Guerre finanziate, guerre dimenticate


Lo scorso febbraio anche Bukavu, capitale del Sud Kivu, in Congo Rd, è caduta in mano ai ribelli dell’M23. Centinaia di migliaia sono gli sfollati che cercano riparo a Bujumbura, la capitale del Burundi. La milizia, armata ed equipaggiata con attrezzatura moderna, affiancata dall’esercito ruandese, il Rwanda defence force (Rdf), sta continuando la sua «conquista» verso Sud.

Il piccolo Rwanda (di superficie poco superiore alla Sicilia), di fatto, sta sfruttando le risorse minerarie dell’Est del Congo almeno dal 1996. È diventato un grande esportatore di stagno, tungsteno, tantalio, oro (chiamati oggi «minerali strategici»), senza però averne un grammo nel proprio sottosuolo. Ne abbiamo scritto su MC in questi anni.

Allora perché negli ultimi mesi il Rwanda ha deciso di invadere anche le due grandi città del vicino Paese sovrano, Goma e, appunto, Bukavu?

L’M23 già nel 2012 aveva occupato Goma per diverse settimane, ma la pressione di alcuni Paesi occidentali, che avevano minacciato il Rwanda di tagliargli i finanziamenti, era bastata a fare ritirare ribelli.

Dal 2021, quando l’M23 ha ripreso le attività, non ha fatto che appropriasi con la forza di siti minerari, dal Nord al Sud Kivu, terrorizzando la popolazione che fugge ingrossando i campi profughi. Intanto, l’esercito del Congo non riesce a opporre resistenza.

Oggi sembra che Paul Kagame, il «presidente-uomo solo al comando» dal 1994 del Rwanda, abbia deciso di tentare lo stesso colpo che fece nel 1996 con un altro gruppo ribelle da lui pilotato, l’Afdl (Allenaza delle forze democratiche per la liberazione del Congo), ovvero di riprendere il controllo de facto del Congo o di parte di esso.

Il Rwanda ha ricevuto ingenti finanziamenti dall’Occidente negli ultimi trent’anni. Ad esempio, la cifra media annuale tra il 2020 e il 2021 è stata di 1,24 miliardi di dollari. Intanto la spesa militare è cresciuta da 40 milioni di dollari nel 2005 a 180 nel 2021. L’Rdf è un esercito grande rispetto alle dimensioni del Paese, molto ben addestrato e moderno.

In particolare, è stato finanziato per operazioni di peacekeeping in diversi Paesi africani. Dal 2017, i militari ruandesi sono presenti nel Nord Mozambico in un’operazione contro i gruppi islamisti che imperversano nella regione di Cabo Delgado.

Sono documentati i 40 milioni di dollari che l’Unione europea ha dato al regime ruandese (sotto spinta francese) per proteggere i pozzi petroliferi della Total, tra il 2022 e il 2024. Sono inoltre documentati (da esperti delle Nazioni Unite), la coincidenza in alcuni casi di truppe e comandi tra le Rdf presenti in Mozambico e quelle in Congo.

Il 13 febbraio scorso, il Parlamento europeo ha chiesto alla Commissione europea di congelare gli aiuti budgetari al Rwanda e di sospendere l’accordo sui minerali strategici, stipulato nel febbraio 2024 (MC aprile 2024), finché i militari ruandesi saranno impegnati in Congo. Altre sanzioni Ue sarebbero pronte, su iniziativa di Belgio e Francia. Mentre anche Londra ha annunciato la sospensione degli aiuti finanziari.

Allargando l’orizzonte, noto che le importanti guerre in Ucraina e in Medio Oriente si prendono tutta l’audience nei media italiani. Altri conflitti, che magari influiscono meno sulla vita dei cittadini, semplicemente scompaiono. Sto pensando a quello in Sudan, guerra civile ma con caratteristiche regionali e globali, di cui parliamo nelle pagine di questo numero. Penso al Sahel (Mali, Niger, Burkina Faso), la cui popolazione è presa tra gruppi armati islamisti e governi golpisti dei militari. In un’area in cui passa una delle maggiori rotte della migrazione tra l’Africa e l’Europa. Paesi che si sono alleati con la Russia, mettendo nelle mani di Putin il «rubinetto» di questo flusso. Penso ad Haiti, Paese diventato invivibile perché controllato da bande armate criminali. Le cause sono storiche e precise, documentate e sempre occidentali.

E penso alla guerra civile in Myanmar, che ha compiuto quattro anni, e della quale parliamo anche sul nostro sito.

Aspettiamo dunque che il Rwanda, con uno degli eserciti più forti d’Africa, finanziato dagli occidentali, conquisti il Burundi (che è già allarmato) e magari arrivi a Kinshasa?

Marco Bello, direttore editoriale

 




Un povero che ha arricchito molti


Nel marzo 2007 ero in Kenya, a Nairobi. Da lì, poco tempo prima, dopo 43 lunghi anni di servizio, era partito per rientrare in Italia un missionario settantasettenne. Scrissi allora un editoriale per la rivista che curavo laggiù, The Seed (Il seme). Il titolo era «Gone poor, having made rich many…» (Partito povero, dopo aver reso ricchi molti). Il missionario in questione era padre Giuseppe Quattrocchio. Un gran lavoratore, un prolifico scrittore, un affascinante cantastorie che aveva dovuto ritirarsi dal lavoro in missione nel Meru per una lesione alla spina dorsale. Era arrivato a Nairobi nel 1973. Da lì aveva servito in maniera incredibile tutte le missioni del Kenya trovando per loro ogni cosa di cui avessero bisogno, dalle puntine da disegno ai pezzi di ricambio di qualsiasi macchinario, dalle medicine agli articoli religiosi. Dal suo botteghino per gli amici e visitatori delle missioni, aveva promosso una bellissima iniziativa per far conoscere il Kenya con le sue serie di diapositive e libretti sui vari gruppi etnici, tradotti in diverse lingue e diffusi in tutti i luoghi turistici del Paese.

