Oramai ci siamo abituati: l’osservazione astronomica e gli schermi sempre accesi che ci circondano, rendono i segreti dell’universo a portata di sguardo. Nella quotidianità. Basta un computer o un’app sul cellulare per avere splendide immagini della Terra vista dalla Luna, emozionanti vedute della profondità delle galassie e degli intriganti misteri dei buchi neri, e per provare a «contare» le stelle.
Vediamo davvero lontano.
Vedere è un verbo complesso, con molte sfumature di significato: parte dal guardare o immaginare qualcosa, diventa assistere e osservare per notare e constatare, passa poi al giudicare e verificare, controllare e provare, per arrivare infine a valutare e decidere, e molto altro ancora. Tutte queste cose le esprimiamo con «vedere». E poi ci sono il «vedo nero», il «vedo rosso», le «rosee vedute» e le «larghe vedute», c’è il «vedersi» come incontro, il «ci vediamo» come promessa, ma anche il «te la faccio vedere io» come minaccia, il «farsi vedere» come esibizione e rivalsa.
In più, la tecnologia del «vedere», oggi, senza rendercene conto, può procurarci un senso di onnipresenza e di onnipotenza. Con la pressione di un dito su uno schermo possiamo ritrovarci (o avere l’illusione di trovarci) sulla cima dell’Everest, nelle profondità dell’oceano o ai confini dell’universo. Posso vedere di tutto e di tutti, e pensare di essere informato, di conoscere, di sapere.
Vedo tanto, vedo tutto, vedo lontano.
Ma rischio di non vedere la donna che rovista nei cassonetti sotto casa, l’anziano «del 6° piano» che vive nell’abbandono, i miei figli che vedono anche loro tutto in uno schermo, ma nella solitudine. Vedo le coperte e i giacigli dei senzatetto negli angoli della mia città, scocciato dalla sozzura e dal disordine, senza vedere però la persona che lì vive il suo disagio, la sua solitudine e la sua emarginazione. Vedo il migrante dalla pelle scura davanti al supermercato, sento risuonare in me le parole sentite, e magari dette, mille volte su «quelli come lui»: ci rubano il lavoro, vendono la droga, portano delinquenza, approfittano delle nostre case popolari, dei nostri sussidi, ma non riesco a vedere il giovane ferito nel corpo e nel cuore da guerre e fame che l’hanno fatto migrare nonostante il terrore dei trafficanti di uomini.
Vedo il prezzo dei pomodori, quello delle pesche, dei peperoni, del cellulare, della camicia, della benzina. Ma non vedo chi ha raccolto quei pomodori per una paga da fame, schiavizzato dai caporali, sgherri di proprietari terrieri ricattati dalla grande distribuzione che non paga il giusto. Invisibili sono i bambini chi escono dai buchi della terra con il coltan così essenziale per la tecnologia che mi circonda. Lontanissime le donne curve a cucire i miei indumenti. Irreali le cannonate di chi lotta per il controllo del nostro gas e petrolio.
Vedo con orrore e preoccupazione l’Amazzonia in fiamme, ma faccio fatica a vedere il legame tra quegli incendi e l’espansione dei pascoli e la cacciata dei popoli indigeni dalle loro terre per l’insaziabile domanda di carne dei nostri mercati.
Vedo i soliti politici gridare contro i migranti, li vedo, e magari li applaudo (e li voto) anche… ma rischio di non vedere le vite spezzate delle persone trafficate, schiavizzate, abusate sessualmente, costrette in condizioni disumane nei campi di detenzione della Libia, nell’isola di Lesbo, nei campi profughi del Libano; rischio di non vedere gli occhi dei bambini ingabbiati negli Usa, di quelli cacciati come animali ai confini della Bulgaria, dei siriani usati dalla Turchia per ricattare l’Europa, di quelli annegati nel Mediterraneo per l’ignavia di quella stessa Europa, e dei morti sotto i troppi muri e barriere.
Vedo e non vedo e, soprattutto, spesso non voglio vedere.
Perché se davvero vedessi bene, dovrei cambiare il mio modo di agire, di spendere, di informarmi. Perché Qualcuno ci ha insegnato che c’è anche un vedere che diventa conoscere, e un conoscere che è lo stesso che amare. Se vedessi bene, con il cuore, mettendo al centro la persona, correrei il rischio di ritrovarmi meno onnipotente, ma più presente e, magari, più umano.
Restiamo umani
testo di Gigi Anataloni, direttore MC |
Un virus diecimila volte più piccolo di un millimetro, capace di replicarsi a velocità folle, da mesi sta tenendo il mondo in scacco, buttando all’aria l’economia, sfidando la politica, mettendo a nudo la nostra fragilità e i nostri errori, obbligandoci a rivoluzionare il nostro modo di vivere e offrendoci l’opportunità di revisionare le nostre scelte nel campo della salute, dell’ambiente, del trasporto, del divertimento, e persino il nostro modo di vivere la dimensione religiosa.
Fin dai primi giorni ci siamo ripetuti come un mantra «ce la faremo», «andrà tutto bene», per trovarci oggi, in realtà, in una crisi a cui non eravamo preparati. Una crisi che non solo aumenta il disagio sociale nelle nostre nazioni ricche, ma rischia di far crescere esponenzialmente le situazioni di povertà e le diseguaglianze in gran parte del mondo.
Una crisi che da una parte ha fatto emergere valori bellissimi di solidarietà, fraternità, gratuità e buon vicinato, ma dall’altra ha aperto nuovi spazi di manovra per gli sciacalli delle mafie – sia quelle tradizionali che quelle in doppiopetto delle multinazionali e della finanza -, gli assetati di potere e i nuovi profeti che hanno le soluzioni magice in tasca.
Le bandiere, gli arcobaleni e gli striscioni con le scritte «ce la faremo» o «andrà tutto bene» ci sono ancora, sempre più sbiaditi però. La voglia che tutto finisca presto è grande. Aumenta la stanchezza per un modo di vivere che non è naturale. Si guarda con scetticismo a chi promette sicurezza, ma allo stesso tempo chiude la vita, gli affetti, le relazioni, la gestualità e la libertà in gabbia.
Pur con grande incertezza, stiamo muovendo i primi passi fuori dal tunnel. Il rischio è quello di ritornare alla vita di prima ignorando quello che dalla pandemia potremmo imparare. In questa voglia di recupero, corriamo anche il pericolo di dimenticarci il resto del mondo, già normalmente poco ricordato, per curarci solo di noi stessi e delle nostre ferite.
Le notizie che arrivano da altri paesi del mondo sono tutt’altro che incoraggianti. L’Africa, che sembra resistere al virus meglio di quanto ci si aspettasse, è ancora lontana dal picco della pandemia, e questo è preoccupante, conoscendo lo stato deficitario del suo sistema sanitario che favorisce solo chi può pagare, mentre i poveri non hanno alcuna protezione, a parte quella offerta con grande sforzo dalle Chiese e dalle Ong.
I poveri, cioè la stragrande maggioranza della popolazione, stanno pagando la pandemia in due modi: non possono «lavorare», e quindi non mangiano, e se si ammalano (e non solo del coronavirus) sono fatti loro. Che poi abbiano più paura della fame (che conoscono) che del virus (di cui sentono tanto parlare), è normale. E questo è vero in tutto il mondo: dal Messico con i suoi 100 morti al giorno per violenza, all’India con milioni di persone buttate sulla strada; dal Brasile dove le autorità negano il problema e sacrificano i popoli indigeni nella dissennata corsa all’oro e alle altre risorse dell’Amazzonia, al Venezuela che aveva un sistema sanitario collassato già prima della pandemia.
