Shashamane, la Terra promessa


Testo di ENRICO CASALE, foto di JUSTINE BOULO/ AFP |


Nel 1930 in Etiopia viene incoronato imperatore Hailè Selassiè. Negli stessi anni, nei Caraibi, nasce un movimento della diaspora afro che guarda al negus come al messia. Lui concede una terra a chi voglia fare ritorno in Africa. Inizia così l’utopia del ritorno della diaspora africana.

Dimentichiamo, almeno per un momento, Bob Marley, i dreadlocks e la marijuana. E invece di rincorrere gli stereotipi che inseguono i rastafariani, torniamo indietro nella storia. Shashamane, la città dei rasta in Etiopia, è il simbolo di un’utopia nata negli anni Trenta, quella del grande ritorno della diaspora delle popolazioni nere alla loro madrepatria, Africa. Un’utopia, appunto. Ma come tutte le utopie ha un suo fascino e questa, per di più, è ancora viva e i rastafariani sono ancora lì. Nonostante le persecuzioni e le difficoltà vissute negli anni.

AFP PHOTO / Justine Boulo

Un esempio anticoloniale

L’Etiopia del negus Hailè Selassiè è un modello: uscita vittoriosa dalla guerra contro l’Italia è un paese (quasi) mai colonizzato. Con una cultura e una fede sviluppate in secoli di indipendenza. Un esempio virtuoso per tutti i paesi che stanno cercando di superare la dolorosa esperienza del colonialismo e inseguono l’autodeterminazione e l’indipendenza. Non solo in Africa. In Giamaica, già dagli anni Trenta, si è sviluppato un movimento che guarda proprio all’Etiopia e al suo imperatore, come a un esempio da seguire nella lotta di emancipazione delle popolazioni nere dei Caraibi. Si fanno chiamare rastafariani, dal nome che Hailè Selassiè aveva prima di essere incoronato (ras Tafari Mekonnen). Il negus non è insensibile al richiamo di chi vede nell’Africa la propria «Terra promessa» e in lui un nuovo messia. Nel 1948 decide così di assecondare il loro progetto di rientrare, e dona all’Ethiopian World Federation un terreno di 500 ettari nei pressi della città di Shashamane, 250 chilometri a Sud della capitale Addis Abeba.

Per i rastafariani si materializza un sogno. In molti, soprattutto giamaicani, lasciano casa, occupazione e parenti per trasferirsi in Etiopia. Priest Paul era uno di essi e oggi è uno degli ultimi anziani che hanno compiuto il viaggio di ritorno. «L’Africa – osserva Priest Paul – è un crogiolo di civiltà. In Giamaica c’erano divisioni politiche che non potevo più accettare e che mi hanno convinto a lasciare l’isola. L’Etiopia stimolava e stimola la nostra creatività».

I primi arrivati si dedicano all’agricoltura e al piccolo commercio. Vivono insieme agli etiopi, anche se si distinguono per la lingua (parlano il creolo giamaicano) e per la fede. Nonostante qualche diffidenza reciproca, i rapporti con la popolazione locale sono buoni.

Cambio di registro

Le nuvole però si addensano sulla piccola, ma attiva, comunità rastafariana di Shashamane. Nel 1974, un colpo di stato organizzato da un gruppo di ufficiali filomarxisti abbatte la millenaria dinastia salomonide. Hailè Selassiè viene detronizzato e ucciso. I dirigenti del Derg, il movimento salito al potere, non vedono bene quegli strani personaggi così legati al vecchio regime. «Non ci fu un vero e proprio piano per l’eliminazione o la cacciata dei rastafariani – spiega Renato Twelde Berhane, un rastafariano italiano, musicista e linguista, che per anni ha vissuto a Shashamane e lì torna abitualmente -. I governanti comunisti hanno però messo in atto piani di espropri delle terre e delle proprietà dei rasta. Alcuni sostengono che siano state confiscate l’80% delle proprietà. Forse il dato è eccessivo, ma certamente più del 50% delle terre e delle case fu portato via ai rastafariani. Ci furono anche violenze diffuse, ma non sistematiche». Quelli del Derg sono tempi duri. Molti rastafariani tornano nei loro paesi, ma il negus rosso, come veniva chiamato il dittatore Menghistu Hailè Mariam, non riesce a sradicare la comunità da Shashamane. Quel luogo rimane nell’immaginario collettivo della comunità rastafari un luogo simbolico e profetico.

Ritorno alla Terra promessa

Caduto il Derg, nel 1992 viene festeggiato in modo grandioso il centesimo anniversario della nascita di Hailè Selassiè. In quel momento, i rastafariani capiscono che un ritorno è di nuovo possibile e si registra una forte crescita degli arrivi. «Oggi – continua Renato Twelde Berhane -, a Shashamane vive circa un migliaio di rastafariani. Ormai non provengono più solo dalla Giamaica o dai Caraibi, ma anche da altri paesi nel mondo: Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Stati Uniti e anche Italia. Quando parlo di un migliaio di persone intendo quelli che vivono lì stabilmente. In città poi ci sono continui arrivi e partenze di persone che vanno e vengono dal paese di origine. Quantificare il loro numero è difficile, ma sono comunque moltissimi. La comunità è sempre viva ed è innestata da nuovi arrivi che ne arricchiscono la dimensione spirituale e sociale». I rastafariani sono sempre molto attivi nell’agricoltura e nel commercio locale. Molti di essi però hanno sviluppato anche imprese di import-export con i paesi di provenienza. Altri si sono dedicati al turismo. Sfruttando i contatti nei loro paesi di origine, organizzano tour in Etiopia con una tappa fissa a Shashamane.

