Le montagne del Tigray sono alte, aspre, piene di gole e anfratti. Un luogo ideale per nascondersi e nascondere. Per organizzare una guerriglia che duri nel tempo e logori l’avversario. Così devono averla pensata i tigrini. Terminata la guerra contro il potere centrale di Addis Abeba, non avrebbero smobilitato completamente il loro arsenale, ma lo avrebbero conservato in tanti piccoli arsenali sulle montagne in attesa di tempi migliori in cui riprendere la lotta.
Così la pensa il capo di stato maggiore della difesa dell’Etiopia, Berhanu Jula, che, in un’intervista rilasciata nei giorni scorsi a Lulawi, un media informatico filo-governativo etiope con sede negli Stati Uniti, ha detto che il Tplf (Fronte popolare di liberazione del Tigray) possiederebbe ancora armi leggere e pesanti anche se, al momento, non sarebbe più in grado di organizzare un’offensiva contro il governo centrale.
Quella dei tigrini è una strategia antica. Dopo aver condotto il lungo conflitto che ha portato negli anni Novanta alla caduta del dittatore Menghistu Hailè Mariam, i leader del Tigray hanno conservato il loro arsenale ben nascosto sulle montagne. Per anni le hanno custodite, finché nel 2020 sono rispuntate fuori quando le tensioni tra il governo di Abiy Ahmed e il Tplf si sono intensificate dopo il rinvio delle elezioni. Il governo etiope ha lanciato un’operazione militare con il supporto delle truppe eritree e delle forze locali della regione di Amhara. La risposta tigrina è stata durissima. Nonostante le vittorie iniziali del governo, il conflitto si è prolungato e ha avuto un impatto devastante sulla popolazione civile. Sono pervenute numerose denunce di crimini di guerra e violazioni dei diritti umani, tra cui omicidi di massa, stupri e saccheggi. Inoltre, la regione del Tigray ha subito una grave crisi umanitaria, con milioni di persone sfollate e a rischio di carestia. Le restrizioni all’accesso umanitario e i blocchi agli aiuti internazionali hanno aggravato la situazione.
Nel 2022, dopo diversi tentativi falliti di mediazione internazionale, le parti in guerra hanno concordato un cessate il fuoco, consentendo agli aiuti umanitari di entrare in alcune aree colpite. Nell’intesa raggiunta tra le parti a Pretoria (Sudafrica) c’era anche una clausola che prevedeva la consegna da parte dei tigrini dell’armamento pesante e leggero a loro disposizione. A due anni da quell’accordo, però, pare che parte delle armi sia stato nascosto e sottratto alla consegna.
Il fatto che il movimento tigrino sia ancora armato, secondo Berhanu Jula, «è un problema» ma, ha aggiunto, il governo federale si sta consultando con il governo ad interim della regione del Tigray affinché la situazione non vada fuori controllo. Ha sottolineato che, se il gruppo armato dovesse fare movimenti minacciosi, «la Difesa prenderà misure».
Perché il Tplf non è stato disarmato? L’alto ufficiale etiope ha risposto che il problema del disarmo, della smobilitazione e della reintegrazione è legata alla mancanza di finanziamenti. Ha però dichiarato che sono in corso lavori per disarmare 75mila combattenti del Tplf, anche se non ha specificato i tempi. Secondo il governo federale, «il Tplf non è più in grado di rovesciare il governo con la forza».
Che il Tplf non abbia però intenzione di disarmare completamente è confermato anche da un’altra notizia apparsa sul quotidiano Addis Maleda. «Sebbene alcune scuole abbiano ripreso le attività, molte non funzionano ancora correttamente a causa della presenza militare», ha dichiarato Ato Redai G. Ezger, vicedirettore dell’Ufficio regionale per l’istruzione del Tigray, sottolineando che più di 550 scuole vengono ancora utilizzate come campi militari.
Le tensioni tra i tigrini e il governo centrale sono destinate a riaccendersi? Difficile dirlo ora. Certo l’Etiopia sta vivendo una serie di spaccature etniche interne che ne stanno minando la compattezza e l’unità. In questo scenario, il Tigray potrebbe nuovamente rivendicare la sua autonomia. E le armi potrebbero essere tirate fuori dagli arsenali sulle montagne.
Enrico Casale
Atomica. L’umanità al bivio
In soli 45 minuti di guerra nucleare morirebbero 85 milioni di persone. L’atomica non è un elemento tra gli altri della politica mondiale. È quello centrale. E rende la guerra obsoleta. Ricordare Hiroshima e Nagasaki per impedire la «soluzione finale» dell’umanità.
Nel 2019 un gruppo di ricercatori dell’Università di Princeton, guidati dal professor Alex Glaser, svolse una simulazione sugli effetti di una guerra nucleare tra Russia e Nato.
Il modello era basato sulla reale dotazione nucleare delle potenze in campo e sui rispettivi obiettivi strategici. Aveva come ipotesi di avvio un primo colpo «tattico» nucleare inviato dall’esclave russa di Kaliningrad – l’antica Königsberg, città di Immanuel Kant, autore, tra l’altro, del progetto Per la pace perpetua – con l’obiettivo di fermare l’avanzata della Nato verso i confini russi, e la conseguente risposta nucleare Usa-Nato.
La previsione fu che in soli 45 minuti si sarebbero causati 85,3 milioni di morti, senza contare le vittime legate agli effetti successivi delle radiazioni.
Un’immane e repentina ecatombe. La morte dell’umanità e della civiltà. Quella distruzione di mondi della Bhagavadgītā, testo sacro dell’induismo, evocata da Robert Oppenheimer («sono diventato morte, distruttore di mondi»), il fisico a capo del progetto Manhattan, quando assistette all’effetto dirompente dell’esplosione della bomba Trinity nel deserto di Los Alamos, test definitivo dopo il quale il presidente degli Usa Harry Truman diede il via allo sganciamento delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, il 6 e il 9 agosto del 1945. Come abilmente narrato nel film di Cristopher Nolan (vedi MC 6/2024).
Hiroshima e Nagasaki
Ricordiamo brevemente i fatti. Gli storici che hanno potuto esaminare i documenti Usa desecretati, affermano sempre più convintamente che il governo giapponese era pronto ad arrendersi già da un mese quando piovve le prima bomba atomica il 6 agosto 1945 e, sicuramente, prima che arrivasse la seconda.
Il presidente Truman, però, che era da poco succeduto a Roosevelt, non intendeva dissipare i risultati della costosissima tecnologia messa a punto segretamente con il progetto Manhattan, e diede ugualmente il via libera allo sganciamento dei due ordigni atomici.
«La vera posta in gioco – ha scritto Zygmunt Baumann su quella decisione ne Le sorgenti del male, 2021 – può essere facilmente dedotta dal trionfante discorso presidenziale il giorno successivo alla distruzione di centinaia di migliaia di vite a Hiroshima: “Abbiamo fatto la scommessa scientifica più audace della storia, una scommessa da due miliardi di dollari – e abbiamo vinto!”».
Tre giorni dopo, il 9 agosto, la stessa funesta scommessa venne riversata anche su Nagasaki.
Furono 220mila le vittime dirette delle due esplosioni, quasi esclusivamente civili inermi, e circa 150mila quelle successive: persone morte per le conseguenze delle radiazioni. Il più grande e impunito crimine di guerra della storia dell’umanità.
La guerra è obsoleta
Mentre si chiudeva la Seconda guerra mondiale, si inaugurava la cosiddetta Guerra fredda con la sua corsa agli armamenti. Iniziava un’era inedita nella quale l’umanità aveva la possibilità dell’autodistruzione.
Non passarono neanche dieci mesi da quel cambio di paradigma nella guerra moderna, avvenuto a spese degli inermi abitanti delle due città giapponesi, quando in Italia cominciarono i lavori dell’Assemblea costituente. Essa aveva perfettamente chiaro che la guerra non era ormai più utilizzabile, non solo «come strumento di offesa della libertà degli altri popoli», ma neanche come «mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».
Dopo gli oltre sessanta milioni di morti causati dalla guerra appena conclusa, le armi nucleari avrebbero dovuto rendere definitivamente obsoleta la guerra, una realtà da archiviare tra i ferri vecchi della storia.
L’articolo 11, posto tra i Principi fondamentali della Costituzione, dice proprio questo, e obbliga, implicitamente, a ricercare e costruire le alternative alla violenza bellica («pace con mezzi pacifici», recita la Carta delle Nazioni Unite). Alternative compatibili con la continuazione della specie umana sulla terra. È l’etica della responsabilità che innerva la Costituzione e attraversa la parte migliore del pensiero politico del Novecento.
Sul filo del rasoio
Un esempio luminoso di questo pensiero è il Manifesto per il disarmo nucleare, composto nel 1955 da Albert Einstein e Bertrand Russell. Sottoscritto da illustri scienziati del tempo, da Max Born a Linus Pauling, è di una disarmante attualità: «Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Dobbiamo imparare a domandarci non già quali misure adottare affinché il gruppo che preferiamo possa conseguire una vittoria militare, poiché tali misure ormai non sono più contemplabili; la domanda che dobbiamo porci è: quali misure occorre adottare per impedire un conflitto armato il cui esito sarebbe catastrofico per tutti?».
Secondo Einstein e Russell l’alternativa ormai è radicale: «Metteremo fine al genere umano o l’umanità saprà rinunciare alla guerra?». Un quesito che, per noi, qui e ora, è più attuale che mai.
Vale la pena aggiungere che nel 1955, uno dei momenti di maggiore crisi durante la Guerra fredda, le lancette del Doomsday clock – l’orologio dell’Apocalisse, il simbolico indicatore del pericolo nucleare per l’umanità messo a punto dal «Bollettino degli scienziati atomici» fin dal 1947 a Chiacago – era fissato pericolosamente a due minuti dalla mezzanotte, l’ora della fine dell’umanità.
Oggi la situazione è peggiorata: nel gennaio 2023, a quasi un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, la nuova posizione delle lancette era a 90 secondi dalla mezzanotte, il punto più pericoloso mai raggiunto per la sicurezza dell’umanità. Stessa situazione confermata nel gennaio di quest’anno.
«L’umanità è sul filo del rasoio – ha ribadito Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite, lo scorso 8 giugno -: il rischio che venga usata un’arma nucleare ha raggiunto livelli mai visti dai tempi della Guerra fredda».
