Julius Robert Oppenheimer. Anche i fisici hanno conosciuto il peccato


Direttore del «Progetto Manhattan», fu uno dei padri della bomba atomica.  Mente geniale e controversa, cercò nei testi sanscriti della «Bhagavad Gita» risposte ai suoi interrogativi etici. Tuttavia, il fisico statunitense tenne sempre separato il ruolo della scienziata da quello del politico che della bomba decide l’utilizzo.

G ià prima della sua uscita (21 luglio 2023), il film Oppenheimer del regista inglese Christopher Nolan ha incuriosito non soltanto il mondo dello spettacolo ma anche quello della scienza. Descrivere una figura così problematica e discussa come il fisico statunitense di origini ebree non è facile, specialmente quando si deve condensare la sua vita in poco più di due ore.

Operatrici al calutrone – l’apparecchio per separare gli isotopi – nell’ambito del Progetto Manhattan. Foto Ed Westcott.

La «Bhagavad Gita»

Dopo il 6 e il 9 agosto 1945, quando le due bombe nucleari furono lanciate su Hiroshima e Nagasaki, Julius Robert Oppenheimer (1904-1967), mente tanto geniale quanto incostante e per molti versi ambigua, fu sempre travagliato da rimorsi e domande etiche sulla sua responsabilità nel «Progetto Manhattan» (riquadro a pag. 17).

Uno degli aspetti forse meno dibattuti nel tentativo di capire questo tormento morale è il rapporto che ebbe con un libro a lui particolarmente caro: la Bhagavad Gita («Canto del Divino»), il poema epico sanscrito che, sin dagli anni Trenta, lo aveva aiutato a trovare risposte alle sue domande esistenziali.

Intendiamoci, Oppenheimer non era una persona religiosa. Infatti, fu sempre attento a non farsi coinvolgere dalla comunità ebraica, non professò mai alcun tipo di fede, ma il testo indiano -assieme ad altri, come l’Amleto, la Divina Commedia, o i libri della scrittrice neozelandese Katherine Mansfield – segnò profondamente parte della sua vita.

Dopo un primo superficiale approccio con la Gita nel 1931, Robert Oppenheimer iniziò a studiarla in modo analitico a partire dal 1933 con Arthur W. Ryder (1877-1938), professore di sanscrito all’Università della California di Berkeley, dove Robert insegnava fisica teorica.

«Ryder – ha scritto William Leonard Lawrence (l’unico giornalista a cui fu consentito di seguire il «Progetto Manhattan», ndr) – sentiva, pensava e parlava come uno stoico… una sottoclasse speciale delle persone che hanno un senso tragico della vita, in quanto attribuiscono alle azioni umane un ruolo decisivo nella differenza tra salvezza e dannazione. Ryder riteneva che un uomo poteva commettere un errore irreparabile e che, di fronte a questo fatto, tutti gli altri erano secondari. Aspramente intollerante verso la pigrizia, la stupidità e l’inganno, Ryder pensava che “Ogni uomo che fa bene una cosa difficile è automaticamente rispettabile e degno di rispetto”».

Forse queste parole furono di parziale conforto per il fisico quando, dopo il 1945, iniziò ad avere dei rimorsi di coscienza per aver dato il suo decisivo contributo allo sviluppo della bomba nucleare.

Con Ryder, Oppenheimer iniziò a leggere la Bhagavad Gita in versione originale trovandola, oltre che «molto facile e meravigliosa», anche «la più bella canzone filosofica esistente in ogni lingua conosciuta». Da allora ne tenne sempre una copia a portata di mano vicino alla sua scrivania e spesso ne regalava una ai suoi amici.

I dilemmi del principe Arjuna

Il racconto indiano inizia con il principe Arjuna impegnato in una battaglia sul suo carro. Vedendo che, nelle file avversarie, militavano parenti, familiari e amici, decise di rifiutarsi di combattere, chiedendo nel contempo consiglio al suo amico e confidente, il cocchiere Krishna, avatar1 di Vishnu.

I successivi capitoli vedono dipanarsi le argomentazioni di Krishna che cerca di convincere Arjuna a non sottrarsi al combattimento perché, essendo un soldato, è suo dovere entrare in battaglia. Inoltre, non sarà Arjuna con il suo arco a determinare chi deve vivere o morire, ma Krishna stesso, in quanto manifestazione di un dio. La morte è solo apparente, perché l’anima continua a sopravvivere e, anche se le frecce del guerriero porranno fine alla vita terrena del corpo dei nemici, la loro anima vivrà in eterno. È la devozione di Arjuna verso Krishna che lo salva dalle sue azioni peccaminose.

Alla fine, il principe Arjuna chiede a Krishna di manifestarsi nella sua forma divina. Questi lo avverte che «con i tuoi occhi non sei in grado di vedermi in questa Forma universale. Ti darò allora degli occhi divini: ora contempla pure la mia Divina Potenza» (Bhagavad Gita, Capitolo 11, verso 8)2.

È in questo contesto che è contenuta la frase che Oppenheimer citò il 16 luglio 1945 durante il primo test nucleare ad Alamogordo, nel Nuovo Messico. Usò la traduzione fatta da Ryder che, per alcuni versi, non coincide con le traduzioni tradizionali.

La prima si riferisce allo sbigottimento di Arjuna di fronte alla manifestazione divina di Krishna: «Se la luce di mille soli si levasse simultaneamente nel cielo, essa sarebbe simile all’effulgenza di questo Supremo Signore» (Bhagavad Gita, Capitolo 11, verso 12).

Lo stesso avatar spiega, alla fine, il motivo per cui lui si è incarnato nel mondo degli uomini proferendo la seconda frase poi passata alla storia come quella espressa dal capo del Progetto Manhattan subito dopo l’esplosione nucleare: «Io sono il tempo che quando giunge a maturazione distrugge l’universo. Qui mi vedi impegnato ad annientare queste stirpi umane. Anche senza di te, tutti questi guerrieri schierati su fronti opposti non sopravvivranno» (Bhagavad Gita, Capitolo 11, verso 32).

I versi ricordati da Oppenheimer furono poi riproposti per la prima volta da William Leonard Laurence che affermò di aver sentito la frase dallo stesso fisico a Los Alamos, dove era rientrato poche ore dopo il Trinity Test.

L’intera storia venne in seguito descritta nel libro dell’austriaco Robert Jungk3.