La sfida è grande, e per questo occorre pensare in grande e in modo nuovo e creativo. È tempo di mettere al centro la qualità della vita e non solo la «sicurezza». Soprattutto occorre restare umani e accettare e valorizzare fino in fondo la nostra umanità, senza cedere alla logica della paura e della diffidenza. Distanze, mascherine e quant’altro, funzionano se ci permettono di «stare insieme nel rispetto reciproco, trasmettendo l’idea che le attenzioni che abbiamo sono un modo per prenderci cura dell’altro e di noi stessi e non lo specchio di una paura dell’altro*». Questo nelle relazioni interpersonali, in casa o con il vicinato, ma anche nei rapporti tra nazione e nazione. È la grande sfida, ad esempio, dell’Europa di oggi, se non vuole restare un puro agglomerato economico. È l’occasione per reinventare le relazioni tra paesi poveri e paesi ricchi, nella coscienza che o ci salviamo e salviamo questo nostro mondo insieme, o è la rovina per tutti.
Scrivere in questi giorni non è facile. La realtà è così complicata che vorrei tanto poter semplicemente tacere. Però un dramma come quello dei profughi siriani non può lasciare indifferenti, anche se siamo confusi dal coronavirus che sta contagiando il mondo. Mi viene inoltre da pensare che ci sia un virus più pericoloso del Covid-19, un virus che attacca cuore, occhi e orecchie, e mina l’umanità che è in noi nel nome della paura, della sicurezza e del potere. Ha contagiato Erdogan, Trump, Putin, i governanti d’Europa, i dirigenti delle multinazionali, i politici nostrani primatisti o opportunisti, i politici africani corrotti, i «giocatori» di borsa e chiunque non vede altro che il proprio interesse. Anche noi, gente comune, siamo a rischio di contagio.
Che migranti o rifugiati o stranieri provengano dalla Siria, dall’America centrale o dalla Libia, non cambia molto: sono tutti carne da macello, numeri da usare in campagna elettorale. Alla spregiudicatezza di Erdogan, alla furbizia di Putin e alla pavidità dell’Europa, fanno da controcanto la boriosa sicurezza di Trump e la cieca ostinazione di Maduro. E così si costruiscono nuovi muri, gabbie e campi per contenerli, si dispiega l’esercito, si penalizza chi soccorre, mentre i trafficanti «lavorano» indisturbati.
Aggiungi a tutto questo la tracotanza di Bolsonaro nell’arraffare l’Amazzonia, la violenza dei fanatici dell’Isis e dei gruppi jihadisti che terrorizzano il Medio Oriente e l’Africa, la mancanza di scrupoli delle multinazionali che per il controllo delle materie prime fanno affari con politici corrotti e gruppi armati di ogni genere in Nigeria, Centrafrica, Mozambico, Sudan e tanti altri paesi, tra cui il Congo Rd (che sta pagando con milioni di morti), sotto lo sguardo impotente delle Nazioni unite e il tacito consenso delle grandi nazioni industrializzate. Aggiungici la corsa agli armamenti che non conosce sosta, il water grabbing e il land grabbing per avere il controllo e il monopolio di risorse essenziali come acqua e cibo, e l’uso spregiudicato dello strumento del debito per mantenere nazioni, pur tra le più ricche di risorse, in condizioni di perenne sudditanza e povertà, e il quadro sarà quasi completo.
Lo so, quando elenco queste cose mi lascio prendere la mano, perché il silenzio dei poveri è assordante, e qui da noi (nel Nord del mondo), soprattutto di questi tempi monopolizzati dalle notizie «virali», di loro non si parla, se non marginalmente.
Il modo in cui i rifugiati siriani sono usati nella battaglia per il controllo del petrolio (e dell’acqua) tra Turchia, Russia, Europa, Usa e paesi tutti del Medio Oriente è vergognoso. Usati e calpestati, senza ritegno, come merce di scambio e ricatto. Come usati e calpestati sono i lavoratori di tante fabbriche in Cina, Bangladesh e altre nazioni dell’Asia, ma anche in Etiopia e altri paesi africani. Usati e calpestati come coloro che scappano dal Centro America e Venezuela, o come i popoli indigeni dell’Amazzonia, dell’India o della Papua Nuova Guinea.
In questi giorni di virus, in un contesto di cambiamenti climatici e guerre (anche economiche) per procura, stiamo vivendo una situazione del tutto nuova. Siamo «costretti» a vivere davvero una «quaresima» che mette a nudo la nostra fragilità. Quando leggerete queste righe, forse (ma proprio forse) il peggio sarà già passato, almeno da noi, e qualcuno riderà, triste consolazione, di altri paesi che ci hanno trattato come degli «untori». Ma «il peggio» sarà davvero passato solo se avremo saputo «leggere i segni dei tempi» e colto l’opportunità di guarire dai mali che ci affliggono dentro, per rialzarci e rinnovare il nostro impegno a vivere in modo responsabile, solidale e fraterno in questo mondo.
Questa «quaresima» forzata può essere un tempo di grazia, nel quale ascoltare dalla nostra «stanza interiore» la Parola del Dio di Gesù Cristo, di un Padre che non minaccia, non ricatta e non punisce, ma invita a diventare davvero noi stessi, più umani secondo la misura del Figlio dell’Uomo, che ha fatto dell’amore, del perdono, del servizio, della mitezza e della gratuità lo stile della sua vita.
È stato bello in questi tempi vedere tanti gesti di amore, servizio e solidarietà da parte di medici, infermieri, volontari e persone ordinarie, giovani e anziane. È il volto luminoso di questa nostra Italia. Un bel segno di speranza per tutti, e di resurrezione. Buona Pasqua.
Quando ho scritto questo editoriale agli inizi di marzo, ho peccato di ottimismo. La situazione che stiamo vivendo è ancora piena di tante incognite e l’epidemia è diventata una pademia. Ma se ho peccato di ottimismo, non ho certo sbagliato ad avere speranza. E quanto stiamo vivendo, la generosità di tantissime persone e i gesti di incredibile bellezza e gratuità che vengono fatti, confermano tale speranza.
Come missionari e missionarie della Consolata siamo vicini ai nostri famigliari, parenti, amici e benefattori coinvolti in questa pademia. Molti di noi sono nativi delle regioni più colpite. Ciascuno di noi, anche lo scrivente, piange i suoi. Ci sentiamo uniti a tutti e a ciascuno, offrendo soprattutto la nostra preghiera, il nostro partecipato silenzio, le nostre lacrime.
E siamo anche solidali con i nostri confratelli e le nostre consorelle che in Africa, Asia e America latina si trovano ora ad affrontare la pandemia con persone che spesso vivono in condizioni di estrema povertà e disagio sociale.
Che la beata Leonella, infermiera che ha curato per tutta la sua vita, e la beata Irene, che ha scelto di dare la sua vita per gli ammalati di peste, ci siano vicine in questo tempo difficile. Uniti nelal preghiera e nell’affetto.
P come pace
testo di Gigi Anataloni, direttore di MC |
Ci sono 8.113 vocaboli che cominciano con la lettera «p» nel dizionario italiano. È un mondo di parole ricche di possibilità. Alcune sono indispensabili e parlano al cuore. La prima è Pace. Cominciamo ogni anno con la giornata per la pace (**). Una giornata che è preghiera, sospiro, speranza, ringraziamento e anche protesta. Preghiera, perché la vera pace si ottiene solo da Dio. Ringraziamento, perché la pace è un dono. Sospiro e speranza, perché richiede grande impegno, pazienza e perseveranza. Protesta, perché non si può stare zitti e passivi di fronte a chi, invece della pace, fomenta a tutti i costi la guerra. Guerre e conflitti insanguinano oltre 50 nazioni del mondo, soprattutto in Asia e in Africa, ma non solo. Intanto impinguano le casse dei potenti che, non contenti di produrre armi tradizionali, inventano e sfornano ordigni sempre più sofisticati e distruttivi in un’assurda corsa alla morte. Quante volte si può distruggere un pianeta? Di fronte a questa realtà occorre tirare fuori la parresia cristiana, una parola ben presente nel Nuovo Testamento per indicare il coraggio, l’audacia, la franchezza e la libertà di spirito del cristiano nel testimoniare e vivere la sua fede in colui che è la Parola di Vita e la vera pace del mondo.
