bilancia politica bulgara assieme al suo partito, il Gerb. Non avendo seggi a sufficienza per formare un proprio esecutivo, Borisov non ha indugiato a chiedere aiuto alla coalizione ultranazionalista di estrema destra Unione patriotica e a chiamare attorno a sé figure vicine a Delyan Peevski, un enigmatico personaggio che negli ultimi anni è riuscito a monopolizzare la grande maggioranza dei media bulgari.

L’Unione europea, anziché cercare di contrastare la pericolosa deriva autoritaria e di decadimento morale ha preferito mostrare un colpevole atteggiamento di indifferenza, se non addirittura di complicità.

Nesebar, chiesa di San Giovanni Battista. Foto: Piergiorgio Pescali.

Il paese più corrotto dell’Unione

La Bulgaria è quasi sempre agli ultimi posti negli indicatori economici e di sviluppo sociale dell’Ue,  ed è uno dei due paesi (l’altro è la Romania) soggetti al Meccanismo per la cooperazione e la verifica della trasparenza e la corruzione. Oltre ad essere il paese più corrotto nell’Unione, anche a livello mondiale non è messa bene occupando il 74° posto su 179 nazioni prese in esame.

Del resto, anche in caso non sia più possibile tenere sotto silenzio uno scandalo, non si rischia molto e questo favorisce il coinvolgimento dei politici bulgari in operazioni disoneste e criminali, sia di costume che finanziarie.

La Commissione anticorruzione nazionale è guidata da Sotir Tsatsarov, fedelissimo di Delyan Peevski e Boyko Borisov. Tsatsarov è stato eletto dopo che il suo predecessore, Plamen Georgiev, era stato costretto alle dimissioni per il suo coinvolgimento nello scandalo Apartmentgate quando nel 2019, alla vigilia delle elezioni europee, il Gerb era stato travolto da critiche per l’uso illecito dei fondi europei destinati a sovvenzionare agriturismi e hotel famigliari ed invece utilizzati per costruire ville private di politici e loro accoliti o per acquisti di appartamenti nei quartieri più esclusivi di Sofia a prezzi ridicoli. Naturalmente, il Gerb ha, comunque, vinto le elezioni con il 31% dei voti, mentre Georgiev non è stato mai ufficialmente accusato e oggi si gode il sole di Valencia, in Spagna, come console bulgaro.

Arbanasi, chiesa della Natività, La crocifissione, nel naos. Foto: Piergiorgio Pescali.

Il secondo paese più inquinato

Nonostante la Bulgaria nel periodo 2007-2020 abbia ricevuto da Bruxelles 204 milioni di euro per il trattamento dei rifiuti urbani e industriali,  la situazione è disastrosa. Al di fuori di Sofia e di poche altre città, non esiste un programma di raccolta differenziata, col risultato che la nazione è, dopo la Grecia, la più inquinata d’Europa. Risulta così ridicolo il piano che prevede come richiesto dall’Unione europea, il riciclo del 50% dei rifiuti entro il 2020. Bruxelles lo sa, ma continua imperturbabile per la sua strada.

I fiumi e i terreni sono ricchi di metalli pesanti rilasciati dalle industrie metallurgiche, e l’aria nelle grandi metropoli è spesso irrespirabile: Sofia è la città con la concentrazione di PM 2.5 e di SO2 più alta in Europa e, assieme a Polonia e Slovacchia, la Bulgaria supera i livelli massimi consentiti dall’Ue di PM 10.

Il parco auto che circola nel paese è il più vetusto d’Europa: il 50% delle vetture circolanti hanno più di vent’anni e la maggioranza sono diesel privi di manutenzione e di certificato europeo. Solo lo 0,08% delle auto sono ibride e l’elettrico è praticamente assente.

Bruxelles continua a emanare leggi, raccomandazioni, multe, sapendo benissimo che Sofia continuerà per la sua strada. Eppure basterebbe all’Ue poco per dare un segnale ben preciso all’inefficienza di Borisov & Co.: sarebbe sufficiente vietare a paesi, come l’Italia, di esportare auto destinate alla rottamazione verso i paesi dell’Est.

L’Italia è in prima linea nel condividere la responsabilità del disastro ambientale in cui versa la Bulgaria.

Solo alcuni comitati cittadini (ancora pochi e poco ascoltati) hanno iniziato a criticare la politica ambientale nazionale chiedendo, ad esempio, una revisione della politica energetica. Sono stati proprio loro ad ottenere, nel gennaio 2020, una prima importante vittoria costringendo alle dimissioni il ministro dell’ambiente Nino Dimov, successivamente arrestato per avere deliberatamente costretto per due mesi al razionamento idrico circa 100mila persone nella provincia di Pernik deviando l’acqua del bacino idrico artificiale verso una industria compiacente.

Quella di Pernik era solo l’ultima malefatta di Dimov e dei suoi predecessori che avevano trasformato, tra l’altro, la Bulgaria in una discarica per i rifiuti tossici dell’Europa. Nel 2014 l’amministratore delegato della Lukoil Bulgaria, Valentin Zlatev, aveva concluso con il tandem italiano De.Fi.Am. ed Ecobuilding un accordo per importare rifiuti prodotti nel comune di Giugliano in Campania. Da allora è iniziato un giro d’affari miliardario per portare nel paese balcanico migliaia di tonnellate di pattume tra cui molti prodotti tossici il cui costo di smaltimento in Italia sarebbe stato troppo oneroso. Poco prima delle dimissioni di Dimov, la polizia bulgara aveva sequestrato 9mila tonnellate di rifiuti diretti al centro di smaltimento di Fenix Pleven Eood che lo stesso impianto non avrebbe potuto processare. Si era scoperto che il permesso di trasporto e di smaltimento era stato concesso dallo stesso ministero dell’ambiente bulgaro.

Tutto questo accadeva proprio mentre, nel 2018, Nino Dimov – che tra l’altro è un negazionista del cambiamento climatico causato dall’uomo – prendeva possesso della presidenza del Consiglio per l’ambiente dell’Unione europea. Un biglietto da visita poco onorevole per Borisov, che comunque non se ne cura poi molto.

Venditori di icone a Sofia; sullo sfondo, la cattedrale di Aleksandar Nevski. Foto di Piergiorgio Pescali.

Tanti media, poca libertà

Tra i primati negativi saldamente in mano al governo bulgaro c’è anche quello che riguarda la libertà di stampa e i diritti umani.

Il sistema giudiziario è fortemente dipendente e influenzato dalla politica. Nell’ultimo rapporto l’Ue ha evidenziato molto diplomaticamente e senza porre alcuna enfasi per non offendere il governo, che la Bulgaria non sta facendo abbastanza per i diritti umani, che continuano a deteriorarsi.

Meno diplomatico è il rapporto di Reporter san frontieres, che pone la Bulgaria al 111° posto su 180 paesi presi in esame per la libertà di stampa.  Un calo di ben 60 posizioni rispetto al 2007, quando entrò nell’Unione europea (allora occupava un onorevole 51° posto).

Chi giunge in Bulgaria sarà sicuramente impressionato dalla quantità di giornali, periodici, stazioni radio e televisive presenti nel paese. Per sette milioni di abitanti, nel 2017 c’erano 245 quotidiani, 603 riviste, 85 stazioni radio e 113 televisive. Ma quantità non è sinonimo di qualità e neppure di libertà.

In un regime di crisi economica, dove i proventi pubblicitari diminuiscono, molte testate sono costrette ad affidarsi sempre più ai finanziamenti statali che gestiscono i fondi europei a propria discrezione e senza alcuna trasparenza.

Il rapporto di sostenibilità per la libertà di stampa redatto dall’Irex (International Research & Exchanges Board) evidenzia che, dal 2014 al 2019, la libertà di parola è diminuita tanto da far aumentare l’autocensura dei giornalisti che preferiscono ammorbidire le loro posizioni di indipendenza etica.

Di esempi se ne possono fare molti: nel 2016 il sindaco di Blagoevgrad ha stipulato un contratto secondo cui il consiglio comunale avrebbe continuato a sovvenzionare i media locali a patto che non venissero pubblicate notizie non confermate (leggi non approvate dal consiglio stesso) che minassero la reputazione politica, sociale e privata della «Municipalità di Blagoevgrad, il Consiglio comunale cittadino, il sindaco, il presidente dell’ufficio comunale e le autorità municipali».

Nell’ottobre 2017 il deputato del Gerb Anton Todorov ha minacciato in diretta il giornalista della Nova Tv, Viktor Nikolaev, per aver avuto la sfrontatezza di criticare l’allora vice primo ministro Valeri Simeonov.

Lo stesso Borisov (ancora lui) e molti suoi ministri hanno più volte intimidito i giornalisti lanciando anche insulti poco consoni alla loro posizione governativa e pubblica, sulla linea del «lei non sa chi sono io».

La figura più sfrontata del panorama mediatico bulgaro è il già citato Delyan Peevski, membro del Movimento per i diritti e la libertà (Dviženie za Prava i Svobodi, Dps) e soprannominato da Radio Bulgaria come «l’incontrastato moghul della stampa della Bulgaria».

Il suo gruppo New bulgarian media group (Nbmg), oltre a possedere le due principali case editrici, controlla l’80% della carta stampata tra cui Borba, Monitor, Politics, Meridian Match e il Telegraph, il quotidiano più letto in Bulgaria.

Colluso con il Gerb e con Borisov, nel 2013 Peevski venne eletto presidente dell’Agenzia di stato per la sicurezza nazionale. In un raro impeto di rabbia, 10mila bulgari si riunirono di fronte al parlamento per protestare inscenando cori di «mafia» e «dimissioni», ottenendole il giorno dopo.

I giornali del Nbmg pubblicano spesso articoli cospirazionisti diretti contro Ong, società civile o organizzazioni che osano criticare il governo e le politiche xenofobe da lui varate. Il leit motiv seguito è sempre lo stesso: sono organizzazioni al soldo di Soros o di qualche potere forte straniero il cui unico scopo è quello di distruggere la cultura e la tradizione autentica bulgara.

Monumento a Cirillo e Metodio a Pazardžik. Foto: Piergiorgio Pescali.