Secondo questo autore, la prima frase che Oppenheimer pronunciò appena vide il Trinity Test fu un’altra: «Se la luce di mille soli erompesse d’un tratto nel cielo nello stesso momento, essa sarebbe pari allo splendore del Magnifico». Solo in seguito, quando in distanza la nube si levò, pronunciò la frase più celebre: «Sono diventato la Morte, il distruttore dei mondi».

La maggior parte delle traduzioni del libro induista interpretano la parola kālaḥ (कालं) come «tempo», mentre Arthur W. Ryder, nella sua edizione del 1929, probabilmente quella da cui Oppenheimer aveva studiato e, successivamente, ne aveva tratto la citazione, la rende come «Morte».

Oppenheimer potrebbe essersi identificato con Arjuna, con tutti i suoi dubbi e le incertezze sulla moralità di partecipare o meno ad una battaglia che lo avrebbe costretto a uccidere non solo i suoi stessi amici, ma anche i familiari. In quanto soldato, Arjuna aveva un compito ben preciso da compiere, esattamente come il fisico Oppenheimer.

Avrebbe potuto trovare le stesse giustificazioni in altri pensatori occidentali (pensiamo, ad esempio, a Dietrich Bonhoeffer secondo il quale, a volte, per combattere il male maggiore era necessario compiere un male minore), ma per il fisico statunitense era più facile trovare una redenzione in un testo orientale (pur sapendo che l’Oriente indiano non era certo simile a quello giapponese) piuttosto che in un testo della sua cultura di provenienza.

Julius Robert Oppenheimer con Enrico Fermi (al centro) e William L. Lawrence (a destra).

Scienziati e politici

Secondo Oppenhemeir, gli scienziati avevano il dovere di scoprire i segreti dell’universo e – nel suo caso – del nucleo atomico e su come realizzare la bomba, mentre era dovere della classe politica e diplomatica decidere che uso farne.

Questa distinzione di ruoli fu sempre posta in evidenza da Oppenheimer in ogni suo intervento pubblico. Nel 1946, mentre era direttore della Comitato di consulenza (General advisory committee) della Commissione per l’energia atomica affermò che il comitato da lui presieduto non aveva consigliato la Commissione su quante bombe avrebbero dovuto realizzare, «dato che non era un nostro lavoro, ma una decisione che doveva essere presa dall’apparato militare. Noi abbiamo solo evidenziato quali erano i limiti su quante bombe potevano realizzare in base al materiale reso disponibile».

A differenza di Einstein, Oppenheimer non credeva in un dio panteista: l’umanità era fatta da popoli di diverse culture, credi, indirizzi politici e filosofici. I giapponesi non erano suoi fratelli, questo lo aveva bene in mente, eppure, nonostante questi distinguo, dopo gli anni della guerra si sentì responsabile per quello che aveva fatto.

Le notizie dei kamikaze giapponesi che si immolavano per il proprio Paese lanciandosi verso le navi della flotta statunitense nel Pacifico dovevano avergli fatto venire in mente altri versetti del testo indiano: «Colui che pensa che il sé uccida o che possa essere ucciso non lo conosce, poiché esso non può uccidere né essere ucciso.

Esso non è nato né morirà, non è mai iniziato e non cesserà di esistere; non nato, eterno, immutabile e primordiale, non viene ucciso quando un corpo viene ucciso. Colui che conosce il Sé come indistruttibile, eterno e inalterabile, come e che cosa potrebbe mai uccidere? […] Le armi non lo feriscono, il fuoco non può bruciarlo, l’acqua non può bagnarlo e il vento non può seccarlo. Egli è eterno, immutabile, onnipervadente e sempre identico a sé stesso» (Bhagavad- Gita, Capitolo 2, 19-24).

Quindi, se gli stessi giapponesi credevano nella vita immortale, se gli stessi giapponesi uccidevano e si uccidevano con la convinzione che non si viene uccisi quando un corpo viene ucciso, doveva esistere una sorta di filo rosso che giustificava azioni-doveri. In questo senso, Oppenheimer doveva aver trovato nella Gita più spunti di consolazione non solo per i risultati dei suoi studi sulla bomba atomica, ma anche per i dubbi, le delusioni e i dolori che conobbe nel corso della vita.

Nel 1954 arrivò anche ad affermare che far esplodere una bomba dimostrativa in un luogo disabitato, come avevano proposto alcuni suoi colleghi, non avrebbe sortito nessun effetto sui giapponesi. E, ancora, nel 1957, spiegò che non vi era altra possibilità che lanciare la bomba su Hiroshima e Nagasaki perché, dopo il Trinity Test, il meccanismo si era messo in moto ed era impossibile fermarlo .

Come si legge nella Gita (Capitolo 11, verso 34): «Colpisci dunque Drona e Bhisma, Jayadatha e Karna, e similmente tutti gli altri potenti guerrieri. Essi sono già stati uccisi da Me. Combatti senza paura, e sarai vittorioso nella battaglia».

Nella visione di Oppenheimer uno scienziato deve essere il più neutrale possibile: «Egli siede nella neutralità senza essere turbato dall’agire delle tre qualità. Costui rimane sempre saldo e non vacilla, sapendo che

sono soltanto gli elementi fondanti della natura a modificarsi. Per quell’uomo gioia e dolore sono la stessa cosa, egli non è condizionabile e considera di pari valore la zolla di terra, il sasso e l’oro. Egli rimane uguale nell’onore come nel disonore, uguale con l’amico come con il nemico, e ha abbandonato ogni desiderio personalistico. Questo è l’uomo che ha trasceso i tre guna» (Bhagavad Gita, Capitolo 14, versi 23-25).

Rappresentazione della «Bhagavad-Gita»: il principe Arjuna e il cocchiere Krishna., avatar di Vishnu.

La lettera mai firmata

Anche la lettera di Leo Szilard, firmata da sessantasette altri scienziati, in cui chiedeva a Truman (successore di Roosevelt dall’aprile 1945, cioè pochi mesi prima del lancio dell’atomica) di non lanciare la bomba su un centro abitato, non venne firmata da Oppenheimer .

Non sappiamo se questi suoi atteggiamenti furono determinati dall’ignavia o dal fatto che l’amore per la fisica e per la ricerca prevaleva sulla morale umana. Più volte, il direttore di Los Alamos spronò i suoi colleghi a non distrarsi dal lavoro utilizzando un passaggio che nella Bhagavad Gita leggeva spesso: «il frutto del lavoro» o il «frutto dell’azione» . Il messaggio che il fisico voleva inviare a chi lo accusava di collaborazione morale con il genocidio nucleare era chiaro: gli scienziati non potevano orientare il mondo della politica su come utilizzare i risultati delle loro ricerche.