La Parresia non manca certo a papa Francesco (***), il quale, tornando dal Giappone dopo la visita a Hiroshima e Nagasaki, ha detto parole chiare. «L’uso delle armi nucleari è immorale, […] e non solo l’uso, anche il possesso, perché un incidente o la pazzia di qualche governante, la pazzia di uno può distruggere l’umanità». Non so se avesse in mente qualcuno in particolare, ma a prescindere dal possesso o meno della bomba atomica, contiamo purtroppo un buon numero di governanti o capi popolo convinti che si ottiene di più con il potere autoritario e intimidatorio, con la guerra e il terrore che con il rispetto delle persone, l’impegno a eradicare povertà e ignoranza, a difendere i deboli, a custodire l’ambiente e a promuovere dialogo e giustizia. Altro che politica come servizio al bene comune e alle persone.
Persona, ecco un’altra parola importante che inizia con la «p». Avere la persona al centro e non il denaro, il potere, il prestigio. Persona e pace vanno insieme. Dove le persone sono calpestate, sfruttate, trafficate, discriminate, umiliate e mantenute nell’ignoranza, non ci può essere pace. Quando ci sono alcuni che si ritengono i «primi» sopra gli altri, non ci può essere giustizia. Quando si distruggono i ponti, si chiudono i porti e sbarrano le porte, non ci può essere pace. Ponti, porti e porte – realtà che implicano sempre due direzioni, una di entrata e una di uscita – sono comunicazione, apertura, incontro, accoglienza, tutti elementi indispensabili per costruire la pace.
Certo l’avventura della pace non è facile richiede poi un ultimo elemento essenziale: il Perdono, un’ultima parola iniziante con la «p» che non può essere dimenticata. Lasciarci perdonare e donare perdono è impegnativo perché cambia il nostro modo di relazionarci con noi stessi e con gli altri. Ci rende più umani o, forse, più divini, perché perdonare è amare e amare è «agire da Dio», essere «perfetti» come Lui, il Padre di tutti, perfetto e misericordioso.
Auguri e benedizioni per un 2020 di pace.
Il 12 gennaio 2010, alle 16,53, una potente scossa di terremoto devastò Port-au-Prince, la capitale di Haiti, e le città vicine. Le vittime non sono mai state contate, ma l’ordine di grandezza è 300mila. Fu una tragedia immane. Un punto di non ritorno per uno dei paesi più poveri del mondo.
Sembrava fosse arrivato il momento di rottura per far cambiare la sorte del paese, una specie di azzeramento, per ripartire su basi diverse.
Non fu così. Qualcuno, i soliti noti, ci mise lo zampino, bloccando ogni iniziativa di rinascita promossa dalla società civile.
Questo mese ricorrono i 10 anni da quell’evento. Ironia della sorte, oggi il paese sta attraversando la crisi socio-politica ed economica più grave degli ultimi tre lustri.
All’epoca MC pubblicò l’editoriale dal titolo «Alzati e cammina!», il cui incipit era: «Non esiste un altro posto così al mondo». Nel 2020 non ci siamo dimenticati di Haiti.
Torneremo presto a parlarvi di quel popolo straordinario, di chi ne ha impedito lo sviluppo, e della crisi attuale.
Intanto, il nostro ricordo va alle vittime, e ai loro cari.
Marco Bello
Battezzati e inviati
testo di Gigi Anataloni, direttore MC
Questo è il titolo del messaggio del papa per l’ottobre missionario di quest’anno (testo a p. 74). È un ottobre missionario speciale, non solo perché coincide con la celebrazione del Sinodo sull’Amazzonia che è atteso tra tante speranze e polemiche, ma anche perché in questa occasione «ho chiesto a tutta la Chiesa di vivere un tempo straordinario di missionarietà», scrive papa Francesco, per «rinnovare l’impegno missionario della Chiesa, riqualificare in senso evangelico la sua missione di annunciare e di portare al mondo la salvezza di Gesù Cristo, morto e risorto».
Provo a riflettere su queste due parole, battezzati e inviati, così ricche di significato.
Alcuni giovani, tra i molti che quest’estate sono stati in Africa nelle nostre missioni, sono rimasti scioccati dal sentirsi chiamare «missionari» dalla gente. Sentito una volta, potevano considerarlo uno sbaglio – in realtà nessuno di loro aveva mai pensato di dedicare tutta la vita alla Missione -, ma tante volte li ha fatti riflettere e non solo sul significato del loro essere in quell’angolo d’Africa, anche se solo per un mese, ma sul loro stesso modo di essere cristiani.
«Missionari» li ha definiti la gente, riconoscendo che non erano dei semplici turisti. Una verità profonda circa l’identità di ogni battezzato che, proprio perché tale, è immedesimato a Gesù e diventa partecipe della sua stessa missione di costruire un mondo secondo il progetto di giustizia di Dio.
Battezzati. Siamo talmente abituati a battesimi celebrati con poche gocce d’acqua versate sulla testa di un infante che stentiamo a ricordarci e assimilare il significato più profondo dell’essere «battezzati». Gesù «era angosciato» al pensiero del «battesimo nel quale sarò battezzato» (Lc 12,50), in continuità, ma più radicale di quello ricevuto quando Giovanni Battista l’aveva immerso nelle acque del Giordano, in un’esperienza di morte e rinascita solo simbolica. Il vero battesimo di Gesù è quello della morte in croce e sepoltura nel ventre della terra per resuscitare il terzo giorno. Essere battezzati, allora, non è semplicemente una formalità, è una scelta di vita. È scegliere tra il vivere secondo un modello di umanità centrato su avere, potere, successo, conformismo, interesse personale, e un altro stile di vita basato sulla legge dell’amore, dove l’io diventa noi e la mia felicità è far felice l’altro. È scegliere tra una vita secondo lo stile del padrone/boss e quella del servo/amministratore. È prendere posizione per contestare tutto quello che disumanizza: violenza, razzismo, volgarità, avidità, cupidigia, idolatria (cfr. Col 3,5-15) facendo scelte di pace, giustizia, sobrietà, accoglienza, solidarietà, rispetto, bellezza secondo lo stile per cui Gesù ha pagato con la sua stessa vita.
Inviati. Una parola tardo latina che vuol dire «essere mandati», essere sulla via, in movimento, in uscita. È sinonimo di apostolo e missionario. Solo che definirci apostoli ci spaventa, perché nessuno si sente all’altezza di Pietro e dei suoi compagni. Anche sentirci chiamare missionari ci mette a disagio, perché sembra una scelta troppo radicale che prende tutta la vita. È bello, invece, lasciarci provocare da questa parola che dà un senso profondo al nostro vivere quotidiano da discepoli di Gesù. Non siamo mandati come conquistatori ma come servi e come angeli (messaggeri), e «agnelli in mezzo ai lupi» (Lc 10,3), per essere «sale e luce» (Mt 5,13-14) e costruire un mondo nuovo di pace e amore secondo i criteri di giustizia (= la visione, il progetto, il sogno) di Dio stesso.
