India. Modi, l’autocrate induista

 

Con 1,4 miliardi di persone l’India è il paese più popoloso al mondo. Un paese in rapida crescita economica e politica, dal 2014 guidato con mano ferma da Narendra Modi. Per la sua abilità a muoversi su fronti opposti, il primo ministro indiano può essere paragonato a Recep Erdoğan. E, come il presidente turco, Modi utilizza la religione – nel suo caso, l’induismo – per consolidare il proprio potere. Il primo ministro ha gioco facile essendo il leader del «Bharatiya janata party» (Bjp), partito della destra nazionalista e induista, che detiene solide maggioranze in entrambe le camere del Parlamento indiano.

Nel paese gli induisti sono circa l’80 per cento del totale, i musulmani il 14 per cento e i cristiani il 2,3 per cento. Da anni i cristiani – circa 30 milioni, concentrati soprattutto nel Kerala e nel Tamil Nadu – sono oggetto costante di violenze e attacchi. Nel maggio 2023, soltanto nello stato di Manipur (India del Nordest) sono state distrutte 249 chiese.

Per i musulmani – che comunque sono circa 200 milioni (la più consistente minoranza religiosa al mondo) – non va meglio. Anzi, le discriminazioni nei loro confronti iniziarono già nel 1947, quando l’Impero britannico divise il subcontinente indiano nell’India (a maggioranza induista) e nel Pakistan (a maggioranza islamica), quest’ultimo nel 1971 scissosi dalla sua parte orientale divenuta Bangladesh (anch’essa islamica).

A fine luglio 2023, ci sono stati gravi incidenti tra induisti e musulmani nello stato di Haryana (India settentrionale). Il risultato è stata la distruzione di circa 1.200 tra case e negozi appartenenti alla minoranza islamica.

La Costituzione indiana parla della libertà di religione negli articoli dal 25 al 28. In particolare, l’articolo 25 afferma: «[…] tutte le persone hanno ugualmente diritto alla libertà di coscienza e al diritto di professare, praticare e diffondere liberamente la religione». Nonostante questo, l’ultimo attacco alla parità sancita dalla carta costituzionale arriva da una norma dello Stato, il «Citizenship amendment act», legge approvata nel dicembre 2019, ma entrata in vigore soltanto in questo mese di marzo. Essa prevede una corsia preferenziale verso la naturalizzazione per indù, parsi, sikh, buddisti, giainisti e cristiani fuggiti in India da Afghanistan, Bangladesh e Pakistan prima del 31 dicembre 2014. La legge esclude i musulmani, che sono maggioranza in tutte e tre le nazioni.

La presidente dell’India è Droupadi Murmu, donna di etnia Santhal. La carica è altisonante, ma il potere effettivo è inconsistente. Il paese è saldamente nelle mani di Narendra Modi che, a partire dal 19 aprile, cercherà di ottenere il suo terzo mandato. Come sempre accade per gli autocrati, il successo è assicurato.

Paolo Moiola




Variante Delta, variabile Modi

testo di Maria Tavernini |


Il disastro era previsto e annunciato, ma la classe politica al potere ha minimizzato, preferendo raccogliere consensi più che mettere in sicurezza il paese. E le conseguenze dello tsunami seconda ondata hanno colpito anche il resto del mondo.

A fine gennaio scorso, al vertice di Davos del Forum economico mondiale, il primo ministro indiano Narendra Modi aveva sostenuto che il paese avesse dimostrato al mondo come gestire una pandemia.

«Quando è arrivato il Covid-19, anche l’India ha avuto i suoi problemi – aveva dichiarato il premier -. All’inizio dello scorso anno, diversi esperti e organizzazioni avevano previsto che l’India sarebbe stata il paese più colpito dalla pandemia. Qualcuno aveva anche detto che si sarebbero contagiate 700-800 milioni di persone e che due milioni di indiani sarebbero morti».

Secondo Modi, l’India – che ospita quasi il 18% della popolazione mondiale con 1,38 miliardi di persone, ed è il più grande produttore globale di vaccini, tanto da essere definita la «farmacia del mondo» – non solo si era presa cura dei suoi cittadini, ma aveva anche aiutato altri paesi esportando kit, mascherine e, più di recente, vaccini.