«Non è con l’astenersi dal compiere ogni agire che l’uomo può liberarsi dai legami dell’azione e dalle loro conseguenze. E nemmeno la semplice rinuncia ai suoi frutti può innalzare l’uomo alla perfezione» (Bhagavad Gita, Capitolo 3, verso 4).

Pur essendo un assiduo lettore della Gita, Robert non fu mai portato a diventare un devoto induista e non diede mai a vedere in pubblico che quel libro lo avesse particolarmente influenzato nelle decisioni della sua vita.

Per una persona erudita come Oppenheimer gli interessi spaziavano anche oltre l’universo indiano. Eppure, utilizzò spesso i versi della Gita per interventi pubblici. Durante il ricordo funebre per la morte di Franklin Delano Roosevelt, tenuto a Los Alamos nell’aprile 1945, citò un verso  (Bhagavad Gita, Capitolo 17, verso 3) che amava ripetere spesso e che avrebbe ripetuto anche in seguito, quando sentirà che la sua vita stava ormai giungendo al termine a causa di un tumore alla gola: «L’uomo è una creatura la cui sostanza è la fede. Come è la fede dell’uomo, così egli è».

Piergiorgio Pescali

Note

  • (1) L’avatar è la manifestazione di una divinità sulla Terra.
  • (2) I versi riprodotti in questo articolo sono trascritti dalla traduzione in italiano de La Bhagavad-Gita, il canto del beato, dal sito www.labhagavadgita.it.
  • (3) «Brighter than a Thousand Suns: A Personal History of Atomic Scientists», pubblicato per la prima volta in lingua tedesca nel 1956 e poi tradotta in inglese nel 1958.

Albert Einstein e Leo Szilard discutono della lettera da inviare al presidente Roosevelt (2 agosto 1939). Foto Atomic Heritage Foundation.

La risposta Usa alla Germania nazista

1942-1947, il Progetto Manhattan

Il Progetto Manhattan fu conseguenza della scoperta nel 1938 della fissione nucleare da parte degli scienziati tedeschi Otto Hanh e Fritz Strassmann. Timorosi che gli sviluppi potessero portare alla preparazione di una bomba nucleare da parte della Germania nazista, Leo Szilard e Eugene Wigner scrissero una lettera, firmata anche da Albert Einstein, in cui si chiedeva al presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt di avviare un programma che anticipasse la ricerca tedesca. Mentre il coinvolgimento di Einstein nel progetto si fermò qui, nel giro di qualche anno migliaia di altri scienziati nel campo della fisica, chimica, tecnici, ingegneri e impiegati amministrativi vennero coinvolti nel più ambizioso programma di ricerca mai avviato sino ad allora.

Il 19 gennaio 1942, Roosevelt avviò lo Sviluppo dei materiali surrogati (Development of substitute materials), e nel giugno dello stesso anno, presso il diciottesimo piano di un edificio al 270 di Broadway, a Manhattan, New York, venne fondato il Manhattan engineering district, l’ufficio militare in cui si imbastirono i primi piani di quello che, in seguito sarebbe stato conosciuto con il nome di «Progetto Manhattan».

Per mantenere l’assoluta segretezza dell’operazione, che in una città come New York avrebbe potuto essere compromessa, si spostarono laboratori e uffici in vari piccoli e isolati centri degli Stati Uniti: Oak Ridge, Hanford e il sito di Los Alamos, nel New Mexico, alla cui guida venne posto Robert Oppenheimer, furono i principali, ma nel corso degli anni la ragnatela si arricchì di un’altra quindicina di siti, alcuni dei quali in Canada.

Il 2 dicembre a Chicago, Enrico Fermi riuscì a compiere la prima reazione di fissione nucleare al mondo e nel 1944, dopo aver studiato vari tipi di materiali da utilizzare, venne scelto di sviluppare i disegni delle due bombe «Little Boy» e «Fat Man».

Il 16 luglio 1945 venne svolto il Trinity Test, che vide esplodere «Gadget», la prima bomba nucleare. Tutto ormai era pronto per l’operazione sul campo: il 6 agosto 1945 Hiroshima venne bombardata e tre giorni dopo fu la volta di Nagasaki.

Il 1° gennaio 1947 il Progetto Manhattan venne ufficialmente chiuso. L’intera operazione era costata 1,9 miliardi di dollari (equivalenti a 23 miliardi attuali) e aveva impiegato 120mila persone.

P.P.

La devastazione di Nagasaki, bombardata il 9 agosto 1945.


Bombe a fissione e bombe all’idrogeno

Da «Little Boy» a «Ivy Mike»

La bomba nucleare a fissione ha portato a uno sviluppo della stessa verso la bomba termonucleare, o bomba a idrogeno, inventata da Edward Teller e Stanislaw Ulan. Il primo test del genere venne svolto il 1° novembre 1952 sull’atollo di Eniwetok, nelle Isole Marshall, con la «Ivy Mike». La potenza sprigionatasi dallo scoppio, pari a 10,4 milioni di tonnellate di tritolo, fu circa 700 volte superiore a quella della bomba di Hiroshima.

Mentre la bomba nucleare a fissione basa la potenza distruttiva solo sull’energia sprigionatasi dalla parziale fissione dell’uranio o del plutonio (solo una piccola parte del combustibile nucleare si fissiona), la bomba termonucleare addiziona alla scissione nucleare la fusione di due isotopi dell’idrogeno, il trizio e il deuterio incapsulato in un involucro di uranio. Nelle bombe moderne, il deuterio, facile ed economico da ottenere, ma problematico da utilizzare perché deve essere raffreddato in forma liquida a circa 250°C sotto lo zero, è sostituito dal deuterio di litio che, essendo un solido, è più facile da maneggiare.

Una bomba termonucleare è formata da due parti: la parte primaria, che è il detonatore (uranio o plutonio che viene fatto fissionare) e la parte secondaria, che è la sezione che contiene il materiale di fusione.

La fissione del nucleo di uranio o plutonio sprigiona raggi X che comprimono il deuterio o il deuterio di litio, che produce trizio. La compressione riscalda il combustibile nucleare sino a una temperatura (circa 100-150 milioni di gradi) tale da provocarne la fusione del deuterio e del trizio che libera energia fissionando anche l’intero involucro in cui è contenuta, formato da uranio, responsabile dello sviluppo dell’energia distruttiva liberata durante la detonazione.

In questo modo l’energia rilasciata dal processo di fissione-fusione-fissione è maggiore di quella della sola fissione. A parità di massa, la bomba termonucleare sprigiona circa dieci volte l’energia prodotta da un ordigno a fusione, ma negli ordigni moderni la potenza può essere anche migliaia di volte superiore.