Siamo missionari con Gesù primo missionario, e con lui crediamo possibile dare forma a un mondo che sia quel giardino (paradiso) nel quale vivere la libertà e l’amore con se stessi e con gli altri (Gen 2,25) e da «puro di cuore» (Mt 5,8) passeggeremo con Dio (Gen 3,8) godendo la bellezza unica (Gen 1,31) del creato.
Il cammino in uscita è tutt’altro che una passeggiata, lo provano le centinaia di migliaia di cristiani martiri (lett. testimoni) del Vangelo anche oggi, battezzati nello stesso battesimo di Gesù, testimoni che pagano con la vita il loro credere in un mondo a misura di figli e figlie di Dio.
Faccia dura come pietra
Una moto rombante mi sveglia di soprassalto. Sono le 3 di notte. Nel silenzio per diversi minuti seguo le accelerate assordanti del superbiker che si dirige verso il cuore della città. Il sonno se n’è andato e mi domando che gusto ci sia a svegliare la gente così. Una bravata? Una scommessa con amici? Una dimostrazione di «onnipotenza» da postare sui social? Il grido di libertà di un paladino che non si lascia imbrigliare dalle regole di un perbenismo noioso?
Quale sia la risposta non lo so, la fantasia però mi spinge a immaginare il superbiker come uno che si ritiene il coraggioso contestatore di una società addormentata. Questo mi richiama altre immagini di eroi che spopolano nelle cronache quotidiane e sui social: ragazzi che si filmano mentre si prendono a botte in piazza, torturano un povero vecchio, terrorizzano un loro coetaneo, imbrattano muri, treni e monumenti, violentano compagne di classe, minacciano i loro insegnanti, saltano sui tetti, si fanno selfie in bilico sul vuoto, sfidano i divieti, pestano i migranti, rubano in un supermercato, bullizzano un senzatetto. Una lunga lista di oscenità, viste da alcuni come prove di «coraggio» e vissute come antidoto alla noia e al vuoto interiore.
Questi pensieri, poi, ne suggeriscono altri, ancora più cupi, che riguardano altri coraggiosi eroi, sprezzanti delle ipocrisie del politicamente corretto: quelli che dalle tribune politiche, o dai social, urlano di porti chiusi, «legittima» difesa, più armamenti, invasori da cacciare, difesa dei confini, prima gli italiani, Ong trafficanti di uomini, navi da demolire. Il tutto sulla testa del parlamento e della gente attraverso decreti d’urgenza sempre più aspri fatti circolare sui social (a beneficio dei «60 milioni» di fans) prima che nei documenti ufficiali del governo.
Ma queste cose non si devono pensare, né tanto meno scrivere su una rivista missionaria. «Vi siete svenduti alla sinistra? Cattocomunisti! Da quando in qua fate politica? Non sono affari che riguardano la missione. Guardate piuttosto alle vostre malefatte come Chiesa, all’Inquisizione, alle crociate, ai soldi del Vaticano. E i preti pedofili, e il papa eretico?» (per citare solo alcuni dei commenti più moderati che si trovano sui social).
Infine si intromette il Vangelo di Luca che ci sta accompagnando in questo anno 2019. Luca presenta Gesù che, dopo l’assassinio di Giovanni Battista, rende la sua faccia dura come pietra e comincia a marciare davanti ai suoi discepoli verso Gerusalemme dove sa che sarà «innalzato». I suoi sono convinti che «innalzato» significhi «portato in alto» (sulle spalle di schiavi) alla maniera dei grandi del tempo e secondo le aspettative popolari: per esprimere potere, autorità, prestigio, regalità, distruzione dei nemici. Lui invece è ben cosciente che il suo essere innalzato significherà andare sulla croce, come uno schiavo, un oggetto, e non come un uomo. Ancor meno come un re. Questo non lo ferma, anche se ne ha paura (vedi al Getsemani). Anzi, va avanti con più determinazione.
A quelli che desiderano seguirlo e che riescono a tenere il suo passo, non promette soldi, poltrone, privilegi, successo, popolarità, ma un «Dio vicino» in una vita sobria, essenziale, dura ed esigente, in una vita da nomade. Gesù educa i suoi a essere persone contente del «pane quotidiano», senza il peso e i legacci delle preoccupazioni, senza l’ansia per cose pur essenziali come la casa, il cibo, i vestiti. Vuole «angeli» (nel significato originale di messaggeri) la cui prima parola sia «pace a voi»: non l’annuncio di regole, riti, imposizioni, formalità, divieti, ma di gioia, festa, fraternità, bellezza, condivisione, comunione, amore reciproco, rispetto, accoglienza, perdono. Gesù cerca persone che lo seguano con coraggio e testimonino che Dio è amore e Padre di tutti, e ha un occhio di riguardo proprio per chi è disprezzato o ignorato da coloro che si ritengono «i buoni e giusti».
«Gli ultimi sono i primi»: non sono solo parole, ma una scelta di vita. Anche a costo di scandalizzare i «giusti», che per difendere il bene del popolo lo appendono alla croce.
Avere coraggio oggi non è fare le cose che raccolgono consensi, rendono popolari nel branco, fanno avere più voti, ma scegliere di stare dalla parte dell’uomo, «tutto» l’uomo, ogni uomo, perché uomo.
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Tutta colpa di…
testo di Gigi Anataloni, direttore di MC
Ne aveva fatte di tutti i colori quel giorno a scuola, tanto da farsi punire. Non semplicemente una sospensione, ma un buon numero di vergate di fronte a tutti dopo l’appello mattutino. Era poi venuto finalmente a parlarmi. «Che ti è preso?», gli ho chiesto. «Non lo so, ma non sono stato io. È stato il diavolo che me lo ha fatto fare».
È una storia di molti anni fa ormai, quasi una vita fa, quando ero nomade sulle piste del Nord del Kenya. Senza entrare nel merito della punizione corporale allora in uso in tutte le scuole, quello che mi interessa sottolineare ora è la scusa usata dal ragazzo per giustificare il suo comportamento: «Non sono stato io, ma il diavolo me lo ha fatto fare». Quando c’è di mezzo il diavolo, un poveraccio che può fare? Non è più lui il responsabile delle sue azioni.
I «poveri diavoli» di allora mi tornano in mente guardando a quanto succede oggi nel nostro bel paese. La caccia al colpevole sembra diventata uno sport nazionale. Le cose vanno male. Naturalmente «è colpa di…». Non mia, non nostra, ma colpa «loro», degli altri. In fondo, il diavoletto invocato allora dai «miei» ragazzi era una scusa su cui fare una bella risata, ma oggi non me la sento più di riderci sopra. Se qualcosa va storto non si cercano le cause, ma i colpevoli, i capri espiatori. E i colpevoli per antonomasia oggi sono i migranti (soprattutto se di pelle nera) e i rom che rubano il lavoro, le case, gli aiuti pubblici, la pace, la sicurezza, il buon nome.
Un paio di millenni fa, quando l’Italia era il «centro del mondo», non esisteva il problema dei migranti, ma si andava tranquillamente a conquistare altri paesi con guerra e razzie e si tornava a casa trionfanti con migliaia di schiavi esibiti come trofei e usati poi per coltivare i campi dei vincitori. E se per caso quei lavoratori stranieri avevano l’impertinenza di ribellarsi, ecco una bella crocifissione di massa come quella dopo la sconfitta di Spartaco: seimila crocifissi sulla via Appia tra Roma e Capua (uno ogni 30 metri circa), bel monito a chiunque osasse pensare che tutti gli uomini sono uguali.
Naturalmente i nostri antenati Romani non erano gli unici a pensarla così. Basta ricordare che il traffico di milioni di «migranti» dalle coste dell’Africa dell’Est verso la penisola arabica e il Golfo persico, iniziato da tempi immemorabili, non è mai finito (se si considera la libertà di cui godono le persone nella penisola). Per non essere da meno, noi europei (e cristiani) dell’età moderna, una volta «scoperta l’America» e capite le sue potenzialità economiche, ci siamo ben organizzati e abbiamo rifornito della necessaria manodopera, non proprio libera né volontaria, le nostre nuove colonie spogliando le coste dell’Africa dell’Ovest.