Responsabilità e realismo. Bandire le armi atomiche
Eppure, salvo alcuni «grandi vecchi» come papa Francesco ed Edgar Morin, entrambi intervenuti all’Arena di Pace di Verona del 18 maggio scorso (seppure il secondo con un video messaggio registrato), decisori, intellettuali e media sembrano, in grande maggioranza, non avere la percezione del pericolo che stiamo correndo, in questo varco della storia, con la continua escalation della guerra tra potenze nucleari in corso in Europa, dimenticando colpevolmente la lezione di filosofi come Günther Anders che avevano messo al centro della propria riflessione esattamente la situazione dell’umanità nell’epoca della possibilità dell’autodistruzione atomica. Secondo Anders, nella nostra epoca, qualunque azione politica, in particolare all’interno di un conflitto internazionale, non può non tenere conto della «situazione atomica».
La tesi secondo la quale le armi atomiche sarebbero solo uno degli elementi in gioco nello scenario politico è un inganno. È vero piuttosto che lo scenario atomico è il contesto nel quale avvengono le cosiddette azioni politiche (Tesi sull’età atomica, in Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki).
L’agire politico, dunque, per essere dotato di responsabilità e realismo deve tenere conto dell’esistenza delle armi nucleari. Deve ritrovare «il coraggio di aver paura». La paura, infatti, è segno di consapevolezza e ha un valore euristico, cioè di strumento per conoscere la realtà, oltre che di sprone alla mobilitazione.
Ricordare, dunque, lo sganciamento delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, non è – non può essere – la celebrazione di un irripetibile evento storico passato, ma rappresenta – deve rappresentare – la presa di coscienza dello stato presente del mondo. Della sua attuale riproducibilità: «Il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima – scrive Anders – è cominciata una nuova era: l’era in cui possiamo trasformare in qualunque momento ogni luogo, anzi la terra intera, in un’altra Hiroshima».
Se questa possibilità è ormai irreversibile sul piano delle competenze tecnologiche – e appare sempre più vicina -, è tuttavia modificabile attraverso l’acquisizione dei saperi etici che consentano di imboccare l’unica uscita di sicurezza esistente: la cancellazione delle armi nucleari dalla faccia della terra, con la loro definitiva proibizione, e il superamento della guerra come strumento di risoluzione dei conflitti.
Si tratta di colmare ciò che Anders chiama lo «scarto prometeico», ossia la frattura che passa tra l’infinita capacità produttiva di distruzione e la nostra capacità immaginativa delle conseguenze.
In un pianeta nel quale, mentre la crisi sistemica globale moltiplica i conflitti, i governi moltiplicano le armi e le guerre, è necessario declinare il piano etico del dover essere sul piano politico della possibilità di essere ancora: dando un’ulteriore chance all’umanità attraverso precise scelte di disarmo, a partire dall’adesione al Trattato internazionale per la messa al bando delle armi nucleari.
Parliamo del Trattato Onu voluto dall’azione dal basso dei popoli attraverso la campagna Ican, vincitrice del Nobel per la Pace nel 2017. In vigore dal 22 gennaio 2021, esso mette fuori legge le testate atomiche, ma non è stato sottoscritto né dai nove governi dei paesi atomici (Usa, Russia, Cina, India, Pakistan, Gran Bretagna, Francia, Israele, Corea del Nord), né dai governi dei paesi che «ospitano» testate altrui. Come l’Italia che «custodisce» tra le basi militari di Ghedi (Brescia) ed Aviano (Pordenone) diverse decine di testate atomiche statunitensi, facendo così della Pianura Padana il primario obiettivo di un possibile attacco nucleare su territorio europeo. Preparandone «il non essere più», come nella realistica simulazione di Princeton.
Bomba e soluzione finale
Mentre scrivo queste righe, i popoli europei stanno votando per le elezioni del Parlamento di Strasburgo. Questo mi fa tornare in mente le note preparatorie, probabilmente dell’87, per il testo di un intervento mai svolto di Alberto Moravia al Parlamento europeo, dove l’intellettuale italiano era stato eletto nel 1984 (oggi inserito in appendice al suo L’inverno nucleare): «Nei primi anni del dopoguerra, la situazione era questa: la Germania nazista aveva elaborato una teoria (quella della cosiddetta soluzione finale ossia del genocidio totale) che giustificava la bomba come la sola arma che permettesse la strage di massa ma non aveva saputo creare la bomba. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica dal canto loro non avevano alcuna teoria che giustificasse la bomba ma avevano la bomba. Anzi, gli Stati Uniti, nel 1945, avevano costruito e lanciato la bomba […]. Al processo di Norimberga – continua lucidamente Moravia -, la teoria della bomba (cioè della soluzione finale) fu solennemente condannata come una teoria contraria alle leggi della guerra. Ma non ci si accorse che non bastava condannare la teoria ma si doveva mettere fuori legge l’arma nucleare che di quella teoria era l’indispensabile corollario. Questa mancata consapevolezza del segreto e strettissimo rapporto tra bomba e teoria della soluzione finale impedì di rendersi conto che Hitler, lungi dall’essere stato sconfitto, era il vero vincitore della Seconda guerra mondiale».
Saprà l’Europa, questa volta, impedire il dispiegamento della soluzione finale dell’umanità, con la resistenza attiva e nonviolenta contro la Terza guerra mondiale, che, se sarà, sarà nucleare? A ciascuno il compito urgente di fare la sua parte.
Pasquale Pugliese
Nel mondo, in Europa, in Italia
Secondo l’ultimo rapporto Ican (la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari), nel 2023, i nove Stati dotati di armi atomiche hanno speso complessivamente 10,7 miliardi di dollari in più rispetto al 2022 per i loro arsenali nucleari, raggiungendo la cifra di 91,4 miliardi.
Lo scorso 17 giugno il Sipri (l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma) ha reso pubblica la sua ricerca annuale sul numero di testate nucleari presenti nel mondo. Scrive: «All’inizio del 2024, nove Stati – Usa, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, India, Pakistan, Corea del Nord e Israele – possedevano circa 12.121 armi nucleari, di cui 9.585 potenzialmente disponibili a livello operativo. Si stima che circa 3.904 di queste testate siano state schierate con le forze operative, di cui circa 2.100 mantenute in uno stato di alta allerta operativa, circa 100 in più rispetto all’anno precedente».
Riguardo alla presenza di testate nucleari Usa sul territorio italiano, più avanti, nel rapporto si stima che a inizio 2024 ci fossero circa 100 bombe non strategiche schierate in Europa per un potenziale utilizzo da parte di aerei da combattimento statunitensi e alleati. Le bombe, controllate dall’aeronautica americana, sono presenti in sei basi aeree in cinque stati membri della Nato: Kleine Brogel in Belgio; Büchel in Germania; Aviano e Ghedi in Italia; Volkel nei Paesi Bassi; e İncirlik in Turchia.
Luca Lorusso
Dall’obiezione al servizio civile
Nel 1972 viene emanata la legge che riconosce l’obiezione di coscienza al servizio militare, ma la sua forma punitiva mostra che la strada da percorrere è ancora lunga. Cinquant’anni di lotte per affermare il diritto di servire il bene comune ripudiando le armi.
«Votata la legge truffa sull’obiezione di coscienza». Così viene accolta la legge 772 del 15 dicembre 1972 che introduce il servizio civile in Italia da «Azione nonviolenta», il periodico fondato da Aldo Capitini e allora diretto da Pietro Pinna, il primo obiettore al servizio militare in Italia a dare «pubblicità» alla propria scelta. Si tratta di un sentimento diffuso tra obiettori e pacifisti.
Una legge «punitiva»
Tanti sono i punti di insoddisfazione: innanzitutto, la legge riconosce la possibilità dell’obiezione per i soli motivi religiosi, morali e filosofici, ma non per quelli politici; poi indica un tempo limitato nel quale si può presentare la domanda di obiezione, cosa che esclude maturazioni successive dell’obiezione.
In più, gli obiettori rimangono dipendenti dal ministero della Difesa, condizione che porta anarchici e, in particolare, testimoni di Geova, cioè il gruppo più consistente, a rifiutare la legge.
Inoltre, la durata del servizio civile è superiore di otto mesi rispetto al servizio militare.
Infine, la legge prevede una commissione che ha il potere di vagliare le motivazioni degli obiettori sulla base di una dichiarazione scritta e di un rapporto dei carabinieri.
Chi rifiuta di prestare il servizio civile o chi, non riconosciuto dalla commissione, insiste nell’obiezione di coscienza, è condannato a una pena tra i due e i quattro anni di carcere militare (che, con le attenuanti, scende spesso a circa 16 mesi).
La norma inaugura una fase nuova nella storia dell’obiezione al servizio militare. La stessa espressione «obiettore di coscienza» muta sul piano semantico (estendendosi ad altri ambiti, ad esempio quello sanitario): non individua più solo chi «getta la propria coscienza» (dal latino ob-iacio) contro un ordinamento che si ritiene ingiusto, ma anche chi sceglie un’opzione garantita dalla legge. Inoltre, per quanto sia costretta a snodarsi tra molte restrizioni, prende corpo la realtà nuova del servizio civile.
La lega obiettori
Poco più di un mese dopo l’approvazione della legge, obiettori e movimenti fondano la Lega obiettori di coscienza (Loc), che si prefigge due obiettivi: quello di modificare la legge, e quello di trasmettere al nuovo servizio civile l’esperienza antimilitarista della lotta precedente.
Fin dall’inizio è evidente il legame con il Partito radicale, che, con lo sciopero della fame di Marco Pannella e Alberto
Gardin, aveva «imposto» al parlamento il riconoscimento dell’obiezione di coscienza: la Loc, infatti, costituisce la propria sede nelle stanze del quartier generale del partito in Largo Torre Argentina.
Il primo anno è difficile. Il ministero della Difesa non si premura di attivare il servizio civile, mentre la commissione nominata dal governo interpreta la legge 772 nella forma più restrittiva: anche alcuni obiettori che erano stati in carcere vedono le loro domande respinte. Nei primi due mesi di gennaio e febbraio, sono 9 su 29 gli obiettori non riconosciuti.
Inizialmente, un ritardo di qualche ora nella presentazione della domanda può comportare svariati mesi di carcere.