Padre Giuseppe, missionario che nel suo servizio aveva maneggiato fior di milioni per il bene di tanti (educazione, salute e sviluppo), era rientrato in Italia con un vecchio vestito, regalo di qualche benefattore, e una grossa valigia strapiena di oggetti di artigianato locale da regalare in Italia ai suoi molti amici, assieme a pochi oggetti personali. Lui che aveva cambiato la vita di tante persone, partiva più leggero di quando era arrivato, lasciando tutto quello che aveva, anche la sua inseparabile bicicletta Graziella con la quale era conosciutissimo in tutta Nairobi. Aveva dato tutto.

In quel testo ricordavo anche i nomi di diversi altri missionari che avevano fatto come lui ed erano rientrati in Italia per i loro ultimi giorni andando via poveri, dopo aver reso ricchi tanti.

Padre Giuseppe. Quattrocchio il 16 febbraio 2022, alla festa di San Giuseppe Allamano

Lo scorso 22 gennaio quello stesso padre Giuseppe ci ha lasciato alla vigilia del suo 95° compleanno. È tornato a casa, quella del Padre, dove è arrivato ricco di tutto l’amore che ha vissuto avendo dato tutto con passione, gioia, competenza e umiltà. Al suo funerale, celebrato nel giorno di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti, ho ricordato che è stato anche un fior di giornalista  e che questa rivista, per la quale aveva lavorato dal 1954 fino alla sua partenza per il Kenya a fine 1963, a lui deve molto.

E anche stavolta, per il suo ultimo viaggio, è partito dopo aver dato tutto portando con sé solo il suo grande amore per la Missione. Mi fa specie ricordare lui, e insieme anche tanti altri missionari e missionarie che hanno dato la vita, in questi tempi nei quali chi fa notizia è quel gruppo elitario di miliardari che pensano di essere i padroni del mondo. Questi, per diventare sempre più ricchi, sfruttano senza ritegno le persone e le risorse del pianeta, manipolano l’informazione, fomentano guerre, chiudono gli occhi davanti ai poveri, ai migranti e agli schiavizzati e si fanno belli come salvatori della patria.

La testimonianza di uomini come padre Giuseppe è una realtà bellissima, carica di speranza. Con la loro vita diventano contestazione di un mondo disumano e ci dimostrano come il «dare tutto», come ha fatto Gesù, è l’unica via per costruire vera umanità.

 





Pellegrini di Speranza


«La speranza non delude» è il titolo della bolla di indizione del Giubileo 2025, segnato da due ricorrenze molto significative, anche per la missione: i 1.700 anni del Concilio di Nicea, che ci ricordano l’importanza della prassi sinodale per «custodire l’unità del popolo di Dio e l’annuncio fedele del Vangelo»; e, «per una provvidenziale circostanza» (n.17), la celebrazione insieme – cristiani d’Oriente e d’Occidente – della Pasqua, che avverrà proprio quest’anno, il 20 aprile.

La prima ricorrenza è importante soprattutto perché ci fa presente – di fronte ai ripetuti tradimenti dello stile evangelico – la necessaria continua conversione dei missionari al principio cristologico della
missione, senza il quale non c’è evangelizzazione. Detto altrimenti, i missionari sono «segni di speranza» solo se rimangono ancorati allo stile umile e povero della missione di Cristo, come ribadisce a più riprese il Concilio (cfr. LG 8; AG 5).

La seconda ricorrenza è eloquente soprattutto perché ci invita a ridurre l’ambivalenza della prassi missionaria, presente anche nelle pagine più belle della missione. Basti pensare al pregiudizio anti-ecumenico e antireligioso che fino al Vaticano II condannava le altre Chiese e religioni ai margini della storia della salvezza, senza alcuna possibilità di collaborazione per il bene dell’umanità.

D’accordo con Spes non confundit, «La speranza non delude» (Rm 5,5), anche il Giubileo 2025 si connette con la categoria del pellegrinaggio: «Il pellegrinaggio esprime un elemento fondamentale di ogni evento giubilare. Mettersi in cammino è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita» (n. 5). Solo dei missionari «pellegrini», viandanti, capaci di staccarsi dalla propria cultura, dalla propria patria, dalla propria famiglia, saranno in grado di avventurarsi nell’affascinante e rischioso viaggio alla scoperta di mondi sconosciuti già abitati dalla speranza, grazie all’azione e alla presenza dello Spirito, che precede l’arrivo e la presenza della Chiesa.

Basti pensare al ruolo del primo grande «movimento missionario», quello monastico, dal secolo V al XII. Spinti dal desiderio di santificarsi secondo la tipica forma del «martirio bianco» (l’ascetismo), i monaci – come nel caso più celebre dell’irlandese san Colombano e dei suoi discepoli – abbandonavano il loro monastero e andavano di luogo in luogo ad annunciare la parola di Dio, «pellegrini per amore di Cristo», senza farvi più ritorno, come in un volontario esilio. Questo movimento missionario, come pellegrinaggio per amore di Dio e di Cristo, fu per molti aspetti fortemente innovativo sia per la santificazione personale, sia per l’evangelizzazione dell’Europa.

Ma la particolarità di quest’anno giubilare consiste nel porre «segni di speranza», capaci di renderla reale, evidente, tangibile, non solo a livello personale, ma anche sociale; non solo in una parte del mondo, ma a livello globale. Nella selezione dei segni, la bolla di indizione invita anzitutto a «porre attenzione al tanto bene che è nel mondo per non cadere nella tentazione di ritenerci sopraffatti dal male e dalla violenza» (n. 7).  I segni dei tempi, oltre a esprimere l’anelito di tanta parte dell’umanità, chiedono di essere trasformati in «segni di speranza». Come? Per esempio, osando la pace in tempo di guerra; non perdendo il desiderio di trasmettere la vita in mezzo all’inverno demografico; privilegiando la giustizia riparativa rispetto a quella punitiva per i detenuti.