Nel 2018 ha fatto approvare al parlamento una legge che obbliga i proprietari dei media bulgari a indicare i finanziatori esterni dei network di loro proprietà, in modo da avere un quadro preciso delle politiche intraprese da ogni sostenitore privato.

Il principale problema della libertà di stampa in Bulgaria è che manca una legge che regola la concentrazione della proprietà.

Nova, bTv e la statale Bnt (Bălgarska nacionalna televizija) generalmente sono considerate come media filogovernativi. Come accade in Italia, anche in Bulgaria i partiti al governo si spartiscono il servizio pubblico: in questo gioco poco edificante, il Bnt, considerato fino al 2017 indipendente, da quando è passato sotto la direzione di Konstantin Kameanrov, vicino al partito Gerb, ha avuto un cambio di rotta sottomettendosi all’esecutivo. Anche la qualità dei programmi ne risente: la bTv, il canale televisivo più seguito, nel 2017 ha riveduto la sua programmazione volgendosi verso l’intrattenimento per i giovani (leggi programmi social, varietà).

Al di fuori di Sofia, non vi è alcun tipo di giornalismo d’inchiesta: le storie che vengono trattate nella provincia vertono su gossip, crimini, violenze. Il giornalismo locale sta sparendo anche perché i bulgari preferiscono utilizzare siti di notizie provenienti da Facebook con un vistoso calo della qualità dei servizi e un aumento impressionante di fake news a cui i lettori si affidano senza dubitare. Così notizie quali la volontà dell’Unione europea di bandire la religione ortodossa, che l’acqua di Sofia fosse stata volontariamente inquinata, che i soldati bulgari erano stati costretti dalla Nato a sparare a obiettivi russi, o la notizia, sempre attuale, che il Sars-CoV-19 sia un virus prodotto artificialmente dalla Cina a cui si aggiungono miriadi di ricette autoprodotte per combatterlo, sono sempre più la fonte di informazione principale presso la società bulgara.

Una nuova Bulgaria?

L’inno nazionale bulgaro, splendidamente musicato da Svetan Radoslavov, elogia la Bulgaria come «cara terra natìa, tu sei il paradiso in terra, la tua bellezza e il tuo fascino, ah, non hanno fine».

Le bellezze artistiche e culturali di questa terra sono tra le più ricche e preziose che l’Europa possa offrire, ma affinché possano continuare a perpetuare la bellezza e il fascino cantato nell’inno nazionale, l’Unione europea deve adoperarsi affinché la classe politica e i bulgari stessi si mostrino più attenti al rispetto dei diritti umani e più corretti verso il proprio paese.

I bulgari dovranno cominciare ad essere meno ossequiosi e cerimoniosi verso chi si presenta con prepotenza ed arroganza. Da parte sua, Bruxelles dovrà abbandonare la politica, sino ad ora perseguita, della morbidezza e dell’accomodamento verso chi sta portando la Bulgaria nel baratro dello sviluppo umano e nella rovina ambientale.

Piergiorgio Pescali

Sofia, Museo d’arte socialista: il quadro ricorda una delle visite del leader sovietico Brežnev in Bulgaria accanto a Todor Živkov. Foto: Piergiorgio Pescali.


I paesi dell’Est e l’Unione europea:
Soltanto per soldi

Tra il 2004 e il 2007, nove paesi dell’ex blocco sovietico entrarono a far parte dell’Unione europea. All’epoca c’erano alcune motivazioni politiche. Oggi il fallimento di quell’allargamento è davanti agli occhi di chi vuol vedere.

Nel 2004 l’Unione europea allargò in una sola notte i suoi confini inglobando dieci nuovi paesi, tra cui sette appartenenti all’ex blocco sovietico. Nel 2007 altre due nazioni, Bulgaria e Romania, entrarono a far parte dell’Unione portando a 27 il totale dei paesi aderenti.

I motivi che sostennero tale decisione furono diversi, non ultimo il tentativo di diluire i contrasti interni tra gli stessi stati fondatori che stavano minando l’unità continentale.

L’allargamento era però anche un modo per evidenziare la superiorità del mondo occidentale e dell’economia capitalista su quello orientale ad economia socialista. La «Cortina di ferro» era stata valicata e l’Unione europea aveva prevalso sulla Russia. Una vittoria storica che voleva essere ribadita dall’assimilazione di nazioni un tempo alleate di Mosca e dal tentativo di isolare il Cremlino.

A tre lustri di distanza sono in molti a lamentare che la politica intrapresa da Bruxelles tra il 2004 e il 2007 è stata, se non fallimentare, per lo meno improduttiva.

I paesi dell’Est faticano ad integrarsi al sistema Europa e, specialmente con la cosiddetta crisi dei migranti, tra il 2015 e il 2016 le divergenze all’interno dell’Unione si sono accentuate sino a generare un blocco dell’Ovest e un blocco dell’Est che si è aggiunto alle divergenze già esistenti tra paesi del Nord Europa e paesi del Sud, o del bacino del Mediterraneo. Anche in questo caso le cause addotte sono diverse. La differenza della struttura industriale e del sistema economico, accentuatosi a partire dal 1945, è quella più evidente, ma vi è anche una diversità culturale determinata dalla storia, dalla posizione geografica, dal differente alfabeto: latino per l’Ovest, cirillico per l’Est con una variante intermedia per gli alfabeti ceco, polacco e ungherese. Non ultima la diversità religiosa, che si innesta su quella storica: la Chiesa ortodossa ha profonde radici nella cultura slava e, si sa, non ha mai avuto buoni rapporti con la Chiesa romana. Inoltre non bisogna dimenticare che l’area balcanica rappresentata dalla Grecia, dalla Bulgaria e, in misura minore, da Romania e Ungheria, è stata sempre il primo baluardo cristiano contro la penetrazione islamica in Europa. Bulgaria e Grecia hanno sempre avuto rapporti difficili con il mondo bizantino e con l’impero ottomano, suo successore, e ancora oggi la Bulgaria ha una forte minoranza turca residente sul suo territorio.

Questo complesso tessuto storico, culturale e sociale che si differenzia così tanto dall’Europa ideata da Spaak, Schuman, Monnet e De Gasperi spiega come mai sia così difficile mantenere un rapporto di convivenza con queste nazioni e come mai, invece, il legame con i paesi baltici, più legati alla cultura del Nord Europa, sia molto più fluido e produttivo.

Sofia, Museo d’arte socialista: busto di Marx davanti a manifesti che celebrano Stalin. Foto: Piergiorgio Pescali.

Non solo Orban: sì ai soldi, no al resto

La miopia dei nostri governanti europei all’inizio del XXI secolo è stata più culturale che politica ed economica. Lo dimostra il fatto che, nonostante l’Unione europea continui a foraggiare con (troppa) generosità Polonia, Ungheria, Bulgaria, Repubblica Ceca, i governi di questi paesi continuano a criticare e a respingere le leggi emanate da Bruxelles in termini d’inclusione sociale, libertà di stampa e di diritti umani. Viktor Orbàn, è il caso più pubblicizzato sui nostri media a causa della sua amicizia con Salvini, ma non dobbiamo dimenticarci che in Bulgaria l’autoritarismo di Borisov non sfigura di fronte al collega ungherese, che in Polonia Morawiecki ha ormai imbavagliato la magistratura e che in Repubblica Ceca, Andrej Babiš è stato travolto da innumerevoli scandali finanziari e di corruzione.

Tutti questi capi di governo inoltre hanno negato il coinvolgimento dei propri cittadini nella deportazione di ebrei durante la Seconda guerra mondiale e, in alcuni casi, hanno anche contestato l’esistenza di campi di concentramento.

È inoltre utile far notare che le classi politiche (e quindi le popolazioni) di molte nazioni del vecchio blocco sovietico sono spaccate sull’opportunità o meno di aderire all’Unione europea o se orientarsi verso l’alleato storico, la Russia. Se fino alla metà della seconda decade del XXI secolo la prima opzione prevaleva, dopo il 2015 la politica di Bruxelles sull’immigrazione ha iniziato a essere vista troppo invasiva negli affari interni aumentando il consenso popolare e populista di una politica sovranista.

Tutto questo ha coalizzato tra loro i governi che si sono alleati nel gruppo di Visegrad a cui aderiscono Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Ungheria. Al tempo stesso l’Ue ha incominciato ad essere identificata con la Nato, che, in Bulgaria ad esempio, è vista come un vero e proprio esercito europeo orientato contro la politica slava e di Mosca.

Tutto questo è stato manipolato dagli organi di stampa per dare un’immagine negativa dell’Unione. L’isolamento dei capi di governo dell’Est Europa rispetto all’alleanza dei paesi dell’Occidente ha incanalato il malcontento popolare.

Dalla parte opposta, i governi ex sovietici sono quelli che hanno guadagnato maggiormente dall’ammissione all’Ue in termini economici. Hanno tutti ottenuto ingenti aiuti senza per questo cedere nulla sulla loro politica interna: Ungheria e Bulgaria, in particolare, sono le nazioni che continuano a snobbare i flebili e cauti richiami di Bruxelles in materia di diritti umani, corruzione e di politica ambientale.

È anche vero che, rispetto ai paesi mediterranei come Italia, Grecia e Spagna, queste nazioni sono quelle che riescono a gestire meglio i fondi provenienti dalle varie commissioni europee. Su questo tema ci sarebbe molto da scrivere e da argomentare, ma l’opposizione dei membri più attenti alla gestione finanziaria, come le nazioni del Nord Europa, ai prestiti a fondo perduto decisi da Bruxelles nei mesi scorsi è più che comprensibile.

Rispetto, ad esempio, all’Italia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia hanno già stanziato una percentuale nettamente superiore al nostro paese dei fondi strutturali elargiti dall’Unione europea.

Piergiorgio Pescali

Sofia, Museo d’arte socialista: busto di Lenin. Foto: Piergiorgio Pescali.