L’ostracismo del ministero della Difesa culmina alla fine del 1973 con una circolare che intende arruolare tutti gli obiettori riconosciuti alla Scuola dei vigili del fuoco di Passo Corese (Rieti).
Il rifiuto compatto della Loc e degli obiettori lo costringe tuttavia a fare macchina indietro.
Fallito il colpo di mano, il ministero muta strategia, alternando concessioni, ad esempio sui ritardi delle domande, a un boicottaggio meno manifesto, fatto di dilazioni nell’evadere le richieste o di rifiuti al sostegno economico per i corsi di formazione.
Il suo disinteresse alla realizzazione di un servizio civile nazionale lo porta a delegarne l’attuazione interamente alla Loc, che però non è organizzata per un simile sforzo. In questa fase difficile, ma anche creativa, di autogestione, viene in soccorso, per quanto possibile, il Mir (Movimento internazionale della riconciliazione), guidato da Hedi Vaccaro e poi da Domenico Sereno Regis: essendo tra i primi enti a firmare una convenzione con il ministero, destina gli obiettori alle sedi locali della Loc, perché siano impiegati nell’organizzazione burocratica dello stesso servizio civile.
Mutazioni e sfederazioni
Le prime esperienze partono nel 1974. Tre corsi di formazione cominciano alla Comunità Capodarco di Fermo, alla Casa dell’ospitalità di Ivrea e all’Ospedale psichiatrico di Trieste, quello diretto da Franco
Basaglia. In seguito gli obiettori sono smistati negli enti che firmano la convenzione: sono impiegati soprattutto in ambito sociale, ad esempio nelle comunità di tossicodipendenti del Gruppo Abele o in quelle per minori dell’Istituto don Calabria, o, ancora, in comuni sperduti, come Castelmagno (Cn).
Particolarmente significativo, anche per la sua rilevanza politica, è il servizio civile avviato all’Ital Uil, a Vicenza.
Date le molte anime che compongono la Loc, si innescano al suo interno conflitti che diventano man mano difficili da comporre. In particolare, chi fa riferimento al Partito radicale ritiene il servizio civile un accessorio rispetto al vero fine dell’organizzazione che deve rimanere l’antimilitarismo. Al contrario, per molti enti e per i nuovi obiettori che non hanno alle spalle le precedenti battaglie, la Loc dovrebbe mantenere l’identità antimilitarista subordinata all’azione «sindacale», sia muovendosi tra gli spazi garantiti dalla legge, sia mobilitandosi per un cambiamento.
Vedendo la propria linea diventare sempre più minoritaria con la crescita degli obiettori, il
Partito radicale opta nel 1978 per la «sfederazione» dalla Loc e orienta la propria battaglia in due direzioni: i referendum per l’abolizione di codici e tribunali militari (la Corte costituzionale ne consentirà solo uno, quello sulla composizione dei tribunali militari che sarà sufficiente per una riforma della giustizia militare) e la creazione della Lega socialista per il disarmo, poi confluita nella Lega per il disarmo unilaterale.
Nei mesi precedenti sono avvenuti altri due fatti rilevanti per la storia del servizio civile: il ministero ha emesso, dopo cinque anni, le norme attuative del servizio civile, e la Caritas, nata nel 1971, ha firmato la convenzione, accogliendo i primi obiettori. Finisce la stagione dell’autodeterminazione e comincia quella nella quale i grandi enti capaci di mobilitare centinaia di giovani, vedono crescere il proprio peso a discapito della Loc.
Ancora il carcere
Le restrizioni di una legge che non riconosce la scelta del servizio civile come un diritto, fanno sì che l’obiezione assuma ancora forme «sovversive».
A parte la scelta dei testimoni di Geova di non politicizzare il loro rifiuto e di non conferirgli rilievo pubblico, si aprono, infatti, spazi di contestazione della legge, soprattutto laddove essa mantiene la subordinazione alla realtà militare.
Gli obiettori «totali», quelli che rifiutano sia il servizio militare che quello civile per il modo in cui è regolamentato, e quelli che persistono nel rifiuto vedendo respinta la propria domanda, continuano a scontare il carcere militare e conferiscono alla loro opposizione un rilievo politico.
Una delle azioni più incisive nasce nel carcere di Gaeta (Latina), condotta simultaneamente nel 1975 da due obiettori «totali» e un obiettore con domanda respinta: Dalmazio Bertulessi,
Bachisio Masia ed Ezio Rossato. Con uno sciopero della fame prolungato, innescano una nuova attenzione sulle carceri militari: chiedono condizioni di vita migliori per i detenuti, la fine della censura della stampa, una più larga disponibilità di visite, la rimozione dei limiti alla corrispondenza. Per il momento ottengono solo il trasferimento a Forte Boccea, carcere giudiziario militare a Roma, e l’interessamento di alcuni parlamentari.
Un nuovo sciopero che coinvolge anche Francesco Galli, detenuto a Peschiera del Garda (Verona), consegue alcuni risultati: la riforma carceraria del ‘72 viene infatti estesa dai penitenziari civili anche a quelli militari, nei quali viene ora consentito l’ingresso ai parlamentari.
Le condizioni tremende di Gaeta sono così certificate da un’ispezione, e di lì a pochi anni il reclusorio viene chiuso.
Tre anni dopo, una nuova forma di protesta nasce nella comunità per disabili mentali di
Prunella di Melito Porto Salvo (Reggio Calabria). Sandro Gozzo, tra i primi obiettori della Caritas, interrompe otto mesi prima del termine il servizio civile che sta svolgendo in quella struttura. Si tratta di un’azione che intende affermare la pari dignità tra servizio civile e militare: «Ritengo incostituzionale e quindi inaccettabile la discriminazione nei nostri confronti», scrive in un’autodichiarazione. Per questo sconterà otto mesi di carcere militare.
Nei mesi e negli anni successivi lo seguono altri, come Silverio Capuzzo e Antonio De Filippis.
Inizialmente la protesta sembra rimanere un puro atto simbolico, ma, con la decisione della corte costituzionale nel 1986 di trasferire dai tribunali militari a quelli civili i giudizi sugli obiettori, anche la differente durata dei due servizi diventa oggetto di un pronunciamento di costituzionalità.
Nel 1989, infatti, la consulta ne statuisce l’equiparazione: la maggiore durata del servizio civile è letta come una sanzione in contrasto con i diritti tutelati dalla Costituzione, «in quanto sintomo di una non giustificabile disparità di trattamento per ragioni di fede religiosa o di convincimento politico e, nello stesso tempo, freno alla libera manifestazione del pensiero».
Un servizio civile di massa
Al principio degli anni Ottanta, a Padova, presso la sede locale del Mir, alcuni giovani cominciano ad adoperarsi per contrastare l’attitudine del ministero della Difesa a respingere annualmente diverse richieste di servizio civile. Dalla fine degli anni
Settanta, infatti, le domande respinte hanno ripreso a risalire: nasce una commissione ad hoc che assume un rilievo nazionale, preoccupandosi di organizzare un affiancamento giuridico agli obiettori non riconosciuti.
In quel decennio gli obiettori sono ormai migliaia ogni anno. Si tratta di una prova della trasformazione della società: il servizio militare e la retorica del sacrificio e dell’obbedienza hanno sempre meno appeal tra i giovani, mentre per una generazione che scopre il volontariato come nuova forma di impegno sociale, il servizio civile rappresenta una pratica di sperimentazione e di percezione della propria utilità.
Inoltre, pur non mancando le precettazioni d’ufficio, casi di distacchi lontano dalla propria residenza o di servizi faticosi e frustranti, nella maggior parte dei casi il servizio civile può essere svolto vicino a casa, spesso nell’ente prescelto.
A dare un ulteriore contributo al suo sviluppo è l’ingresso di un altro grande ente che si affianca alla Caritas, ovvero l’Arci: con la loro ramificata struttura, le due organizzazioni possono gestire molteplici sedi e garantire un luogo identitario a obiettori cattolici e di sinistra.
Un altro contributo alla crescita del numero di obiettori viene anche, nel 1979, dalla circolare emessa dal ministero della Difesa, retto dal socialista Lelio Lagorio, che prevedeva il congedo per gli obiettori in attesa di chiamata da oltre 26 mesi chiarendo così l’approccio svalutativo del governo nei confronti del servizio civile. Il provvedimento esplicitava che si preferiva liberarsi degli obiettori piuttosto che investire in favore di un’organizzazione capace di evadere le pratiche in tempi consoni.
La presenza pubblica degli obiettori diventa particolarmente visibile in occasione del terremoto dell’Irpinia, avvenuto il 30 novembre 1980. Già per il terremoto in Friuli di quattro anni prima non era mancato l’impegno degli obiettori, ma ora, grazie all’azione di diverse realtà, in primis la Caritas, è ben più forte.
A partire dal 1981 si assiste, invece, all’autodistaccamento di molti obiettori per partecipare alla grande mobilitazione contro gli euromissili nucleari di cui si prevede l’installazione nella base militare americana di
Comiso (Ragusa).
Per due anni l’obiezione sembra tornare alle origini, ma in realtà si tratta di una punta avanzata, rispetto a un ventre che, crescendo nei numeri, è mosso da motivazioni meno radicali, volgendosi soprattutto all’aspetto solidaristico del servizio civile.
È il prezzo inevitabile della trasformazione di un’esperienza fino a questo momento elitaria.
Un ulteriore impulso viene dalla già citata sentenza della corte costituzionale del 1989 che equipara leva e obiezione, permettendo anche a chi viene da contesti economici precari di optare per il servizio civile.
Dalle migliaia si passa alle decine di migliaia: il servizio civile è ormai una realtà di massa.
Un servizio universale
La sentenza della corte costituzionale del 1989 rivela l’anacronismo di una norma che ancora non riconosce l’obiezione come diritto. L’azione sindacale del Cesc, il Coordinamento di enti di servizio civile, nato nel 1982, quella più movimentista della Loc, e alcune iniziative che hanno una certa risonanza come i digiuni del dehoniano padre Angelo Cavagna, spingono le istituzioni a promuovere una revisione della norma.
Dal 1972 alla camera e al senato sono stati presentati numerosi progetti di legge, ma i governi che si sono succeduti non hanno mai sostenuto una riforma.