P.P.


Il ruolo della religione nell’India di Modi

l’intolleranza dell’induismo nazionalista

Nel più popoloso paese del mondo, con la presidenza di Modi, è tornata prevalente l’ideologia «hinduvta» che predica la superiorità degli hindù sulle altre comunità. A farne le spese sono soprattutto musulmani e cristiani.

Un ritratto di Vianayak Damodar Savarkar (1883-1966), fondatore del movimento nazionalista dell’«hindutva».

Con il termine «induismo» si è soliti indicare l’insieme di credenze e pratiche religiose nate e sviluppatesi nella vasta regione del fiume Indo (Sindhu, in sanscrito). Storicamente, soltanto nel 1893, a Chicago (nel primo «Parlamento mondiale delle religioni»), il termine iniziò a essere utilizzato come identificativo confessionale specifico della maggior parte delle popolazioni (che oggi contano oltre un miliardo di persone) che abitano l’India. Tuttavia, già tra il VI e il V secolo a.C. gli abitanti del territorio bagnato dalle acque dell’Indo, ad est dell’Impero achemenide, venivano identificati con il termine di hindù (o indù), passato poi nella terminologia greca e latina.

Oltre che una religione, possiamo definire l’induismo come una serie di stili di vita e di pratiche etiche che costituiscono contemporaneamente un sistema sociale.

Per parte loro, gli hindù definiscono la propria religione come sanatana dharma, «legge eterna» o «morale eterna», anche questa espressione recente, visto che ha iniziato a essere utilizzata solo nel secolo scorso.

Premesso che miti, credenze, fedi dell’induismo si sono sedimentate in oltre tremila anni di storia, è possibile descrivere questa confessione seguendo quattro grandi ere storiche:

  1. il periodo vedico (1500-500 a.C.);
  2. il periodo del brahmanesimo, o induismo antico (500 a.C.-500 d.C.);
  3. il periodo induista recente (500 – fine XIX secolo);
  4. il periodo induista attuale (dal XIX secolo a oggi).

È essenzialmente questa la linea comune che lega le varie forme di induismo presenti nel subcontinente indiano dato che la mancanza di dogmi e di una figura religiosa che sovrasta le altre rende difficile una definizione univoca della religione.

Alcune delle idee inserite in epoca tarda (IX-IV secolo a.C.) nei Veda (testi sacri) tramite le Upanishad (commentari dei Veda), portarono all’idea della reincarnazione e che questa sia governata dalla legge del karma, che il samsara, il ciclo delle rinascite, dovesse essere interrotto tramite una serie di azioni che portavano a dissipare l’ignoranza verso la nostra vera essenza raggiungendo il moksha, la salvezza.

Il modo per rompere il ciclo di rinascite è l’osservazione del dharma, una serie di comportamenti morali e rituali che porta l’atman, l’anima individuale, a unirsi alla divinità.

Dal punto di vista cosmologico, l’induismo accetta dunque l’universo proposto dai Veda, dove diversi regni sovrapposti uno sull’altro rappresentavano svariati gradi di esistenza e di sviluppo in cui gli esseri si reincarnavano.

Le divinità induiste, pur essendo molteplici, si possono raggruppare nelle Trimurti che vedono in Brahma, il creatore, Vishnu, il conservatore e Shiva, il distruttore, i principali dèi. Altri esseri soprannaturali abitano il pantheon induista, ma per la maggior parte questi sono emanazioni delle Trimurti, o i loro avatar (ad esempio Krishna, avatar di Vishnu).

Oggi il movimento induista si è incarnato in un movimento nazionalista, l’hindutva («induità»), nato negli anni Venti del XX secolo, che predica la superiorità etnica, morale, religiosa e culturale degli hindù sulle altre comunità presenti in India. Sviluppatosi per opera del bramino Vinayak Damodar Savarkar (1883-1966), l’hindutva ha come suo fondamento la distinzione tra le religioni nate all’interno dell’India (come il giainismo, l’induismo, il buddhismo e il sikhismo) e quelle nate fuori dall’India (islam e cristianesimo, in particolare), definendo queste ultime come estranee al corpus indiano. Fu però solo con il colonialismo britannico che si tracciò un netto spartiacque tra le fedi: nei censimenti voluti dalla Corona inglese nella colonia asiatica, gli indiani dovevano scrivere a quale religione appartenessero. Fino ad allora, la mentalità indiana non trattava giainismo, induismo, buddhismo e sikhismo (le quattro religioni dell’hindutva) come separate tra loro: l’appartenenza a una tradizione non escludeva l’altra.

Oggi l’ideologia hindutva è rappresentata da un ombrello di partiti raggruppati nel Sangh Parivar (famiglia del Rss, Rashtriya swayamsevak sangh, l’Organizzazione nazionale di volontariato) di cui fa parte il Bharatiya janata party (Bjp) di Narendra Modi, dal 2014 primo ministro della nazione.

Durante il suo mandato sono state emanate diverse leggi atte a opprimere le comunità musulmane e cristiane. Quattro Stati dell’Unione indiana (Karnataka, Haryana, Madhya Pradesh e Uttar Pradesh) hanno vietato le conversioni all’islam attraverso il matrimonio (secondo il diritto islamico una donna musulmana non può sposare un uomo di altra religione se prima questi non si converte), mentre la stampa di destra indiana continua a dare resoconti (molte volte non verificati) di islamici che uccidono vacche (sacre per l’induismo), stuprano donne, violano le leggi induiste.

Con il nuovo governo, denominato Modi 2.0, l’hindutva sembra aver preso una piega ancora più radicale, soprattutto con la nomina di Amit Shah a ministro dell’Interno. La proposta di legge sulla cittadinanza avanzata da Shah intende dare la cittadinanza solo a quei profughi provenienti da Nepal, Bangladesh, Pakistan e Afghanistan che non siano musulmani.

L’hindutva rivolge le sue attenzioni anche al cristianesimo, che ha una doppia colpa: quella di essere una religione straniera e di avere come fedeli i «fuoricasta». L’80% dei cristiani appartiene, infatti, alla casta dei dalit (un tempo si diceva «intoccabili»), in particolare nell’Orissa. Anche se non raggiungono ancora i livelli di odio e violenza a cui sono sottoposti i musulmani, gli episodi di intolleranza verso i cristiani si stanno moltiplicando: cappelle date alle fiamme, autorità che impongono alle comunità di non mostrare in pubblico i simboli della fede. I dalit che si convertono al cristianesimo o all’islam perdono ogni forma di protezione sia nazionale che locale, trasformandosi in potenziali bersagli dell’intransigenza hindutva.