Meritano attenzione – per la sintonia con Lev 25,8-17 – soprattutto l’appello a costituire, con il denaro speso per le armi, un fondo mondiale per eliminare la fame e l’accorato invito a condonare il debito dei Paesi che non possono più ripagarlo: «Se veramente vogliamo preparare nel mondo la via della pace, impegniamoci a rimediare alle cause remote delle ingiustizie, ripianiamo i debiti iniqui e insolvibili, saziamo gli affamati» (n. 16). Davvero la speranza non delude, ma ricolma i nostri cuori missionari.

FESMI, Federazione stampa missionaria italiana

 




Tutti per la missione


«Per la Giornata missionaria mondiale (20 ottobre, ndr) di quest’anno ho tratto il tema dalla parabola evangelica del banchetto nuziale (cfr. Mt 22,1-14). Dopo che gli invitati hanno rifiutato l’invito, il re, protagonista del racconto, dice ai suoi servi: “Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze” (v. 9). Riflettendo su questa parola chiave, nel contesto della parabola e della vita di Gesù, possiamo mettere in luce alcuni aspetti importanti dell’evangelizzazione. Essi si rivelano particolarmente attuali per tutti noi, discepoli-missionari di Cristo, in questa fase finale del percorso sinodale che, in conformità al motto “Comunione, partecipazione, missione”, dovrà rilanciare la Chiesa verso il suo impegno prioritario, cioè l’annuncio del Vangelo nel mondo contemporaneo».

Così scrive papa Francesco nel suo messaggio per la Giornata missionaria mondiale (Gmm) 2024, sottolineando tre aspetti strettamente correlati tra loro: l’andare e invitare tutti alla festa, la festa che è espressione della vocazione alla gioia e alla fraternità, celebrata al banchetto della vita, il banchetto che deve coinvolgere tutti come protagonisti.

La Gmm di quest’anno vedrà, tra l’altro, la canonizzazione di Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, di due suore (una canadese e un italiana), di otto frati minori (sette spagnoli e uno austriaco) e tre fratelli siriani trucidati a Damasco nel 1860. Una celebrazione di universalità che ricorda come tutta la Chiesa è missionaria.

Se oggi celebriamo la Giornata missionaria mondiale, lo dobbiamo anche a GiuseppeAllamano che nel 1912 promosse una petizione prendendo spunto dal Pime (Pontificio istituto missioni estere, all’epoca Seminario lombardo per le missioni estere) che, a Milano, già dal 1910 viveva la «domenica missionaria» annuale. A quel tempo la missione era sentita come qualcosa che sottraeva persone ed energie alle Chiese locali, per cui tanti vescovi ostacolavano chi voleva partire come missionario. Per Allamano, sacerdote diocesano lungo tutto l’arco della vita, però, la missione non era qualcosa che impoveriva, ma parte fondante la Chiesa stessa, qualcosa che doveva coinvolgere ogni cristiano proprio perché battezzato. Sarebbe poi arrivato il Concilio Vaticano II con il documento Ad gentes, a ratificare questa verità.

Tornando a una sottolineatura di papa Bergoglio nel messaggio citato, si osserva che anche la Gmm si inserisce nel percorso del Sinodo. Non potrebbe che essere così. Il «rilancio» della Chiesa – della sua sorgiva e fondante vocazione a portare il Vangelo nelle strade del mondo – passa proprio attraverso il suo profilo missionario. Francesco consegna dunque alla Chiesa universale domande ineludibili: come essere Chiesa sinodale in missione? Come rinnovare l’impegno missionario di tutti? Questo «tutti» si rivela elemento centrale.

Il «cambiamento d’epoca» che stiamo vivendo, con profonde sollecitazioni antropologiche e nuove sfide per il senso religioso, richiede il coinvolgimento e la risposta – matura, generosa, gioiosa e, appunto, missionaria – di ogni cristiano, uomo o donna, per trovare modalità nuove e creative di annunciare il Vangelo all’umanità del terzo millennio.

«La missione per tutti richiede l’impegno di tutti», scrive ancora Francesco. «Occorre perciò continuare il cammino verso una Chiesa tutta sinodale-missionaria a servizio del Vangelo. La sinodalità è di per sé missionaria e, viceversa, la missione è sempre sinodale. Pertanto, una stretta cooperazione missionaria risulta oggi ancora più urgente e necessaria nella Chiesa universale come pure nelle Chiese particolari. Sulla scia del Concilio Vaticano II e dei miei predecessori, raccomando a tutte le diocesi del mondo il servizio delle Pontificie opere missionarie, che costituiscono i mezzi primari sia per infondere nei cattolici, fin dalla più tenera età, uno spirito veramente universale e missionario, sia per favorire una adeguata raccolta di sussidi a vantaggio di tutte le missioni e secondo le necessità di ciascuna». Un invito, quello del Papa, che ridà senso e coraggio e concreta prospettiva alla missione oggi.

Fesmi (Federazione stampa missionaria italiana)

 




La persona al centro

«Una dignità infinita, inalienabilmente fondata nel suo stesso essere, spetta a ciascuna persona umana, al di là di ogni circostanza e in qualunque stato o situazione si trovi. Questo principio, che è pienamente riconoscibile anche dalla sola ragione, si pone a fondamento del primato della persona umana e della tutela dei suoi diritti. La Chiesa, alla luce della Rivelazione, ribadisce e conferma in modo assoluto questa dignità ontologica della persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio e redenta in Cristo Gesù. Da questa verità trae le ragioni del suo impegno a favore di coloro che sono più deboli e meno dotati di potere, insistendo sempre “sul primato della persona umana e sulla difesa della sua dignità al di là di ogni circostanza”».

È l’inizio di Dignitas infinita, la dichiarazione circa la dignità umana che papa Francesco ha rilasciato il 2 aprile scorso. È una forte provocazione a ripensare l’approccio che la nostra società ha oggi verso la persona. Un approccio che si rispecchia nelle scelte politiche che i nostri paesi stanno facendo in questi giorni.