Ha firmato questo dossier:

Piergiorgio Pescali – Ricercatore scientifico, il suo lavoro lo porta a viaggiare per il mondo collaborando come giornalista con radio, riviste, quotidiani in Europa e in Asia. Sudest asiatico, penisola coreana e Giappone sono le zone che segue con più interesse. È uno dei maggiori conoscitori della Corea del Nord che frequenta con regolarità dal 1996. Sul paese ha recentemente pubblicato La nuova Corea del Nord, come Kim Jong Un sta cambiando il paese (Castelvecchi, 2019). Ha inoltre scritto: Indocina (Emil, 2010), Il custode di Terrasanta. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa (Add, 2014), S-21, nella prigione di Pol Pot (La Ponga, 2015). Da anni è fedele collaboratore di MC.

A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.

Sitografia essenziale

La rete che separa il confine bulgaro da quello turco a Rezovo. Foto di Piergiorgio Pescali.

 

 




Viaggio in Norvegia: le scelte di Oslo

La ricetta norvegese


Testo e foto di Piergiorgio Pescali


Da molti anni la Norvegia si situa ai primi posti nella classifica dell’Indice di sviluppo umano. I suoi abitanti – poco più di 5 milioni – hanno un’elevata qualità della vita. Il Fondo sovrano norvegese – che gestisce i corposi proventi del petrolio – è ricchissimo, ma anche attento all’etica dei propri investimenti. Nonostante tutto questo, ci sono questioni aperte. Per esempio, anche a queste latitudini i problemi ambientali sono in rapido aumento. Inoltre, i norvegesi stanno cercando di porre un freno all’immigrazione, anche premiando partiti populisti anti immigrati. La ricetta complessiva rimane buona, ma oggi il paese deve trovare risposte adeguate alle nuove sfide.

«Guarda la mappa della Norvegia: un pugno con un dito indice che si allunga verso nord, quasi come a voler toccare l’inviolabile, le terre ostili che si frammentano nel Finnmark». Morten Andreassen mi mostra la cartina della Norvegia mentre è seduto su un masso addentando con gusto un panino. Sta studiando per ottenere un Master in Scienze della globalizzazione e sviluppo sostenibile all’Ntnu, l’Università norvegese di Scienze e tecnologia di Trondheim, l’istituto scientifico più prestigioso del paese dalle cui aule sono usciti cinque premi Nobel. Ogni anno l’Ntnu organizza il Big Challenge Science Festival, uno dei simposi scientifici più seguiti al mondo in cui, per quattro giorni, scienza e spettacolo si mischiano in una serie di eventi memorabili coinvolgendo moltissimi dei duecentomila abitanti di Trondheim e trasformando questa cittadina in una capitale della cultura scientifica, umanistica e artistica.

L’atmosfera tranquilla, ma al tempo stesso pregna di stimoli intellettuali di Trondheim, associata all’eccellente livello di insegnamento impartito nell’Ntnu ha fatto sì che i suoi ricercatori e studenti siano contesi da compagnie e centri di ricerca di tutto il mondo: «Potenzialmente abbiamo un tasso di disoccupazione inferiore allo zero», scherza Magnhild, la ragazza che viaggia con Morten.

Lei, dopo la laurea, è tornata a Tromso, la cittadina dove è nata, per lavorare in una compagnia che si occupa di energie rinnovabili. Magnhild è andata a Oslo a trovare la famiglia di Morten e quest’anno hanno deciso di tornare a Trondheim percorrendo a piedi i 643 chilometri del «Sentiero di Sant’Olav» (foto alle pagine 41-42), il cammino di pellegrinaggio che, partendo dalla Vecchia Chiesa di Aker ad Oslo termina alla cattedrale di Nidaros, dove nell’XI secolo fu sepolto Olav Haraldsson (995-1030), il Rex Perpetuus Norvegiae e patrono della nazione (nonché santo e martire per la Chiesa cattolica).

«Non siamo credenti, anzi siamo atei convinti, ma abbiamo approfittato di trascorrere quattro settimane a stretto contatto con la natura per raccogliere dati sui cambiamenti climatici per le nostre ricerche».

Il Sentiero di Olav, l’università di Trondheim, la passione di Morten e Magnhild per la natura – espressione del friluftsliv[1] che accomuna i norvegesi – e il rispetto verso l’ambiente sono le basi da cui parto per cercare di comprendere quale possa essere stata la chiave che ha portato, in pochi decenni, un popolo povero e circondato da una natura ostile ad occupare oramai da diversi anni, le prime posizioni nelle statistiche dell’Indice di sviluppo umano[2].

Una tigre in Norvegia: la città contro la natura

La statua della tigre che ruggisce – realizzata da Elena Engelsen e dal 2000 posta fuori dalla stazione ferroviaria di Oslo – è forse l’emblema di una città e una nazione che sta cambiando più velocemente di quanto vorrebbe. L’artista voleva rappresentare la vivacità e lo sviluppo della Tigerstaden, la città della tigre, il soprannome con cui oggi è conosciuta Oslo, ma a molti norvegesi il felino ricorda i versi scritti nel 1870 dal poeta Bjornstjerne Bjornson, premio Nobel nel 1903 e autore delle parole dell’inno norvegese, il quale contrapponeva l’immagine pericolosa, violenta e aggressiva della città a quella bucolica, pacifica e genuina della campagna[3].

Sicuramente ai turisti orientali che sempre più numerosi affollano la capitale norvegese, quella statua ricorderà le «tigri asiatiche», le quattro economie dell’Asia (Singapore, Taiwan, Hong Kong e Corea del Sud) che negli anni Novanta bruciavano le tappe dello sviluppo crescendo a dismisura sino a diventare il simbolo di quella riscossa asiatica che, più tardi, avrebbe trovato nella Cina la sua locomotiva.

L’economia norvegese non viaggia quanto le tigri asiatiche (ormai anch’esse sedate) ma la crescita del Pil continua ad aggirarsi attorno ad un onorevole 2% ed Oslo – con circa 700mila abitanti – è considerata la città che si espande più velocemente tra le capitali dell’Europa[4].

Definire la capitale della Norvegia una bella città è una forzatura e il paragone con le «colleghe» scandinave è impietoso: la sua storia è sempre stata offuscata dalle più regali Copenaghen e Stoccolma, i cui regni si sono succeduti pressoché ininterrottamente alla guida della Norvegia dal IX secolo al 1905, quando la nazione trovò la sua indipendenza. Città prettamente operaia e industriale, Oslo non ha certo la grazia di Bergen o il fascino dell’art nouveau di Alesund. Al contrario, la città, che riacquistò il nome originario solo nel 1925 abbandonando il toponimo di Christiania affibbiatole dal re di Danimarca Cristiano IV, è sempre stata quella descritta, con un misto di sagacia e melanconia, da Luigi Di Ruscio, il poeta-operaio emigrato dall’Italia nel 1957 e morto ad Oslo nel 2011: «Poi ci sono i lunghi inverni gelati con le giornate cortissime e le lunghissime notti, le nevi che persistono per mesi e alla fine da bianche che erano diventano nere ed Oslo diventa la città dalla neve nera»[5].

Eppure, l’amministrazione locale è riuscita a realizzare quello che, sino a pochi anni fa, sembrava impossibile: conferire una fisionomia e una personalità unica alla metropoli. Sapendo di non poter competere sul piano monumentale e storico con altri centri scandinavi ed europei, si sono scelti altri campi per rendere Oslo città appetibile al turismo e alla finanza: l’architettura moderna, la cultura e la natura. Gli amministratori norvegesi, con la collaborazione di architetti provenienti da tutto il mondo, hanno trasformato una città anonima e grigia in un interessante esperimento di design urbanistico quasi senza stravolgerne l’assetto storico e valorizzando gli edifici esistenti. Le gru che si innalzano da numerosi quartieri stanno rivoluzionando lo skyline di Oslo che, dal 2020 si doterà di nuovi spazi abitativi, finanziari e culturali offrendo a turisti e abitanti un nuovo volto, più moderno e accattivante.

Accanto all’Opera House stanno sorgendo centri residenziali e lavorativi hi-tech: il Barcode, il Sorenga, il Museo Munch, la Biblioteca nazionale, mentre nell’Aker Brygge tra pochi mesi verrà inaugurata l’immensa Galleria nazionale che si affiancherà al Nobel Peace Centre. Al tempo stesso i polmoni verdi, vero vanto del rispetto ambientale di cui si fregia la città, sono stati mantenuti. Un efficiente e relativamente poco costoso sistema di mezzi pubblici collega 24 ore su 24, sette giorni su sette, anche i quartieri più periferici. In meno di un’ora è possibile raggiungere piste da sci, rifugi immersi nella natura, sentieri montani lasciando la propria auto nel garage. Oslo non è bella, ma è sicuramente la città ideale in cui vivere.

Le sfide ambientali: cambiamento climatico, petrolio, disboscamento, turismo

Quello norvegese è tradizionalmente un popolo culturalmente coeso, che ha fatto del rispetto per la natura uno dei suoi cavalli di battaglia.

«Se chiedi ad un turista medio cosa vorrebbe vedere andando in Norvegia ti risponderebbe “i fiordi”; un turista un po’ più accorto aggiungerebbe Capo Nord o Lofoten. Pochi si aspettano di vedere città come Oslo o Stavanger» mi spiega Gunn Wadzynski, attivista ambientalista di Greenpeace, che poi continua: «Lo stereotipo della Norvegia è che sia un territorio selvaggio, inesplorato, incontaminato e, soprattutto, non inquinato. Purtroppo, la realtà sta cambiando molto velocemente: l’ambiente soffre sempre di più e non solo per i cambiamenti climatici, ma anche per lo sfruttamento che noi norvegesi operiamo sul nostro territorio».

Ogni anno dieci milioni di turisti arrivano in Norvegia, di cui tre milioni su navi da crociera ed oramai il 4,2% del Pil dipende dal loro[6].

L’aumento del turismo è sicuramente una delle cause del degrado ambientale, ma il danno più evidente è dovuto ad un fattore esterno – i cambiamenti climatici mondiali – e uno interno, il continuo dissanguamento delle risorse naturali, causato in particolare dall’estrazione petrolifera e dal disboscamento.