Tutti i rapporti concordano sulla pericolosa deriva di intolleranza intrapresa sia da organizzazioni che si rifanno al Sangh Parivar, sia dalle stesse istituzioni statali che dovrebbero garantire la salvaguardia dei diritti umani di tutti i cittadini indiani senza distinzione di appartenenza etnica, culturale, linguistica e religiosa. Per esempio, è significativo che lo scorso 28 maggio il premier Modi abbia inaugurato la nuova sede del parlamento indiano con una cerimonia religiosa induista.

Piergiorgio Pescali

Membri della comunità cristiana protestano pacificamente per le violenze contro i cristiani occorse in vari stati dell’India (Nuova Delhi, 19 febbraio 2023). Foto Arun Sankar – AFP.


La scienza su MC

Piergiorgio Pescali, Albert Einstein, tra Nobel e famiglia, novembre 2022.




Di “Banca Etica” e una domanda: “Siete ancora cattolici?”


Etica o non etica?

Carissimi Missionari,
Vi scrivo dopo aver letto l’articolo vergognosamente autocelebrativo di Sabina Siniscalchi riguardo Banca Etica (MC 04/2017 pag. 22), entità di cui posso dire qualcosa essendo stato membro del Git (Gruppo di Intervento Territoriale) di Novara durante il triennio 2011-2014 (oltre che socio singolo di Libera) le cui vicende non ho mai smesso di seguire riservandomi di scrivervi ancora per esaurire l’argomento, in più è diventata la banca d’appoggio del M5S quindi ha fatto il suo ingresso in politica.

Parto da quel «di Banca Etica fa parte Etica sgr…». Chiariamo subito, Banca Etica è azionista di maggioranza (da circa due anni detiene il 51%) di Etica sgr che venne fondata il 5/12/2000 grazie alla partecipazione dei seguenti soci:

– Banco Popolare di Milano (Bpm), secondo azionista col 24,44%;
– Cassa Centrale Bcc nordest,10,22%;
– Banca Popolare dell’Emilia Romagna (Bper), 10%;
– Banca Popolare di Sondrio (Bps), 9,87%.

Bene cominciamo subito col chiarire che ritroviamo ogni anno Bpm, Bper, e Bps incluse nelle tabelle del Mef delle cosiddette Banche Armate, così note ai partecipanti del mondo etico. Paradossale poi che Bper abbia ricevuto fondi anche per gli arcidiscussi F-35. Banca Etica a Novara faceva parte del coordinamento no F-35 insieme alla partner Libera.

A queste aggiungiamo Bcc Cernusco sul Naviglio che viene indicata da Etica sgr tra i promotori dei «fondi etici».

Proprio tra questi collocatori ancora adesso vediamo ben due banche coinvolte in inchieste per mafia: la Bcc di Borghetto Lodigiano e la ancora più famigerata Bcc sen. Grammatico di Paceco (a sua volta tra quelle convenzionate col M5S per il famoso microcredito) commissariata per infiltrazioni mafiose il 16 novembre dopo 6 anni di indagini e dopo che nel 2013 avvennero i primi sequestri di beni. Questa vicenda meriterebbe un servizio a sé.

Sempre a proposito di mafia ricordo che Banca Etica è stata, insieme ad Unipol e Banca prossima, tra le principali finanziatrici della cooperativa 29 Giugno di Salvatore Buzzi e che Libera sui suoi bollettini indicava sempre Unipol e Banca Etica, anche sponsor dei Circoli Arci. Vogliamo rinfrescarci la memoria solo sulle vicende Bpm ancora in corso? Ci fu il caso dell’«obbligazione» convertendo 2009-2013 che vide 15.000 risparmiatori perdere tra il 50 ed il 70% del capitale investito, mentre nel 2012 Ponzellini, da presidente della Banca, venne arrestato durante l’inchiesta sui finanziamenti all’Atlantis Plus di Corallo, processo ancora in corso. Poi, il 17/04/2015 arriva la condanna per anatocismo. Ma il dato più clamoroso, e su questo per ora chiudo, è che la gestione dei fondi etici è stata affidata a quell’Anima Sgr di cui dovremmo sentire parlare tutti i giorni essendo stata creata grazie all’accordo (oltre che con Clessidra sgr) con un certo Monte dei Paschi di Siena più Credito Valtellinese + … Banca Popolare di Etruria e Lazio.

In seguito parleremo dei fondi etici e delle argomentazioni che possono scaturire da un’approfondita analisi del mondo etico. Grazie

Matteo Spaggiari
Novara, 12/04/2017

Ricevuta questa email, ci è sembrato giusto girarla immediatamente a colei che aveva scritto l’articolo incriminato.


La risposta di Sabina Siniscalchi

Egregio Sig. Spaggiari,
dalla nostra anagrafica non risulta che lei sia stato socio di Banca Etica, pertanto non può essere stato componente del Git di Novara, tuttavia rispondiamo ugualmente alle sue pesanti critiche per rispetto dei lettori di Missioni Consolata.

Banca Etica ripudia la guerra e da sempre offre ai propri soci e clienti la garanzia che il loro risparmio non viene investito in imprese che operano nel settore degli armamenti. Anche Etica Sgr, società del Gruppo, adotta da sempre severi criteri per la scelta degli investimenti, tra cui la totale esclusione di società coinvolte nella produzione di armamenti o parti di essi. 

Ma il nostro impegno è anche quello di fare pressione sul resto del mondo bancario, per questo siamo stati tra i promotori della campagna «banche armate», di tante altre iniziative contro la guerra e gli armamenti, incluso, come lei stesso ricorda, il coordinamento contro gli F-35 di Novara.

Questa azione è complessa e faticosa, ma non ci siamo mai esentati dal portarla avanti pur tra mille difficoltà. Anche la compartecipazione di altre banche in Etica sgr – società di cui abbiamo il pieno controllo detenendo il 51% delle azioni e nominando la maggioranza dei consiglieri – ha proprio questa funzione di contaminazione e di influenza perché si producano cambiamenti significativi nel sistema finanziario e delle imprese.

La nostra azione di persuasione morale ha già prodotto risultati concreti: le banche socie di Etica Sgr hanno adottato politiche sugli armamenti che includono la piena trasparenza e la graduale dismissione dal comparto, alcune di esse figurano ancora nella relazione ministeriale ex legge 185 (che è sempre più opaca come denunciano i nostri amici di Rete Disarmo) perché hanno acquisito banche più piccole operanti nel settore.