Due sono le aree che destano in me particolare preoccupazione: la difesa della vita dal suo inizio alla sua fine, e la realtà dei profughi e migranti.

Migranti. Oggi, in tutta Europa, assistiamo a una progressiva chiusura sull’accoglienza dei migranti, con la scusa di difendere le frontiere e combattere i trafficanti. Senza andare alle vere cause delle migrazioni rischiamo di convincerci che le persone in fuga da paesi come Afghanistan, Eritrea, Siria, Pakistan, Ciad, Sudan e altri ancora, affidino «per sport o diletto» le loro vite alle promesse dei trafficanti, e non per le durissime condizioni di vita nei loro Stati dilaniati da guerre o segnati da ingiustizie, povertà croniche e mancanza di libertà.

La tristezza è vedere che, dopo aver buttato giù il muro di Berlino, abbiamo costruito nuovi muri e barriere (fisiche, sociali e virtuali) per difendere, si dice, la nostra cultura e identità. E ci si dimentica che da sempre il Mediterraneo e tutta l’Europa sono il crogiolo di popoli diversi: la nostra origine sta nell’India (siamo indoeuropei); dai tempi dell’Impero romano abbiamo importato centinaia di migliaia di schiavi dall’Africa e dall’Asia, non ultimi i molti figli che i nostri soldati hanno generato in Etiopia e Somalia. La nostra cultura è quella che è proprio perché abbiamo saputo assorbire valori e stimoli da tante civiltà diverse.

Difesa della vita. Questo è un altro tema caldo e conflittuale, con posizioni che vogliono far riconoscere sia l’aborto che l’eutanasia non semplicemente come azioni da depenalizzare ma come «diritti umani» da iscrivere in quella che dovrebbe divenire la Costituzione dell’Europa e quindi di ogni Paese, sull’esempio della Francia. Il tutto sostenuto da argomentazioni sofisticate e ammaliatrici, con accuse pesanti e anche minacce, soprattutto sui social media, contro chi la pensa diversamente. Dimenticando, per esempio, che per secoli noi abbiamo trattato da «selvaggi» quei popoli che abbandonavano nella foresta perché venissero finiti dalle fiere gli anziani ormai troppo vecchi e malati, o quei bambini che nascevano fuori da relazioni culturalmente approvate, da ragazze incirconcise o, addirittura, i gemelli che una madre da sola non avrebbe potuto nutrire.

Sono cresciuto con il sogno di un’Europa capace di rigettare il suo passato coloniale e razzista per impegnarsi nella costruzione di un mondo nuovo dove ogni persona fosse accettata per quello che è. Figlio del secondo dopoguerra, credevo avessimo imparato a rifiutare razzismo, autoritarismo, dittatura, etnocentrismo dopo aver sperimentato gli amari frutti dei sistemi dittatoriali che abbiamo avuto prima della nascita della nuova Europa.
Pensavo avessimo messo al centro la pace e il rifiuto della guerra. Che valori come la vita dal suo principio alla fine; la dignità della persona nella sua unicità e nei suoi diritti senza distinzione di genere, di età, di razza o di stato sociale; l’ambiente, «casa» comune, patrimonio e responsabilità di tutti; il lavoro, la salute e la libertà religiosa, fossero ormai nel nostro Dna. Invece, la ricchezza si accumula sempre di più nelle mani di pochi mentre aumentano povertà e sfruttamento, la cura della salute diventa ogni giorno di più un affare per i privati,
il lavoro è sacrificato al profitto, l’«io» prevale sul «noi».

E intanto non ci si sposa, non si fanno figli, si invecchia brontolando, cresce la violenza e il disagio, si svuotano le chiese, si dipende dai social, si ricorre al fentanyl. Dove vai Europa? Troveremo chi è ancora capace di farci sognare? Chi mette al centro la dignità della persona, ogni persona, ogni momento della sua vita?

 




Ritorna il feudalesimo?


Viviamo in un tempo strano e unico. Unico, perché è il solo tempo che abbiamo: nessuno di noi può scegliere quando e dove nascere. Strano, perché, nonostante il nostro orgoglio per le conquiste scientifiche, le nuove possibilità della comunicazione, i risultati in medicina, i sistemi democratici, la crescita di responsabilità nei confronti dell’ambiente, stiamo vivendo innumerevoli contraddizioni.

Tra queste c’è la crisi di identità di genere e, di conseguenza, delle relazioni tra uomini e donne, della famiglia, della natalità e della difesa della vita con aborto e morte assistita che diventano diritti. C’è la democrazia che scricchiola, insidiata da autoritarismi e dittature, ma anche da politici al servizio dei grandi poteri economici.

Per quanto riguarda l’ambiente, le decisioni sono ancora dettate da chi gestisce petrolio, carbone e grandi industrie. Inoltre, nell’agricoltura si espandono i latifondi a monocoltura e l’allevamento intensivo delle multinazionali che riducono la biodiversità di vegetali e animali, le produzioni a km zero, e tolgono spazio ai piccoli agricoltori.

Altro ambito di grandi potenzialità, ma anche di enormi problematiche, è quello della comunicazione e dell’intelligenza artificiale. L’internet e lo sviluppo del digitale hanno decisamente modificato il nostro modo di comunicare, di essere informati, di studiare e lavorare. E ne sono contento. I miei confratelli dicono che sarei stato uno dei primi missionari della Consolata a usare il cellulare, e ho cominciato a smanettare sui computer dai primi anni Ottanta. Ho vissuto con gioia e aspettativa l’evoluzione di questo mondo, con il sogno che aiutasse a far sparire le guerre, a far crescere la fraternità, favorendo la conoscenza e stima reciproca, e cancellare le disuguaglianze.

Oggi, però, i media digitali rischiano di essere strumenti di manipolazione, disinformazione sistematica e controllo, rafforzando il potere dei regimi autoritari e dei monopoli economici, e facendo crescere la disparità tra la ricchezza di pochi e la miseria di molti.