La comunità rastafari è molto riservata, ma l’integrazione con la popolazione locale è buona. «Non ci sono problemi con la popolazione locale – osserva Renato Twelde Berhane -. I rapporti sono così buoni che molti ragazzi di famiglie etiopi studiano l’inglese-giamaicano che poi usano come lingua franca per parlare con i rastafariani. Il 2 novembre, anniversario dell’incoronazione di Hailè Selassiè, si è tenuta una grande festa a Shashamane con molti ospiti internazionali. Erano presenti anche le autorità locali e quelle religiose che ci hanno reso omaggio».

AFP PHOTO / Justine Boulo

I rasta e la Chiesa

Anche le relazioni con la Chiesa ortodossa etiope sono buone. I rastafariani riconoscono l’importanza della tradizione ortodossa. «Non vengono fatte celebrazioni comuni, però molti rastafariani fanno battezzare i propri figli da sacerdoti o monaci ortodossi – spiega Renato Twelde Berhane -. Io sono sposato con una ragazza etiope. Mio suocero, che è stato uno dei primi giamaicani arrivati qui, ha fatto battezzare tutti i suoi figli, mia moglie compresa, da sacerdoti ortodossi. I rastafariani sono rispettosi della Chiesa etiope perché sanno che Hailè Selassiè era il protettore dei copti etiopi e quindi nell’istituzione ecclesiastica locale vedono le proprie radici e un legame indissolubile».

Dopo la tempesta del Derg, anche i rapporti con le autorità politiche sono progressivamente migliorati. Finora i rastafariani erano considerati poco più che immigrati illegali e non avevano documenti etiopi. Si erano quindi generate situazioni paradossali. «Mia moglie – racconta Renato Twelde Berhane – è nata in Etiopia da un giamaicano. Finora non era mai stata riconosciuta come etiope e il suo passaporto era quello giamaicano, nonostante in Giamaica non ci fosse mai stata. Oggi le autorità locali hanno iniziato a distribuire carte d’identità e permessi di soggiorno. Ma temo che ciò sia funzionale alla delicata situazione interna…».

Shashamane si trova infatti nell’Oromia, una regione che, negli ultimi anni, è stata scossa da rivolte contro il potere centrale di Addis Abeba. Finora i rastafariani sono stati risparmiati dalle violenze, ma l’instabilità ha portato a un rallentamento degli arrivi e delle attività. «Per placare le tensioni – osserva Renato Twelde Berhane – le autorità hanno inviato forze dell’ordine ed esercito e hanno cercato la collaborazione di tutte le comunità presenti. Attualmente la situazione si è calmata. Speriamo che non si riaccendano le tensioni e che la nostra comunità debba soffrire nuovamente la repressione subita ai tempi del Derg».

Nel frattempo i rastafariani continuano a professare la loro particolare visione del cristianesimo. «La nostra – spiega un rastafariano – è l’unica via per la redenzione e la salvezza dell’uomo. Invochiamo il ritorno a una vita pura e semplice, come richiesto dalle Sacre Scritture. Rifiutiamo i vizi capitali, la società corrotta e perversa dell’uomo bianco. Condanniamo la gelosia, l’invidia, il rancore, l’avidità, lo sfruttamento. E predichiamo un sistema di valori alternativo basato sull’amore e sulla fratellanza». Oltre ai dreadlock e al fumo, c’è di più.

Enrico Casale


Intervista al responsabile spirituale dei rastafariani italiani

La seconda venuta di Cristo

I rastafariani si rifanno alla tradizione cristiana, nella sua lettura etiope ortodossa. Per loro Hailè Selassiè, il «re dei re» dell’Etiopia, è Gesù ritornato sulla terra.

Carmelo Crescenzi ha 60 anni. È un membro storico della Federazione delle assemblee rastafari in Italia, di cui è stato presidente. Oggi è responsabile spirituale della comunità rastafariana nel nostro paese. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente.

Da quanti anni esistono comunità rastafari in Italia?

«Il primo nucleo di rastafariani ha iniziato a riunirsi, lavorare e vivere insieme alla fine degli anni Settanta del secolo scorso. Oltre a un percorso di fede, portavamo avanti anche un discorso culturale. La nostra comunità pubblicava «Lion of Lions», una rivista artigianale che distribuivamo a chi la richiedeva e, negli anni, abbiamo anche dato vita ad altre pubblicazioni attraverso le quali cercavamo di spiegare la nostra fede».

Avete avuto e avete tuttora rapporti con altre organizzazioni simili in Europa e negli altri continenti?

«Fin dagli inizi, i rastafariani italiani, viaggiando, hanno preso contatti con correligionari in Gran Bretagna, dove le comunità erano più grandi, ma anche in Francia, Germania, Spagna e, ovviamente, in Giamaica. In generale, i rapporti sono sempre stati buoni, anche se non vanno nascosti alcuni dissidi. Come in tutte le comunità religiose, anche tra noi ci sono state discussioni, a volte aspre, sui temi teologici».

Negli anni la vostra comunità è cresciuta…

«Sì siamo cresciuti. Come Federazione delle assemblee rastafari in Italia, raggruppiamo una quarantina di fedeli che vivono in tutta la penisola (Roma, Milano, Torino, ecc.). Attorno a noi ci sono poi vari gruppi di amici e simpatizzanti che spesso partecipano alle nostre iniziative. Oltre alla nostra federazione, ci sono altre presenze rastafari in Italia, ma non li rappresentiamo e non vogliamo parlare a nome loro».

Quali sono i vostri riferimenti teologici?

«Le nostre radici affondano nella tradizione cristiana come viene letta dalla Chiesa ortodossa etiope. Quindi noi ci rifacciamo alle Sacre scritture cristiane e, negli anni, abbiamo anche condotto studi sulla patristica (Crisostomo, Atanasio, Gregorio, ecc.). Centrale, però è la figura di Hailè Selassiè, l’ultimo negus neghesti (re dei re) dell’Etiopia, che noi riconosciamo non come un nuovo Dio, ma come Cristo nella sua seconda venuta. Noi crediamo che, dopo questa seconda venuta, si attui un regno millenario al termine del quale ci sarà un giudizio finale. Il regno millenario è quello che stiamo vivendo ed è iniziato nel 1930 con l’incoronazione di Hailè Selassiè».