Potremmo accontentarci di fare bene il nostro mestiere, vale a dire la finanza etica, chiuderci nella nostra nicchia e non farci contaminare da nessuno, ma la nostra aspirazione, quella dei nostri soci e dei nostri clienti, è ben più grande: è la volontà di impegnarsi per cambiare un sistema che produce ingiustizia e sofferenza.

Uscire dal guscio comporta tanta fatica e qualche errore. A tale proposito le segnalo che  la magistratura ci ha espresso sincero apprezzamento per la collaborazione offerta nell’inchiesta Mafia Capitale che non ci ha visto tra i colpevoli, ma tra le vittime.

Nel 2016, Banca Etica ha realizzato un utile di 4 milioni e 318 mila euro (l’utile del Gruppo raggiunge i 6 milioni), ha raccolto 1 miliardo e 227 milioni di risparmio con un incremento del 15% rispetto all’anno precedente e ha concesso 970 milioni di finanziamenti a progetti di sviluppo sociale e ambientale: si tratta di risultati piccoli rispetto ai volumi della finanza tradizionale, ma sono il segnale che un’altra finanza è possibile.

Finisco col dirle che Banca Etica non è controllata né dai 5 Stelle né da nessun altro partito o movimento politico, ma è orgogliosa di essere una banca cooperativa in cui gli oltre 40.000 soci contano tutti allo stesso modo – secondo il criterio di una testa/un voto – indipendentemente dalle quote di capitale possedute; proprio questi soci, partecipando alla vita della banca attraverso i Git, ci aiutano a non tradire mai la nostra missione e i nostri valori.

Sabina Siniscalchi

Siete ancora cattolici?

Gentile Redazione,
ho letto il giusto richiamo ai lettori a sostenere le spese di stampa e spedizione per la rivista. Premetto di sapere di non essere un lettore/finanziatore modello. […] Fatto sta che io la rivista la ricevo, la leggo e la faccio anche leggere. Vorrei fare però delle considerazioni. Con spirito costruttivo. […]

Dunque, io dopo varie vicissitudini sono arrivato (anzi dovrei dire tornato) ad accogliere il cristianesimo (ovviamente cattolico e romano, da italiano) in maniera convinta e oserei dire anche filiale. So cosa vuol dire essere scettici e critici verso il clero cattolico, perché lo sono stato anch’io. Non ho paura della critica anche perché alla fine permette di smascherare le menzogne. Ma trovo che nel mondo ecclesiale ci siano certi partiti presi, e certe posizioni che richiedono di mettere i puntini sugli «i».

Sono tempi in cui c’è chi sostiene che Gesù non abbia mai detto nulla contro l’omosessualità e con ciò imbastisce una sua pseudo teoria dell’accoglienza dei gay. Poi abbiamo chi dice che Gesù va interpretato perché non diceva cose universali, ma inserite nel suo tempo e con ciò imbastisce una pseudo pastorale del mondo moderno.

Per quanto riguarda la stampa missionaria italiana lo scenario è desolante (pensando alla situazione di solo 10 anni fa). Popoli ha chiuso. Africa ha cambiato redazione e si è subito esibita nell’elogio del matrimonio omosessuale. Ora sul sito di Missioni della Consolata vedo una bella bandiera arcobaleno a sette colori (per fortuna!). Ma perché non spiegate quale è la differenza con la bandiera arcobaleno a 6 colori? Almeno si eviterebbe la confusione di credere che la rivista si vuol far riconoscere come gay friendly. Voglio sperare che sia così, vero? Non crede che ci sia già una gran confusione in giro e che il clero debba fare chiarezza secondo il mandato di Gesù?

Nella rubrica «Insegnaci a pregare» di gennaio leggo: «Chi scrive, e quasi certamente chi legge, proviene da una formazione catechistica deformante che ci ha educati più all’ateismo pratico che allo spirito del Vangelo», ecc. Ma insomma è mai possibile che il culto di questo benedetto Concilio Vaticano II arrivi al punto di tale disprezzo dell’esercito di buoni cristiani che hanno tramandato la fede ai propri figli, amici e compaesani? Non è che don Farinella si sia un po’ montato la testa a credere di poterne sapere più di una nonna che insegna il rosario ai nipotini perché lui ha la laurea al Biblico di Roma? Ma si rende conto di cosa sta dicendo? È veramente sicuro lui di saperne di più di pedagogia? Mi sembra che l’insegnamento di Gesù suggerisca di dar più retta alla nonna pia che al plurilaureato in teologia.

Vivo in Germania e quindi sono immerso nel cattolicesimo critico, talmente critico che si elogiano tutti gli altri tranne la Chiesa Cattolica sempre presa di mira dai «teologi» (chissà perché hanno studiato tutti a Tübingen…). Qui da me guai a citare il KKK (Catechismo della Chiesa Cattolica). È tutto un «cercare», «sentire lo spirito», «rimanere in ascolto», ma mai e poi mai si deve poi trovare o sentire qualche cosa. Salvo che lo abbia sentito e trovato qualche «teologo» […].

Lascio stare i retroscena e le «manovre» riguardo al passato Sinodo della famiglia e relativo documento venuto dopo. Parlo dei retroscena che ho visto e vissuto e che abbondantemente superano la soglia di lealtà verso chi crede che in 2000 anni di cristianesimo, innumerevoli martiri e santi abbiano da insegnare qualche cosa di più dell’ultimo «teologo». Il quale sì «ha coraggio e fede nello Spirito» (ci dice don Farinella), mentre i catechisti di prima erano tutti storditi e non sapevano di essere complici di «un clero incapace (sic!) che ha dato vita a una catechesi inadeguata guardando più alla quantità che alla qualità».

Vorrei sapere se il mio sperare in una rivista di sicuro indirizzo cattolico è ben posto perché sinceramente tutta questa «catechesi al contrario» è di una noia mortale.

Ho una figlia di undici anni e, dopo aver parlato con la responsabile della pastorale della parrocchia e con l’insegnante scolastica di religione, ho deciso di prendere i tanto vituperati catechismi e trasmettere a lei l’Abc della fede. Mi vanno bene tutti i catechismi, dall’ultimo compendio a quello tridentino, che, fino a prova contraria, hanno ottenuto più risultati in quantità e qualità dei «teologi» che hanno studiato pedagogia.