Nel 1992, invece, finalmente, i due rami del parlamento approvano l’attesa sostituzione della legge 772 con una che riconosce l’obiezione di coscienza come diritto. Tutto l’arco parlamentare è unanime, con l’eccezione, scontata, dell’Msi. A mettersi di traverso è il presidente della Repubblica Francesco Cossiga. La norma è rimandata, infatti, alle camere, a poche ore dall’avvio della procedura del loro scioglimento. Per giungere a una legge che stabilisca il diritto di scelta saranno necessari altri sei anni.
Ci si arriva solo nel 1998, dopo che un’intera stagione politica è finita: è passata tangentopoli e la prima repubblica ha chiuso i battenti.
Anche per l’obiezione di coscienza alcune cose sono cambiate. Il conflitto in Jugoslavia ha riportato lo spettro della guerra in Europa: per iniziativa dell’Associazione Papa Giovanni XXIII di don Oreste Benzi, alcuni giovani hanno abbandonato il loro servizio e si sono
recati in zona di guerra. Si trattava di una scelta non consentita dalla norma in vigore, ma che apriva a un importante sviluppo del servizio civile, in un’ottica di difesa nonviolenta che intervenga tra i paesi in conflitto.
Partendo da questa esperienza nascono i caschi bianchi.
Con la legge del 1998 e la trasformazione dell’obiezione di coscienza in diritto, avviene l’inevitabile sorpasso: entrando nel nuovo millennio, le domande di servizio civile superano per la prima volta quelle di leva, oltrepassando le centomila richieste.
Una storia legislativa fino a questo momento piuttosto paludata, accelera improvvisamente.
Anche le donne
Nel 2001 viene creato il nuovo servizio civile nazionale, aperto anche alle donne, e si prevede la sospensione della leva a partire dal 2007: si tratta di un istituto ritenuto ormai superato rispetto alle esigenze di professionalizzazione dell’esercito.
Sembrano intervenire anche preoccupazioni economiche che guardano alla massa di giovani che preferiscono il servizio civile: un numero contingentato di volontari sarebbe meno oneroso per lo stato: la sospensione viene anticipata al 2005 e da allora il nuovo servizio civile volontario rimane l’unico erede della precedente esperienza.
Per la prima volta ragazzi e ragazze si trovano fianco a fianco in un istituto che non prevede più differenze di genere. Anzi, un’esperienza nata in una forma totalmente maschile vede le ragazze diventarne le principali protagoniste (nel 2021, oltre il 63% saranno donne).
Nel 2015 si compie l’ultima mutazione, e il servizio civile diventa, a tutti gli effetti, universale: ancora una volta è la Corte costituzionale a garantire quell’avanzamento che la politica non riesce a intraprendere: essa allarga, infatti, la possibilità di fare domanda anche a stranieri regolarmente soggiornanti in Italia.
La nuova realtà del servizio civile nasconde tuttavia anche alcune ombre: la sua progressiva meridionalizzazione racconta un’Italia divisa, dove le opportunità di lavoro tra Nord e Sud sono drammaticamente diverse e in molti casi i 443 euro mensili diventano una valvola di sfogo alla disoccupazione.
Laddove gli enti che accolgono i giovani in servizio civile non sono consapevoli di quanto esso possa essere una vera scuola di cittadinanza, essi corrono il rischio di smarrire il contatto con i suoi principi e di farlo degenerare in un lavoro sottopagato, subordinato alle esigenze di bilancio dell’organizzazione.
Fare in modo che ciò non accada è la sfida che molti enti stanno raccogliendo con crescente attenzione.
Marco Labbate*
* È dottore di ricerca in Storia dei partiti e dei movimenti politici e assegnista di Storia contemporanea presso l’Università Carlo Bo di Urbino. Collabora con il Centro studi Sereno Regis di Torino e con l’associazione Il portico di Dolo (Ve).
Nel tempo del pericolo nucleare, i decisori politici e l’opinione pubblica sono prigionieri della logica binaria che non vede alternative alla violenza per rispondere alla violenza (e «vincere»). È necessario rimettere al centro i principi e i saperi della resistenza nonviolenta. Prima che sia tardi.
Di questi tempi bisognerebbe rileggere il libro I sonnambuli dello storico Christopher Clark che descrive tutti coloro che avevano le leve del potere e dell’informazione nel 1914 come sonnambuli, apparentemente vigili, ma incapaci, in realtà, di rendersi conto che stavano conducendo il mondo nel baratro di quella «grande guerra» che papa Benedetto XV avrebbe definito «l’inutile strage».
A giudicare dalle scelte fatte e reiterate dai governi rispetto alla guerra in Ucraina, e dalle posizioni veicolate dalla maggior parte dei mezzi d’informazione, un’analoga epidemia di sonnambulismo sembra contagiare anche i decisori e i media di oggi.
Essi, infatti, fanno scelte ed esprimono posizioni non all’altezza dei tempi che attraversiamo, perché prive di consapevolezza della «situazione atomica» nella quale siamo immersi.
Siamo come gli «utopisti al rovescio» de Le tesi sull’età atomica del filosofo Gunter Anders: «Mentre gli utopisti non sanno produrre ciò che concepiscono, noi non sappiamo immaginare ciò che abbiamo prodotto». Siamo incapaci di superare la distanza che separa la capacità distruttiva delle armi nucleari da quella di generare pensieri, discorsi e azioni consapevoli e responsabili. Soprattutto in questo varco critico della storia, nel quale la minaccia atomica viene brandita come mai prima.
100 secondi alla mezzanotte
Se questa definizione di Anders del 1960 era vera allora, quando la coscienza del pericolo atomico era diffusa, è incomparabilmente più vera oggi, quando si è persa la memoria del trauma di Hiroshima e Nagasaki: se nel 1960 le lancette dell’«orologio dell’apocalisse», l’orologio simbolico ideato dal «Bollettino degli scienziati atomici» per misurare quanto siamo vicini all’olocausto nucleare, erano posizionate a 7 minuti dalla mezzanotte (la fine del mondo), oggi sono a soli 100 secondi.
Questa dimenticanza dell’olocausto atomico la spiega bene lo storico Daniel Immerwahr su «The Guardian», riportato da «Internazionale» del 21-27 ottobre 2022: «Con il passare del tempo i traumi svaniscono, per nostra fortuna. Vogliamo che la bomba atomica sia proprio questo: un fatto arcaico definitivamente relegato nel passato. Ma non raggiungeremo questo obiettivo ignorando la possibilità della guerra nucleare. Dobbiamo smantellare gli arsenali, rafforzare i trattati e consolidare le norme contro la proliferazione. In questo momento stiamo facendo il contrario. La nostra coscienza nucleare si è atrofizzata. Ci rimane un mondo pieno di armi atomiche che però si sta svuotando delle persone consapevoli delle possibili conseguenze».
Benzina invece di pompieri
Questo svuotamento di consapevolezza sembra attraversare il dibattito pubblico e le scelte politiche fin dall’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina conducendo tutti a irreggimentarsi nella logica binaria – pace/vittoria; resistenza/resa – che ha militarizzato il pensiero e la discussione, alimentando «l’emozione unidirezionale pro/contro, come se fossimo tutti noi sul campo di battaglia», come ha scritto la politologa Nadia Urbinati su «Domani» già il 5 marzo 2022.
Il sostegno armato alla legittima difesa degli ucraini è così diventato, immediatamente, il solo mezzo e l’unica via alla «pace». Altre possibilità di uscita dalla guerra sono state escluse. L’unica opzione è rimasta quella di mandare sempre più armi per raggiungere la «vittoria» (impossibile in un contesto di permanente minaccia atomica).
Abbiamo così visto all’opera, ancora una volta, il riflesso pavloviano, automatico, del rispondere alla guerra con la guerra, e di gettare benzina sul fuoco invece di inviare «pompieri» per spegnerlo e dipanare la matassa del conflitto in favore di una soluzione sostenibile e duratura. In un avvitamento progressivo verso l’escalation che ha riportato all’ordine del giorno anche il possibile uso di armi nucleari.
Ripartire dal dialogo
Tutto questo ha impedito ai singoli governi europei e all’Ue nel suo insieme di assumere una posizione di «neutralità attiva» – come ha chiesto fin da subito la Rete italiana pace e disarmo – che non è equidistanza tra aggressore e aggredito, ma la postura che forse le avrebbe consentito di ricoprire il ruolo di soggetto pacificatore nel contesto di un conflitto che non è scoppiato un anno fa, ma già nel 2014.
Una colpevole rinuncia, questa dell’Ue, che lascia il ruolo di mediatore all’autocrate Erdogan.
Chi, invece, si è tenuto vigile e lungimirante nella ricerca di una mediazione, è stato papa Francesco, con i suoi ripetuti appelli alla pace e al disarmo, sui quali ha condotto anche i principali leader religiosi con la straordinaria Dichiarazione del Colosseo dello scorso 24 ottobre, un testo che – proprio perché ignorato da media e governi – merita di essere ampiamente citato.
«Con ferma convinzione diciamo: basta con la guerra! Fermiamo ogni conflitto. La guerra porta solo morte e distruzione, è un’avventura senza ritorno nella quale siamo tutti perdenti. Tacciano le armi, si dichiari subito un cessate il fuoco universale. Si attivino presto, prima che sia troppo tardi, negoziati capaci di condurre a soluzioni giuste per una pace stabile e duratura. Siamo di fronte a un bivio: essere la generazione che lascia morire il pianeta e l’umanità, che accumula e commercia armi, nell’illusione di salvarsi da soli contro gli altri, o invece la generazione che crea nuovi modi di vivere insieme, non investe sulle armi, abolisce la guerra come strumento di soluzione dei conflitti e ferma lo sfruttamento abnorme delle risorse del pianeta. L’umanità deve porre fine alle guerre o sarà una guerra a mettere fine all’umanità. Il mondo, la nostra casa comune, è unico e non appartiene a noi, ma alle future generazioni. Pertanto, liberiamolo dall’incubo nucleare. Riapriamo subito un dialogo serio sulla non proliferazione nucleare e sullo smantellamento delle armi atomiche. Ripartiamo insieme dal dialogo che è medicina efficace per la riconciliazione dei popoli. Investiamo su ogni via di dialogo. La pace è sempre possibile! Mai più la guerra! Mai più gli uni contro gli altri!».