Un lockdown brutale

Dopo la prima ondata di Covid-19 che aveva solo lambito il paese con un tasso di mortalità molto basso e contagi relativamente sotto controllo, soprattutto se rapportati alla popolazione, enorme e molto giovane (età media 29 anni), le autorità avevano cantato vittoria e abbassato la guardia. Sembrava già lontana la brutalità del primo lockdown, imposto a fine marzo 2020 con sole quattro ore di preavviso, che in un’economia basata per l’86% su scambi e rapporti informali, aveva scatenato un incontrollato esodo di lavoratori a giornata e di poveri urbani verso le campagne, e innescato così una grave crisi umanitaria per milioni di persone ai margini della società.

11 marzo 2021. I Naga Sadhus (uomini santi) s’immergono nel Gange per espiare i loro peccati in occasione del Kumbh Mela, il più grande raduno religioso del mondo che si svolge ogni 12 anni in quattro luoghi diversi. Quest’anno è stato ad Haridwar dal 15 gennaio al 27 aprile. (Photo by Prakash SINGH / AFP)

La super diffusione del Kumbh Mela

Dopo un inverno di apparente quiescenza del virus con meno di 10mila nuovi casi al giorno, l’allora ministro della salute Harsh Vardhan, a marzo scorso, aveva trionfalmente annunciato la fine della pandemia nel paese e il ritorno alla «normalità».

Niente poteva essere più lontano dalla verità, ma il governo guidato dai nazionalisti hindu del Bharatiya Janata Party, spinto da una contrazione del Pil del 7,7%, aveva deciso di allentare le restrizioni e far ripartire l’economia.

Mentre il mondo era costretto in casa dalla violenza della seconda ondata e i numeri iniziavano a risalire anche in India, il governo aveva permesso che si tenesse il Kumbh Mela, il più grande raduno umano al mondo: un festival hindu che si celebra a cadenza ciclica in quattro città indiane.

Nonostante le restrizioni, tra gennaio e marzo 2021, oltre tre milioni di pellegrini erano arrivati ad Haridwar da tutta l’India, ammassati sulle rive del Gange per il bagno rituale nel fiume sacro.

Il Kumbh Mela si sarebbe trasformato in un evento «super diffusore» con migliaia di casi collegati.

Solo un anno prima, durante la prima ondata, un altro raduno religioso, in quel caso musulmano, della Tablighi Jamaat, tenutosi nella moschea di Nizamuddin a Delhi – quando i casi giornalieri erano ancora bassi – i fedeli musulmani (poche migliaia, non milioni) erano stati bollati come «corona jihadi» e incolpati dalla destra hindu di aver fatto detonare i casi di Covid-19 nel paese.

Diversi media indipendenti avevano poi smontato quella narrazione ed evidenziato come la comunità musulmana – la più grande minoranza religiosa in India, oltre 200 milioni di persone – fosse stata usata come capro espiatorio dell’aggravarsi della pandemia nel paese.

I comizi oceanici di Modi

Un anno dopo, con i casi in rapido aumento e il Kumbh Mela ancora in corso, il premier si era limitato a esortare i fedeli a fare un bagno solo «simbolico» nel Gange. Nel frattempo, però, si tenevano le elezioni in cinque stati e, mentre l’opposizione aveva sospeso i comizi elettorali con l’aggravarsi della situazione epidemiologica, il Bharatiya Janata Party aveva continuato a tenere comizi oceanici, soprattutto nel secolarissimo Bengala Occidentale, dove Modi sperava di conquistare l’elettorato e dove poi avrebbe invece incassato una pesante sconfitta.

Durante un comizio, nel bel mezzo della seconda ondata, il premier aveva detto di non aver mai visto tante persone a una manifestazione politica: «Dovunque mi volti, vedo gente», aveva esclamato estatico.