Ovvio, gli europei di oggi non hanno responsabilità delle cose fatte dai loro predecessori. Noi non siamo schiavisti come loro. Infatti, lo schiavismo di oggi non è colpa nostra, ma legge di mercato – per sopravvivere alla concorrenza -. Se oggi si trasferiscono le fabbriche in paesi dove i lavoratori costano meno e non hanno protezioni sindacali, e si riempiono i nostri campi di braccia fantasma controllate dai caporali, noi ci possiamo fare ben poco e, anzi, spesso diventiamo vittime a nostra volta. Se poi ci sono dei problemi, il sistema di sfruttamento ha una capacità di adattamento incredibile: giocando sull’indifferenza, sul bisogno, sulla lentezza delle istituzioni, sulla paura e sul potere della corruzione, si chiudono le tendopoli dei disgraziati, si fanno trasferimenti in massa, oppure si sistema il tutto con un bell’incendio. Non si risolve così anche il problema dei rifiuti?
Ritengo che ci sia bisogno che ciascuno prenda le sue responsabilità tenendo presenti alcuni punti che mi sembra dovrebbero essere ormai diventati chiari per tutti:
su questa terra o ci salviamo tutti insieme o nessuno si salva (il riscaldamento globale ne è un esempio: non si risolve costruendo isole per privilegiati, come non ci si salva dalla guerra atomica con i rifugi ma solo eliminando le atomiche e la guerra);
non ci sono persone di serie A e altre di serie B: ogni uomo ha la stessa dignità, gli stessi diritti, gli stessi doveri;
educazione, lavoro, casa, salute, pace e il poter stare a casa propria o il muoversi liberamente non sono privilegi di pochi, ma diritti di tutti; se uno non può avere tutto questo, o addirittura gli è impedito, è facile che cerchi strade alternative e violente per ottenerlo;
solo se si mette al centro la persona, ogni persona – non l’economia, il profitto e il potere -, si costruisce veramente un mondo «umano» dove ciascuno può vivere bene da «cittadino»;
scaricare le colpe delle proprie difficoltà e sofferenze su capri espiatori non risolve i problemi; aumentare la sofferenza degli altri non aumenta la nostra felicità;
la pace e l’armonia si costruiscono erigendo ponti, aprendo porte e creando relazioni paritarie, non innalzando muri e chiudendo porti.
Cari missionari, lettere a MC
Messaggi alienanti?
Gent. direttore
riportare su una rivista missionaria ciò che il sito Raiawadunia, curato dal comunista Montanaro (che ho letto anch’io), gestito da gente che non ha mai fatto niente per gli internati veri dei gulag sovietici, non quelli fasulli girati da blogger nigeriani guarda caso, è alienante. Se fosse vero che Scaroni ha dato tanti milioni per sondare l’esplorazione di greggio in Nigeria, perché il governo non li ha impiegati per far lavorare i maschi nigeriani? In fondo gli africani reclamano tasse per far usare il loro territorio alle multinazionali e questa non è una tassa? Uno stato è libero di chiamare chi vuole o lo devono fare solo le multinazionali americane e olandesi? Che il franco Cfa sia una convenzione vecchia lo sapevano solo gli addetti ai lavori e non le brave persone del parlamento europeo che hanno sfruttato e sfruttano l’Africa senza pagare nulla vedi Belgio nel Congo, ecc. Che questo giornale riduca la sua missione a scagliarsi contro questo governo lo trovo per nulla cristiano. Ogni stato ha diritto di accogliere chi vuole, inoltre con tutto il denaro che viene dato ai governi africani e le ricchezze del loro territorio, dovrebbero essere gli europei ad andare in Africa e non viceversa. L’Italia ha sempre avuto una sola grande ricchezza: la volontà di lavorare. E non dimentichiamo che il cristianesimo ha fondato l’Europa diventata lurida per colpa di atei, protestanti, calvinisti e banche e di finti cattolici che cadono nelle trappole dei relativisti. Riguardate le visioni di Leone XIII e le parole di Pio IX. Saluti.
Emiliano Errico 20/03/2019
Caro sig. Emiliano,
questo direttore o qualche giornalista di MC a volte segnalano su MC(e sullla sua pagina FB) anche degli articoli di Raiawadunia perché trovano che sono ben fatti e documentati. Grazie di avermi dato l’occasione di approfondire chi è Silvestro Montanaro che non conoscevo. I gulag della Libia non sono frutto della fantasia di blogger nigeriani, ma realtà ben documentate da rapporti dell’Onu e aggravatesi ancor prima di questo governo dopo la sciagurata campagna euroamericana contro Gheddafi interessata più a mantenere i nostri privilegi che al bene di quella gente.
I soldi che le multinazionali (petrolifere e non) investono in Africa putroppo non vanno nelle casse di quei paesi, ma nelle tasche dei corrotti per poter portare via a prezzi irrisori le materie prime che interessano al nostro sistema industriale e produttivo. È grazie a questa corruzione che si mantengono dittatori e oligarchie che rimpinguano le proprie casse a spese della loro gente e chiudono gli occhi di fronte ad abusi come smaltimento di rifiuti tossici, estrazione del petrolio e altre risorse energetiche, del coltan e altri minerali strategici (vedi articolo a pag. 12) , disboscamento dissennato di foreste e land grabbing. Questo rende possibile il furto sistematico di risorse strategiche pagate all’Africa «noccioline» in confronto al loro reale valore di mercato. Un esempio: il coltan sul mercato vale almeno 100$ al chilo, mentre ai minatori vanno solo 18 centesimi.
Questa rivista non si scaglia contro il governo, che rispetta come istituzione legittima e necessaria della nostra nazione. L’essere critici di comportamenti, decisioni ed esternazioni di alcuni dei nostri governanti fa parte del nostro diritto di cittadini di questo paese che, grazie a Dio, non è una dittatura ma una democrazia.
Che poi un paese abbia il diritto e dovere di vegliare su chi entra e chi esce, non è in discussione. È anche vero però che un paese non è isolato e come tale accetta tradizioni, usanze e leggi di valore universale codificate da trattati e convenzioni internazionali che sono fatte per proteggere le persone, non per dividere il mondo in buoni e cattivi, amici e nemici.
Denaro dato ai governi africani. Questo riporta a quanto già detto sopra per le multinazionali. Le statistiche dicono impietosamente che quanto abbiamo preso e prendiamo
(italiani, europei, americani, russi e cinesi) dall’Africa è molto ma molto di più di quello che diamo come contributo allo sviluppo, che spesso è ben al di sotto dei parametri che noi stessi ci siamo dati (dovrebbe essere almeno lo 0,7% del Pil di ogni paese; l’Italia dà il 0,26%). Basterebbe che pagassimo all’Africa il prezzo giusto delle materie prime che là prediamo e non ci sarebbe bisogno di alcun aiuto. In realtà oggi è l’Africa che aiuta noi e ci permette di mantenere il nostro livello di vita, e non noi che aiutiamo l’Africa.
Italiani grandi lavoratori. Non metto in discussione questo mantra. Probabilmente è stata questa voglia di lavorare che ha portato milioni di italiani a emigrare nelle Americhe e nei paesi del Nord Europa. O forse sono state anche le guerre. Cinque milioni sono emigrati dal Sud Italia dopo la cosiddetta unificazione. Milioni sono partiti dopo la vittoria della prima guerra mondiale. Altri milioni dopo la seconda. Oggi se ne vanno a decine di migliaia a causa della crisi economica che attanaglia il paese.