Mezzi coerenti con i fini
Per trovare, dunque, una via di uscita dalla guerra che non sia catastrofica per tutti – a cominciare dal popolo ucraino -, occorre recuperare un principio fondamentale e alcuni saperi dell’agire politico. Il principio è quello teorizzato già da Max Weber alla fine della Prima guerra mondiale: l’etica della responsabilità che, al contrario dell’etica delle intenzioni, cerca di prevedere le conseguenze dell’agire. Essa indica il rischio che un obiettivo buono possa essere realizzato producendo «effetti collaterali» negativi. Suggerisce, quindi, di mettere in campo mezzi coerenti con i fini da raggiungere. In altre parole: il fine non giustifica i mezzi.
Nel nostro tempo il «Principio responsabilità», riformulato da Hans Jonas come «etica per la civiltà tecnologica», prescrive di agire «in modo che le conseguenze dell’azione siano compatibili con la sopravvivenza di un’autentica vita umana sulla terra». È il principio espresso anche nel Manifesto Einstein-Russell del luglio 1955: «Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Dobbiamo imparare a domandarci non già quali misure adottare affinché il gruppo che preferiamo possa conseguire una vittoria militare, poiché tali misure ormai non sono più contemplabili; la domanda che dobbiamo porci è: quali misure occorre adottare per impedire un conflitto armato il cui esito sarebbe catastrofico per tutti?».
La nonviolenza
Per fare in modo che il «principio responsabilità» sia applicato nei conflitti, però, non basta enunciarlo, occorre mettere in campo i saperi conseguenti della nonviolenza, fondati esattamente sulla coerenza tra i mezzi e i fini dell’agire. Si tratta, per esempio, dei saperi della mediazione che forniscono la consapevolezza che nei conflitti degenerati in violenza e lasciati a se stessi (o, peggio, alimentati da istigatori come l’industria bellica che vince tutte le guerre), a ogni azione violenta di una parte corrisponde un’azione contraria di livello di violenza superiore dall’altra, in un crescendo che arriva alla potenziale distruzione dell’altro, o di entrambi, se non intervengono soggetti terzi a mediare.
Si chiama dinamica dell’escalation, quella che Mohandas K. Gandhi spiegava dicendo che «occhio per occhio, il mondo diventa cieco».
Inoltre nella vulgata binaria che costruisce fin dagli inizi di questa guerra la narrazione tossica anti-pacifista, mancano i saperi di oltre un secolo di efficaci lotte nonviolente e resistenze disarmate. Essi, anche in Ucraina, soprattutto nel primo periodo di invasione, sono stati praticati dalla popolazione civile, prima di essere superati e oscurati dal massiccio invio di armi.
Sono saperi che non sfuggivano, per esempio, ad Hannah Arendt che ne La banalità del male, faceva un appello (inascoltato) affinché la resistenza disarmata danese all’occupazione nazista fosse studiata in tutte le facoltà di scienze politiche «per dare un’idea della potenza enorme della nonviolenza, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori». La Danimarca, infatti, fu l’unico paese in Europa che, sotto l’occupazione nazista, venne risparmiato da stragi e rappresaglie, e nel quale furono salvati dalla deportazione quasi tutti i cittadini di origine ebraica.
Corpi civili di pace
I movimenti per la pace, da almeno trent’anni – dalla guerra nella ex Jugoslavia -, propongono ai governi, senza essere mai stati presi in considerazione, la costituzione dei Corpi civili europei di pace, e mettono in campo esperienze di interventi di mediazione internazionale di pace nati e gestiti dal basso.
Con un esperimento di storia controfattuale potremmo immaginare che cosa sarebbe potuto accadere se nelle regioni del Donbass, a partire dal 2014, invece di far arrivare armi e armati a entrambe le parti, fosse stato inviato un Corpo civile di pace internazionale per fare interposizione, mediazione, comunicazione, riconciliazione tra le comunità, secondo la proposta che già nel 1995 Alex Langer aveva avanzato al Parlamento europeo. Langer non fu ascoltato, e nemmeno i movimenti nonviolenti che hanno continuato a proporlo, a progettarlo e, qualche volta, anche a sperimentarlo.
Obiettori e disertori
Tra i saperi da recuperare e valorizzare, ci sono poi quelli dei disertori e obiettori di coscienza, sia alla guerra di Putin che alla difesa armata dell’Ucraina.
Il movimento degli obiettori di coscienza russi è in crescita: si stima che siano almeno 100mila, come spiega Elena Popova, coordinatrice del Movimento degli obiettori russi: «Sono tanti i giovani che non vogliono partecipare alla guerra, e quelli che sono stati obiettori di coscienza in passato stanno ora aiutando altri a diventare obiettori. Grazie alla loro esperienza, guidano amici e familiari in tutto ciò che è necessario fare per non prendere parte all’esercito».
Anche i pacifisti ucraini – incontrati dalla delegazione della carovana #Stopthewarnow lo scorso ottobre (cfr. MC dic 2022) – rifiutano la logica della guerra a oltranza e chiedono al proprio governo di impegnarsi nei negoziati di pace. Per gli uni e gli altri è attiva la campagna internazionale di protezione e asilo.
Ripudiare la guerra
Nella Costituzione italiana il «principio responsabilità» e i saperi elencati sopra non mancano. A essa i costituenti iniziarono a lavorare poco meno di un anno dopo le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.
Per questo, nell’articolo 11, non sembrò abbastanza esplicito il verbo «rinunciare» della prima stesura, e scelsero il verbo «ripudiare», che contiene il disprezzo per ciò che si è conosciuto e si vuole allontanare per sempre.
Inoltre, non sembrò sufficiente ripudiare la guerra come «strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», ma aggiunsero anche come «mezzo di risoluzione delle controverse internazionali», nella duplice consapevolezza che i conflitti non sono eliminabili e che non si possono risolvere con la guerra. Soprattutto nell’epoca atomica. Per questo bisogna trovare mezzi alternativi alla guerra per affrontarli.
A questo scopo, il secondo comma dell’articolo 11 – che «consente, in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni» e «promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo» – fa riferimento alle
Nazioni Unite che erano nate già nell’ottobre del 1945 per «liberare l’umanità dal flagello della guerra» attraverso la risoluzione delle «controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace, la sicurezza internazionale e la giustizia non siano messe in pericolo».
Un’altra difesa possibile
È alla luce di questi principi e saperi che le organizzazioni impegnate per la pace e il disarmo, riunite nel cartello Europe for Peace, hanno organizzato molte iniziative di mobilitazione dal basso: da quella del 5 marzo a quella del 23 luglio, dal 21-23 ottobre alla grande manifestazione del 5 novembre a Roma.
La richiesta ai governi, sempre più pressante, è di cessare il fuoco, indire una Conferenza internazionale di pace, sottoscrivere il Trattato Onu per la messa al bando delle armi nucleari.
Principi e proposte coerenti con la campagna «Un’altra difesa è possibile» che, in Italia, già per due legislature consecutive ha presentato in parlamento una proposta di legge organica per la creazione di una vera difesa civile, non armata e nonviolenta, secondo gli articoli 11 e 52 della Costituzione.
È necessaria una via d’uscita nonviolenta dalla crisi sistemica globale in corso, che è ecologica, climatica, idrica, energetica, alimentare, pandemica, e che genera continui conflitti per le risorse (circa 170, secondo l’università di Uppsala, Svezia). Oppure, con 13mila testate nucleari puntate sulle teste di tutti, non ne usciremo vivi.
Pasquale Pugliese*
* Filosofo di formazione, ha studiato il pensiero della nonviolenza. Per anni educatore in contesti complessi, oggi si occupa di politiche giovanili. Cura percorsi sulla nonviolenza, ed è formatore per il Servizio civile.
È impegnato nel Movimento Nonviolento e, fino al 2019, nella Segreteria nazionale. Fa parte della redazione di «Azione nonviolenta», rivista fondata nel 1964 da Aldo Capitini.
A Reggio Emilia ha contribuito a fondare e animare la Scuola di Pace.
Sul web, oltre ai suoi profili Facebook, Twitter e Instagram, cura un sito su nonviolenza e disarmo. Inoltre, oltre a collaborare con diverse testate, cura un blog personale sulla rivista vita.it.
Nel 2018 ha pubblicato il volume Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini. Elementi per la liberazione dalla violenza, i cui diritti d’autore vanno al Movimento Nonviolento, e nel 2021 Disarmare il virus della violenza. Annotazioni per una fuoriuscita nonviolenta dall’epoca della pandemia, entrambi editi da GoWare.
Spettabile Missioni Consolata,
ho letto con molto interesse l’articolo a firma di Piergiorgio Pescali sul contenimento del Covid-19 in Corea del Nord (MC 5/2020). Lo stesso giornalista firma un riquadro (pag. 54) dove mette a confronto i sistemi di contenimento in Occidente e quelli in Oriente, evidenziando la tesi secondo la quale i processi democratici vigenti in Occidente rallentano la presa di decisione in situazioni di emergenza. Questo aspetto, unito all’individualismo tipico della cultura occidentale, non giova al contenimento del virus. Viceversa, citando testualmente Pescali, «il sistema comunitario orientale […] detta le regole dall’alto secondo un sistema antico e collaudato. E in Asia, nata e costruita su fondamenta culturali assai diverse da quelle occidentali, spesso funziona». Questo, unito alla cultura orientale più orientata al benessere collettivo che all’individuo, gioverebbe nel contenimento del virus.
La posizione di Pescali non mi sorprende: è in corso un dibattito politico e filosofico sulla effettiva efficacia delle democrazie e illustri politologi indicano come modelli di stato efficiente paesi come Singapore (come sostiene ad esempio, il noto politologo Parag Khanna ne «Il secolo asiatico»).
Trovo però molte crepe in questo ragionamento: se è vero che un potere centralizzato decide prima, questo non significa che il potere assoluto od oligarchico sia il migliore sistema per guidare una nazione. Cina, Corea del Nord, Vietnam, Thailandia, Myanmar (per citare solo alcune nazioni confinanti o adiacenti la Cina) sono brutali dittature che imprigionano chi dissente, spostano forzatamente intere popolazioni, controllano la vita di ogni singolo cittadino e non hanno alcuna trasparenza nelle loro comunicazioni. Siamo così sicuri che siano modelli da prendere ad esempio? Nello stesso numero della vostra rivista, avete fatto un servizio sulla persecuzione terribile che il governo cinese attua nei confronti dei seguaci della Chiesa di Dio Onnipotente.