Avete relazioni con altre Chiese cristiane?

«Le relazioni più strette sono, per ovvi motivi, quelle con la Chiesa ortodossa etiope e con la comunità etiope in Italia. Spesso facciamo iniziative insieme. Molti di noi hanno ricevuto il battesimo da monaci o sacerdoti ortodossi e fanno battezzare i loro figli. Abbiamo relazioni anche con le altre comunità cristiane. Non abbiamo né preclusioni né pregiudizi».

Quali rapporti avete con l’Etiopia?

«I rapporti sono stretti. Molti di noi si recano periodicamente in Etiopia, un paese al quale siamo legati perché lì ha regnato Hailè Selassiè e ci sono molte istituzioni a lui legate. Andare in Etiopia è come raggiungere la Terra promessa, la nostra Terra santa. Anche se più che il rientro fisico in Etiopia, conta il rapporto spirituale con la nostra fede e con la nostra tradizione».

Enrico Casale




Diminuiscono gli ortodossi nel mondo


Nel 1910 un cristiano su cinque nel mondo era ortodosso, il 20%. Cento anni dopo solo uno su otto, il 12%. Mentre i cattolici e i protestanti sono quadruplicati, passando da 490 milioni complessivi nel 1910 a 1,9 miliardi nel 2010, gli ortodossi sono «soltanto» raddoppiati, da 125 milioni agli attuali 260.

Sono questi alcuni dei dati che si trovano nel rapporto «Orthodox Christianity in the 21st Century» (I cristiani ortodossi nel 21° secolo) pubblicato oggi dal Pew research center.

Ma da cosa dipende questa differenza tra il ramo ortodosso della cristianità e gli altri due? Il Pew Center risponde che il motivo principale è la crescita di cattolici e protestanti fuori dai confini dell’Europa, potremmo dire l’azione missionaria. Mentre, infatti, i cristiani ortodossi sono, ancora oggi, prevalentemente europei (il 77%) – nonostante il caso particolare dell’Etiopia che da sola ne conta 36 milioni, costituendo la fetta di ortodossi in maggiore crescita -, i cattolici e i protestanti attualmente sono in gran parte in America Latina, Africa Subsahariana e Asia, cioè i continenti con maggiore crescita demografica. In particolare, oggi si trova in Europa il 24% dei cattolici e il 12% dei protestanti. Nel 1910 la quota per entrambe le confessioni era del 50% circa.

Al «caso» degli ortodossi etiopi il Pew center dedica ampio spazio nella sua ricerca, soprattutto per sottolinearne la singolarità. La chiesa ortodossa etiope si distingue dalle altre, oltre che per la sua storia che affonda le radici nella predicazione di un viaggiatore di Tire (in Libano) chiamato Frumentius, nel quarto secolo dopo Cristo, per la grande osservanza dei suoi fedeli. La maggior parte degli ortodossi vive, infatti, in paesi ex sovietici che presentano livelli bassi di religiosità: in Russia, paese in cui risiede la più grande popolazione ortodossa al mondo (101 milioni), solo il 6% dei fedeli afferma di frequentare la chiesa almeno una volta alla settimana e solo il 15% dice che la religione è «molto importante» nella sua vita. In Etiopia va in chiesa almeno una volta alla settimana il 78% dei cristiani ortodossi, mentre afferma che la religione è «molto importante» nella sua vita il 98%.

Tra gli altri dati interessanti illustrati dal report c’è quello che riguarda l’opinione degli ortodossi circa l’omosessualità: la maggioranza (a eccezione degli ortodossi greci e statunitensi) sostiene che non dovrebbe essere accettata; quello che mostra un’opinione fortemente negativa a riguardo del sacerdozio femminile e quello che descrive un’apertura (sebbene non maggioritaria) nei confronti di una possibile comunione con la chiesa cattolica romana.

Luca Lorusso




Etiopia: Addis Abeba capitale d’Africa


Un paese in forte crescita dove grandi restano le disuguaglianze. La capitale si espande e si dota di modee tecnologie. Ma le tradizioni permangono radicate, come l’orgoglio di un popolo mai colonizzato. E adesso si avverte una massiccia penetrazione cinese. Impressioni di un visitatore speciale.

A volte è difficile tornare in un posto che si è amato. Si ha paura di rovinae la memoria bella e intensa che per molto tempo si è serbata con piacere, e che spesso si è utilizzata per ravvivare certi periodi un po’ spenti. Si teme che questo ricordo svanisca, che quel posto perda il suo fascino particolare e diventi come tutti gli altri.

È un po’ come quando si deve rincontrare una persona speciale dopo tanti anni, e si ha il timore che adesso la si sentirà come una qualunque.

Se c’è una cosa che colpisce sempre, giungendo ad Addis Abeba, è la vicinanza dell’aeroporto al centro. Appena il tempo di svolgere le formalità di sbarco, e ci si trova immersi nella capitale d’Africa, con il suo traffico caotico e le sue sfilate di palazzoni che stanno crescendo come funghi. Questo però me l’aspettavo, perché non c’è rivista o sito specializzato che abbia ignorato la vorticosa trasformazione urbanistica della metropoli etiope, del resto comune a molte città africane. Tuttavia, sfogliando i giornali non si può immaginare la sensazione che si prova nel trovarsi di fronte a una serie di condomini in costruzione a perdita d’occhio.

zorloni-etiopia-25

Orgoglio di popolo

Tredici anni fa ero rimasto a bocca aperta nel visitare le straordinarie chiese di Lalibela, i castelli di Gonder, le stele di Aksum. Tuttavia, ciò che in Etiopia mi aveva colpito non si limitava alle ricche vestigia del passato, ma era stato il senso di nazione, l’orgoglio di popolo, l’attaccamento alla propria storia e alla propria cultura. A differenza degli altri stati africani nei quali avevo fin lì operato, in Etiopia non avevo riscontrato malcelati sensi d’inferiorità, rancori o impulsi di rivalsa. In altri termini, non ci avevo trovato quell’eredità strisciante del colonialismo che spesso si manifesta con un timore inconscio di non essere messi sullo stesso piano degli occidentali, di essere considerati «inferiori», e che provoca una spinta compulsiva a farsi continuamente sentire, in un modo o nell’altro.