Nel 2016 la temperatura media nelle Svalbard, il piccolo arcipelago situato più a settentrione del paese, è stata di 6,6°C superiore a quella normale[7]. Anche se i dati relativi a questa statistica sono stati contestati da molti ricercatori in quanto basati su una rilevazione effettuata presso l’aeroporto di Longyearbyen e quindi falsati dal microclima esistente in quella specifica parte dell’isola, è un dato di fatto che la coltre di ghiaccio in tutto il Circolo polare artico si sta assottigliando[8].

Per contrastare l’aumento di temperatura, la Norvegia si è data come obiettivo di ridurre entro il 2030 le emissioni di CO2 del 40% rispetto al 2005.

Uno studio preliminare ha individuato che il 74% delle emissioni di gas serra proviene da due settori: trasporti e agricoltura[9]. È quindi in queste due attività che il governo ha cercato di intervenire con più incisività.

Tra il 1990 e il 2013 sono stati disboscati 140mila ettari di foresta, cosa che ha contribuito per il 4-5% dell’emissione della CO2. Il 33% della deforestazione è stato effettuato per costruire nuove strade, ferrovie e abitazioni, l’11% per linee elettriche e impianti sciistici e il 31% per usi agricoli[10].

«Il 21% dell’abbattimento avviene prima che l’albero raggiunga lo stadio V, la fase oltre la quale il fusto ha ormai sorpassato il tasso di massimo assorbimento di anidride carbonica ed è pronto per la sostituzione», specifica Sigurd Sivertsen, del dipartimento di ingegneria ambientale all’Ntnu[11].

Durante il XX secolo la Norvegia ha implementato una politica di rimboschimento e nei prossimi anni le foreste piantate negli anni Cinquanta e Sessanta raggiungeranno la loro completa maturazione con una diminuzione del tasso di assorbimento di CO2. Per ripristinare la fotosintesi clorofilliana necessaria per mantenere l’equilibrio naturale, nel 2013 la Norwegian environment agency ha proposto la riforestazione di 100mila ettari di terreno per i successivi venti anni che, una volta completata, potrebbe rimuovere 1,8 milioni di tonnellate annue di CO2 nel 2050[12].

Per accelerare l’accrescimento del tronco fino ad un 10-15%, i laboratori di ricerca norvegesi hanno sviluppato un programma di modificazione genetica che, sommato alle tecniche di inseminazione, potrebbe permettere di stare al passo con il programma di assorbimento dei gas serra senza aumentare la superficie boschiva del paese.

Naturalmente questa tecnica invasiva ha riscontrato l’ostilità di numerose organizzazioni ambientaliste: Turid, dell’associazione radicale (e per molti versi cospirazionista) Green Warriors di Bergen afferma che «Il 75% dei nuovi semi utilizzati per la sostituzione degli alberi abbattuti in Norvegia sono geneticamente modificati. In questo modo le politiche ambientaliste del nostro paese sono un palliativo per permettere comunque alle compagnie che contribuiscono all’aumento delle temperature mondiali di continuare a operare le loro politiche distruttive». La critica di Turid ha un fondo di verità, ma la realtà norvegese ci offre una visione molto più variegata che è osservata con interesse da molti attori internazionali: nel 2015 le energie rinnovabili rappresentavano il 46% dell’energia totale fornita al mercato norvegese. Certamente la bassa densità di popolazione e la ricchezza del territorio (il 40% dell’energia utilizzata è idroelettrica[13]) gioca un ruolo determinante nel successo del modello Norvegia, che comunque è ancora lontana dall’escludere le fonti fossili dalla sua dipendenza energetica (il petrolio fornisce il 36,8% dell’energia e il gas naturale il 18,2%[14]).

Al tempo stesso l’utilizzo di fonti naturali permette alla nazione di avere un prezzo al consumatore tra i più bassi in Europa nonostante una tassazione del 38%: 38 euro/MWh (megawattora) contro i 54 euro/MWh che paga un italiano[15].

Così, nonostante un norvegese consumi 5,20 «Tonnellate di petrolio equivalente» (Tep) ogni anno contro una media europea di 4,11, l’impatto ambientale diretto è inferiore rispetto ai cittadini del Vecchio continente[16].

Elettrico sì, ma senza incentivi

Una delle principali azioni espresse dal governo di Oslo per contenere e ridurre l’impatto ecologico nella nazione è stata quella di sostenere l’uso dell’auto elettrica (Ev) mediante un programma di incentivi statali, introdotti sin dalla fine degli anni Novanta per aiutare lo sviluppo della Kewet, una macchina elettrica prodotta da una fabbrica danese che nel 1998 era stata venduta alla norvegese Elbil Norge As[17]. Nel 1997 le macchine Ev[18] hanno ottenuto l’esenzione completa dai pedaggi stradali, nel 1999 dal pagamento dei parcheggi (dal 2017 la gratuità è a discrezione di ogni municipalità), dal 2001 l’esenzione dell’Iva e dal 2009 vengono trasportate gratuitamente sui traghetti.

Qualcosa però sta cambiando anche nel paese: nel 2018 il 31,2% delle nuove auto vendute in Norvegia era Ev e Phev (auto ibride)[19], con queste ultime in costante ascesa[20]. Lungi dal rappresentare una coscienza ecologica popolare, le auto Ev vengono comprate per una questione economica più che ambientale: il 63% dei norvegesi che hanno un’auto completamente elettrica ha anche una seconda auto ibrida o a combustibile fossile.

I motivi sono diversi: in primo luogo lo sviluppo del sistema delle colonnine di ricarica che, pur essendo il più capillare d’Europa, è ancora insufficiente per rendere indipendente la circolazione sull’intero territorio. Al 2 aprile 2019 in Norvegia vi erano 12.612 ricariche (di cui 2.361 a carica veloce, 616 dedicate alla Tesla supercharges[21]); un incremento importante rispetto al 2011 (allora c’erano 3mila colonnine), ma che non segue quello delle vendite e questo ha disincentivato l’acquisto di auto esclusivamente Ev[22].

In secondo luogo, gli incentivi funzionano da motore per chi deve usare l’auto su strade a pedaggi e su traghetti: la più alta concentrazione di auto elettriche al mondo la si trova a Finnoy, un’isola di fronte a Stavanger. Qui il pedaggio del tunnel che connette l’isola alla terraferma costa 150 nok sola andata: un sondaggio della Neva (Norwegian Electric Vehicle Association) ha constatato che gli acquirenti hanno comprato le Ev per non pagare il pedaggio (300 nok al giorno).

Tutto questo, però ha un costo che comincia a diventare troppo ingente per l’economia norvegese: l’Istituto per l’Economia dei trasporti nel 2015 ha stimato che i mancati introiti per lo stato erano pari a 4 miliardi di nok, ancora sostenibili per l’economia norvegese, ma dovranno essere ben presto rivisti. Per ora il governo ha stabilito che le agevolazioni per l’acquisto di auto elettriche verranno mantenute fino al 2020 anche per permettere, entro quella data, alla città di Oslo di rispettare il programma di eliminare completamente i trasporti pubblici a carburante fossile utilizzando solo quelli elettrici.

Le prime voci di dissenso verso questa politica si fanno già sentire dagli scranni dell’opposizione parlamentare: «Non possiamo continuare a finanziare le macchine elettriche», dice Andreas Halse, portavoce per l’ambiente del Partito labourista. Anche le compagnie navali hanno cominciato ad alzare i toni della protesta, così come le società che gestiscono le infrastrutture stradali.

Paradossalmente gli stimoli economici hanno avuto un effetto deleterio sulla circolazione: oltre a non eliminare le macchine a combustibile fossile, disincentivano l’uso dei mezzi pubblici.

Oggi, dunque, il governo si trova di fronte al dilemma su come rendere il mercato delle auto elettriche appetibile al consumatore senza dover offrire promozioni.

Socialità e risparmio energetico

La Norvegia sta cercando di far fronte all’emissione di gas serra anche affrontando la questione del costo della vita che rende problematico per le giovani generazioni l’affrancamento dalle famiglie.

L’affitto medio mensile di un monolocale in centro a Oslo costa circa 1.000 euro, mentre l’acquisto varia da 4.000 euro al metro quadro per un appartamento fuori dal centro a 6.000 euro al metro quadro in centro[23]. Un salasso anche per uno stipendio medio norvegese che si aggira sui tremila euro netti al mese[24].

Dal 2020 le nuove costruzioni dovranno essere energeticamente completamente autonome così da risparmiare, entro il 2030, dieci TWh (terawattora) di consumo, mentre verrà vietato l’uso di riscaldamento fossile per tutti i restanti edifici (attualmente solo il 20% del parco immobiliare è dotato di riscaldamento con energia rinnovabile). Queste direttive (costose e impegnative) hanno indotto gli architetti norvegesi a cercare soluzioni alternative trovandole nelle abitazioni collettive, edifici in cui si cerca di coniugare l’indipendenza del nucleo famigliare con il taglio dei costi e la diminuzione dello spreco energetico. Il co-housing o collective-housing non è una novità nei paesi nordici essendo già praticato negli anni Settanta-Ottanta, ma con l’arrivo del benessere e della ricchezza era andato via via scomparendo. L’esigenza di una propria vita privata è stata preservata garantendo ad ogni famiglia un proprio spazio indipendente e riservato, mentre ci si affida alla gestione collettiva per quelle attività prettamente socializzanti, come una stanza comune per la mensa, le attività ricreative, il giardino.

Una trappola per l’anidride carbonica

Il governo, però, non si affida solo ai singoli cittadini per combattere l’effetto serra: dagli anni Ottanta la nazione ha intrapreso un percorso di ricerca e sviluppo nel campo del Ccs (Carbon capture and storage, Cattura e stoccaggio del carbonio), un processo che, dopo aver liquefatto l’anidride carbonica la inietta in una trappola geologica dove viene stoccata per centinaia di anni. È un metodo utilizzato per ridurre la quantità di CO2 liberata nell’aria, tanto che Oslo ha individuato nel Ccs una delle cinque priorità per contenere l’aumento di CO2 entro il 2030, ma il processo ha anche diverse problematiche evidenziate dagli ecologisti: il gas, che viene iniettato in sacche di terreno cavo (spesso dopo avere estratto petrolio o gas naturale), potrebbe liberarsi improvvisamente a seguito di terremoti avvelenando e asfissiando gli esseri viventi che stanno nelle immediate vicinanze.