Non entro nel merito delle cosiddette radici cristiane dell’Europa, ma dopo papa Leone XIII e papa Pio IX abbiamo avuto molti altri papi e perfino un Concilio ecumenico.
Forse anche leggere criticamente Raiawadunia (che in swahili vuol dire «cittadino del mondo») può aiutare a disintossicarci da un’informazione a senso unico che ci lava il cervello e non ci aiuta a pensare.
Qualche riflessione
Buongiorno padre Gigi,
MC di marzo, appena ricevuto, mi offre l’opportunità di alcune riflessioni, nonché l’invio di un paio di testimonianze raccolte nel mio lungo peregrinare per il mondo alla ricerca di usi, costumi, tradizioni diverse, ma soprattutto di nuovi contatti umani.
Rinnovi e cancellazioni. Condivido pienamente il suo consiglio al signore che preferisce destinare i suoi aiuti a una fra le più conosciute (forse la più conosciuta) e reclamizzate Onlus. Nessuno mette in dubbio quanto questa organizzazione e altre che occupano stabilmente larghi spazi pubblicitari, facciano in positivo. Ma quando le percentuali sotto la voce «spese di rappresentanza» superano a volte il 70% qualche dubbio resta. E quando, viste le mie ripetute esperienze in terre di missione, qualcuno mi chiede consigli, rispondo di controllare sempre i bilanci (normalmente pubblicati) prima di dare il proprio contributo. Le spese non destinate all’obbietivo principale non dovrebbero mai superare il 15-20%.
Migrazioni, Viaggio della speranza.
Ho raccolto la testimonianza che riporto sotto in pieno deserto del Niger nel gennaio 2000 (19 anni fa), quando Gheddafi era ancora saldamente in sella e il sogno di una vita migliore in Europa era già diffuso nei paesi del Nord Africa, mentre da noi se ne parlava pochissimo. Per i politici italiani ed europei era un fenomeno irrilevante destinato a scomparire nel giro di poco tempo viste le difficoltà.
«Arriviamo in Libia, faccio un po’ di soldi e poi… via in Italia». Mi guarda e sorride Mohamed. Nei suoi occhi l’entusiasmo di chi sta per aprire un importante capitolo della sua vita, lasciando alle spalle un mondo che gli ha dato la vita, ma che non gli sa offrire i mezzi per continuarla. Dice di avere 18 anni, ma ne dimostra 16. Con lui, una trentina di giovani; suoi coetanei o poco più. Nei pressi, un vecchio autocarro di fabbricazione libica. È il loro Concorde, il loro treno, il loro autobus di linea.
Mohamed è uno dei tanti che lasciano l’Africa per il «viaggio della speranza». Lui è di qui. È nigerino. Ma, sulla pista che da Agadez porta a Bilma e a Dirkou, ne abbiamo incrociati parecchi di questi autocarri, sempre stracarichi, con giovani provenienti da altri stati di questa zona africana. Paesi anche non confinanti direttamente col Niger. Autocarri che, come autotrasportatori, fanno regolarmente la spola con la Libia. Mezzi già carichi di merce, su cui trovano posto 20-30 persone. In equilibrio precario. Appollaiate a grappoli. Aggrappate alle corde che reggono la merce, per non essere sbalzate fuori ogni 10 metri dalle enormi buche. In quelle condizioni viaggiano giorni e giorni. Allegramente. Senza lamentarsi. Tutto è accettato con filosofia africana, che non significa necessariamente rasse-
gnazione.
È solo un modo di vivere di chi, da generazioni, deve aspramente lottare per sopravvivere. Di chi ha la sofferenza come inseparabile compagna di viaggio. E non è che questa scomodissima tradotta venga regalata. È pagata profumatamente. La sola tratta Agadez-Libia costa circa 200mila lire (ca. 100 euro, ndr). E, per chi viene da altri paesi, la cifra è ben maggiore. Cifre spropositate per chi non ha di che vivere.
Arrivati in Libia, dicono, possono trovare qualcosa da fare. Ben pochi, però, hanno intenzione di fermarsi lì. La Libia sembra conceda una sorta di lasciapassare, di salvacondotto, per tentare poi il gran balzo verso l’Europa. L’Italia in particolare. Il paese dei loro sogni. La realizzazione dei loro progetti. La fine dei loro problemi.
È convinto Mohamed nel ribadirmelo in un più che accettabile francese. È l’unico del gruppo a parlarlo, anche se è la lingua ufficiale del Niger.
Stanno per ripartire. Non ho il coraggio di dirgli che, in Italia, le cose non stanno proprio così. Che non è così facile. Soprattutto per chi entra come clandestino. Sarebbe inutile. Sicuramente, non mi crederebbe. E, in ogni caso, il peggio che troverà da noi, potrebbe essere molto meglio di ciò che lascia qui.
Mario Beltrami 19/03/2019
Populismo?
Carissimo padre
ho letto il suo editoriale (agosto-settembre 2018) e sono molto perplesso sul suo contenuto.
Sono Veneto, faccio l’imprenditore, sono sposato con due figli. La nostra terra è sempre stata generosa, qui accogliamo tutti, non c’è alcun populismo, nessuna violenza o traccia di razzismo nei confronti delle persone di colore o verso altri extracomunitari. Anzi loro stessi si sono inseriti nella nostra cultura e sono sul libro paga di molti imprenditori come me che li pagano per il lavoro che fanno. Certo, ci sarà qualcuno che li sfrutta, spero pochissimi. Come facciamo a essere sicuri che tutti i nostri conterranei siano onesti? Se non lo sono non sarà certo per il colore della pelle, la disonestà non guarda al colore della pelle.
Il Veneto è una terra amministrata bene, che insieme alla Lombardia e al Piemonte ha contribuito a fare dell’Italia quella che è, un paese moderno per cui rammarica sentir parlare di populismo perché sappiamo che si parla di partiti politici fortemente radicati qui.
Ma le ripeto, il Veneto è amministrato bene, la sanità funziona, i trasporti funzionano, non è questo quello per cui aleggiano i politici? Venga qui da noi, a parte certe zone di degrado a Padova zona stazione, gli immigrati sono accolti, lavorano, pagano le tasse.
Detto questo, di cosa stiamo parlando quando si parla di populismo? Scandire con fermezza diritti e doveri non è il dovere di ogni buon padrone di casa? A presto
Carraro Francesco 08/03/2019
Caro sig. Carraro,
sono andato a rileggermi l’editoriale che lei cita.
Non ho accusato nessuna regione italiana né in particolare né in generale, anche se mi dispiace che proprio nelle regioni in cui sono nato e vissuto, oggi la voce più grossa la faccia una minoranza xenofoba nel silenzio di una maggioranza sana e generosa, ma confusa e un po’ impaurita.
Ho un grande rispetto e stima per chi si guadagna il pane col sudore della fronte e pratica la giustizia tirando avanti la carretta con fedeltà, amore e compassione nonostante le difficoltà. Sono queste le persone che rendono bella l’Italia.
Quanto alla maggiore o minore simpatia per questo governo, è chiaro che non condivido un modo di governare che si legittima con l’uso smodato di social, che è perennemente in campagna elettorale e usa un linguaggio perlomeno discutibile se non incitatore di odio e discriminazioni. Plaudo a quegli amministratori – come il sindaco di Riace – che davvero hanno a cuore il bene comune, sono attenti all’ambiente, a ogni persona e in particolare ai gruppi più deboli.
Scandire con fermezza diritti e doveri è più che giusto. Ma è sicuro che tutti i doveri siano davvero rispettati, anche quelli più onerosi, o invece si applicano solo quelli che fanno più comodo?