Gli etiopi non sono mai stati colonizzati, e i cinque anni di occupazione italiana non ne hanno minimamente intaccato l’«etiopicità». Anzi, come è avvenuto per tutti gli attacchi che il paese ha dovuto affrontare nel corso della storia, la volontà di resistere al colonialismo fascista l’ha sicuramente rinforzata.

Nuovi rischi

L’Etiopia, nel suo affascinante percorso storico, è riuscita a passare indenne attraverso mille vicissitudini, trasformandosi senza mai snaturarsi. Ma ora, che il paese si è spalancato agli investimenti cinesi, le sue terre sono avvilite dal land grabbing (accaparramento delle terre da parte di multinazionali straniere, ndr), le sue tradizioni sottoposte alla lente banalizzante del turismo di massa, l’etiopicità riuscirà a conservarsi? Si troveranno ancora tracce della «restaurazione ciclica» di un sistema feudale che sembra costituire, nelle sue forme sempre cangianti, una costante della storia etiope? La scomparsa del carismatico primo ministro Meles Zenawi, ex guerrigliero e padre dell’originale federalismo su base etnica, sostituito nel 2012 dal più «anonimo» Haile Mariam Desalegn, interromperà la serie di «imperatori de facto» che si sono succeduti alla guida del paese?

Al mio ritorno, fin dai primi passi ritrovo subito quella tipica capacità etiope di «accogliere questo ma non quello», che avevo spesso riscontrato. Nemmeno due anni fa, il mondo degli affari si era stupito della decisione del governo di Addis Abeba che aveva messo sul mercato titoli pubblici a scadenza decennale (subito andati a ruba) per l’ammontare di un miliardo di dollari. Tuttavia, nonostante tale apparente apertura alla «modeità», in Etiopia si vedono solo insegne di banche locali. Molte hanno aperto una filiale nella zona del Merkato, l’esteso quartiere nel quale si vende di tutto. A dispetto delle migliaia di piccoli commercianti che trascorrono le giornate seduti per terra a contrattare la loro povera merce con avventori di varia estrazione sociale, in questo rione si concludono affari milionari.

Tra i fasci di povere galline legate fra loro e i mucchi di vestiti usati, trovo anche le mele dell’Alto Adige, a un prezzo decisamente elevato. Ma chi le comprerà mai? Non faccio in tempo a chiedermelo, ed ecco un anziano signore acquistarle senza batter ciglio.

Rivedo dunque un’altra caratteristica etiope: l’assenza di una netta separazione fra livelli di reddito molto diversi, ben visibile anche nell’organizzazione (o disorganizzazione…) urbanistica della capitale. Priva di un vero e proprio centro, alterna modei edifici di 20 piani a piccoli agglomerati di tuguri, senza che si possa parlare di quartieri ricchi e quartieri poveri. Quest’assenza di ghetti le consente di avere un tasso di delinquenza decisamente basso, specie se comparato a quello delle sue «sorelle» africane. Ad Addis Abeba, infatti, si può tranquillamente passeggiare a tutte le ore. E i suoi abitanti, che durante il giorno si dedicano a ogni tipo di attività per sbarcare il lunario, conferendo alla metropoli un aspetto brulicante, alla sera non disdegnano ritrovarsi con gli amici negli onnipresenti locali in cui si ascolta musica, per lo più etiope.

La domenica, invece, oltre a partecipare alle cerimonie ortodosse e incontrare i parenti, migliaia di giovani corrono o improvvisano partite di calcio negli spiazzi erbosi ancora rimasti fra un quartiere periferico e l’altro, dove sorgono orti e pascolano bovini. Appassionato di atletica, vado a farci una corsa anch’io, anche se la mia età è un po’ meno verde e i 2.400 metri di altitudine si fanno sentire. Tuttavia, è una buona occasione per relazionarmi in maniera più agevole di quanto solitamente avvenga nelle altre nazioni del continente. Qui, infatti, mi trattano tutti alla pari, e nessuno sembra guardarmi come un «bianco», ma tutt’al più come uno dei tanti stranieri che giungono da ogni dove.

zorloni-etiopia-01

Le grandi opere

Nei programmi del governo, lo sviluppo del paese dovrebbe basarsi in larga parte su una serie di grandi opere, la più mastodontica delle quali risulta essere la Grand Ethiopian Renaissance Dam, cioè la Grande Diga del Rinascimento Etiope: un ciclopico muraglione alto 175 metri e largo 1.800, che sbarrerà il Nilo Azzurro prima di entrare in Sudan, formando un bacino di oltre 1.500 km2 (cioè come mezza Valle d’Aosta). Con le sue 16 turbine che potranno sviluppare una potenza di 6mila megawatt, vi sorgerà la centrale idroelettrica più grande d’Africa, l’undicesima al mondo. Fra mormorii e sospetti per l’assenza di gara d’appalto, l’incarico per la costruzione di quest’opera faraonica, ormai completata per più di metà, è stato assegnato all’italiana Salini Impregilo. Nulla di nuovo, quindi, rispetto a quanto già accaduto nella Valle dell’Omo. Assommando le altre aziende estere che foiranno le varie componenti, il costo totale dovrebbe ammontare a 4,8 miliardi di dollari, dei quali 1,8 finanziati dalla Cina e i rimanenti tre a carico dell’Etiopia stessa. C’è dunque da attendersi ulteriori emissioni di bond da parte del governo di Addis Abeba. Resta da vedere cosa accadrà quando questi, con il loro tasso d’interesse superiore al 6,5%, giungeranno a scadenza fra 10 anni.