Gli scienziati e tecnici norvegesi stanno sfruttando due siti offshore adatti al Ccs: Sleipner and Snøhvit, in cui la CO2 è insufflata a migliaia di metri di profondità (800-1.000 metri a Sleipner e 2.000 metri a Snøhvit), mentre un terzo giacimento esaurito (Troll, nel Mare del Nord) ha avuto il benestare del governo per il suo sfruttamento lo scorso gennaio[25]. «Sino ad oggi sono stati immagazzinati 21 milioni di tonnellate di CO2», spiegano alla Gassnova, l’azienda leader nella ricerca e sviluppo del Ccs, la cui esperienza ha permesso di esportare le tecniche Ccs maturate in Norvegia in diversi paesi (Cina, Indonesia, Sud Africa, paesi del Golfo Persico) e iniziare una collaborazione con molte istituzioni internazionali.

I centri di ricerca Ccs sono tre: il Tcm (Technology Centre Mongstad), Climit e il Norwegian Ccs Research Centre (Nccs). Tra questi il Tcm, operativo dal 2012, è il più grande al mondo ed è di proprietà di un consorzio di aziende guidate dalla Gassnova (77,5%), Equinor (7,5%), Shell (7,5%) e Total (7,5%)[26].

Il peso del petrolio sul Pil norvegese

In tutto questo bel programma ambientale il petrolio continua ad occupare una posizione rilevante nell’economia e nelle società norvegesi. Lungi dall’esserne indipendente, la Norvegia è ancora fortemente vincolata alle fonti fossili che contribuiscono per il 12% al Pil, per il 13% agli introiti erariali del governo centrale, per il 37% alle esportazioni e per il 21% agli investimenti nonostante la produzione sia diminuita del 40% rispetto al 2001 (due milioni di barili al giorno nel 2017 rispetto i 3,4 del 2001, ma nel frattempo la produzione di gas naturale è salita a 120 miliardi di metri cubi all’anno)[27]. E con riserve stimate in 90 miliardi di barili l’economia norvegese e i 200mila lavoratori impiegati nel campo petrolifero possono guardare con relativa tranquillità il proprio[28].

L’industria petrolifera norvegese è tra le più efficienti del mondo e viene vista come modello per altre economie.

Ogni anno si concedono licenze per esplorazioni già in atto e ogni due anni vengono messe all’asta licenze per esplorazioni in nuovi giacimenti. Nel maggio 2016 sono state vendute dieci licenze a tredici compagnie. Alla fine del 2015 la Equinor possedeva 259 licenze, mentre altri cinquantatré operatori ne avevano 182[29].

L’obiettivo a medio-lungo termine del governo non è solo quello di evitare il più possibile l’utilizzo delle fonti fossili nell’ambito nazionale, ma anche di rendersi paese trainante verso un programma etico e ambientale che coinvolga tutto il globo che escluda, nel limite del possibile, lo sfruttamento di energie provenienti da combustibili a base di carbonio.

L’industria petrolifera norvegese ha iniziato a decollare nel 1971, quando la Phillips Petroleum Company cominciò a sfruttare il giacimento di Ekofisk, nel Mare del Nord. Da allora l’oro nero ha rappresentato il carburante che ha alimentato lo sviluppo economico e sociale della nazione la quale, sebbene già relativamente più ricca rispetto al resto dell’Europa, ha cominciato letteralmente a essere inondata di denaro.

L’esportazione dell’oro nero frutta ogni anno alle casse di Oslo 210 miliardi di nok, ma la ricchezza derivata dall’estrazione off-shore non è mai stata ostentata dai protagonisti norvegesi che, in questo senso, si distinguono nettamente dai concorrenti arabi e asiatici.

A differenza della pacchianeria e della ridondante esibizione di questi ultimi, le compagnie petrolifere norvegesi si sono sempre distinte per il loro basso profilo comunicativo e la loro propensione sociale. L’esempio più evidente è visibile nell’eleganza e la linearità dell’enorme sede della Equinor, l’ex Statoil[30], la più grande e facoltosa azienda petrolifera del paese con un fatturato di 61 miliardi di dollari. L’edificio, a basso impatto ambientale, sorge a Fornebu, alla periferia di Oslo ed è stato costruito ad un costo di 1,5 miliardi di nok tra il 2009 e il 2012 dallo studio di architettura A-lab, lo stesso che ha realizzato l’avveniristico Barcode che si affaccia sul fiordo di Oslo[31].

Il Fondo pensioni norvegese, potenza finanziaria alla ricerca dell’etica

L’edificio della Statoil è l’esempio con cui la Norvegia ha amministrato i ricavi derivati dall’esportazione del petrolio. Sin dagli anni iniziali dello sfruttamento dei pozzi, il ministero delle Finanze pubblicava il documento «Il ruolo dell’attività petrolifera nella società norvegese» in cui si avanzava la domanda su come dovessero essere utilizzati i proventi dell’estrazione petrolifera[32].

Nel 1990 è stato fondato il Fondo petrolifero e il 1° gennaio 1998 lo stesso ministero ha affidato alla Banca di Norvegia la gestione delle azioni con la clausola che non si dovesse utilizzare una quantità di denaro superiore ai proventi degli investimenti, stimato nel 3% del capitale di 900 miliardi di euro distribuito in 73 paesi e in 9.158 compagnie[33].

Vi sono delle guide etiche che escludono dagli investimenti da parte del Fondo le ditte responsabili di violazioni di diritti umani, produzione di alcuni tipi di armamenti, produzione di tabacco, di carbone, inquinamento[34].

Così sono bocciate ditte come la Philip Morris, la Posco, Rio Tinto, la Loockheed Martin Corp. (ma la Norvegia è partner nella produzione dell’F-35[35]). Nel solo 2018 sono state escluse dal fondo ditte come l’Aecom, la Bae System, la Fluor Corp., l’Huntington Ingalls Industries Inc. (impegnate nella produzione di armi nucleari), la polacca Atal SA, la cinese Luthai Textile (violazione diritti umani), la Evergreen Marine Corp. Taiwan, Korea Line Corp., Precious Shipping Pcl, Thoresen Thai Agencies (violazione diritti umani e inquinamento ambientale), l’Evergy Inc. la PacifiCorp, Tri-State Generation and Transmission Association, Washington H. Soul Pattinson & Co Ltd (produzione di carbone), l’Halcyon Agri Corp. (inquinamento ambientale), la JBS South Africa (corruzione)[36].

Nel 2017 la Banca di Norvegia ha invitato il ministero delle Finanze a rivedere gli investimenti del Fondo pensioni consigliando di escludere azioni derivate da collocamenti petroliferi. Il consiglio del gestore è stato recepito dallo Storting[37] il quale ha deciso di eliminare 134 compagnie che hanno interessi nell’industria di esplorazione e estrazione petrolifera per un totale di settanta miliardi di nok.

Le critiche, però non mancano, a partire dalle organizzazioni anti Nato, che contestano il coinvolgimento norvegese nel progetto F-35, a compagnie private che si occupano di fondi d’investimento, come la Storebrand Asa, la principale agenzia norvegese che amministra 70 miliardi di dollari affidati da 1,2 milioni di norvegesi.

Jan Erik Saugestad, vice presidente della Storebrand Asa, è critico verso il pacchetto di investimenti effettuati dal Fondo nazionale. Secondo lui il Fondo dovrebbe impegnarsi con più incisività a convincere le compagnie petrolifere a promuovere maggiormente le tecnologie per energie rinnovabili escludendo completamente quelle che hanno ancora attività nel settore dei combustibili fossili. Nel suo ultimo rapporto, la Storebrand Asa ha individuato una lista di società su cui ha deciso di non investire[38].

Per la verità la lista è molto simile a quella del Fondo governativo, dato che la stessa Storebrand non esclude a priori queste società, ma solo quelle che, nel loro portafoglio, hanno guadagni provenienti da attività considerate critiche per l’ambiente superiori a una certa percentuale (ad esempio esclude compagnie che hanno entrate superiori al 5% in tabacco, al 25% in attività collegate al carbone, 20% in attività collegate a sabbie bituminose)[39].

La Storebrand, inoltre, ha recentemente accusato alcune compagnie petrolifere di boicottare le politiche di energie rinnovabili investendo milioni di dollari per impedire o rallentare la successione delle energie alternative da quelle petrolifere. Tra le società accusate vi sono la Bp (53 milioni di Usd – dollari Usa – annui per boicottare queste politiche), la Shell (49 milioni Usd), Exxon Mobil (41 milioni Usd), Chevron (29 milioni Usd), Total (29 milioni Usd). I metodi utilizzati dalle imprese includerebbero pressioni su politici, amministrazioni locali e sull’opinione pubblica[40].

Il rapporto della Storebrand, però, contrasta nettamente con quello di altre agenzie. La Reuter ha recentemente pubblicato una ricerca da cui si evince che le compagnie petrolifere, con in testa la Shell, hanno investito circa tre miliardi di dollari in acquisizioni di energie rinnovabili negli ultimi cinque anni, mentre uno studio della WoodMackenzie, una società di ricerca e consulenza energetica, ha evidenziato che Total, Shell e Equinor sono tra le compagnie petrolifere che investono maggiormente in energie rinnovabili. La sola Equinor investirà in questo settore entro il 2020, il 25% del suo budget di ricerca[41]41.

È stata ancora la Equinor ad aver sviluppato l’Hywind Scotland Pilot Park, il primo centro di produzione eolica mobile off-shore che si trova a venticinque chilometri dalle coste scozzesi di Peterhead, nell’Aberndeenshire. L’Hywind è un complesso di sei turbine eoliche con una capacità energetica di 30 MW (megawatt). Secondo la Windeurope, la Equinor fornisce con i suoi impianti eolici il 7% dell’intera capacità energetica eolica prodotta in Europa nel 2018[42].