Mi scusi lo sfogo, ma non se ne può più. Un po’ di umiltà non farebbe male. Per il resto la rivista è sempre più di geopolitica (adesso come adesso l’aspetto che preferisco), sociologia, relazioni internazionali, ma sempre meno di formazione Cristiana (il sottotitolo è ancora Rivista missionaria della famiglia). Sono capaci tutti a dare la colpa agli altri. Potrei andare avanti ma forse sono già stato troppo noioso e mi fermo qui. Faccio la mia offerta ma sono alquanto deluso, anche se speranzoso. Cordiali saluti

Andrea Sari
21/04/2017

Caro Sig. Andrea,
ho pubblicato la sua lettera dall’A alla Z. Ho cercato di comprendere il disagio che lei prova e cerco di rispondere con la sua stessa franchezza.

Avrà visto che ho cambiato il fondo del link allo sfogliabile per evitare equivoci. Ma ho pensato: «Cavolo, mi hanno rubato l’arcobaleno!». Sarà che sono stato abbastanza fuori dall’Europa, ma l’arcobaleno a me ricorda sempre e solo quello di Noè (Gen 9) ed è un motivo di gioia, anche se ai miei amici keniani dava tristezza perché «portava via la pioggia».

Le pagine di don Paolo Farinella fanno certamente discutere per alcuni suoi commenti sulla vita della Chiesa, ma offrono soprattutto il pane buono e solido della Parola di Dio trattando i lettori da cristiani adulti nella fede (vedi 1 Cor 3,1-3 in parallelo con Eb 5,13-14).

Quanto al Vaticano II, mi sembra che in realtà succeda il contrario di quanto lei scrive: lo si rifiuta nel nome della «Tradizione» della Chiesa. Ma quale «Tradizione»? Non è forse una scelta di parte quella di prendere dalla «Tradizione» quello che piace? Accogliere lo spirito del Concilio è essere innestati nella fede antica e solida della Chiesa per viverla nell’oggi e non è certo disprezzare la fede semplice e genuina della «nonna». Ce ne fossero ancora tante di quelle nonne. Vorrei avere io la fede genuina, forte e operosa che ho visto vivere da persone che fanno parte della mia infanzia.

A oltre 50 anni dal Vaticano II, si può dire senza paura che quel concilio è stato un grandissimo avvenimento di grazia per la Chiesa e appartiene a pieno titolo all’autentica «Tradizione». Vi parteciparono oltre 2.000 vescovi di tutto il mondo, un papa che ora è santo, un altro che ora è beato, e altri tre futuri papi, di cui uno, Giovanni Paolo II, anch’egli santo e un altro che ha poi fatto la scelta coraggiosa e inedita di dimettersi. Hanno sbagliato tutto? Sono stati meno «Tradizione» dei 25 vescovi e 5 superiori generali presenti all’inizio del Concilio di Trento nel 1545 o dei 255 dell’ultima sessione del 1563?

Quanto a noi cerchiamo di essere profondamente ancorati alla Parola di Dio e all’insegnamento della Chiesa, di cui il Vaticano II è un pilastro. E lo facciamo con amore e passione per la Chiesa, ringraziando lo Spirito di vivere in questo nostro tempo di Grazia.

Nella rivista, siamo coscienti di correre il rischio di essere troppo sociali, ma siamo convinti che l’autentico annuncio del Vangelo deve tener conto di «tutto l’uomo», non solo della sua dimensione spirituale. Nello stesso tempo non ci siamo mai tirati indietro nell’affrontare argomenti che riguardano la fede e la vita della Chiesa.

Cerchiamo di servire la verità nella carità senza seguire la moda o cercare popolarità, consci di non essere tuttologi e di avere tanto da imparare. Grazie.




Finanza etica, eppure esiste


Gran parte del prodotto dal crimine viene riciclato in attività legali. E passa attraverso meccanismi finanziari bancari. Esiste però anche una finanza che fa del bene. Si è dovuta dotare di strumenti di controllo molto rigorosi.

L’onorevole Rosi Bindi, presidente della Commissione parlamentare antimafia va ripetendo che troppo spesso dove c’è il denaro c’è anche la mafia. Le attività criminali, sempre più lucrose, sono facilitate dalla globalizzazione che ha abbattuto le frontiere economiche ed eliminato i controlli. Il commercio di droga e altre sostanze illegali, il traffico di armi, l’esportazione dei rifiuti dai paesi ricchi a quelli poveri, fino all’aspetto più odioso che è il traffico di esseri umani sono prosperati negli ultimi trent’anni.

L’Agenzia delle Nazioni Unite per la prevenzione del crimine (Unodc) conferma che l’enorme quantità di denaro prodotto dalle iniziative criminose solo in parte viene reinvestita nella criminalità o nei paradisi fiscali, il resto viene «lavato» e riciclato in attività economiche per così dire «normali». Laddove le banche sono restie a prestare denaro a piccole e medie imprese, perché il margine di intermediazione è sempre più ridotto, arriva la criminalità.

Ma anche negli scambi leciti e «puliti» il denaro può fare danno, la crisi del 2008 ha dimostrato come il risparmio venga utilizzato non per sostenere l’economia reale, ma per alimentare la speculazione e appagare l’avidità di profittatori senza scrupoli.

I risparmiatori rimangono vittime di dirigenti e amministratori bancari spericolati che fanno scelte azzardate portando al fallimento la propria azienda e costringendo lo stato a intervenire con costosi piani di salvataggio.

Prima di depositare il nostro denaro nelle banche, dovremmo chiederci e chiedere che fine fa, non solo per tutelare il nostro patrimonio, ma per evitare di diventare, sia pure inconsapevolmente, conniventi con speculatori e delinquenti.

Dopo i disastri provocati dalla finanza, l’Abi (associazione delle banche italiane) e le sue consorelle straniere, insistono sull’importanza dell’educazione finanziaria dei cittadini, come se la responsabilità di quello che è successo fosse nostra, della nostra mancata conoscenza dei meccanismi del sistema bancario.

In realtà sono le banche che hanno tradito la loro missione: raccogliere risparmio e investirlo nelle imprese, nei territori e nel benessere delle persone.

Il presidente Trump, appena insediato, ha messo mano alla legge Dodd-Frank, approvata dall’amministrazione Obama dopo il crac della Lehman con l’obiettivo di mettere ordine nella finanza e impedire alle banche di speculare con i propri patrimoni che servono, invece, a coprire i rischi di credito.

Le grandi banche statunitensi hanno protestato contro i controlli previsti dalla legge e il nuovo presidente si è precipitato ad accontentarle.

Eppure esiste una finanza che, non solo funziona, ma fa del bene.

