Le tre p: pace, perdono, pazienza


A fine settembre e inizio ottobre in redazione si è vissuto col fiato sospeso nell’attesa del risultato del referendum pro o contro l’accordo di pace tra il governo della Colombia e le Farc, accordo che avrebbe dovuto cambiare la vita di quel paese dilaniato da ben 52 anni di instabilità e guerra che hanno causato danni e dolori inenarrabili. Ma il risultato non è stato quello che si sperava e ci ha lasciati con l’amaro in bocca, nonostante il meritato premio Nobel al presidente della Colombia Juan Manuel Santos, e con l’affanno di revisionare il nostro dossier nato nella speranza di celebrare la vittoria del «sì».

In tale contesto è stato abbastanza naturale pensare ad altre situazioni di non-pace e di guerra aperta che esistono nel mondo, così numerose e gravi da far ripetere con insistenza al nostro papa Francesco che stiamo vivendo la terza guerra mondiale. I fronti sono talmente numerosi che non c’è continente che ne sia risparmiato. Le domande che disturbano, guardando a realtà come quelle della Colombia, del Sud Sudan, della Siria sono tante: perché la pace non è possibile? perché, nonostante i millenari fallimenti della guerra, la si preferisce alla pace per risolvere contese? perché, per assurdo, si pensa che ci sia più giustizia in una guerra che in una scelta di pace? perché si crede non ci sia giustizia nel perdono e nella riconciliazione? E in nome della giustizia, della giusta riparazione, si continua a combattere, illudendosi che solo una delle due parti, ovviamente quella nel torto, soffra, mentre l’altra (naturalmente chi è convinto di aver ragione) celebra (o piange?) i suoi caduti eroi. Intanto produttori e venditori di armi giubilano all’impinguarsi dei loro profitti.

Non sta a me dare la definizione di pace (la prima «p»), ma certo non è solo «assenza di guerra». Pace è un modo di esistere, di relazionarsi, di abitare. Pace non è assenza di «conflitto», è anzi riconoscere il conflitto per risolverlo per il bene di tutti, senza vincitori né vinti, ma tutti vincitori. Pace implica armonia, bellezza, gioia, frateità, sicurezza, rispetto, diversità, libertà, solidarietà, equità. Pace è il bene di tutti ma anche la possibilità per ognuno di essere sé stesso, di realizzare la sua vita, di essere felice. Pace è sogno dell’uomo e dono di Dio, punto di arrivo di tutte le nostre aspirazioni. Nella pace fiorisce l’arte, la musica, la cultura.

Ma non c’è pace senza perdono (seconda «p»). Perdono è far prevalere l’amore su tutto il resto. È far sposare il noi con l’io, la gratuità con la legge, il bene comune col diritto individuale; è far prevalere la fiducia sulla diffidenza, la speranza sul pessimismo, la redenzione sulla condanna. Perdonare è riconoscere che il torto non è mai da una parte sola, come la sofferenza e la distruzione. Perdonare è il rifiuto di pensare l’altro come totalmente malvagio e senza redenzione. È credere che l’amore può vincere nel cuore dell’uomo «come scriveva il grande Nelson Mandela: “Nessuno nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe alla quale appartengono. Gli uomini imparano a odiare, e se possono imparare a odiare, possono anche imparare ad amare, perché l’amore, per il cuore umano, è più naturale dell’odio.” Dobbiamo solo crederci col cuore e con la mente!» (da post su Facebook di G. Albanese).

La terza «p» è pazienza, come quella che Dio ha con noi uomini. Una pazienza talmente grande da aver sconfessato nei secoli tutti i profeti di sventura, minaccianti fuoco e fiamme sui malvagi, fautori di tribunali di inquisizione, amici dei roghi o del taglio di mani e di teste per purificare il mondo da chi non la pensa come loro. Pazienza è saper ricominciare e perseverare ogni giorno, seminando ostinatamente piccoli semi di pace e di amore là dove uno vive, senza la pretesa di fare grandi rivoluzioni, di finire in prima pagina o di ottenere «tutto e subito». Pazienza è tessere relazioni nuove e «farsi prossimo» di chi ti è vicino a cominciare dalla tua scala, dal tuo palazzo, dalla tua via. Pazienza è essere inermi nelle situazioni in cui l’umanità è più violentata, come i missionari e i volontari che danno tutto sé stessi, anche la vita se necessario, nel cuore del Sud Sudan, nelle terre dilaniate da Boko Haram, nell’inferno di Aleppo, nell’isola di Haiti devastata dal ciclone Matthew, nelle foreste dell’Ituri saccheggiate dai predatori di legname e minerali, nelle periferie delle megalopoli … Un’elenco impossibile da completare.

La pazienza dell’amore costruisce la pace offrendo il perdono che dona ai nemici la possibilità di riscoprirsi fratelli, di prendersi carico delle proprie responsabilità, di reinventare relazioni, di aprirsi alla speranza. La pace è il dono che Gesù stesso ci ha dato, pagandolo con l’offerta della sua vita. Un dono troppo prezioso per essere lasciato solo nelle mani dei politici e dei maneggioni di questo mondo. Continuiamo insieme a «sognare» la pace.