La Norvegia e l’ondata migratoria: l’affermazione dei partiti populisti

Con la scoperta del petrolio in Norvegia sono iniziati ad arrivare immigrati estranei alla cultura scandinava: erano pachistani, iugoslavi, maghrebini che non hanno fatto fatica a essere assorbiti nella nascente industria petrolifera. Al tempo stesso, però, la caduta del Muro di Berlino, le crisi politiche ed economiche dell’Europa dell’Est, accompagnate dagli sconvolgimenti militari ed etnici del Centro Asia, Vicino Oriente e Africa hanno messo la Norvegia di fronte a un’ondata migratoria che ha contribuito a sviluppare scetticismo nei confronti all’Unione europea e sospetto verso i nuovi arrivati.

All’inizio del 2018 su 5.400.000 abitanti 746.700 erano immigrati stranieri a cui vanno aggiunti 170mila nati da genitori stranieri[43]43. In totale gli immigrati sono il 17,3% della popolazione e contribuiscono per il 58% all’incremento demografico della nazione[44].

«Il petrolio è stata la fortuna e, al tempo stesso, la sfortuna della Norvegia», sentenzia Bente, una ragazza di Tromso la quale ritiene, come molti suoi connazionali, che il paese dovrebbe porre un freno all’immigrazione.

Questa percezione è stata cavalcata con successo dai partiti populisti di destra e antieuropeisti, in particolare dal Partito del progresso (FrP, Fremskrittspartiet)[45] che, nato nel 1973 come movimento liberista per l’alleggerimento della tassazione con il nome di Anders Lange’s Party for a Drastic Reduction in Taxes, Fees and Public Intervention («Partito di Anders Lange per una drastica riduzione delle tasse e dell’intervento pubblico»), nel 1989, sotto la guida di Carl Hagen si è trasformato in partito anti-immigrati. Dal 2013 l’FrP, oggi capeggiato da Siv Jensen[46], è entrato a far parte della coalizione di governo guidata da Erna Solberg, del Partito conservatore (chiamato «Høyre», destra).

Da allora l’FrP, che nelle ultime elezioni parlamentari del 2017 ha ottenuto un consenso del 15,2%, ha sempre guidato il ministero della Giustizia, pubblica sicurezza e immigrazione (Mgpsi) gestendo la politica migratoria della Norvegia. Tutti i sondaggi effettuati dagli anni Novanta che chiedevano quale partito avesse la migliore politica migratoria, hanno visto la netta prevalenza del Partito del progresso. Uno dei politici più popolari nel paese è Sylvi Listhaug, ministro dell’Immigrazione fino al 2018, la quale ha dato una svolta alla politica norvegese definendo «tirannia del buonismo» l’approccio europeo verso l’immigrazione e dichiarando che sarebbe stato più cristiano e ragionevole aiutare più gente possibile nei loro paesi attraverso programmi di aiuto.

Per la verità la stretta sulla migrazione non è prerogativa solo della destra: il primo passo in questo senso è stato fatto dal governo laburista di Gro Harlem Brundtland che con l’Immigration Act del 1988 ha gettato le basi per un maggiore controllo frontaliero, facili respingimenti e rimpatri forzati.

Dove nasce la strage di Utoya

L’attentato di Anders Breivik del 22 luglio 2011, che colpì gli uffici del governo e poi portò alla strage di Utoya, non attenuò l’ondata di risentimento anti immigrati che, anzi, si andò rafforzando anche con l’aiuto di una classe intellettuale aggressiva e critica nei confronti della politica nazionale ed europea. Le idee di Peder Are «Fjordman» Nostvold Jensen che avevano nutrito la mente di Breivik sono oggi rappresentate da scrittori come Kent Andersen, che nel 2011 tacciò il Partito laburista di kulturquislinger («traditore della cultura norvegese») affermando che il governo aveva trasformato la Norvegia in una «Disneyland multiculturale»[47].

Tra i politici di destra si è fatto largo anche il concetto di Eurabia, mutuato dai libri di Bat Ye’Or (soprannome di Gisèle Littman) e di Bruce Bawer[48]. Secondo questa teoria l’Europa sarebbe al centro di una manovra islamico-progressista-comunista il cui fine ultimo sarebbe quello di trasformare il continente in una colonia islamica con l’aiuto della stessa Unione europea. Nel 2009 Per-Willy Amundsen, ministro della Giustizia tra il dicembre 2016 e il gennaio 2018, dichiarò che i musulmani sarebbero diventati la maggioranza in Norvegia entro un ventennio.

Nonostante la Norvegia non abbia aderito all’Unione europea, il paese ha comunque condiviso la Convenzione di Dublino generando critiche da parte di quella fetta di popolazione che vorrebbe un isolamento maggiore della propria nazione.

L’immigrazione: numeri e problemi

La Norvegia di oggi è dunque molto distante da quella che nel 1921 ha visto l’esploratore Fridtjof Nansen diventare il primo Alto Commissario per i rifugiati nella Lega delle Nazioni. Dall’inizio del nuovo secolo i governi che si sono succeduti alla guida del paese (qualunque fosse il loro orientamento) hanno adottato la politica della qualità piuttosto che della quantità accettando solo un determinato numero di migranti economici in base alle proprie esigenze e disponibilità di mercato del lavoro, scolastico e abitativo. Il parlamento ogni anno stabilisce un numero massimo di rifugiati che possono essere accolti nel paese, mentre il ministero della Giustizia, pubblica sicurezza e immigrazione (Mgpsi) identifica i paesi di provenienza e la tipologia di rifugiati escludendo a priori coloro che hanno comportamenti e attitudini indesiderate o problemi di tossicodipendenza.

Così nel 2018 il 28% delle domande d’asilo politico è stato respinto (in totale gli immigrati nello stesso periodo sono stati 49.800[49]) mentre 6mila persone senza permesso legale sono state espulse, di cui 5.400 costretti a rientrare a forza nei loro paesi d’origine (4mila per aver commesso un crimine[50]).

Una politica che rigetta l’idea che molti hanno di una Norvegia come paese aperto e accogliente verso chi cerca asilo. L’atteggiamento oggi prevalente è quello utilitaristico mischiato alla retorica dell’«aiutiamoli a casa loro». I migranti economici sono accuratamente scelti tra coloro che dimostrano di essere professionalmente preparati a svolgere determinati lavori perché, come ha detto nel giugno 2018 l’allora ministro dell’Immigrazione Tor Mikkel Wara: «L’immigrazione va a beneficio della comunità solo sino a certi livelli e certe composizioni. Lavoratori con competenze professionali, provenienti da società con valori moderni e liberali, con competenze che sono richieste dal nostro mercato del lavoro sono utili. Ma i benefici si tramutano in danni per i loro stessi paesi, se questi lavoratori professionalmente validi lasciano la loro terra, privando la loro stessa società di elementi validi»[51].

«La vita di famiglia perde ogni libertà e bellezza quando si fonda sul principio dell’io ti do e tu mi dai», scriveva il norvegese Henrik Ibsen[52].

Così la politica migratoria norvegese è dettata da due fattori: la consapevolezza che il welfare ha risorse limitate, ma al tempo stesso il diritto degli immigrati di godere degli stessi diritti e opportunità dei cittadini norvegesi. «Questo è il punto che ci distanzia da altri paesi dell’Europa», spiega Roger Jensen, teologo e direttore del Centro di pellegrinaggio del sentiero di Sant’Olav, a Oslo. «A differenza della Svezia e della Danimarca, che hanno ghettizzato gli immigrati, noi li abbiamo accolti e li abbiamo aiutati a inserirsi nella società diminuendo i fattori di rischio criminalità».

Un’affermazione, quella di Jensen, che non incontra l’appoggio di parte degli abitanti delle periferie cittadine.

In effetti, visitando alcuni quartieri di Oslo, sembra di sentire il già citato Luigi di Ruscio quando scriveva «Ovunque l’ultimo / per questa razza orribile di primi / ultimo nella sua terra a mille lire a giornata / ultimo in questa nuova terra / per la sua voce italiana / ultimo ad odiare / e l’odio di quest’uomo vi marca tutti / schiodato e crocifisso in ogni ora / dannato per un mondo di dannati»[53].

Nel sito document.no, uno dei tanti critici nei confronti dell’immigrazione e che raccoglie le idee degli intellettuali vicini al FrP, sono apparsi diversi articoli sulle baby gang. Un’area particolarmente critica è Drammen, un quartiere dormitorio alla periferia di Oslo dove opererebbero sette bande giovanili in cui «la maggior parte dei componenti è immigrata»[54].

È stato anche criticato il logo stilizzato di Oslo, dove, secondo il sito document.no, «non rimane molto né di St. Hallvard né del simbolismo cristiano (…) così i nostri nuovi connazionali (immigrati e musulmani, ndr) possono identificarsi con il nuovo simbolo. Nessuno si potrà offendere per un logo così anonimo»[55].

Per chi rimane: integrazione e diritti

Dalla fine degli anni Novanta si è introdotto l’obbligatorietà di partecipare a programmi di insegnamento della lingua e della conoscenza culturale, storica e sociale della Norvegia e nel dicembre 2018 il governo ha lanciato il programma Integration through education and competence il cui principale obiettivo è inserire gli immigrati nel mondo del lavoro e nella società attraverso l’istruzione pubblica, il lavoro, l’integrazione sociale e l’educazione civica.

Le nuove regole implementate dal governo impongono agli immigrati dei doveri tra cui la frequenza gratuita a 175 ore di scuola di lingua norvegese e a 50 ore di studi sociali, mentre ai rifugiati politici in possesso di un diploma scientifico e tecnologico dei corsi professionali che li indirizzino verso il mercato del lavoro. A tutti gli immigrati, dopo la schedatura e il test obbligatorio Tbc viene offerto un alloggio temporaneo (nel settembre 2018 c’erano circa 4mila residenti, nel 2016, 13.400). Una persona che aiuta uno straniero a entrare illegalmente in Norvegia rischia fino a tre anni di prigione, mentre chi sfrutta l’immigrazione per profitto rischia fino a sei anni. In cambio agli stranieri vengono garantiti gli stessi diritti dei norvegesi.