Sottolineo che, nella nostra democrazia, imperfetta e sicuramente da rivedere, abbiamo gli strumenti del decreto legge, legislativo e della presidenza del consiglio dei ministri, che permette di gestire le emergenze.
Concludo chiedendomi, e chiedendovi, se non sia il caso di pensare a un modello cristiano di politica. Cristiano non in senso assolutistico, ma cristiano nel cuore della questione, ovvero agire per il bene di tutti, conservando la libertà di avere la propria opinione, nel rispetto degli altri. Possibile che un concetto così semplice sia solo utopia?
Perdonatemi la prolissità! Cordiali saluti,
Lorenzo Bragagnolo 22/05/2020
Non è ovviamente mia competenza specifica entrare nell’argomento del «modello cristiano di politica». Mi permetto qui di ricordare solo che uno dei capisaldi della concezione cristiana della politica si trova espresso nel Concilio Vaticano II, al numero 74 della Costituzione pastorale Gaudium et Spes.
Secondo il Concilio, in vista del bene comune, «gli uomini, le famiglie e i diversi gruppi che formano la comunità civile […] avvertono la necessità di una comunità più ampia, nella quale tutti rechino quotidianamente il contributo delle proprie capacità» (n. 74). «La comunità politica esiste dunque in funzione di quel bene comune, nel quale essa trova significato e piena giustificazione e che costituisce la base originaria del suo diritto all’esistenza» (ivi).
Perché questa comunità politica non si disgreghi nello scontro di opinioni diverse, «è necessaria un’autorità [pubblica] capace di dirigere le energie di tutti i cittadini verso il bene comune, non in forma meccanica o dispotica, ma prima di tutto come forza morale che si appoggia sulla libertà e sul senso di responsabilità» (ivi).
È un testo che merita di essere letto e riletto, anche perché «la politica» oggi è contagiata da molti virus e stanno crescendo sia la disaffezione per essa che l’idea di soluzioni messianiche e autoritario populiste.
Il capestro del debito
Gentilissima redazione,
sono un fedele lettore da molto tempo e mi soffermo spesso sulle rubriche di Francesco Gesualdi riguardanti l’economia.
Mi piacerebbe molto avere una sintesi, magari sotto forma di tabella, del debito di tutte le nazioni sotto forma di dare/avere per capire con uno sguardo chi tiene i «cordoni della borsa» dell’economia mondiale e quindi fare pressioni su di loro per azzerare il debito e liberare per sempre il mondo da questa schiavitù che affossa sempre più alcuni, ed arricchisce sempre più altri.
Alla faccia di tutte le dichiarazioni di buona volontà che circolano specialmente in questo periodo di virus, che, sotto sotto, ci ha fatto riflettere e ha messo in discussione tutti i modelli economici e dato spazio alla rivincita della natura sui disastri che giornalmente perpetriamo nei suoi confronti.
È ora di girare pagina, ma veramente e non solo con dei proclami. Cordialmente
Valerio Liberati 22/05/2020
Caro Valerio, grazie per la tua sollecitazione. Ciò che auspichi sarebbe senz’altro di grande utilità, ma al tempo stesso di non facile realizzazione. Innanzi tutto, per la varietà di fonti che andrebbero consultate e subito dopo per la quantità di voci che andrebbero esaminate. Infatti, la posizione finanziaria verso l’estero di ogni paese è determinata dal saldo commerciale, dai movimenti di capitale, dal debito accumulato dal governo centrale, dal debito delle imprese, dal debito delle banche e altri aspetti ancora. Per una sola persona si tratterebbe di un’impresa titanica, quasi impossibile da realizzare, ma se a lavorarci fosse un gruppo, allora il discorso sarebbe diverso. Quello che potremmo fare è chiedere a MC di lanciare pubblicamente l’idea con l’obiettivo di chiedere a chiunque si senta di voler e poter partecipare, di farsi avanti. Se l’iniziativa riuscisse, si potrebbe formare un gruppo di volontari che iniziano con questa ricerca e magari proseguono con molte altre di cui si sente il bisogno per ripristinare una corretta informazione.
Francesco Gesualdi 02/06/2020
Suggerimenti
Splendido il dossier sul ruolo attuale delle missioni, complimenti. Mi permetto un suggerimento: fare un servizio di analogo respiro sull’articolo di Civiltà Cattolica che partendo da un’analisi dell’impatto del virus, delinea un esplosivo programma politico, praticamente socialista, ma di quelli che i socialisti di oggi non osano neanche parlarne.
Un altro suggerimento, basato sulla lettura dell’ottimo articolo sul numero di marzo sullo sfruttamento delle acque del Mekong: fare un servizio analogo sullo sfruttamento del Nilo, che porterà tra non molto a una inarrestabile crisi in Egitto, con spinta a una enorme migrazione. I Cinesi hanno già fatto dell’Etiopia la loro riserva alimentare, acquistando terreni aridi che verranno irrigati con le dighe che stanno costruendo vicino alle origini del Nilo. E probabilmente la stessa cosa sarà fatta nel Sud Sudan quando e se sarà pacificato: a questo punto il Nilo in Egitto sarà ridotto a un rigagnolo, e una delle più popolose nazioni dell’Africa sarà ridotta alla disperazione. L’Egitto ha 100 milioni di abitanti, di cui almeno cinque di soldati e poliziotti: può succedere di tutto, a partire da una inarrestabile emigrazione.
D’altra parte, da sempre l’acqua è un elemento importante della politica estera: dal Tibet partono i fiumi che irrigano l’India, alcuni passando per il Pakistan, altri per il Kashmir non a caso in perenne tensione. I curdi si battono per un’indipendenza che nessuno gli vuol dare, perché controllano buona parte dell’acqua che va in Turchia e Iraq e tutta quella che va in Siria. E in Siria, nelle alture del Golan che Israele ha conquistato nasce il Giordano, ormai ridotto a un rigagnolo a causa dello sfruttamento intensivo delle acque, tanto che il lago di Tiberiade, luogo evangelico, credo sia di fatto prosciugato e il Mar Morto sta trasformandosi in una miniera a cielo aperto.
Claudio Bellavita 13/05/2020
Grazie dei preziosi suggerimenti di cui faremo tesoro nelle nostre possibilità. Il problema dell’acqua è certamente cruciale per il mondo, anche per alcune dissennate politiche in atto, tipo la distruzione sistematica dell’Amazzonia o la massiva cementificazione dell’ambiente o, ancor peggio, la corsa di imprese private e multinazionali a prenderne il controllo sia da noi in Italia che in molte parti del mondo, facendo questo a spese dei poveri.
Soldi per armare terroristi
Ciao carissimi,
spero di trovarvi tutti bene. Vi scrivo perché sono rimasto molto colpito dalle discussioni scatenatesi in seguito alla liberazione di Silvia Romano. Concordo sullo squallore di certi commenti volgari e irrispettosi che si sono diffusi a valanga. Nondimeno, dalle «nostre» parti (sinistra e Chiesa missionaria) è mancato un commento sull’inopportunità di avere versato dei soldi a una tra le peggiori organizzazioni terroristiche del pianeta.
Fin dalla mia prima esperienza africana, avvenuta negli ormai lontani anni ‘80, ho maturato la consapevolezza di quanto male facciano le armi nel Sud del mondo. Animato da questa convinzione, ho partecipato con entusiasmo a tantissime iniziative, dall’obiezione alle spese militari al viaggio dei 500 a Sarajevo. […]
Ebbene, adesso sento con dispiacere la mancanza di una nostra critica, educata e circostanziata (lontana mille anni luce dagli insulti e dalle minacce), al finanziamento di Al Shabaab.
Negli ultimi anni, a seguito di alcune missioni in Niger, ho percepito con chiarezza il terrore degli abitanti nei confronti di possibili attacchi da parte di gruppi jihadisti. Considerare il terrorismo islamico solo come un nostro problema, equivale a limitarsi alla punticina di un iceberg che invece costituisce un’enorme spada di Damocle nei confronti di molti paesi.
Per questo, pensando alla preoccupazione espressami da tanti africani, non sono riuscito a gioire alla notizia della liberazione dell’incolpevole Silvia, considerato che i soldi versati per lei potrebbero trasformarsi in morte per molti somali e kenyani. Forse che la sua vita vale più delle loro? Dire che tanto le armi arriverebbero ai terroristi anche senza il pagamento del riscatto, equivale al ragionamento di chi sostiene che l’Italia fa bene a vendere armi a certi paesi, tanto se non lo fa lei lo fanno gli altri.
Ho compiuto diverse missioni in paesi a rischio, e mia moglie sa bene che mai e poi mai vorrei che, se fossi rapito, qualcuno versasse dei soldi ai terroristi per me. Certo, al di là di quella che è la mia volontà, lo stato italiano potrebbe sempre decidere di comportarsi come vuole. Ma in tal caso sarebbe giusto che fosse criticato, perlomeno da chi prova orrore nei confronti degli attentati e dei conflitti armati.
Come insegnano anche molti missionari, chi parte deve essere preparato sia psicologicamente sia professionalmente, poiché le buone intenzioni non bastano. Per questo è scandaloso l’invio di Silvia, arruolata su due piedi da una Onlus alla buona per andare a «portare il suo sorriso» in uno dei posti più pericolosi della terra.
Del terzomondismo di facciata di molte Onlus e Ong ho già parlato diffusamente nel mio libro «Ripartire da ieri, la nuova sfida del volontariato internazionale», pubblicato dalla Emi nel 2015, che alcuni di voi hanno letto. Qui mi limito a esporvi la mia delusione per il fatto che certe critiche ho dovuto leggerle (per lo più espresse in forma sguaiata) sulla stampa di destra, dopo averle inutilmente cercate sulla nostra. Penso che, per essere credibili, bisogna avere il coraggio di uscire dal «politicamente corretto», altrimenti si rischia di adagiarsi sul «coppibartalismo» per cui certe cose si criticano solo se sono attuate dalla parte avversa.