In quei giorni, l’India veniva travolta da uno tsunami di casi che avrebbe messo a nudo le fragilità del sistema sanitario indiano e l’impreparazione di una classe politica inadeguata che ha condotto il paese verso una catastrofe di proporzioni inaudite.

24 marzo 2021. I sostenitori del Bharatiya Janata Party (Bjp) durante uno dei comizi elettorali del primo ministro indiano Narendra Modi, a Sipajhar, Assam, India. (Photo by ANUWAR HAZARIKA / NurPhoto / NurPhoto via AFP)

Tsunami seconda ondata

A inizio aprile 2021, il paese è stato letteralmente travolto dalla seconda ondata di infezioni superando un milione di casi attivi.

Nel giro di poche settimane, l’India ha superato il Brasile come secondo paese al mondo per numero di casi dopo gli Usa, con oltre 2,5 milioni di positivi, una media di 300mila nuovi casi e duemila morti al giorno.

Ai primi di maggio, l’India ha registrato in un solo giorno oltre 400mila nuovi casi – l’incremento giornaliero più alto al mondo dall’inizio della pandemia – e oltre 3.500 decessi: una cifra che molti analisti considerano una sottostima (poi rivista al rialzo).

Le immagini dei crematori che bruciavano corpi (come da tradizione nei riti funerari hindu) senza sosta, giorno e notte, anche fuori dagli spazi adibiti, hanno restituito la vera proporzione della tragedia in corso, i cui numeri reali, probabilmente, non si conosceranno mai.

Con gli ospedali pieni, i posti in terapia intensiva ormai saturi, ossigeno e medicine introvabili se non a prezzi esorbitanti sul mercato nero, in un sistema sanitario fatiscente – almeno nel settore pubblico -, diverse grandi città hanno registrato un numero molto maggiore di cremazioni e sepolture rispetto al bilancio ufficiale delle vittime di Covid-19.

Se la seconda ondata ha travolto le megalopoli indiane, le zone rurali sono state letteralmente devastate. Molte persone sono morte per mancanza di ossigeno. La carenza di legna per le cremazioni, le lunghe file e l’inflazione sui prezzi degli ultimi riti ha costretto molte persone (anche hindu) a seppellire i propri cari sulle rive sabbiose dei fiumi: piccoli cumuli di sabbia adornati da ghirlande di fiori. Con le piogge dei monsoni che hanno gonfiato i fiumi, i corpi sono poi venuti a galla, riportati a riva in un macabro spettacolo.

Stime di una catastrofe

Mentre scriviamo, i casi totali ufficiali hanno superato i 30 milioni, e i morti sono più di 400mila: cifre che difficilmente riflettono la realtà. Secondo alcune stime, i numeri relativi a contagi e morti potrebbero essere fino a cinque volte superiori a quelli ufficiali, complice la poca trasparenza delle istituzioni, metodi di registrazione dei decessi frammentari e un inefficace sistema di tracciamento.

Il New York Times ha delineato quattro possibili scenari sui reali numeri della pandemia in India: uno scenario definito «conservatore» stima che i morti siano almeno 600mila; una stima più probabile parla di 1,6 milioni di decessi da Covid-19, mentre lo scenario più catastrofico stima siano 4,2 milioni (stime effettuate alla fine di maggio 2021).

Disastro annunciato

Programma di sensibilizzazione della Trinity care foundation contro il Covid-19 a Jangamakote Village nello stato del Karnataka, nel Sud dell’India.

Secondo l’agenzia di stampa Reuters, nei primi giorni di marzo 2021, un forum di esperti scientifici aveva avvisato i funzionari indiani di una nuova variante del coronavirus, molto contagiosa, che si stava diffondendo nel paese, denominata B.1.617.2, o anche variante Delta, oggi predominante nel Regno Unito.

Nonostante l’avvertimento, il governo centrale non era intervenuto con restrizioni per fermare il contagio: milioni di persone senza mascherine, incuranti delle minime norme di contenimento, avevano partecipato ai festival religiosi e ai comizi elettorali tenuti dal primo ministro Modi, permettendo al virus di circolare liberamente e di mutare.