Guardando alla millenaria storia dell’umanità, ci sentiamo orgogliosi di vivere in un tempo dove non abbiamo più né imperatori né feudatari e dove «uno vale uno». Non siamo più nel Medioevo, ci diciamo. Abbiamo acquistato l’autonomia della politica dalla religione, abbiamo fatto passi da gigante in tutti i campi del sapere… eppure è bastata una crisi come quella del Covid-19 per buttare all’aria tutte le nostre sicurezze e accentuare tutte le nostre fragilità, che rivelano un mondo decisamente malato. Un mondo nel quale i ricchi diventano sempre più ricchi a spese della maggioranza, non solo nei paesi poveri, ma anche in quelli del Nord del mondo, mentre le istituzioni sovranazionali, Onu inclusa, diventano via via irrilevanti. Sembra iniziata l’epoca di un nuovo feudalesimo.

Che fare per reagire a una simile situazione?

Non ho soluzioni in tasca. Ma certamente una delle prime cose da fare è quella di sviluppare un pensiero critico e libero che si fondi sulle domande e sulle ragioni centrali del nostro vivere. Un pensiero che passi dall’io al noi, dalla sete di potere e ricchezza alla coscienza che solo diventando servitori del bene comune possiamo costruire bellezza, bene essere e pace.

Questo, per noi che crediamo in Gesù Cristo, può venire solo dal confronto profondo con la Parola di Dio, nella quale troviamo le chiavi e i criteri per la vera libertà interiore, per rinnovare i nostri rapporti interpersonali e sociali, per un approccio bello e responsabile al creato. Lì c’è l’humus per supportare un vero cambio di mentalità («conversione») che non sia solo un’operazione di cosmesi fatta solo di parole, ma diventi un reale impegno che si realizza in piccoli gesti quotidiani e anche in un rinnovato schierarsi nel volontariato e nella politica (come cura della polis, la città, per il bene comune, come scriveva Aristotele).

Nella Parola troviamo anche le motivazioni per non mollare, per non cedere allo scoraggiamento e non rassegnarci alla violenza del mondo nel quale viviamo, e giocare la nostra vita al servizio degli altri, come ha fatto Gesù e, sul suo esempio, tantissimi testimoni che ricorderemo in modo particolare il prossimo 24 marzo, giornata dei missionari martiri.

Gigi Anataloni




L’Africa dei militari

L’Africa, e in particolare il Sahel, ha vissuto una serie di colpi di stato dal 2020 a oggi. Due in Mali (18 agosto 2020 e 25 maggio 2021), uno in Guinea (5 settembre 2021), due in Burkina Faso (24 gennaio e 30 settembre 2022) e infine in Niger e in Gabon (26 luglio e 30 agosto 2023). Del golpe in Niger si è parlato molto, a sorpresa, anche in Italia. Forse perché è un paese strategico come crocevia delle migrazioni e di molti altri traffici. Forse perché vi sono presenti diversi eserciti stranieri, tra i quali un contingente italiano (sul quale si è spesso taciuto).

Sovente le popolazioni, soprattutto i giovani, hanno salutato con favore questi colpi di stato. In alcuni casi, le manifestazioni pro putsch sono state organizzate o promosse dalle giunte militari, mentre quelle contrarie prontamente represse (ad esempio in Niger).

La presa del potere con le armi è il sintomo di profondi problemi che sfociano in una deriva autoritaria e militarista.

La grave situazione di insicurezza dei paesi del Sahel, causata del proliferare e rafforzarsi di una galassia di gruppi armati legati ai diversi cartelli jihadisti (aggravatasi con la caduta di Gheddafi in Libia nel 2011, ma già iniziata in precedenza), ha portato a profonde crisi economiche e sociali. Il sociologo ed ex ministro del Burkina Faso Antoine Raogo Sawadogo ci diceva (MC maggio 2022): «Il colpo di stato è solo l’atto finale di una crisi istituzionale profonda, di società toccate da problematiche alle quali i regimi democratici non sono stati in grado di dare soluzioni». E ancora: «L’appoggio, almeno iniziale, delle popolazioni è dovuto al fatto che queste sperano che un governo forte, seppur non democratico, possa risolvere i loro problemi», e quindi «la democrazia all’occidentale è diventata una questione di secondo ordine, adesso si tratta di sopravvivenza».

Ma i militari non saranno la soluzione, neppure dei problemi di sicurezza, come già stanno dimostrando in Mali e in Burkina Faso. D’altronde sono gli stessi eserciti che non hanno saputo vincere i gruppi jihadisti prima dei colpi di stato.

Anzi, i golpe portano alla luce anche una crisi dello stesso esercito repubblicano. Un’istituzione che dovrebbe difendere la popolazione anziché prendere il potere con la forza.

Il risultato è una regressione dei diritti civili che, faticosamente, avevano fatto qualche passo avanti. Peggio, in molti casi, è la repressione violenta della popolazione. Come è avvenuto in diversi eccidi perpetrati dalle Forze armate maliane (Fama), affiancate dai nuovi alleati russi del gruppo Wagner. Un esempio tra i tanti è quello del villaggio di Moura, dove il 27 marzo 2022 sono state trucidate tra le 200 e le 400 persone dai militari loro compatrioti.

Tra i massacri di civili compiuti dall’esercito in Burkina Faso, ricordiamo quello a Karma, a 15 km dalla città di Ouahigouya, nel Nord del paese, il 20 aprile scorso. Qui i militari hanno ucciso almeno 147 civili inermi, tra cui 45 bambini.

Fa riflettere, poi, ascoltare le parole del presidente golpista del Burkina Faso, il capitano Ibrahim Traoré che, all’incontro Africa-Russia a San Pietroburgo, nel luglio scorso, ha fatto un discorso populista atteggiandosi a novello Thomas Sankara (il presidente rivoluzionario del Burkina Faso, assassinato il 15 ottobre 1987), consegnando però il paese nella mani della Russia di Putin. «Qui di Sankara non ce ne sono», ci dicono dal Sahel. E si vede: Sankara non avrebbe mai fatto massacrare il suo popolo.