Secondo l’esploratore scozzese James Bruce, che aveva visitato il paese nel ‘700, il mitico re etiope Lalibela aveva progettato già 8 secoli fa la costruzione di alcune dighe sul Nilo Azzurro, con lo scopo di ostacolare l’irrigazione delle terre d’Egitto, così da affamarlo e poterlo facilmente conquistare. Non si sa se tale piano sia mai stato realmente concepito, ma adesso che il fiume viene davvero sbarrato, è proprio il governo del Cairo a sollevare le principali obiezioni. Il Sudan, da parte sua, vede la diga di buon occhio poiché si trova a metà fra Khartoum e Addis Abeba, e l’energia elettrica prodotta raggiungerà entrambi i paesi. Ma l’Egitto, seppur dovrebbe anch’esso beneficiae, non è così sicuro che l’operazione sarà conveniente, anche perché vedrà diminuire la sua percentuale di sfruttamento del grande corso d’acqua. In passato, i governi Hosni Mubarak e Mohamed Morsi avevano proferito aperte minacce, ma ora la situazione, seppur fra mille discussioni e contrasti, pare un po’ più tranquilla. In ogni caso, l’Etiopia non ha mai vacillato nella sua idea di portare a termine l’impresa, costi quello che costi.

zorloni-etiopia-26

L’ossessione per le guerre

Dopo il conflitto fratricida con l’Eritrea, negli ultimi tre lustri l’«ossessione» etiope per le guerra sembra essersi affievolita. Ma un giovane militare con il quale mi trovo a chiacchierare, mi offre un esempio della storica fierezza dei combattenti locali. Quando, davanti al suo kalashnikov che esibisce in bella mostra, gli dico scherzosamente di non spararmi, per tutta risposta si fa serio e mi ribatte piccato: «Non sono mica un pericolo pubblico, sono un soldato della Repubblica Federale d’Etiopia e sono stato addestrato a comportarmi in modo professionale!». Molti si chiedono come mai, nonostante le numerose azioni incisive portate avanti da reparti etiopi in Somalia, il paese non abbia subito attacchi terroristici della portata di quelli registrati nel vicino Kenya, anch’esso militarmente impegnato oltreconfine.

Trovandomi ad Addis Abeba, non posso rinunciare a un giro sull’ultima novità: la prima metropolitana dell’Africa subsahariana, entrata in servizio nel settembre 2015 e costata 475mila dollari. Oltre alla costruzione e alla foitura del materiale rotabile, Pechino si sta occupando anche del funzionamento: per un paio d’anni, i macchinisti alla guida dei treni saranno cinesi, gradualmente sostituiti da personale etiope sotto loro sorveglianza.

Percorro poi la nuova autostrada verso Sud e, di fronte ai carrettini e agli asinelli che procedono contromano, mi chiedo quante persone beneficino davvero di tali investimenti. Infatti, dopo più di un decennio con tassi di crescita del Pil mediamente superiori al 10%, ci si trova ancora di fronte a una maggioranza della popolazione, che ormai raggiunge i 100 milioni di abitanti, costretta a vivere con meno di due dollari pro capite al giorno. Una grande povertà, ma anche una forte capacità di accoglienza dei profughi (calcolati in circa 750mila persone), che ha stupito il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella durante la visita di stato del marzo scorso. In capitale, dove giungono molti mendicanti, sempre più persone si scostano dalle indicazioni sia ortodosse sia musulmane, per le quali ogni soldo donato sarà lautamente ricompensato in paradiso, ma pretendono che il governo sia più incisivo nei programmi di lotta alla povertà, in modo da evitare che molti bambini non vedano altro futuro che l’accattonaggio.

Seppur fra mille cambiamenti, posso affermare di aver ritrovato l’Etiopia di sempre, con le sue meraviglie e i suoi orrori, che offre fascino o sgomento a seconda di come la si guardi. Quell’Etiopia difficile da inquadrare, soprattutto se ci si ostina a utilizzare i consueti parametri statistici. Si tratta infatti di un paese nel quale, in statistica, possono anche coesistere diverse quote superiori al 50% nello stesso conteggio, o i cui confini interni risultano alquanto elastici, così come certe regole grammaticali. Basta ad esempio chiacchierare con le persone, per capire che la maggioranza della popolazione può essere cristiana, oppure musulmana, a seconda dell’interlocutore. E basta mettere in atto delle iniziative in certi villaggi, per accorgersi di come questi cambino di regione a seconda che si tratti di ricevere fondi per lo sviluppo o essere sottoposti a tassazioni. Chi poi non riesce a lavorare senza avvalersi di supporti informatici, può sempre impazzire a trovare delle traduzioni univoche per trasferire i nomi propri delle località dall’amharico (con i suoi 260 segni sillabici) al nostro scao alfabeto.

Insomma, oggi come ieri, risulta pienamente valida l’affermazione, espressa nel 1968 dal linguista eritreo Abraham Demoz: «L’Etiopia è la disperazione del classificatore compulsivo».