Banca Etica ne è un esempio italiano, è stata fondata nel 1999 da centinaia di organizzazioni e singoli cittadini che hanno raccolto il capitale per creare un istituto che agisse secondo i principi della finanza etica, primo fra tutti considerare il credito un diritto umano e valutare sempre l’impatto delle attività economiche su società e ambiente.

Banca Etica funziona come una banca normale: raccoglie risparmio e lo investe in progetti. Ciò che la rende «etica» sono – oltre ai principi ispiratori – alcune peculiarità: ad esempio rende pubblico l’elenco delle attività finanziate, è una banca cooperativa in cui i soci sono molto attivi ed esercitano un controllo reale sulle scelte degli amministratori, nel processo del credito associa l’istruttoria sul merito creditizio con la valutazione socio ambientale del richiedente, infine, in Banca Etica, la differenza tra la retribuzione massima e quella minima non può superare il rapporto 6 a 1.

Del gruppo Banca Etica fa parte Etica sgr, una società di gestione che investe esclusivamente in fondi selezionati sulla base di un centinaio di criteri molto rigorosi che ne misurano l’impatto sociale e ambientale, la governance, l’impegno contro la corruzione, ecc. I fondi di Etica non solo premiano aziende e stati virtuosi, ma hanno anche un rendimento molto elevato, a conferma del fatto che l’etica conviene sempre.

La Banca Etica agisce seguendo determinati criteri che rendono più etica e giusta l’attività bancaria, non si tratta di criteri irrealistici, anche altre banche potrebbero adottarli e questo sicuramente renderebbe il sistema più trasparente e meno rischioso per i risparmiatori.

Una cosa è sicura: chi deposita il proprio denaro in Banca Etica ha la certezza che servirà a migliorare la vita delle persone e a cambiare in meglio il nostro paese.

Sabina Siniscalchi

 




Schiavi nella paura, liberi nel timore


Stiamo certamente vivendo tempi difficili. Non occorre essere dei maghi per saperlo. E non è una crisi come le tante che abbiamo già vissuto o a cui abbiamo assistito da spettatori nel non lontano passato. La crisi è in casa nostra. Sta sconvolgendo il nostro modo di vivere, le nostre sicurezze, i valori in cui crediamo, le nostre relazioni, il nostro modo di essere, qui in casa nostra. E non solo siamo messi in pericolo nel presente, ma siamo derubati del nostro futuro.

E abbiamo paura.

Non è nuova la paura. È compagna del nostro modo di vivere ormai da molto tempo, anche se fino a oggi avevamo imparato a conviverci senza neanche rendercene conto. È cresciuta pian piano insieme al nostro benessere in contemporanea con l’accorciarsi delle distanze che i nostri bambini possono percorrere senza essere accompagnati. Si è insinuata nelle pieghe della nostra esistenza con l’aumentare dell’ansia e dello stress e la scomparsa del sorriso dalle nostre facce. È aumentata insieme al nostro ego gonfiato da tanti diritti, difesi con sempre maggior bellicosità, mentre calava la tolleranza verso gli altri, soprattutto la fiducia in chi lavora al nostro servizio: medici, insegnati, preti … Sembra svanire tutte le volte che aggiungiamo un amico digitale nei social, ma poi si riaffaccia quando ci rendiamo conto della nostra solitudine priva di amici veri.

E c’è chi ci guadagna sulla nostra paura. Politici l’alimentano ad arte per una manciata di voti. Datori di lavoro la usano per sfruttarci e ricattarci. Avvocati guazzano nella nostra litigiosità. Costruttori trasformano le nostre case in prigioni. Maghi, astrologi, guru di vario tipo, profeti e veggenti, esorcisti e guaritori, apocalittici e imbroglioni, lobbisti e burocrati, costruttori d’armi ed esperti di sicurezza, case farmaceutiche e salutisti, assicuratori ed estetisti, la tengono ben viva per non perdere un’inesauribile fonte di ricchezza.

Come se non bastassero i guai che abbiamo già, ecco migranti, profughi e rifugiati che, ci dicono, ci rubano il lavoro, portano malattie, si prendono tutti i privilegi ignorando i doveri, mangiano le risorse pubbliche che dovrebbero invece andare ai cittadini, sono ladri e delinquenti cacciati dai loro paesi che così hanno svuotato le prigioni, sono vivaio e nascondiglio di terroristi. Ed ecco il terrorismo, l’incubo dei nostri giorni, che ti fa sentire davvero nudo e indifeso.

È il trionfo della paura che ci toglie libertà, gioia, fiducia, speranza, futuro.

Rassegnati al peggio, dunque?

Timore. È una parola abusata perché abbinata a paura, come se fossero madre e figlio. La sua accezione negativa è di sicuro la più popolare. Eppure il timore può essere tutt’altro rispetto alla paura, anzi, ne diventa il miglior antidoto. Un antidoto garantito dallo Spirito Santo, garantito da Colui che lo dona. Mentre la paura nasce dallo scontro con l’orribile, il terrificante e l’oscuro, il timore è risposta al bello, al grande, all’incommensurabile e «abbagliante». La paura vive di sudditanza e dominio, il timore cresce nel rispetto, costruisce relazioni, aumenta fiducia e responsabilità. Il timore sgonfia chi è troppo pieno di sé, rafforza l’autostima di chi non si considera abbastanza, fa vedere chi ci sta attorno come dei compagni di viaggio invece che come nemici e rivali.

Il timore si nutre di rispetto e meraviglia, come quando uno ha in mano un oggetto prezioso e delicato, come un padre che prende in braccio suo figlio appena nato, come il contemplare il cielo stellato dalla cima di un monte nel silenzio della notte. Allora il timore diventa contemplazione, la contemplazione ricerca, la ricerca conoscenza, la conoscenza sapienza, la sapienza relazione, la relazione incontro, l’incontro dono … E trovi la tua dimensione vera, senza superbia, autosufficienza e arroganza, in una realtà di relazioni libere e liberanti, in cui gli altri ti completano e sono da te arricchiti.

E il timore caccia la paura, perché al centro del timore c’è Dio, la meraviglia delle meraviglie, l’amore che sorprende, il paradigma e modello delle nostre relazioni. «Perfetti come il Padre è perfetto; misericordiosi come Dio è misericordioso». «Ama Dio e il tuo prossimo perché Dio ti ha amato per primo». E chi ama il prossimo ama Dio, e timora di Dio, si comporta da Dio. Una prospettiva così grande da indurre timore. Eppure un timore così forte da farti «alzare lo sguardo» e camminare in avanti, non da solo, ma insieme agli altri, nell’esodo della vita.

Buona Pentecoste.