Il sentimento antifrancese e antimperialista presente in tutta l’area è legittimo (noi in MC abbiamo sempre denunciato lo sfruttamento dell’Africa da parte delle potenze occidentali), ma chi applaude ai diversi golpe solo perché si contrappongono alla presenza francese ha una visione superficiale, se non miope. Intanto i golpisti si rivolgono a nuovi attori imperialisti, come il citato gruppo Wagner, dalla nota attitudine predatoria nei confronti dei paesi loro alleati. Inoltre in Niger è stato deposto un presidente che tentava di contrastare la corruzione della classe politica, e indirettamente anche il potere neocoloniale francese.

Non saranno i militari a portare lo sviluppo e l’autonomia all’Africa. Il potere autoritario delle armi e di una classe – nella quale è presente a grandi dosi la corruzione – incapace di progetti politici non salverà il continente. Insomma: Africa indietro tutta.

 

 




Perché partire? Perché restare?


All’alba del 3 ottobre del 2013 un’imbarcazione carica di migranti somali ed eritrei, già in vista dell’isola di Lampedusa, prende fuoco. Sul ponte ci sono centinaia di persone. Alcune si buttano in acqua, altre resistono. Saranno 155 i sopravvissuti, e 368 i morti. Si parla subito della «più grande tragedia dell’immigrazione», ma sarà presto superata da altre.

Nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023, un altro barcone proveniente dalla Turchia, si incaglia non lontano da Steccato di Cutro (Calabria). L’impatto è violento e il mare forza 5 completa l’opera distruggendo il battello. Su di esso viaggiano 180 migranti di diversi paesi (Afghanistan, Pakistan, Siria, Tunisia, Palestina). Ottanta saranno i sopravvissuti. Tra le vittime, sono in aumento le donne e i minori.

È il 13 giugno 2023. Al largo di Pylos, Grecia, un peschereccio stipato di persone si ribalta. Sono circa 700. Ne vengono salvate 104. Nella parte interna dello scafo ci sono donne e bambini. In generale, chi paga di meno occupa i posti peggiori.

Tra questi eventi, dieci anni di naufragi e migliaia di morti in mare.

All’indomani di quello del 2013 mi trovavo in Burkina Faso. Il fatto era sulla bocca di tutti. C’era un generale stato di shock per quel numero di morti così alto. Molti – forse con il senno di poi – mi dicevano che loro «non avrebbero mai tentato una simile avventura, perché la probabilità di fallimento, e il rischio di morire, erano troppo elevati».

Facendo un balzo indietro nel tempo, mi torna in mente il molo di Port-au-Prince, ad Haiti, nel 1997. Gli haitiani partivano con delle barche di legno dalla costa nord dell’isola, nel tentativo di raggiungere le Bahamas. Pochi ci riuscivano, molti morivano naufraghi o, come si diceva, «divorati dagli squali». Molti altri, intercettati dalla guardia costiera Usa, venivano riportati sull’isola. Ricordo le file di giovani appena sbarcati dalle motovedette a stelle e strisce: tra le mani un sacchetto bianco con un «kit di rimpatrio» (un po’ di cibo, una maglietta), in faccia la delusione di chi ha fallito. Molti haitiani mi dicevano che era da pazzi tentare la traversata. Ma il flusso continuava.

Quale sarà stato l’impatto del naufragio di Pylos sulla gente di Afghanistan, Pakistan, Siria? Dall’Europa, noi abbiamo sempre solo la nostra prospettiva, e facciamo fatica ad ascoltare cosa hanno da dire i popoli dei paesi di provenienza.

Dovremmo metterci in ascolto, invece di classificare i migranti in categorie (economici, climatici, politici), e chiedere loro: Perché partire? Perché restare? Perché pagare cifre da capogiro e rischiare la vita?

I migranti che ho incontrato in Niger negli ultimi anni, provenivano da tutta l’Africa occidentale e avevano tentato di attraversare il Sahara. Tutti con forti motivazioni.

Mi ha colpito una famiglia del Ciad: genitori e quattro figli. Lui nel suo paese aveva tentato più volte di studiare giurisprudenza, ma non era riuscito a causa della situazione: «Sappiamo che è un rischio lanciarsi con una famiglia in una migrazione. Siamo stati spinti dal fatto che il nostro paese non è stabile. La gente vive sempre in conflitti armati, o intercomunitari, c’è la repressione del governo, la cattiva gestione. Inoltre, le ricchezze del paese non sono condivise in modo che tutti ne possano beneficiare per vivere in pace». L’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti umani (1948) recita: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. Ogni
individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese».

Liberi di scegliere se migrare o restare è il titolo del messaggio di papa Francesco per la 109a «giornata del migrante e del rifugiato» (24 settembre): «Migrare dovrebbe essere sempre una scelta libera, ma di fatto in moltissimi casi, anche oggi, non lo è. Conflitti, disastri naturali, o più semplicemente l’impossibilità di vivere una vita degna e prospera nella propria terra di origine costringono milioni di persone a partire […]. Per fare della migrazione una scelta davvero libera, bisogna sforzarsi di garantire a tutti un’equa partecipazione al bene comune, il rispetto dei diritti fondamentali e l’accesso allo sviluppo umano integrale».

Marco Bello, direttore editoriale




La missione sfida i missionari


Dal 22 maggio al 20 giugno 2023 quaranta rappresentanti eletti dei Missionari della Consolata sono stati riuniti a Roma nel XIV capitolo generale dell’istituto, un evento che avviene ogni sei anni. Il suo risultato più immediato è l’elezione del nuovo superiore generale e del suo consiglio, ma il frutto più sostanziale sono le scelte che vengono fatte, a partire dal carisma originale dell’istituto, per dare una risposta creativa alle sfide che il mondo contemporaneo pone all’evangelizzazione.