È vero che la disonestà non guarda il colore della pelle, ma spesso nei media questo è dimenticato e le persone vengono trattate con pesi e misure diverse. Prostituzione, caporalato, consumo di droga, abusi edilizi, evasione delle tasse, inquinamento dell’ambiente, corruzione… sono tutte «cose nostre», non ce le hanno portate i migranti che piuttosto ne sono diventati vittime o capri espiatori.
Non solo perdenti
Carissimo direttore,
ho letto con molto piacere su MC di marzo 2019, «4 chiacchiere con i perdenti» che mi ha stimolato ad inviare questi pensieri per richiamare il valore della memoria storica. Da sempre ne sono un cultore, non tanto per essere diventato «vecchio», ma perché nella memoria, come ricorda papa Francesco, ci sono le radici della nostra fede. Detto questo, voglio sottolineare perché mi ha molto colpito il suddetto articolo. Nel rileggere in questo periodo quaresimale un vecchio libro, «Vivere in Cristo» di Mario Corti S.J. (Edizioni La Civiltà Cattolica, 31/12/1951) nel capitolo «La preghiera è infallibile», a pag. 193 si legge: «Il 17 marzo 1649 tra torture inaudite, S. Gabriele Lallemant S.J., a trentanove anni, consumava l’olocausto della sua vita col martirio nel Canada. Appena caduto in terra, sfigurato con il capo spezzato dall’ultimo colpo di scure, un selvaggio gli spaccò il petto, ne estrasse il cuore palpitante, ne sorbì il sangue e lo divorò, certo di appropriarsi così dell’eroico coraggio del martire». Segue poi la descrizione del martirio così come è riportato fedelmente in MC da don Mario Bandera. Ecco, ho pensato «queste sono più di 4 chiacchiere con i perdenti», e non è solo pura coincidenza se ritroviamo, dopo quasi 70 anni, in un libro pur datato in molte parti per ragioni storiche (in quanto scritto prima del Concilio Vaticano II) dove viene richiamato il valore della preghiera. In questo senso richiamo il valore della memoria storica che ritrovo con piacere in «4 chiacchiere con i perdenti». Chiudo con un augurio a tutti i missionari ed un ringraziamento per don Paolo Farinella.
Pino Cadiani 28/03/2019
Mozambico: Ricardo
Il signor Ricardo è seduto in un angolo all’ombra, nella «Scuola industriale» di Tete, dove con sua moglie e i suoi 5 figli è alloggiato alla meglio con le altre 656 famiglie dopo la grave alluvione che ha colpito la nostra città di Tete, e i comuni di Doa, Mutarara, Angonia, Ikondezi. Ricardo aspetta che i funzionari della protezione civile distribuiscano il pranzo. Dopo una timida presentazione mi parla di sé e della sua storia.
Il suo terreno è lontano dal letto del fiume. Lo ha comprato e il comune lo ha autorizzato a costruire. La sua casa in mattoni aveva tre stanze e una sala grande, costruita con sudore e amore. Lui se la cava come falegname e idraulico. I bambini sono piccoli, il più grande frequenta la 6ª elementare, e la più piccola ha appena 5 giorni: è riuscito a portarli via dalla furia delle acque uno per uno, addormentati. Mezz’ora dopo ha visto la casa cadere, muro per muro, e le sue cose sparire sott’acqua. Letti, vestiti, cucina, frigorifero, sedie… tutto. «Non so come farò nel futuro».
Il caso di Ricardo è simile a quelli di centinaia di famiglie nella nostra diocesi di Tete, che ancora non sanno come e cosa faranno per alzarsi da questa tremenda disgrazia. Alcuni sono tornati alle loro terre, alloggiati in tende, altri ancora nella Scuola industriale; tutti aspettano che il governo assegni loro un terreno in un luogo più sicuro, ma con il timore si essere portati lontano da scuole e ambulatori.
Tutto è iniziato nella notte tra il 7 l’8 di marzo scorso. Le abbondanti piogge cadute nei comuni dell’altopiano di Tsangano e Angónia, dove hanno distrutto campi, villaggi, scuole e sei chiese, si sono riversate sul fiume Rowubwe, a marzo normalmente secco e senza un filo d’acqua. Il Rowubwe, non riuscendo a defluire nel fiume Zambesi già in piena, ha invaso in poco tempo villaggi e campi, in un crescendo violento e drammatico.
Si parla di una trentina di morti accertati, ma anche di decine di dispersi. Resta ancora da sapere con esattezza la situazione dei comuni di Doa e Mutarara ancora coperti dalle acque, e dove l’accesso per strada è impossibile.
Dopo appena una settimana, le regioni del centro del Mozambico hanno vissuto un dramma ancora peggiore.
Il ciclone Idai (Idai è un nome di ragazza in Hindi, significa svegliarsi o amore, ndr) formatosi nel Canale del Mozambico, con una velocità fino a 220 Km/h ha raso al suolo la grande città di Beira, la città di Dondo, e centinaia di paesi e villaggi, e tutto ciò che incontrava sul suo cammino. Pioggia e venti hanno devastato il centro del paese. Una vera catastrofe per ambiente, persone e strutture.
Una intera regione sommersa dall’acqua. Manca energia elettrica, comunicazioni telefoniche, acqua potabile. Strade interrotte. Villaggi isolati e sommersi. Scuole, ospedali, chiese, fabbriche, università… nulla è rimasto in piedi. Morti? Più di mille. Il colera ne sta mietendo altri.
In mezzo a tanta sofferenza, il paese intero, dal presidente all’ultimo cittadino, vive un momento di bellissima solidarietà. Aiuti da tutte le parti stanno arrivando a Beira perché non manchino cibo, acqua e il necessario finché le cose possano tornare se non come prima, almeno vivibili e dignitose.
Padre Sandro Faedi,
amministratore apostolico di Tete
Franchezza
È una qualità tipica del cristiano che mi ha sempre affascinato. È sintetizzata nella parola greca parresia che ricorre più di trenta volte nel Nuovo Testamento (soprattutto in Giovanni, Atti degli Apostoli e Lettera agli Ebrei) ed è riferita sia a Gesù che ai suoi discepoli. Letteralmente vuol dire «libertà di dire tutto», con sfumature che vanno dall’imperturbabilità alla sincerità, con il rischio della sfacciataggine e dell’impertinenza e con i pregi della confidenza e della letizia.
Declinata come verbo indica il «parlare apertamente con coraggio» e l’«avere fiducia». Applicata a Gesù vuol dire che lui si esprime, soprattutto con i suoi discepoli, apertamente e senza sottintesi. Mentre gli Atti degli Apostoli presentano continuamente Pietro, Paolo e altri che annunciano con audace franchezza e senza paura le opere di Dio, senza lasciarsi intimorire da opposizioni, minacce, botte e carceri.
A inizio febbraio scorso, abbiamo avuto un assaggio della franchezza cristiana. Papa Francesco, durante il viaggio negli Emirati Arabi Uniti, ha incontrato il mondo islamico ottocento anni dopo l’incontro di san Francesco con il Sultano. Insieme all’imam Ahmad Al-Tayyeb di Al-Azhar, l’università del Cairo che è punto di riferimento per l’Islam sunnita, il papa ha
lanciato un documento di grande umiltà e coraggio che interpella ogni uomo in quanto membro della famiglia umana e cittadino del mondo.
Il documento affronta tutti i temi caldi che fanno soffrire l’umanità di oggi. Fa sue le speranze dei poveri, dei piccoli, degli ultimi, di ogni uomo in quanto uomo. Difende con passione questo nostro mondo minacciato da avidità, inquinamento e guerre. E fa un’operazione essenziale: rimette Dio al centro per aiutare l’uomo a ritrovare la sua identità più profonda e indicargli la modalità «bella»
di relazionarsi agli altri (praticando pace, giustizia, libertà, rispetto, compassione) e al creato (da «giardiniere» e non da padrone).