Ognuna delle 422 municipalità della Norvegia ha diritto di decidere il numero di rifugiati che ritiene di poter accogliere ogni anno. Nel 2018 meno di 250 municipalità hanno offerto la loro disponibilità (136 in meno rispetto al 2017). Il governo concede ai comuni una somma di denaro per ogni rifugiato accolto per 5 anni (nel 2018 era di circa 80.000 euro per ogni adulto e 75.000 per altri adulti famigliari[56]).

Dopo tre anni di soggiorno nel paese senza aver commesso crimini, dopo aver passato un test di lingua A1 (che richiede tra le 300 e le 600 ore di lezione a carico dell’utente) e uno di storia e legislazione norvegese, il candidato può ottenere la residenza permanente, mentre per la cittadinanza occorre risiedere ininterrottamente nel paese per sette anni senza aver commesso reati gravi e passare il test di lingua A2.

Le politiche di integrazione, da qualunque parte le si guardi, sembra comunque stiano funzionando: nonostante quello che molti esponenti della destra xenofoba vanno dicendo e scrivendo, il rispetto tributato dalla società norvegese verso culture provenienti dall’esterno è contraccambiato dall’amore per la nuova patria da parte degli immigrati. Lo dimostra anche un recente rapporto compilato da Statistics Norway in cui si evidenzia che il 76% dei figli di immigrati che sono nati in Norvegia parlano il norvegese oltre alla lingua dei genitori, ma la quasi totalità degli immigrati di seconda generazione sente come propria nazione e cultura più la Norvegia che il paese dei loro padri.

La lezione che la Norvegia può darci è quella di un paese che, in cambio del rispetto reciproco, è possibile che culture tanto diverse in ambito storico, politico, geografico, religioso possano convivere e progredire per lo sviluppo di una sola comunità dalle mille sfaccettature.

Piergiorgio Pescali


Note

[1] Il friluftsliv è l’abitudine dei norvegesi a spendere il proprio tempo libero all’aria aperta.

[2] Undp, Human Development Indices and Indicator, 2018 Statistical Update: Table 1, pag. 22 e Table 2, 1990-2017 pag. 26.

I versi di Bjornstjerne Bjornson sono tratti da Sidste Sang (L’ultima canzone): «Una volta ho sentito di una festa in Spagna: / Un cavallo brado venne lasciato libero nell’arena, / poi una tigre fuori dalla sua gabbia / si aggirò un po’ intorno di soppiatto, / poi si pose sulla pancia».

[4] Statistics Norway, Economic Survey 2019/1 – Economic Development in Norway, Main economic indicators 2007-2022, pag. 31.

[5] Luigi Di Ruscio (Fermo 1930 – Oslo 2011), La neve nera.

[6] Innovation Norway, Key Figures for Norwegian Tourism 2017, The importance of tourism for Norway, pag 6; pag 10; pag. 30.

[7] Nordli et al. (2014). Long-term temperature trends and variability on Spitsbergen: The extended Svalbard Airport temperature series, 1898-2012, Polar Research (http:// dx.doi.org/10.3402/polar.v33.21349).

[8] Norwegian Polar Institute, SvalGlac: Sensitivity of Svalbard glaciers to climate change, 2010-2016.

[9] Statistics Norway, citato. Vedi anche:
https://www.pre-sustainability.com/news/updated-carbon-footprint-calculation-factors.

[10] Norwegian Ministry of Climate and Environment, Norway’s Climate Strategy for 2030: a transformational approach within a European cooperation framework (2016-2017), 16 giugno 2017, pag. 104.

[11] In Norvegia gli alberi sono suddivisi in cinque categorie dalla I alla V. Solo quando le piante raggiungono la V categoria l’assorbimento di gas serra diminuisce repentinamente e sarebbe quindi necessaria la sostituzione.

[12] Miljødirektoratet, Statens landbruksforvaltning og Nibio (2013) Planting av skog på nye arealer som klimatiltak [Afforestation of new areas as a climate mitigation measure], M26-2013.

[13] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, Capitolo 8. Renewable Energy, §Supply and Demand – Renewable energy in the TPES, pag. 126.

[14] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, 1. General Energy Policy, §Key data (2015 estimates) pag. 15.

[15] European Commission, Directorate General for Energy, Quarterly Report on European Electricity Markets, DG Energy, Vol 11, issue 1, first quarter of 2018, Capitolo 2, pag.7.

[16] International Energy Agency, Key world energy statistics 2018, Selected indicators for 2016, pp. 29-33.

[17] Oggi la Kewet e la sua successiva evoluzione, la Buddy, sono scomparse dal mercato. Avevano un’autonomia massima di 150 km, erano piccole, ospitavano al massimo tre adulti, non avevano bagagliaio e somigliavano ad un Sulky, una minicar squadrata degli anni Ottanta.

[18] Ev, «Electric vehicle», veicolo completamente elettrico che si differenza dal Phev, «Plug-in Hybrid Electric Vehicle», veicoli elettrici ibridi.

[19] https://ofv.no/bilsalget/bilsalget-i-2018

[20] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, citata, pp. 52-53.
L’ibrido (Phev) rappresenta il 40% delle auto elettriche vendute nel 2018, nel 2016 era il 35%.

[21] https://info.nobil.no/eng

[22] La direttiva europea consiglia una colonnina di ricarica ogni 10 Ev; in Norvegia la proporzione è di 0,65 colonnine/Ev.

[23] https://www.numbeo.com/cost-of-living/country_result.jsp?country=Norway

[24] https://www.numbeo.com/cost-of-living/country_result.jsp?country=Norway

[25] https://www.gassnova.no/en/the-government-has-granted-permission-for-co2-storage-in-the-north-sea

[26] http://www.tcmda.com/en/About-TCM/Owners/

[27] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, pag. 9

[28] Il Mar del Nord ha il 51% delle riserve petrolifere, il Mar di Norvegia il 23% e il Mar di Barents il 26%. Dal 2009 l’estrazione di petrolio del Mare del Nord è diminuita del 7%, mentre nel Mare di Barents è aumentata del 7%. La Norvegia aveva nel 2016 80 campi di produzione petrolifera off-shore: 62 nel Mare del Nord, 16 nel Mare di Norvegia e 2 nel Mare di Barents.

[29] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, pag. 66.

[30] Statoil è diventata Equinor il 15 maggio 2018 con la fusione della Statoil con la Norsk Hydro. Il principale azionista è il governo norvegese (67,0%).

[31] A-lab, Statoil Regional and International Offices, §Fakta.

[32] Hillmar Rommetvedt, The Rise of the Norwegian Parliament, Ed. Frank Cass and Company Limited, Londra, 2003, pp. 189-190.

[33] https://www.nbim.no/en/

[34] Guidelines for observation and exclusion of companies from the Government Pension Fund Global.

[35] https://www.f35.com/global/participation/norway

[36] Norge Bank Investment Management, Responsible Investment Government Pension Fund Global, 2018 – Divestments, §Ethical exclusions, p. 113.

[37] Il parlamento norvegese.

[38] Storebrand, Sustainable investments in Storebrand Q4 2018, Companies that Storebrand does not invest in.

[39] https://www.storebrand.no/en/sustainability/exclusions

[40] Niall McCarthy, Oil And Gas Giants Spend Millions Lobbying To Block Climate Change Policies [Infographic], Forbes, 25/03/2019

[41] https://www.reuters.com/article/us-shell-m-a/shell-buying-spree-cranks-up-race-for-clean-energy-idUSKBN1FF1A8; vedi anche:
https://www.theguardian.com/business/2017/nov/28/   shell-doubles-green-spending-vo ws-halve-carbon-footprint
https://energypost.eu/how-attractive-are-renewables-for-oil-companies/

[42] Windeurope, Offshore Wind in Europe-Key and trend statistics 2018, Capitolo 3 – Industry Activity and Supply Chain, §3.2 Wind Farm Owner, febbraio 2019.

[43] worldpopulationreview.com/countries/norway-population/

[44] Espen Thorud, membro OECD, Expert Group on Migration on Norway, Immigration and Integration 2017-2018, 2018, pag. 38 e pag. 6. – Al 31 dicembre 2017, in Italia la popolazione straniera residente era di 5.144.440 su un totale di 60.483.973 abitanti pari all’8,50% (fonte Istat).

[45] Il FrP rifiuta l’etichetta di partito populista.

[46] Siv Jensen è anche ministro delle Finanze nell’attuale governo Solberg

[47] http://www.aftenposten.no/meninger/kronikker/Drom-fra-Disneyland-6270375.html

[48] Ye’or Bat, Eurabia. Come l’Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita, Lindau, Torino 2007. Vedi anche: Bruce Bawer, While Europe Slept: How Radical Islam is Destroying the West from Within, Random House, 2006.

[49] Espen Thorud, citato, pag. 10.

[50] Espen Thorud, citato, pag. 7.

[51] EMN Norway Conference, Challenges – introduction by Tor Mikkel Wara, Oslo, 21 giugno 2018.

[52] Henrik Ibsen, Casa di bambola.

[53] Luigi di Ruscio, Ovunque l’ultimo.

[54] https://www.document.no/2019/03/30/gjenger-gjor-drammen-til-et-helvete-pa-jord/

[55] https://www.document.no/2019/03/31/ny-logo-for-oslo-kommune/

[56] Espen Thorud, citato, pag. 32.




L’euro della discordia


Entrato in circolazione il 1° gennaio 2002, oggi l’euro è la moneta comune di 19 paesi europei. Dopo il dollaro, è la seconda valuta più importante al mondo. La sua storia è però anche una storia di vincitori e vinti. Tra i primi si annovera la Germania, tra i secondi l’Italia.

Testo di Francesco Gesualdi

Il primo gennaio 1999 undici nazioni europee si legarono a un patto di cambi fissi e crearono l’euro. Tre anni dopo vennero stampate anche le relative banconote e la nuova moneta soppiantò lire, franchi, fiorini, marchi, per rimanere l’unica in circolazione nei paesi aderenti al patto. In seguito, altre otto nazioni adottarono la moneta unica, e oggi l’euro è usato in 19 paesi per un totale di 340 milioni di persone.