Repressioni estive

Nel momento in cui scrivo, giungono notizie delle ennesime manifestazioni soffocate nel sangue. Sarebbero oltre 100 i morti nel solo fine settimana del 6-7 agosto. Le proteste erano iniziate l’inverno scorso a causa di un programma, poi abrogato, volto ad allargare la giurisdizione della capitale: una città in piena espansione che ha bisogno di nuove terre edificabili, pestando così i piedi all’Oromiya, la regione che la ingloba e che, storicamente, si sente schiacciata dal potere centrale. Nel contempo, attivisti amhara sono scesi in piazza per rivendicare la territorialità di alcune aree a Nord di Gonder, ora incluse nella regione del Tigray, e anche qui l’intervento delle forze governative (apertamente filo tigrine, da ormai 25 anni) ha provocato numerose vittime. In entrambi i casi, si tratta del difficile rapporto tra centro e periferie, reso più aspro dall’ineguale distribuzione dei profitti derivanti dalla vorticosa crescita economica.

Alcuni analisti fanno notare che gli Amhara e gli Oromo sembrano finalmente in grado di superare gli annosi contrasti, così da coalizzarsi nella richiesta di una maggiore democrazia. Se così fosse l’Etiopia potrebbe rivestire un ruolo faro nell’indicare alle altre nazioni del continente una via africana allo sviluppo. Lo dimostrano i molti oppositori che, nelle loro feroci critiche al governo, si mostrano costruttivi e motivati da un grande amore per il proprio paese, manifestando un’apprezzabile larghezza di vedute. Niente di meglio per sfatare il luogo comune dell’africano che non riesce a guardare al di là del proprio gruppo etnico e delle proprie necessità immediate. Emblematico, a questo proposito, quanto accaduto alle recenti Olimpiadi di Rio. Feyisa Lilesa, fortissimo maratoneta etiope (di etnia oromo), ha tagliato il traguardo conquistando la medaglia d’argento. Al termine della gara il suo pensiero è andato alle proteste della sua gente soffocate nel sangue. E allora ha deciso di ripetere il gesto che tanti altri giovani stavano facendo in quei giorni per le strade d’Etiopia: le braccia alzate, con i polsi incrociati, a mimare le manette alle quali va incontro chi richiede un maggior rispetto dei diritti civili.

La protesta nonviolenta dell’atleta etiope ci fornisce qualche briciolo di speranza in più.

Alberto Zorloni

Alberto Zorloni veterinario tropicalista, ha operato in diversi paesi africani e centroamericani. Originario di Varzo, Piemonte, si è laureato a Milano; è specializzato ad Anversa (Belgio) e ha conseguito un master di ricerca in etnoveterinaria a Pretoria (Sudafrica). Ha pubblicato Ripartire da ieri (Emi), di cui MC ha scritto sul numero di agosto-settembre 2015. Alberto è tornato in Etiopia nel 2016, dopo averci lavorato un anno nel 2003.

zorloni-etiopia-13




Boom economico, diritti in crisi


Il secondo paese d’Africa per abitanti vive una crescita economica tra le più alte al mondo. Ma il livello di vita nelle campagne resta molto basso. Le elezioni di maggio hanno confermato il partito al potere. E sui diritti la strada da percorrere resta lunga.

Arba Minch. Sono le quattro e trenta del mattino. Improvvisamente una voce irrompe nel silenzio totale. È un suono amplificato, un uomo canta una nenia, forse una preghiera. Difficile stabilire se si tratta di una lingua o di un semplice suono vocale.

È ancora buio quando il sacerdote ortodosso della chiesa St. Gabriel porta il microfono alla bocca e inizia la sua cantilena. Non smetterà, se non per piccole pause, fino alle tre del pomeriggio. Sono preghiere nell’antica lingua geez, che per l’amharico, lingua nazionale, corrisponde a quello che è il latino per l’italiano. È la festa di Yefilseta Tsom (il digiuno di Maria), dedicata alla Madonna. Dura sedici giorni ad agosto, durante i quali i fedeli sono chiamati a pregare al mattino presto e a digiunare fino al pomeriggio.

Siamo ad Arba Minch, a 450 km a Sud di Addis Abeba. Città di circa 110.000 abitanti e un elevato tasso di crescita di 4,5% annuo, che, a prima vista, sembra non avere nulla di speciale. Si divide in città bassa Sikela e città alta Shecha. Qui i quartieri si inerpicano sulla montagna. All’improvviso però la salita finisce e ci si ritrova su una rara balconata naturale che offre uno spettacolo splendido. La foresta tropicale ai propri piedi, di fronte la montagna chiamata Ponte di Dio che divide il lago Chamo dal lago Abaya, distesa d’acqua di 1162 km quadrati (oltre tre volte il lago di Garda), dalla quale spuntano isolette coperte di vegetazione. La città si adagia su questa falesia, ai piedi della quale l’acqua filtrata dalla montagna origina decine di sorgenti. Da qui il nome, Arba Minch, che in amharico significa «quaranta sorgenti».

Siamo nel bel mezzo della famosa  Rift Valley, la larga «vallata» che si estende dalla Siria al Mozambico, e segna la separazione naturale tra la placca africana e quella araba. In particolare, in Etiopia, separa l’altopiano etiopico da quello somalo.

Un paese «emergente»

In Etiopia vivono circa 96,5 milioni di persone di 80 etnie (cfr. MC aprile 2011), il che lo rende il secondo stato più popoloso dell’Africa, dopo la Nigeria. È anche una delle economie di punta del continente (e del mondo) con un Pil in crescita media del 10% negli ultimi 10 anni. Ha però la contraddizione di avere uno dei Pil pro capite più bassi (tra gli ultimi nove, poco superiore a Congo Rd e Niger)1. È in atto un vero boom economico, legato in gran parte a uno sviluppo di tipo infrastrutturale: costruzione di case, palazzi, strade e ferrovie (la prima metropolitana leggera in Africa sub sahariana è quasi pronta ad Addis Abeba). Mentre nelle campagne, così come nelle remote zone di montagna, e nelle aree desertiche la povertà è ancora da sconfiggere e l’accesso ai servizi (sanità, educazione, acqua) è tutt’altro che garantito.