Il documento restituisce a Dio il suo volto più vero: quello del Dio misericordioso. È un «franco» rifiuto del Dio violento e intollerante dei fondamentalisti, di quello indifferente, pigro e godereccio dei materialisti, di quello tutto precetti, riti e incensi dei tradizionalisti.
«Dalla fede in Dio, che ha creato l’universo, le creature e tutti gli esseri umani – uguali per la Sua Misericordia -, il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana, salvaguardando il creato e tutto l’universo e sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere*».
È «in nome di Dio» che «tutti gli esseri umani (sono) uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e (sono) chiamati a convivere come fratelli tra di loro, per popolare la terra e diffondere in essa i valori del bene, della carità e della pace*».
Ed è «in nome dell’innocente anima umana che Dio ha proibito di uccidere*». Da qui scaturisce la difesa dei «poveri, dei miseri, dei bisognosi e degli emarginati*»; «degli orfani, delle vedove,
dei rifugiati e degli esiliati dalle loro dimore e dai loro paesi; di tutte le vittime delle guerre, delle persecuzioni e delle ingiustizie; dei deboli, di quanti vivono nella paura, dei prigionieri di guerra
e dei torturati in qualsiasi parte del mondo, senza distinzione alcuna*».
La franchezza di Francesco, capace di riconoscere con umile realismo gli errori della Chiesa e dei cristiani, gli permette di condividere con l’imam affermazioni forti che declinano il vero volto di Dio. Impariamo da Francesco, sia il santo che il papa, la franchezza che ci appartiene come figli e figlie di Dio, un Dio che ha rivelato il suo volto di amore e misericordia nell’incarnazione, passione, morte e risurrezione di Gesù.
Franchezza e Francesco, vengono dalla stessa radice: «franco», il nome di un popolo (quello dei Franchi) orgoglioso della sua libertà. Ma la nostra franchezza/parresia non è frutto di politica e di guerre. È un dono, fa parte della nostra identità profonda: in Gesù noi siamo davvero il popolo dei «Franchi», perchè liberati dalla schiavitù del peccato (che è tutto quello che disumanizza) possiamo vivere la libertà dell’essere figli e figlie di Dio, uomini creati a «sua immagine» e da Lui amati.
Per questo non permettiamo ad alcuno di zittire la nostra coscienza, di manipolarci con paure alimentate ad arte, di farci svendere la nostra umanità con false promesse di sicurezza, benessere
e privilegi. Mors tua vita mea (la tua morte è la mia vita), dice un proverbio. Invece noi diciamo: vita tua vita mea, cioè: «Chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se avesse salvato l’umanità intera*».
Mi fa effetto scriverti una letterina di Natale, adesso che ho i capelli grigi. Non l’ho mai fatto, neppure da piccolo. Dalle mie parti, allora, si preferiva santa Lucia. E non occorreva neanche scrivere, bastava un po’ di crusca per il suo asinello. Oggi invece i bambini scrivono (o messaggiano) a Babbo Natale, alla Befana, a san Nicola, a santa Lucia… Allora è venuta anche a me la voglia di scriverti.
Caro Gesù bambino, mi hai proprio fatto una bella sorpresa. Sono venuto a cercarti perché mi avevano detto che eri nato in una stalla mentre i tuoi erano in viaggio, ti facevano dormire in una mangiatornia e non avevi il necessario. Un po’ sconsiderati i tuoi genitori a muoversi in quelle condizioni, anche se lo so che, poveracci, non avevano avuto scelta.
Trovarti è stato facile. C’era un sacco di gente là fuori. Ma non capivo bene. Oltre a quelli del villaggio c’erano storpi, zoppi, ciechi, sordi, poveri, bambini, pastori nomadi e stranieri: entravano da te con la faccia di circostanza e poi tutti uscivano con un sorriso radioso. Addirittura, c’erano dei poveracci che venivano fuori con un bel pane in mano e anche una schiacciata di fichi. E facevano festa lì fuori, davanti alla casa, come vecchi amici attorno al fuoco. Mi è venuto il dubbio di aver sbagliato posto.
Dopo un po’, sono riuscito a entrare anch’io. Non dalla porta principale, ma da quella che scendeva nella stalla sotto la casa. Il posto era spazioso, ma non grande. In un angolo, legati alla mangiatornia, c’erano una mucca e un asino, anzi due, e un solo basto attaccato a un piolo sulla parete. In un piccolo recinto alcuni agnelli e un vitellino dormivano tranquilli. C’era un uomo indaffarato a rifinire quello che sembrava un giogo per buoi. Accanto a lui, una donna era seduta sull’altro basto intenta a sistemare un cesto, non uno qualsiasi, ma quello da mettere sulla schiena dell’asino per portare il cibo per il viaggio, pane soprattutto, quello d’orzo dei poveri. Che la donna stesse preparando la cena? Ho guardato meglio. Nel cesto non c’era il pane, ma un bambino che dormiva tranquillo ben avvolto in un mantello, quello del papà. Finalmente, ti avevo trovato.
Mi sono avvicinato, con le mani piene delle cose che ti avevo portato per mostrare a tutti la mia generosità. Ho cercato l’attenzione di tua madre. Mi ha salutato sì, ma senza interesse per quello che avevo in mano. Sembrava avere occhi solo per te. Era evidente che ti amava. Ti mangiava con gli occhi, accarezzandoti piano.
In quel momento tu hai aperto gli occhi. Mi hai guardato e mi hai sorriso come se mi conoscessi da sempre e stessi aspettando proprio me. Non so che mi è successo allora. Posata la roba, sono caduto sulle ginocchia. Occhi negli occhi, ti ho guardato, anzi, mi sono lasciato guardare, dentro. Una dolcezza e una gioia grande mi hanno invaso. Ero venuto per accoglierti e far sfoggio di me. Invece sei stato tu che hai accolto me e mi hai fatto sentire atteso, amato, importante per te.
Ho capito allora il perché della festa che c’era là fuori, la gioia e la danza, la fraternità e l’incontro. Ero venuto a cercarti e ho scoperto che, invece, eri tu che cercavi me. Ero venuto per accoglierti e sono invece stato accolto; per darti le mie cose e hai preso il mio cuore. E quando sono uscito, mi sono unito alla festa, danzando attorno al fuoco, per condividere con tutti gli altri, non più sconosciuti e forestieri, la bellezza dell’essere amati da te.
Caro Gesù, scusa la mia storia di fantasia. In essa c’è una verità che rimane: che tu sei venuto a cercarmi e mi hai amato per primo. Non solo me, ma ogni uomo, indistintamente, anzi, personalmente. E questo è bello e continua a essere una Parola di speranza e di vita oggi per ciascuno. La tua fiducia in noi diventa la nostra fiducia negli altri, perché tu ci ami tutti come se ognuno fosse l’unico. La fiducia reciproca è una di quelle cose di cui abbiamo più bisogno, tentati come siamo di costruire muri, piantare paletti, etichettare, distinguere tra «noi e loro», imporre dei «prima» … «Non c’è pace senza fiducia reciproca», scrive Francesco nel messaggio per la giornata della pace che si celebra il prossimo primo gennaio. «Pace [che è] come la buona notizia di un futuro dove ogni vivente verrà considerato nella sua dignità e nei suoi diritti».
Venendo tra noi, tu ci hai già considerati degni del tuo amore, riconosciuti nella nostra dignità di figli e figlie di Dio. La mia preghiera è che possiamo imparare da te a trattarci gli uni gli altri come fai tu con noi. Grazie perché continui a guardarci con amore.