Dov’era Dio


«Dio è l’essere perfettissimo, creatore del cielo e della terra». Così avevo imparato tanti anni fa al catechismo. Chiaro e indiscutibile. Perfetto Dio, perfetta l’opera delle sue mani. Rovinata però dall’uomo che, col suo peccato, ha scombussolato tutto il lavoro di Dio. Tutto chiaro e logico, fino a quando non ti capita una disgrazia, un terremoto, una malattia incurabile. E ti domandi: come è possibile che tutto questo sia colpa dell’uomo? Sarà pure uno che combina disastri e inquina, ma non è lui che ha inventato i terremoti, i tornado, gli tsunami, i virus… È colpa di Dio allora: la disgrazia, la terra che trema, le case crollate, tutti quei morti. E le malattie, le morti degli innocenti e dei bambini. È abbastanza normale prendersela con Dio quando le cose vanno male. Altrimenti di chi è la colpa?
Quando leggerete queste righe l’emozione mediatica sul terremoto che ha distrutto Amatrice e i paesi vicini sarà già scemata, anche se la situazione di chi abita quei paesi continuerà a essere molto dura. Anche se la domanda non avrà ancora ricevuto risposta: dov’era Dio quando sono morti tanti innocenti?
Ho guardato con partecipazione e dolore alle sofferenze di chi in pochi secondi ha perso tutto, casa e persone amate. Anch’io mi sono chiesto «Dov’era Dio quella notte?». Faticando a trovare una risposta che mi appagasse, mi sono allora fatto una seconda domanda: «Dovera l’uomo (prima di) quella notte?».
Da sempre l’umanità conosce terremoti e disastri naturali. Un tempo pensava che fossero frutto di forze oscure, serpentoni, diavoli e mostri vari. Oggi invece abbiamo le conoscenze e i mezzi per capire, prevedere, prevenire. Conosciamo che la terra si muove e si deve muovere, guai se non si muovesse. «Panta rei», diceva Eraclito quasi 2500 anni fa, tutto si muove. E sappiamo che movimento è vita. I terremoti sono «normali» nella dinamica della terra. Sappiamo come costruire in modo sicuro, per prevenire morti e distruzioni irreparabili. Eppure non lo facciamo o lo facciamo male e così un terremoto diventa il catalizzatore che mette a nudo il «lato oscuro» della nostra umanità: l’incuria, il disinteresse, l’approfittare delle disgrazie altrui, l’avidità di chi mette soldi e guadagno al primo posto a spese della vita di altri. L’uomo avrebbe potuto evitare il disastro, ma non lo ha fatto.
Ma quello stesso uomo del prima terremoto, irresponsabile e troppo fiducioso nella sua fortuna, l’ho visto dopo sotto le macerie a chiedere salvezza e sopra le macerie a offrire aiuto.
E ho intravisto una risposta alla domanda «dov’era Dio quella notte». Dio era là: piangendo con chi piangeva, accogliendo nelle sue braccia quelli che la morte non aveva risparmiato, condividendo la sorte di chi si sentiva smarrito, la rabbia di chi si sentiva ingannato e abbandonato. Dio c’era. Era là per farsi carico della speranza, ridare fiducia all’umanità tramite lo slancio generoso dei soccorritori, i volti impolverati di chi scavava a mani nude per salvare una vita, la pietà di chi ricomponeva i corpi martoriati, la dedizione di chi curava i vivi, la presenza instancabile del vescovo di Ascoli.
Dio era là per dire ancora una volta il suo amore per l’uomo, la sua fiducia nelle sue capacità di riscatto, ricostruzione e cura del creato. Dio era là per ripeterci che crede in noi, nella nostra responsabilità, nella nostra libertà e autonomia, nel nostro cuore e nella nostra intelligenza. Era là per riconfermare che non è pentito di aver affidato il creato all’uomo da lui fatto a sua immagine e somiglianza con la capacità «divina» di fare il suo stesso lavoro. Là Dio, ancora una volta, ci ha mostrato di credere nell’uomo più di quanto l’uomo stesso ci creda.




Bestemmie


Appena arrivato in Kenya, i miei confratelli mi hanno raccontato una storia assai popolare tra loro. Era quella di un giovanotto che, avendo lavorato con operai italiani alla costruzione di una strada, si vantava di sapere la nostra lingua. Sfidato a provare il suo talento, aveva snocciolato una bella sfilza di colorite bestemmie. Buffo e penoso, pensai allora, benché, da bresciano quale sono, fossi abituato fin da bambino a sentirne, soprattutto dai muratori, bestemmiatori seriali, e, diventato poi prete, nelle confessioni di Natale o Pasqua, quando sentivo «mi è scappata qualche bestemmia», riuscissi a immaginare la sfilza di perle italiche sparate in automatico.