L’Etiopia vive ancora una dipendenza strutturale dagli aiuti estei. Si valuta che siano in media tre i miliardi di dollari che entrano ogni anno nel paese come aiuto allo sviluppo2.

Ad Arba Minch il panorama urbanistico è in rapida evoluzione. Vediamo diversi cantieri, alcuni molto appariscenti: un grosso ospedale, un impressionante centro congressi, diverse infrastrutture dell’università (la Arba Minch University è nota in tutto il paese e conta oltre 20.000 studenti universitari) e perfino una chiesa ortodossa. Tutti edifici che spiccano per le loro imponenti dimensioni.

Anche la capitale Addis Abeba vive un’esplosione urbanistica senza precedenti. Oltre ai grossi edifici pubblici, orribili condomini prendono il posto delle baracche dei quartieri poveri.

Notevoli sono anche le dighe in costruzione: da quelle sul fiume Omo (la Gilgel Gibe III e pianificate le IV e V), molto criticate a livello internazionale per il loro impatto ambientale, alla Grande diga etiopica della Rinascita. Questa è un colosso sul Nilo Azzurro che, con la centrale idroelettrica collegata, è previsto produrrà 6.000 Mw di elettricità, la maggiore di tutta l’Africa. Il costo è di oltre 4 miliardi di dollari e la realizzazione è affidata all’italiana Salini-Impregilo Spa.

In Etiopia anche il turismo è in espansione. Grazie alla sua storia millenaria, il paese offre importanti siti storici, culturali e religiosi ma anche naturalistici ed etnografici: città antichissime come Lalibela e Axum (Aksum), parchi naturali e popoli speciali. I visitatori sono passati da 460mila nel 2010 a 681mila nel 2013. Non a caso, anche grazie alla diplomazia, il Consiglio europeo per il turismo e il commercio3 ha scelto proprio l’Etiopia come «migliore destinazione turistica mondiale 2015».

Alteanza senza alternativa

La coalizione di partiti al potere, il Fronte rivoluzionario democratico del popolo etiopico (Eprdf, sigla inglese), si è confermato egemone alle elezioni del 24 maggio scorso. Costituita intorno dal Fronte di liberazione del popolo del Tigray, i guerriglieri che nel 1991 rovesciarono il regime militare di Meghistu Hailé Mariam (1974-91), è al potere da allora. Importante è stata la figura del carismatico primo ministro Meles Zenawi, morto di malattia nel 2012, e intorno al quale il regime ha sviluppato un vero culto della personalità. Tanto che a tre anni di distanza è ancora celebrata la data della sua scomparsa, gli sono consacrati passaggi televisivi foto che lo ritraggono restano appese in negozi e uffici.

Per sostituirlo, il partito (ma era stato lui a sceglierlo) ha designato Hailemariam Desalegn. Di etnia wolayta del Sud, si distingue dai tigrini, gruppo di Meles, che controllano il potere, e per questo, figura più defilata, ma anche di equilibrio tra i diversi popoli.

Se nel precedente parlamento, solo uno dei 546 seggi era andato all’opposizione, l’assemblea uscita dalle ue quest’anno è monocolore. Anche i parlamenti regionali vedono solo 21 membri dell’opposizione su un totale di 1987 eletti.

Gli osservatori dell’Unione Africana (Ua, che ha sede ad Addis Abeba) hanno qualificato le consultazioni come «calme, pacifiche e credibili», che «hanno dato la possibilità al popolo di esprimersi». Da notare che gli osservatori dell’Unione europea e del Carter Centre non sono stati invitati, mentre quelli della Ua erano 59 su una popolazione di elettori di oltre 30 milioni.

Taye Negussie, professore di sociologia all’Università di Addis Abeba ha commentato: «Questo risultato era totalmente atteso, non c’è multipartitismo in Etiopia».

«L’Eprdf vede le elezioni come un’opportunità per coinvolgere la popolazione in un atto di partecipazione politica, sebbene non competitiva» scrive Jason Mosley, analista dell’istituto indipendente di studi strategici Chataham House di Londra4.

L’opposizione è frammentata e molti leader sono in esilio volontario perché temono ritorsioni.

I principali partiti sono il Forum etiopico unito federale democratico, che non è riuscito a creare una piattaforma, Il partito blu (Semawayi) a maggioranza islamica e Unità per democrazia e giustizia. In effetti molti oppositori politici sono stati perseguitati e arbitrariamente arrestati, mentre la tortura è ancora molto utilizzata, come denunciano Human Rights Watch e Amnesty Inteational5.

Media sotto controllo

La situazione della stampa è anche peggiore. Il regime controlla tutto l’apparato mediatico, internet e l’unica compagnia telefonica ed è diventato particolarmente repressivo da inizio 2014, molto probabilmente in vista delle elezioni di maggio. Pochi sono i giornali indipendenti e hanno vita dura. Solo nel 2014 sono state sei le testate indipendenti fatte chiudere e 30 i giornalisti che hanno lasciato il paese per paura. Nell’aprile 2014 sono stati arrestati nove blogger del collettivo Free Zone 9 e altri tre giornalisti. Il potere utilizza la dura legge anti terrorismo varata nel 2009, accusando media privati e operatori dell’informazione di essere in connivenza con i terroristi.

Una settimana prima dell’arrivo di Barak Obama il 27 luglio (prima visita di sempre di un presidente Usa in carica nel paese) per la Conferenza internazionale finanza e sviluppo, due blogger e quattro giornalisti tra i quali il noto Reeyot Alemu sono stati liberati. Come per dare un contentino agli Usa, che avevano criticato ufficialmente la detenzione degli operatori dell’informazione.

Alemu critica Obama per aver detto, nel suo discorso, che il governo etiopico è stato democraticamente eletto: «Non è eletto democraticamente, perché c’erano solo media governativi e la gente non ha potuto avere abbastanza informazione. […] Hanno anche arrestato molti leader dell’opposizione e giornalisti. Hanno vinto le elezioni usando violazioni dei diritti umani».