A livello internazionale è la seconda moneta più importante del mondo dopo il dollaro: copre il 36% dei pagamenti internazionali e costituisce il 20% delle riserve di tutte le banche centrali del mondo. Dunque, quella dell’euro sembrerebbe una storia tutta improntata al successo. Ma, a guardare meglio, è una storia di vincitori e vinti e non per il principio di unificazione su cui la moneta unica si basava, ma per il modo in cui è stata gestita.

L’euro «neoliberista»

Per cominciare è importante capire il contesto ideologico prima che economico. Il segno astrale sotto cui nasce l’euro è quello neoliberista caratterizzato da tre atti di fede: il mercato è la forma suprema di funzionamento dell’economia; il mercato trova da solo i propri equilibri; il privato è bello il pubblico è brutto. Da cui altrettante conclusioni: la concorrenza è il motore dell’economia; le regole vanno eliminate; tutto va privatizzato. Inevitabilmente l’euro nasce non come una moneta di stato al servizio dei bisogni sociali della collettività, ma come una moneta bancaria al servizio del mercato organizzato sulla concorrenza. Nella convinzione che la politica faccia solo danni, il governo dell’euro è affidato a una struttura indipendente, la Banca centrale europea (Bce), gestita dal sistema bancario europeo. Questa ha come mandato esclusivo ciò che più serve al mercato ossia la difesa del valore della moneta tramite il contenimento dell’inflazione. E, per evitare ogni rischio di pressione da parte della politica, che poi significa del popolo visto che la politica è espressione degli elettori, la Bce nasce con il divieto di prestare anche un solo centesimo direttamente agli stati. Neanche il paese più capitalista del mondo, ossia gli Stati Uniti, è arrivato a tanto dal momento che, tra gli scopi della Federal Reserve, la banca centrale statunitense, è compresa la piena occupazione mentre sono previsti rapporti finanziari diretti fra questa e il governo statunitense.

Nessuna svalutazione, massima concorrenza

Oltre a una gestione totalmente privatistica dell’euro, l’altro grande elemento che caratterizza gli effetti della nuova moneta è il regime di massima concorrenza in vigore nell’Unione europea. Per la verità l’Europa nasce come un progetto di unione doganale, ossia come spazio di libero scambio dentro il quale merci e servizi possano circolare senza ostacoli tariffari. Un conto è però avere un’unione doganale con monete differenziate, un altro un’unione doganale che è anche unione monetaria. Da un punto di vista tariffario fra le due situazioni non c’è differenza: in entrambi i casi le vendite sono regolate dalla concorrenza, ossia dalla capacità delle imprese di farsi spazio producendo beni di qualità crescente a prezzi sempre più bassi. Ma in un regime di monete nazionali, in caso di cattiva parata, le nazioni possono ridurre artificialmente i prezzi dei propri prodotti ricorrendo alla svalutazione. Con la moneta unica questa possibilità viene meno e la concorrenza diventa l’unica modalità di confronto tra le imprese. Se sei capace di produrre roba buona a prezzi bassi ti fai spazio, altrimenti sei sopraffatto. E nessuno viene in tuo aiuto. In definitiva adottare una moneta unica è come spalancare le gabbie dello zoo: le bestie più forti possono saccheggiare le gabbie delle bestie più deboli senza che intervenga alcun guardiano. Che tradotto significa piena possibilità per le imprese più forti di penetrare nei mercati delle imprese più deboli e portarsi via i loro clienti.

Perché la Germania stravince

Da un punto di vista della forza industriale, l’Europa è sempre stata a due velocità con un Nord più forte e un Sud più debole, un po’ come è l’Italia. E, tra i paesi del Nord, quello che ha sempre avuto il ruolo di leader è la Germania, pur avendo anch’essa i suoi alti e i suoi bassi (come in questo momento storico). Per la verità se guardiamo l’interscambio fra Italia e Germania, troviamo che prima del 1985 l’Italia era in vantaggio, poi la situazione si è rovesciata e l’Italia è rimasta in uno stato di permanente disavanzo verso la Germania. Ad esempio, nel 2018 ha esportato verso la Germania beni per 55 miliardi di euro, mentre ne ha importati per 65 miliardi. Va detto, tuttavia, che la Germania trionfa non solo in Europa, ma nel mondo intero. Con 1.400 miliardi di dollari di esportazioni (al 2017) contende agli Stati Uniti il secondo posto fra gli esportatori mondiali, dopo la Cina. Ma mentre gli Stati Uniti registrano un debito commerciale nei confronti del resto del mondo pari a 566 miliardi di dollari, la Germania registra un avanzo di 250 miliardi.

Indiscutibilmente il successo tedesco ha subìto un’accelerazione con la nascita dell’euro. E se nel 1999 aveva un saldo commerciale negativo pari all’1,7% del Pil, nel 2008 lo troviamo positivo del 6,8% per raggiungere il 7,6% nel 2016.

Altrettanto indiscutibilmente una forte spinta è provenuta dalle riforme del lavoro, realizzate tra il 2002 e il 2005, che vanno sotto il nome di riforme Hartz (in tedesco Hartz-Konzept), dal nome del suo proponente. Oltre a una maggiore libertà di licenziamento, esse comprendevano l’ampliamento delle forme di assunzione, ivi compresi i mini-jobs retribuiti in forma forfettaria con salari non superiori ai 450 euro mensili. Inoltre, con l’ingresso nell’Unione europea dell’Ungheria e di altri paesi dell’Est, la Germania ha anche potuto trarre vantaggio dall’esportazione di fasi produttive in questi paesi che hanno un costo del lavoro anche dieci volte più basso. Tuttavia, non si può neanche tacere il ruolo della formazione e degli investimenti in sviluppo e ricerca, che hanno permesso alle imprese tedesche di accrescere considerevolmente la loro produttività e, quindi, di ridurre i prezzi pur aumentando i salari.

Vincitori e vinti secondo l’istituto tedesco Cep

A tutto questo, molti però aggiungono che la fortuna della Germania è stata costruita anche sull’uso di un euro che, essendo ancorato all’economia di un continente che non ha la sua stessa solidità, di fatto è sottovalutato rispetto alle capacità produttive tedesche. Come dire che la Germania usa uno strumento monetario truccato che la rende artificiosamente più competitiva. Seppure sia impossibile stabilire quanta parte del successo tedesco sia imputabile all’uso di un euro sottovalutato, rimane il calcolo del centro studi tedesco Cep (Centrum für Europäische Politik) secondo il quale l’ingresso nell’euro ha permesso alla Germania di accrescere la propria ricchezza di 1.893 miliardi di euro dal 1999 ad oggi, 23mila euro in più per ogni cittadino tedesco. Per contro, l’Italia sarebbe quella che ci ha rimesso di più: in 20 anni avrebbe perso 4.325 miliardi di euro, 73.605 euro in meno per ogni italiano (numeri visibili nei due grafici, ndr).

Lo studio non è molto chiaro sui criteri di calcolo, per cui si tratta di numeri da prendere con le pinze. È innegabile, tuttavia, che l’euro abbia giocato (e giochi) un ruolo frenante nei confronti dell’Italia, non solo perché – non potendo svalutare – il nostro paese ha perso quote di mercato interno a favore di una Germania più competitiva, ma soprattutto perché si è dovuta piegare alle politiche di austerità imposte dall’Europa in nome dell’alto debito pubblico. Lo stesso Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, in un discorso tenuto a inizio anno al Parlamento europeo ha parlato di «austerità avventata» da parte dell’Europa. Austerità che, per l’innalzamento delle tasse e la riduzione delle spese da parte dello stato, ha provocato una pesante battuta d’arresto nella domanda di beni e servizi aggravando la recessione messa in moto dalla crisi finanziaria mondiale.

Uscire dall’euro?

Nonostante tutto, sembra che la domanda se rimanere o uscire dall’euro non si ponga più, in quanto la maggior parte degli italiani sembra propensa a restare temendo che, in caso di uscita, le perdite possano essere superiori ai vantaggi.

Ciò non toglie che si debba fare una battaglia più ampia per chiedere una diversa gestione dell’euro perché questo è il vero nodo da affrontare se vogliamo mettere fine all’austerità che ancora ci perseguita.

Il punto da cui partire è che si sono raccontate molte falsità rispetto al nostro debito pubblico, la principale delle quali è che siamo indebitati perché abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. La verità è che non siamo stati capaci di tenere la corsa con gli interessi e ogni anno accendiamo nuovo debito per pagare gli interessi non coperti dal risparmio realizzato dalla pubblica amministrazione. Questa storia non può durare in eterno. Non si può continuare all’infinito a farci mungere per arricchire banche, assicurazioni e altri investitori. La montagna di interessi che abbiamo pagato a questi signori dal 1980 a oggi supera i 2.000 miliardi di euro. Fin dove vogliamo arrivare?

Azzerare il debito pubblico

L’unico modo per uscire da questo meccanismo infernale è azzerare il nostro debito pubblico, ma togliamoci dalla testa di poterlo fare pagandolo: è diventato troppo grande per essere ripagato. Esso potrebbe essere azzerato solo buttandolo sulle spalle della Banca centrale europea, l’unica che può caricarsi di debiti senza rischiare di subire ricatti. Come massima autorità capace di emettere moneta non rischia di fallire, né di subire attacchi speculativi, mentre può gestire interessi e capitale con una varietà di strumenti molto più ampia di quelli a disposizione dei governi. Vari studi hanno dimostrato la fattibilità di questa ipotesi, ma il vero ostacolo sono i trattati europei che escludono ogni possibilità di coinvolgimento diretto della Bce con i debiti pubblici. Dunque, è da qui che bisogna partire. Ma i nostri rappresentanti politici vogliono farlo? Un modo per capirlo è chiedere ai candidati delle prossime elezioni europee (23-26 maggio 2019) come pensano che vada gestito il debito pubblico. Se vi rispondono che la strada è la crescita, diffidate: è il paravento che tutti usano per imporci la solita vecchia ricetta dell’austerità che tanto ci danneggia. La soluzione è in mano all’Europa, ma verrà solo se essa sarà rifondata. Ora che stiamo per andare a votare anche noi possiamo decidere quale Europa vogliamo.

Francesco Gesualdi