L’allarme per la nuova variante era stato lanciato a inizio marzo dall’Indian Sars-CoV-2 Genetics Consortium (Insacog), che per primo aveva sequenziato la variante B.1.617.2 del coronavirus, a febbraio. Non si sa se i risultati fossero stati trasmessi direttamente al premier Modi, ma è oramai chiaro che le autorità avevano deliberatamente sottovalutato gli avvertimenti.

Sebbene il rapporto non abbia ricevuto molta attenzione sui principali media indiani, la catastrofe della seconda ondata in India ha messo in luce le ombre dell’amministrazione Modi, ampiamente criticata – in India e all’estero – per la sua incapacità di prevenire e arginare la pandemia. I principali media internazionali hanno infatti puntato il dito contro un esecutivo che ha creduto nel «miracolo indiano», e non si è premurato di contenere il disastro. Piuttosto, di minimizzarlo o negarlo.

I vaccini indiani

Mentre scriviamo, dopo settimane di impennata, la curva dei contagi sembra essere finalmente in lieve flessione: un nuovo lockdown ha fatto rallentare la corsa della contagiosa variante indiana.

Intanto, il piano vaccinale, applicato molto lentamente per mesi, sembra accelerare: l’India è il più grande produttore al mondo di vaccini e ne fabbrica due contro il coronavirus – Covaxin, di Bharat Biotech e Covishield, del Serum Institute of India -. Sono state somministrate 376 milioni di dosi, il numero più alto al mondo dopo Cina e Stati Uniti, ma, in rapporto alla popolazione, un tasso di vaccinazione molto più basso di tanti altri paesi.

Nei giorni peggiori del picco pandemico, l’India ha bloccato le esportazioni del vaccino fino alla fine del 2021 per soddisfare l’enorme domanda interna. La decisione ha avuto un pesantissimo impatto sui 91 paesi a medio e basso reddito che dipendono dal vaccino indiano nell’ambito del piano dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il Covax, che mira a immunizzare due miliardi di persone, ha affermato lo scienziato capo dell’Oms, dr. Soumya Swaminathan.

La campagna vaccinale indiana, iniziata lo scorso gennaio, si era inizialmente concentrata su anziani e persone fragili. Modi aveva poi annunciato di voler mettere il vaccino sul libero mercato per somministrarlo ai più giovani, tramite i governi statali e le strutture sanitarie private, a prezzi maggiorati, creando un doppio binario: chi poteva e chi non poteva permetterselo.

A seguito dell’impennata di infezioni ad aprile e (forse) sulla scia del richiamo ricevuto dalla Corte suprema indiana, che aveva definito il piano «arbitrario e irrazionale», il primo ministro ha poi aperto le inoculazioni gratuite dal 1° maggio per la fascia 18-45 anni. Peccato che non siano state aumentate le scorte, e l’India fa affidamento anche su vaccini prodotti all’estero.

Un leader inadeguato

«Il mondo è sull’orlo di un catastrofico fallimento morale, e il prezzo di questo fallimento sarà pagato con vite e mezzi di sussistenza dalle popolazioni più povere», aveva avvisato a gennaio Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore esecutivo dell’Oms durante una sessione del comitato esecutivo.

La crisi indiana ha confermato i timori di Tedros e dimostrato che in questa pandemia non ci si salva da soli. La mala gestione di un governo impreparato e la conseguente assente pianificazione indiana, ha avuto pesanti ricadute per i cittadini di ogni estrazione e provenienza. Ma anche per quei paesi che dipendevano dalle esportazioni indiane per il piano vaccinale.

Come in altri luoghi del mondo guidati da leader autoritari e populisti, la pandemia ha messo in luce l’incapacità della leadership di rispondere adeguatamente alla crisi, barcamenandosi tra negazione, ottimismo infondato e soluzioni di facciata.

La pandemia ha fatto emergere con violenza le storture del sistema e l’inadeguatezza della leadership indiana: di un partito che, negli ultimi sette anni di governo, si è reso responsabile di un grave declino delle libertà e delle istituzioni democratiche.