Quello che osserviamo è una presenza forte dello stato in tutti i settori della società. I funzionari pubblici e gli eletti ai vari livelli, sono tenuti d’occhio e al minimo problema vengono trasferiti. L’effetto positivo è sicuramente una riduzione della corruzione, molto al di sotto di quanto si trova in altri paesi del continente. Anche la criminalità è mantenuta a livelli bassi, e si circola tranquillamente nelle grandi città dove la sicurezza personale non sembra in pericolo.

«La società civile è debole e comunque ha poco margine di manovra», ci confida un operatore umanitario.

Più che associazioni, qui ci sono le cornoperative create dallo stato allo scopo di migliorare la produzione, ad esempio le cornoperative agricole.

«Le organizzazioni internazionali – ci confida – non possono dire che si occupano di diritti umani. Qui è un argomento tabù».

Guardiano per il Corno

L’Etiopia è il paese chiave per la geopolitica del Corno d’Africa, perché funge da stabilizzatore, tra la Somalia degli al Shabaab (che intervengono anche in Kenya) e l’Eritrea del dittatore Isaias Afewerki, da cui la popolazione cerca di fuggire con ogni mezzo. È inoltre un paese a prevalenza cristiana (seppur ortodossa) che si contrappone alle islamiche Somalia e Gibuti e, in parte anche Eritrea, influenzate dalla vicina penisola arabica. Gli Usa e l’Europa vogliono quindi mantenere buone relazioni con il governo etiope e scommettono sulla sua stabilità.

Proprio ad Arba Minch la prima cosa che si vede appena atterrati al piccolo aeroporto è un hangar protetto e con doppia recinzione di filo spinato e blocchi di cemento. Talvolta, da una porta esce un militare bianco, in divisa mimetica. Nel recinto alcune grosse antenne paraboliche in colore sabbia. È la base Usa dei droni, velivoli telecomandati da combattimento. Partono da qui, pilotati dall’altro capo del mondo, per andare a bombardare gli al Shabaab in tutta l’area del Coo. Il contingente Usa, alcune decine di persone, è alloggiato al Paradise Lodge, uno dei migliori alberghi della città, sulla falesia. Hanno una zona tutta per loro, lontana da occhi indiscreti e protetta da guardie locali.

L’Etiopia è anche terreno di concorrenza tra gli occidentali e la Cina. Questa, oltre a essere il modello economico del governo etiopico, sta attuando da oltre un decennio cospicui investimenti nel paese.

Ad Addis Abeba si vedono numerosi cantieri finanziati da banche cinesi e realizzati da imprese cinesi. Come l’estensione dell’aeroporto della capitale o la nuova sede dell’Unione Africana, dono del governo cinese a quello etiope. Molte strade del paese sono state rifatte dai cinesi, altre sono in corso d’opera.

Le chiese

La chiesa cattolica di rito latino è un’esigua minoranza. Lo 0,7% secondo un censimento del 2008, mentre gli ortodossi sono il 45% e i protestanti il 17%. C’è poi circa il 35% di musulmani.

«Le relazioni tra le chiese ortodossa e cattolica a livello ufficiale sono buone» ci racconta fratel Domenico Brusa, missionario della Consolata, in Etiopia da 30 anni, che raggiungiamo telefonicamente. «A livello di sacerdoti pure, anche se una parte del clero è più conservatore. E anche tra la popolazione».

«La diversità di rito talvolta è problematica. Nel rito ortodosso ci sono oltre 100 giorni di digiuno all’anno. E lo deve fare tutto il popolo. In una società sempre più veloce diventa difficile da rispettare. Il rito orientale è bello, dialogato, partecipato, ma più adatto a una società senza orari». Fratel Domenico ha potuto assistere a grandi cambiamenti sociali: «Il paese sta cambiando rapidamente, anche perché prima era fermo. Oltre alle costruzioni, anche in campagna si diffondono le macchine e la coltivazione in serra. Grandi terreni vengono venduti (si riferisce al land grabbing, si veda MC maggio 2015, ndr). Anche la popolazione cambia». Per cui, ricorda fratel Domenico: «Il consumismo si espande e i giovani si orientano diversamente».

E suggerisce: «Occorre dare più contenuto, altrimenti c’è il rischio che il rito resti un contenitore vuoto». Fratel Domenico, dopo aver girato tutte le missioni della Consolata del paese, lavora attualmente in quella di Gambo, dove è responsabile della fattoria che alimenta l’ospedale gestito dai missionari.

Lasciamo la città delle quaranta sorgenti. Prendiamo l’aereo, un turbo elica Bombardier Q400 che ci riporterà ad Addis Abeba. Godiamo ancora del caldo e della gentilezza degli etiopi di questa regione. In capitale è stagione delle piogge e, complice l’altitudine (2.400 metri) le temperature sono più rigide. Una militare donna, statunitense, uscita dalla base dei droni Usa, controlla scrupolosamente, a vista, le valigie dei viaggiatori.

Marco Bello

Note:

(1) Banca Mondiale, www.worldbank.org.
(2) Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo www.oecd.org.
(3) L’Éthiopie élue «meilleure destination au monde» par les professionnels du tourisme, Sabrina Myre, Jeune Afrique, 9 luglio 2015.
(4) Ethiopia’s elections are just an exercise in controlled political participation, Jason Mosley, The Guardian, 22 maggio 2015.
(5) Rapporti di Human Rights Watch e Amnesty Inteational, 2015.

Nell’archivio MC: Chiara Giovetti, La missione nell’Etiopia di ieri e di oggi, agosto-setembre 2013 e Etiopia, Gambo: agricoltura e sanità, novembre 2011. A. Vascon e N. Di Paolo, Caleidoscopio africano, aprile 2011.

Marco Bello