Mentre mi leggete il capitolo è già terminato, ma ho scritto queste righe quando stava per cominciare e, quindi, posso solo provare a condividere con voi alcuni degli elementi che hanno stimolato la riflessione e la ricerca dei capitolari prima di riunirsi.

Il punto di partenza è stato una constatazione: stiamo tutti vivendo un tempo della nostra storia che chiede nuove attenzioni e nuove risposte.

Ad esempio, il mondo occidentale non è più cristiano, la famiglia tradizionale è in crisi e in alcuni paesi come il nostro si registra un declino demografico.

Esiste poi, nell’Occidente, un’ostilità neanche troppo nascosta contro la Chiesa e la religione cristiana, con attacchi che vanno dalla denigrazione alle notizie inventate o enfatizzate, dalle battute apparentemente spiritose agli insulti, strumentalizzando proverbi stantii come: «Quando nasci alimenti il prete, quando vai a nozze inviti il prete, quando muori il prete gode», o luoghi comuni di stampo anticlericale ottocentesco.

Il futuro della Chiesa e dell’evangelizzazione è una sfida a tutto campo per la quale non servono risposte preconfezionate e che obbliga a guardare avanti con creatività, lungimiranza, tanta fede e umiltà. È un tempo che richiede un profondo discernimento per andare al cuore dei problemi e capire quello che davvero Dio vuole. Non è l’ora del fare, ma dell’ascolto, per una vera conversione.

Sono quattro le aree dell’ascolto: la Parola di Dio, per andare alle radici della vocazione missionaria e del suo stile; il carisma trasmessoci dal nostro fondatore, il beato Allamano; la realtà viva, sofferta e sfidante del mondo di oggi; l’Istituto stesso, fatto di persone concrete con le loro potenzialità ma anche le loro fragilità.

Oggi i Missionari della Consolata sono ben coscienti di non essere più un corpo monolitico come erano fino agli anni Settanta. Gli italiani sono ormai una minoranza, più anziani che giovani. Il cuore della forza missionaria oggi viene dall’Africa: uno scenario bellissimo che vede protagoniste delle Chiese giovani, aperte e generose, pur nella loro povertà, però anche pieno di incognite e nuovi problemi.

Il capitolo si è, quindi, messo in ascolto del nostro mondo con un’attenzione speciale ai poveri, ai popoli indigeni, agli sfruttati, ai marginali della storia, alle periferie e a quelle aree, soprattutto in Asia, mai raggiunte dal Vangelo. I capitolari hanno anche fatte proprie le sfide della comunicazione, della cura del creato, della promozione della pace, delle migrazioni. C’è poi una situazione nuova, che richiede risposte nuove: quella dell’Europa che tradizionalmente mandava missionari, ma oggi li richiede con urgenza.

Dall’ascolto viene poi la conversione per vivere le dimensioni più autentiche dell’identità dei Missionari della Consolata: «Prima santi, e poi missionari», diceva il beato Allamano, affinché ogni missionario diventi testimone e costruttore di gioia, libertà, fraternità, pace e giustizia là dove la Madonna Consolata ha voluto mandarlo.

Una delle caratteristiche dei Missionari della Consolata, fin dalle origini, è stata proprio quella di ascoltare le realtà che man mano andavano a incontrare, mettendo al centro del loro interesse la persona, ogni persona, con una predilezione per i poveri, i lontani, gli emarginati, quelli che la società considera di meno. Come ha fatto Gesù, il primo vero missionario del Padre.

Non abbiamo ancora in mano i documenti finali del capitolo. Non ci aspettiamo proposte spettacolari. La missione più vera si realizza di solito nel silenzio e nell’umiltà, in un dono di vita concretizzato in piccole cose fatte con amore in un quotidiano lontano dal clamore.

Che davvero ogni missionario possa essere strumento di consolazione nelle mani di Dio.

Gigi Anataloni

I due capitoli – IMC e MdC – con il cardinal Parolin


XIV Capitolo generale dei Missionari della Consolata

MESSAGGIO FINALE

Gratitudine, passione e speranza

Trentatre giorni vissuti insieme, un corpo solo! Missionari giunti dai diversi luoghi della Missione, impegnati a conoscersi, attraverso il racconto personale proprio e dei tanti che hanno rappresentato, attraverso la condivisione dei cammini belli e dei percorsi che ancora sfidano a camminare per andare “oltre”. La diversità delle provenienze ha, però, lasciato presto spazio a quella capacità di riconoscersi, tutti, Missionari della Consolata.

Sì, è stato facile riconoscersi e dirsi che siamo fratelli oltre ogni differenza: fratelli nell’ispiratrice, la nostra madre Consolata; fratelli nell’ispirato, il nostro padre e fondatore, Beato Giuseppe Allamano; fratelli nell’ispirazione, quel carisma ad gentes, novità che non tramonta.

Il Capitolo, infatti, ha voluto confermare ancora una volta la scelta della missione ad gentes, nella sua specificità e nella molteplice fantasia dell’amore che si dona.

Ad gentes che in questi giorni abbiamo accolto con commozione dalle parole e testimonianza di chi, tra le lacrime, ci raccontava della sua gente in Venezuela che non ha di che mangiare o di chi nel Congo, in Mozambico e in Ucraina continua a morire e a subire violenza a causa di guerre di cui non si vede mai la fine. Di chi, come profugo, arriva in Marocco stanco, ferito e sfinito dopo un lungo cammino. E, come queste, tante altre sofferenze tra le quali siamo presenti essendo chiamati a fermarci per ascoltare, per sederci accanto, per servire con semplicità ed essere presenza che annuncia Gesù con gesti di vita, con l’ascolto e la parola.

Più volte ci siamo detti che dobbiamo anche “prenderci cura” di ogni missionario in tutto l’arco della sua vita con un progetto di formazione continua. Occorre aiutare ognuno a camminare verso la sua pienezza di vita e di donazione, partendo da una relazione viva con Cristo, per “essere” prima che “per fare”, dove santità e missione si fondono ed esprimono la nostra identità e carisma.