Durante i giorni più neri della catastrofe, il primo ministro si è tenuto lontano dai riflettori sostenendo che «il sistema era collassato». Non appena i numeri sono iniziati a calare, come da tradizione, Modi si è assunto i meriti dell’appiattimento della curva.

Peccato che la parola d’ordine «Aatmanirbhar Bharat» (India autosufficiente) sia stata disattesa. L’amministrazione è stata interessata più a controllare la narrativa, silenziare le critiche e nascondere la polvere sotto il tappeto che a tenere a bada il contagio.

E mentre l’India difficilmente dimenticherà questa tragedia, gli esperti avvisano che la terza ondata di contagi potrebbe colpire il paese tra settembre e ottobre.

Maria Tavernini

Programma di sensibilizzazione della Trinity care foundation contro il Covid-19 a Jangamakote Village nello stato del Karnataka, nel Sud dell’India.


I cristiani indiani durante la seconda ondata

Perseguitati ma al servizio

Se il subcontinente indiano è stato travolto dalla seconda ondata di Covid-19, trasformatasi nel giro di poco tempo in una catastrofe senza precedenti nella storia repubblicana, per i cristiani d’India e per le altre minoranze religiose, la crisi è stata ancora più drammatica.

La comunità cristiana indiana è la terza comunità religiosa dopo quella hindu e quella musulmana, con oltre 27 milioni di fedeli, ed è costituita in larga parte da Dalit (i «fuoricasta» secondo la rigida stratificazione sociale indiana) convertitisi anche nella speranza di sfuggire a discriminazioni e umiliazioni.

I cristiani indiani, di questi tempi, pregano per i vaccini, per il cibo e per l’ossigeno: ventilatori e bombole di ossigeno scarseggiano, e le restrizioni hanno impedito a coloro che lavorano alla giornata di guadagnare abbastanza per sfamarsi.

Inoltre, l’appartenenza religiosa ha creato non poche discriminazioni anche nella rete di distribuzione di aiuti alimentari durante i giorni più duri del lockdown. Nell’India a maggioranza hindu, con una leadership che avalla politiche settarie e maggioritarie, le minoranze sono destinate a diventare sempre più un bersaglio, «cittadini di serie B».

La persecuzione delle minoranze religiose è, infatti, significativamente aumentata sotto l’amministrazione Modi: la pandemia non ha fatto che acuire questa tendenza e aggravare le discriminazioni, l’autoritarismo e la violenza.

Benché i cristiani siano stati duramente colpiti dalla pandemia e molti siano stati ridotti alla fame, complici anche le condizioni economiche di molte comunità dal background Dalit e il fatto di essere stati spesso deliberatamente lasciati fuori dagli aiuti ufficiali, le organizzazioni cristiane, come anche quelle sikh e musulmane, sono state in prima linea per assistere poveri e malati.

Sono circa 60mila i posti letto che la Chiesa cattolica indiana ha messo a disposizione grazie alle proprie opere sanitarie per arginare la seconda ondata della pandemia. Le istituzioni sanitarie cristiane si sono concentrate in larga parte sulle aree rurali, quelle più devastate dal contagio, dove le strutture pubbliche sono sottodimensionate e in condizioni pessime.

«Le nostre scuole funzioneranno come centri di isolamento e quarantena; le nostre sedi come centri di vaccinazione; e il nostro personale religioso inizierà una campagna per incoraggiare le persone a vaccinarsi», ha detto il presidente dei vescovi indiani a «Vatican News».

Secondo l’emittente vaticana, molte diocesi indiane si sono attivate mettendo in campo anche metodi innovativi per aiutare ad alleviare le sofferenze della gente: nei giorni dell’emergenza sanitaria, l’arcidiocesi di Bangalore, nel Sud dell’India, ha reso disponibili le sue strutture adibendole a ospedali temporanei per i pazienti Covid. L’arcidiocesi ha inoltre attivato una linea telefonica di supporto per le vittime e i loro familiari, fornendo informazioni sulla gestione domiciliare della malattia e sulla disponibilità di posti letto e ossigeno.

M.T.