Ma le armi ad Al Shabaab non sono meno mortifere di quelle vendute ai despoti di Egitto e Arabia Saudita. Chiedere chiarezza sulle transazioni di armamenti che vedono coinvolto il nostro paese senza poi chiederne altrettanta su come e quanto sia stato pagato per la liberazione di Silvia, equivale a una forte perdita di credibilità, offrendo per di più il destro a chi non aspetta altro per screditare le nostre idee e le nostre proposte.
Scusate l’intrusione, ma siete fra i pochi che non mi fanno sentire un marziano su questa Terra. E poi, tante cose le ho imparate e continuo a impararle da voi. Per questo mi sento autorizzato a chiedere un po’ più di coraggio e coerenza. Un abbraccio!
Alberto Zorloni 02/06/2020
Caro Alberto, condivido appieno la tua critica e il tuo disagio nei confronti dell’osceno mercato delle armi in cui anche il nostro paese è coinvolto su larga scala. Per quanto riguarda Silvia, ho gioito alla notizia della sua liberazione, dopo avere seguito da vicino tutta la vicenda fin dai primi momenti.
L’ho seguita spinto da molti motivi: dalla compassione (nel senso originario) per il dramma di una ragazza mandata allo sbaraglio (bastava vedere le foto della casa in cui stava), dal fatto che ho «informatori» sul posto e una nostra missione, Adu, non molto distante da Chakama; dal fatto di avere vissuto in Kenya – certamente non il posto più pericolodo della Terra – una ventina d’anni e di sentire quel paese come parte di me, dall’avere già avuto esperienza diretta di altre persone rapite da somali, come le due missionarie del Movimento contemplativo missionario di Cuneo nel novembre 2008 e liberate nel febbraio 2009.
Resto convinto che un rispettoso silenzio e una maggiore discrezione avrebbero giovato a tutti. Anche per avere il tempo di far emergere i fatti, senza costruire castelli su informazioni non confermate (vedi le fantastiche storie sui milioni pagati da questo o quello, con in ballo armamenti, petrolio e grattacieli).
Questo avrebbe evitato di spargere tanto odio e tante falsità, evitando di screditare il mondo del volontariato che in questi tempi di Covid-19 sta dando una splendida prova di sé in Italia e nel mondo.
Quanto alla battaglia contro l’amoralità del mondo degli armamenti, è una battaglia sacrosanta che si può fare senza usare le Silvie di turno, altrimenti si diventa amorali come quel mondo che non accettiamo.
Speciale Covid e missionari
Da Tura mission, Tanzania
15/03/2020 Dicono che siamo circondati dal coronavirus: Congo, Ruanda, Kenya e Sudafrica. Ma qui niente, stando alle notizie ufficiali. Sarà vero? Speriamo di sì, però…
Qui a Tura (quasi al centro del paese), e in tutta la zona, la gente conosce il nome della malattia e basta. Un po’ poco non ti pare?
Oggi dopo le messe ho mostrato un video ricevuto due giorni fa, in swahili. Attenzione massima e silenzio di tomba. Manca l’informazione e penso anche la preparazione. Nonostante tutto, ricordiamoci che il sole ogni mattina illumina la nostra vita…
23/03/2020 Ho celebrato la messa all’aperto anche per non essere troppo stretti, come capita nelle nostre chiese, in tempi di coronavirus che sta entrando anche qui in Tanzania. Ma eravamo proprio pochi, moltissimi infatti erano ancora alle prese con l’inondazione. Ho promesso loro che ritornerò presto ad incontrarli e stare con loro con calma e serenità. Oltre al coronavirus anche l’inondazione. La comunità cristiana ha ospitato nella chiesetta sei nuclei familiari, trenta persone circa. Gesto stupendo che mi fa comprendere il buon cuore della mia gente.
Martedì 17 marzo il primo ministro ha parlato ufficialmente alla Tv annunciando le prime decisioni per combattere questa pandemia, tra cui la chiusura delle scuole, divieto di incontri e assembramenti politici e partitici, destinazione al ministero della Salute della somma per la fiaccolata dell’indipendenza, preparazione di alcuni reparti ospedalieri per l’emergenza, ed altro.
I casi di coronavirus sono molto pochi, dicono i dati ufficiali. Che il Signore aiuti la nostra gente già provata in tante altre maniere.
29/03/2020 Qui a Tura la vita va avanti nella normalità. Però le piogge abbondanti e torrenziali sembra non vogliano lasciarci. I risultati sono allagamenti dappertutto con rovina di ponti e ponticelli e tante le case ripiegate su se stesse o addirittura portate via dall’acqua
26/04/2020 Oggi, domenica, secondo le direttive dei vescovi per combattere il Covid, niente canti durante le celebrazioni. Questo ci ha impressionati un po’ tutti: la messa senza canti è come il cibo senza sale, almeno qui da noi. La vivacità e la gioia pasquale ne hanno risentito parecchio.
03/05/2020 Poca gente alla messa, per fortuna la nostra chiesetta aperta ci permette di mantenere le distanze aumentando il numero dei blocchi di cemento su cui sedersi.
24/05/2020 Festa di Pentecoste, due messe, ma senza guanti e pinzette, solo con mascherina a portata di mano e all’aperto. La seconda a 40 km di distanza, circa un’ora. La comunità è Isuli da me visitata in marzo. Solita chiesetta piccola con finestre e porta senza infissi, e quindi arieggiata. Però, dato l’«amico» corona, e due begli alberi, la messa è stata all’aperto con venticello che allontanava il caldo del mezzodì. Più di quaranta adulti ed altrettanti bambini seduti per terra su un grande telone.
padre Remo Villa, Tura mission, TZ
Yokkok, Corea del Sud
La Corea ha affrontato molto bene l’emergenza virus. Un po’ di anni fa, al tempo della Sars, la Corea aveva avuto molti contagi e decessi. Per questo motivo quando è arrivato il Covid-19 era preparata. Test per tutti, specialmente dove c’erano i focolai più importanti.
Ogni giorno sui telefonini arrivano messaggi che ti allertano sulla situazione e ti dicono se nella tua zona ci sono infettati e quali sono le zone, palazzi, ospedali, centri da evitare. Così tutto è sotto controllo.
Anche noi da prima delle Ceneri fino alla fine di aprile non ci siamo mossi dai nostri centri. Non c’erano messe pubbliche, catechesi né incontri di alcun tipo. La comunità di Tong du chon faceva la messa in streaming per i lavoratori stranieri.
Tutto sembrava andare bene, le messe pubbliche erano ricominciate e già si facevano alcuni incontri, quando c’è stata una nuova ondata di contagi, questa volta non del virus «leggero» di prima, ma di quello più pericoloso che è diffuso in Europa. E molti dei nuovi contagi sono proprio nella zona di Yokkok. Perciò è saltata la festa della Consolata che facevamo ogni anno. Molte scuole sono state richiuse e in alcune parrocchie hanno di nuovo sospeso le messe. Insomma quando tutto sembrava tornare alla normalità, siamo tornati all’emergenza. Per fortuna si può andare in giro con una certa libertà, ma tutti cercano di muoversi il meno possibile. Qui a Taejon (un milione e mezzo di abitanti) e nella nostra regione, gli infettati sono stati solo alcune centinaia, per cui l’ambiente è abbastanza tranquillo. Abbiamo potuto visitare alcuni monasteri buddisti in occasione della festa della nascita del Buddha, e abbiamo ripreso qualche incontro di approfondimento sulla fede. Vedendo come vanno le cose però, la stagione pastorale non riprenderà pienamente prima di settembre.
Siamo in una situazione di stallo, come il resto del mondo d’altronde. Credo però che noi in Corea e Taiwan siamo tra i più fortunati, e la luce al fondo del tunnel la vediamo già molto vicina.
padre Lamberto Giampaolo Yokkok, Corea d.S., 30/05/2020
San Antonio Juanacaxtle, Messico
19/04/2020 Giovedì faremo una riunione in uno spazio aperto con gli otto capi quartiere del rancho (paese) per lanciare il Revess (Rete di vicinato e solidarietà samaritana). L’iniziativa vorrebbe rendere più coeso il tessuto sociale e coinvolgere i giovani per piccole commissioni e per proteggere gli anziani.
Intanto il confinamento è stato decretato in tutto il Messico fino al 30 maggio perché credono che il 10 maggio raggiungeremo il picco. Vedremo.
Il governatore del nostro stato (Jalisco) ha inasprito le misure di sicurezza, soprattutto in relazione all’uso della mascherina. Certo, ci sono molte famiglie qui che vivono alla giornata e non possono rimanere a casa perché non hanno risparmi su cui vivere.
21/04/2020 Qui sembra che le misure di distanziamento sociale non riescano a fermare né Covid-19 né gli omicidi.
24/04/2020 Ieri è partito il Revess, in una bella riunione all’aperto, sulle panchine fuori dalla chiesa, mantenendo la distanza di sicurezza. Alla fine, abbiamo parlato anche della festa del patrono del rancho, che è il 13 giugno. Ho detto loro che il confinamento è fino al 30 maggio, ma che potrà essere allungato ulteriormente. Quindi niente festa. Ci sono rimasti male e hanno sottolineato che allora neanche la festa la Consolata (del 20 giugno) potrà essere fatta.
Erano più preoccupati per i festeggiamenti del villaggio che per il Covid-19. Infatti c’è un sacco di scetticismo sul coronavirus. Penso che fino a quando non toccherà qualcuno della loro famiglia, sarà difficile per loro convincersi della gravità della situazione.
06/05/2020 Il Revess ha cominciato a funzionare e sta iniziando i primi interventi con l’aiuto di volontari.
12/05/2020 Stiamo distribuendo cibo a destra e a manca perché le esigenze sono enormi e bisogna anche dedicare del tempo alle persone. Non puoi solo dare la borsa di cibo e andartene. Dobbiamo non solo saper ascoltare, ma anche saper dare per rispettare la dignità di coloro che sono nel bisogno. Sono lieto di poter fornire un minimo di consolazione.
17/05/2020 Secondo l’Istituto per l’economia e la pace, la violenza ha tolto l’equivalente del 21% del Pil al Messico. Il che è una barbarie. Siamo ancora alla media di 100 omicidi al giorno.