Con gratitudine abbiamo volto lo sguardo al passato della nostra vita e della nostra storia scritta con la dedicazione ed il sacrificio di tanti nostri confratelli e di quelli che oggi continuano ed essere per noi di stimolo ed esempio “completando nella loro carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).

Con voi, guardiamo al presente con passione e con quella gioia nella quale il Papa ci ha chiesto di camminare, in comunità chiamate ad essere in uscita e in mezzo alla gente con la forza del nostro carisma e la ricchezza delle nostre culture e in comunione con le Missionarie della Consolata ed i Laici.

Guardiamo, inoltre, al futuro con speranza al vedere ancora tanti giovani che vogliono dare la loro vita per l’annuncio del vangelo e tanti altri dei quali vogliamo prenderci cura nel servizio pastorale e di animazione missionaria e vocazionale.

La Solennità della nascita di S. Giovanni Battista, il precursore, è occasione propizia a conclusione di questo nostro XIV Capitolo Generale. Con lui e come lui sappiamo accogliere il Vangelo perché desiderosi di giustizia e di libertà. Con lui e come lui non ci poniamo come l’esempio perfetto da seguire, ma rimaniamo aperti al futuro, indicandolo, Gesù Cristo.

I capitolari
Roma, 24 giugno 2023

 

 

 

 

 

 




Fare bene il bene (facendo informazione)


È per me un grande onore, ma anche una grande responsabilità, assumere il ruolo di direttore editoriale della rivista Missioni Consolata. Una pubblicazione che ha 125 anni di vita e ha avuto 12 direttori a cominciare dal canonico Giacomo Camisassa. Se, da un lato, il beato Allamano diceva ai suoi missionari «Fate bene il bene, senza fare rumore», ovvero fatelo, ma senza vantarvi o farvi pubblicità, dall’altro, fin da subito, aveva intuito l’importanza della comunicazione e dell’informazione, fondando la rivista «La Consolata», già nel 1899. Questa, da periodico che raccontava le attività del santuario di Torino, è diventata il mezzo per far conoscere le missioni, non appena i primi quattro missionari sono partiti nel maggio del 1902.

Mondi lontani, culture diverse, avventure e incontri molto particolari, sono diventati il principale contenuto che la rivista portava nelle case delle famiglie italiane di oltre cento anni fa. E iniziava così a fare, con il linguaggio e lo stile del tempo, informazione missionaria. Nel 1928 la testata ha dato vita a «Missioni Consolata» che ha affiancato «La Consolata».

Oggi, in un mondo che non sta andando bene, dove la guerra, la contrapposizione e il commercio delle armi sembrano dominare rispetto al dialogo, ai diritti e al benessere di tutti; dove la sopravvivenza stessa del pianeta è messa a rischio dalla peggiore crisi climatica mai vista, sotto lo sguardo disinteressato e cieco di chi governa; Missioni Consolata continua a raccogliere e raccontare in modo approfondito le storie che non hanno spazio su quotidiani, radio, web e Tv. Storie di persone, comunità, popoli, luoghi che hanno una grande importanza, anche se trascurate, e che solo una pubblicazione «alternativa» come la nostra, riesce a diffondere. Vicende talvolta positive e di speranza che, comunque, esistono.

Personalmente, mi prefiggo di continuare nel solco dei 12 direttori che mi hanno preceduto e, allo stesso tempo, di aprire lo sguardo a mezzi di comunicazione diversificati, per assicurare che le storie e il messaggio di MC viaggino sempre più lontano e raggiungano più persone possibile. In un cambiamento di epoca, anche una pubblicazione come la nostra deve attrezzarsi.

Il che significa portare MC a essere più presente nel mondo digitale, con un linguaggio adeguato, per riempire spazi di informazione con i nostri temi e i nostri valori. Senza abbandonare il supporto di carta.

Missioni Consolata è una rivista missionaria, e crediamo che continui ad avere un ruolo importante nella nostra società, forse ancora di più che 100 anni fa.

Pure essendo nato a Torino, ho conosciuto i missionari della Consolata in Brasile, nel 1992, durante un lungo viaggio «on the road» in Sudamerica. Esperienza che mi ha stimolato nella scrittura del mio primo articolo, pubblicato su MC nel febbraio dell’anno successivo. È stato l’inizio di un percorso. Sono così diventato collaboratore esterno di questa rivista.

Dal 1997 ho lavorato come volontario e cooperante prima ad Haiti, poi in Burundi e in Burkina Faso. Ad Haiti, in particolare, ero il responsabile della sezione fotografica del giornale in lingua creola «Libète», occupandomi di cronaca, ma anche della camera oscura, dell’archiviazione e della formazione di un giovane fotografo haitiano. Nel maggio 2006, rientrato dall’Africa, ho avuto la possibilità di integrare l’équipe di redazione di MC.

Nel cominciare questa nuova avventura, il mio pensiero va con gratitudine ai missionari che mi hanno preceduto. Francesco Bernardi, che ha pubblicato il mio primo articolo; Benedetto Bellesi, il mio primo direttore in MC; Ugo Pozzoli, sempre aperto e accogliente, e Gigi Anataloni, che ci ha guidati negli ultimi 12 anni e che continua come direttore responsabile della pubblicazione oltre che ad assumere l’incarico di direttore dell’archivio fotografico e video dell’istituto. Da ognuno ho imparato qualcosa. Sono riconoscente, inoltre, a padre Gottardo Pasqualetti, che mi chiamò, sotto indicazioni di Bernardi, a lavorare in redazione nel 2006.

Come équipe di redazione, rinnoviamo il nostro impegno di servizio alle lettrici e ai lettori di MC, per fornire loro un’informazione corretta, precisa, ricercata e approfondita. È verso di loro la nostra responsabilità più grande.

Marco Bello,
direttore editoriale