Non è certo di quelle bestemmie che voglio scrivere ora, anche se mi hanno sempre messo a disagio per la loro gratuita stupidità. Altre sono le bestemmie che oggi trovo davvero repellenti e inaccettabili, perché feriscono e degradano l’immagine di Dio che è l’uomo.

Una è quell’«Allah akbar» gridato con orgoglio dagli assassini dell’Isis e loro aggregati. Ma come si può urlare che «Dio è il più grande» quando si violenta l’immagine stessa di Dio uccidendo persone innocenti, colpendo di proposito i più deboli e indifesi, stuprando e vendendo donne come se fossero oggetti, o trasformando bambini innocenti in portatori di morte? Quale sarebbe la grandezza di questo dio? Un dio che terrorizza e distrugge l’opera stessa delle sue mani non è dio, non certo il Dio dell’Islam, ma il frutto del più ottuso e superbo, anche se inconsapevole, ateismo. È un idolo di morte fatto a immagine e somiglianza degli uomini che lo usano nel loro delirio di onnipotenza. Di fatto sostituendosi a Dio: non gli uomini strumento di Dio, ma Dio strumento degli uomini.

Il Dio di Gesù Cristo è ben altro. È il Dio della vita e dell’amore, un amore gratuito e totale. È il Dio che – citando Osea 11 – «attira con legami di bontà e con vincoli di amore», che, come un padre, solleva il suo «bimbo alla guancia» e, come una madre, «si china su di lui per dargli da mangiare», mentre il suo «cuore si commuove e l’intimo freme di compassione» (cfr. Lc 15). È il Dio che manda i suoi «angeli» (Lc 9,52) a «guarire gli infermi, risuscitare i morti, purificare i lebbrosi, scacciare i demoni», senza «oro né argento, né denaro, né sacca da viaggio, né vestiti di ricambio, né sandali di scorta e neppure il bastone» (forse anche per evitare di usarlo come arma), e a portare come dono la pace, senza imporre niente a nessuno, ma offrendo solo la gratuità dell’amore (cfr. Mt 10). Questo è stato Gesù, l’unico cha ha davvero visto Dio (il Padre) ed è stato capace di mostrarcelo attraverso la sua vita, le sue parole, le sue azioni di misericordia e il dono finale di sé (cfr. Gv 12,44; 14,5ss).

È il Dio amato da santa Maria Goretti che abbiamo ricordato il 6 luglio nella settimana in cui la liturgia ci ha offerto i brani di Matteo e di Osea sopra citati, mentre i media ci narravano degli orrori del mercato delle schiave yazide, in Sud Sudan riprendeva con rinnovata violenza la terribile guerra civile di cui parliamo nelle pagine intee, i corpi delle vittime di Dacca venivano restituiti alle loro famiglie, Emmanuel, giovane marito innamorato, veniva pestato a morte a Fermo, e a Dallas avveniva l’ennesima tragedia a sfondo razzista.

Che c’entra Maria Goretti, uccisa da chi diceva di amarla e voleva solo il suo corpo? C’entra, perché aveva capito che il Dio vero è quello delle vittime, non dei carnefici. E poi perché la sua figura smaschera un’altra bestemmia dei nostri tempi, sempre contro l’immagine di Dio che è l’uomo: il fare del corpo un oggetto di desiderio, che porta, tra l’altro, adolescenti in branco a violentare le loro stesse compagne, giovanissime a concedersi o a esibirsi per non essere escluse dal gruppo, adulti a far fiorire il traffico di bambini e donne per il ricchissimo mercato della prostituzione, pedofilia e turismo sessuale, gruppi mafiosi a controllare e promuovere la pornografia online.

E la lista delle bestemmie non finisce qui. È una violenza all’immagine di Dio, cioè all’uomo, anche il gioco d’azzardo che vende illusioni, rovina famiglie, crea povertà e confonde la scala dei valori nella vita delle persone. Non basta la legalizzazione e il controllo da parte dello stato, che ottiene così miliardi di euro imbrattati di lacrime e sangue, per renderlo accettabile o perfino un diritto. Su un livello più alto è violenza all’uomo anche il grande gioco d’azzardo dei mercati azionari, dove, come abbiamo visto in questo ultimo mese, si bruciano, a dispetto degli affannosi interventi delle istituzioni, miliardi su miliardi ipotecando il futuro di intere nazioni e aumentando a dismisura il peso del debito pubblico sulle spalle di ogni persona, il tutto nel nome della libertà di mercato, ma in realtà a solo vantaggio di pochissimi ricchi in delirio di onnipotenza che hanno perso il senso dell’umanità.

Gesù ha detto: «Che vedano le vostre opere di giustizia e rendano gloria al Padre» (Mt 5,16). Contro il moltiplicarsi delle bestemmie ci vogliono opere di bene, fatti di giustizia a opera di «martiri» e «angeli» che con la loro vita rivelino il vero volto di Dio, che è amore.