Di fronte a questa pandemia della violenza, il Covid-19 sembra un male minore. Siamo anche uno dei paesi che fa meno tamponi, quindi è difficile avere una visione globale della situazione. Penso che dobbiamo essere più attenti che mai al contagio proprio perché c’è l’impressione generale che il peggio sia passato, ma non ne sono tanto sicuro.
21/05/2020 Stanno arrivando un sacco di chiamate da persone che hanno il Covid-19 e stanno vivendo davvero male. Ci sono anche persone che soffrono di solitudine e hanno bisogno di parlare con noi.
Domani avremo altri 200 sacchetti di cibo da distribuire tra le famiglie. Li porteremo in ogni casa noi stessi, il che rende la distribuzione molto più lenta, ma anche molto più umana.
25/05/2020 Il confinamento, previsto fino al 1 giugno, sta creando situazioni complicate. Ieri hanno pesantemente minacciato uno di noi missionari perché si è rifiutato di celebrare una messa di anniversario – con partecipazione massiccia di gente – di un ragazzo morto due anni fa.
30/05/2020 Continuiamo a distribuire aiuti alimentari, anche se si prevede che tutto questo peggiorerà. I casi di Covid-19 continuano ad aumentare, così come i decessi e siamo uno dei paesi che fa meno test. D’altra parte, omicidi e femminicidi sono una realtà quotidiana.
padre Ramon Lazaro, Guadalajara, Messico
Corea del Nord: Forse è iniziata una nuova era
Corea del Nord e Usa. Il tanto declamato incontro tra Donald Trump e Kim Jong Un è stato possibile per il grande lavoro diplomatico del presidente sudcoreano Moon Jae-in. La denuclearizzazione della Corea del Nord non è un programma di poco conto e richiede vari passaggi. Senza trascurare la circostanza che gli Stati Uniti mantengono in Corea del Sud 28.500 militari, che non piacciono né a Pyongyang né a Pechino. L’analisi (alternativa) del nostro Piergiorgio Pescali presente al summit di Singapore.
Una «nuova era, l’era della cooperazione tra Dprk e Usa si è aperta». Queste parole, forse fin troppo ottimiste, non provengono da comunicati diplomatici, quasi sempre inutili nella loro tendenza ad amplificare il successo di qualsiasi evento internazionale, ma da una fonte inaspettata: il Rodong Sinmun, il quotidiano del Comitato Centrale del Partito dei Lavoratori di Corea. Il 13 giugno 2018 il giornale nordcoreano, come tutti i mezzi di comunicazione del paese strettamente controllato dal governo, riassumeva – in ben quattro pagine – i risultati del summit tenutosi a Singapore tra Kim Jong Un e Donald Trump illustrando il tutto con 33 fotografie. Ma le sorprese non finiscono qui: per la prima volta nella loro storia i nordcoreani potevano leggere che lo stesso Grande Leader aveva «elogiato la volontà e l’entusiasmo del presidente (Trump, ndr) nel risolvere le divergenze in modo realistico attraverso il dialogo e i negoziati, lontano dalle ostilità che si erano create nel passato». Una dichiarazione sbalorditiva e sicuramente inattesa in un paese dove gli Stati Uniti sono visti come il perenne e principale pericolo per la sopravvivenza del suo popolo.
Il contributo di Moon Jae-in
La dichiarazione di Singapore è composta da quattro punti programmatici che delineano la strada da seguire per completare
il processo di pace e stabilire relazioni diplomatiche. Ad essa si è arrivati dopo lunghe e sofferte trattative, ma il punto di svolta lo si era avuto con l’elezione di Moon Jae-in alla presidenza della Repubblica di Corea (dal 10 maggio 2017, ndr). È stato questo avvocato e attivista dei diritti umani, figlio di profughi nordcoreani trasferitisi al Sud alla fine del 1950, arrestato negli anni Settanta per aver partecipato a manifestazioni studentesche contro la costituzione Yushin che dava pieni poteri all’allora presidente Park Chung-hee, a mediare tra le diplomazie statunitensi e nordcoreane riaprendo la via ad un dialogo che appariva impossibile. Già fautore della Sunshine Policy avviata da Kim Dae-jung (presidente dal 1998 al 2003, ndr) e perseguita da Roh Moo-hyun (presidente dal 2003 al 2008, ndr), con cui ha collaborato organizzando l’incontro del 2007 con Kim Jong Il, Moon Jae-in è sempre stato convinto che l’unica soluzione possibile per pacificare la penisola coreana fosse il dialogo. Così, quando nel maggio 2017 la disastrosa amministrazione di Park Geun-hye, caratterizzata da scandali e dalla politica del confronto muro-contro-muro con il Nord ebbe termine, Moon iniziò, o meglio, riprese, la linea di apertura ufficialmente interrotta nel novembre 2010 dal ministro dell’Unificazione sudcoreano.
Da allora Seoul e Pyongyang si sono confrontate a livelli diplomatici sempre più alti e neppure il test termonucleare del settembre 2017 seguito dal lancio del missile intercontinentale Hwasong 15 a novembre, sono riusciti a impedire che il 27 aprile 2018 (e poi il 26 maggio, ndr) Kim Jong Un entrasse nella Corea del Sud garantendosi un posto nella storia varcando, primo leader della Corea del Nord, il confine segnato dall’armistizio del 1953.
Da quell’incontro Moon ha lavorato indefessamente affinché il dialogo non si arenasse, come invece era accaduto con la Sunshine Policy, riuscendo anche a convincere Trump a ritirare la lettera inviata il 25 maggio in cui diceva di voler annullare il summit di Singapore.
Nel frattempo, Kim Jong Un teneva fede alla parola data chiudendo il sito di test nucleari di Punggye-ri, l’area dove sono state fatte scoppiare tutte le sei bombe nucleari, di cui l’ultima termonucleare, che tanto hanno scosso l’opinione pubblica fino a far ipotizzare a chi è meno attento alle questioni della penisola, lo scoppio di una guerra.
La dismissione di Punggye-ri, pur con tutti i dubbi sollevati dal rifiuto da parte nordcoreana di invitare esperti internazionali che installassero strumenti di monitoraggio in continuo, è stato un primo passo per iniziare un dialogo con gli Stati Uniti.
È stato questo lavoro di concerto tra Kim e Moon a permettere l’incontro di Singapore.
Come fare per accontentare tutti gli attori
Ora, però, la questione principale che ci si pone è quale denuclearizzazione sarà possibile in Corea del Nord? Il termine denuclearizzazione è di per sé molto vago e lascia spazio a innumerevoli interpretazioni. Gli Stati Uniti vorrebbero un disarmo nucleare completo, verificabile e irreversibile, il cosiddetto Cvid (Complete, Verifiable and Irreversible Dismantlement) così come descritto nella risoluzione 2.270 del 2016 delle Nazioni Unite. In questo documento si legge che la «Repubblica democratica popolare di Corea dovrà abbandonare tutti i programmi nucleari e abbandonare la produzione di armi nucleari in maniera completa, verificabile e irreversibile cessando immediatamente ogni attività ad essa correlata». Ma le incomprensioni tra Pyongyang e Washington sono spesso causate alla diversa interpretazione dei termini. Per gli asiatici la denuclearizzazione comprenderebbe anche la completa rimozione dei 28.500 militari statunitensi oggi stanziati in Corea del Sud. Per gli statunitensi, invece, almeno sino al vertice di Singapore, questa opzione non è mai stata contemplata. Anzi, il terrore della Cina è proprio quello di trovarsi i propri confini presidiati da truppe del Pentagono nel caso la Corea del Nord si avvicini troppo agli Usa.
Una soluzione che potrebbe accontentare entrambe le parti sarebbe il congelamento (e non lo smantellamento) del programma nucleare e missilistico di Pyongyang. Dopotutto Kim Jong Un ha già affermato di aver raggiunto il suo scopo con il lancio dell’Hwasong-15 nel novembre 2017 e lui stesso ha indicato come non improbabile una sospensione delle ricerche in campo atomico e missilistico. Il congelamento sarebbe un modo per accontentare tutti gli attori regionali: la Corea del Nord non sarebbe costretta per forza di cose a denuclearizzare per prima esponendo così il proprio lato debole al nemico; gli Stati Uniti, invece, avrebbero la garanzia che la nazione asiatica non perfezioni ancor più la sua tecnologia e non accresca di altre bombe termonucleari il proprio arsenale. Per la Corea del Sud, dal canto suo, si aprirebbe una nuova stagione di dialogo, una sorta di Sunshine Policy II, accrescendo il peso politico ed economico della nazione nella regione e garantendo a Moon Jae-in l’approvazione non solo dell’elettorato, ma anche dei potenti chaebol (i grandi conglomerati industriali controllati da un proprietario o da una famiglia, ndr). Il Giappone, sebbene non veda completamente soddisfatte le sue richieste di estinzione di pericolo nucleare e chimico-batteriologico provenienti dalla Corea del Nord, avrebbe però una nuova chance per riaprire il negoziato sui rapimenti dei propri cittadini avvenuti negli anni Ottanta, avendo al tempo stesso la riassicurazione di Washington di proteggere l’arcipelago con i propri sistemi antimissile. La Cina, che più di tutti teme un cambiamento dell’equilibrio di forze a favore degli Usa, verrebbe compensata dall’apertura di un mercato di 100 milioni di potenziali consumatori, 25 dei quali altamente affamati di nuovi prodotti. Attualmente le esportazioni cinesi sono frenate a Nord dall’embargo delle Nazioni Unite e a Sud dalla barriera del 38° parallelo.
Lo scoglio nucleare e missilistico
Anche nel caso la Corea del Nord accettasse di interrompere i propri test nucleari e missilistici, le parti in causa dovranno comunque sedersi a un tavolo delle trattative per individuare modi e tempi per ottemperare alle proposte.
Pyongyang potrebbe sospendere i test dei soli missili intercontinentali, quelli che più impensieriscono gli Stati Uniti, ma non quelli a corto e medio raggio, capaci di raggiungere ogni punto del Giappone. Potrebbe anche non includere il programma spaziale che, seppur formalmente sia solo un programma civile, ha comunque implicazioni militari, come ben sanno gli stessi Stati Uniti. Anche nel caso si raggiungesse un accordo sul bando dei test missilistici Icbm (Intercontinental Ballistic Missiles, missili balistici intercontinentali), Pyongyang potrebbe continuare a sviluppare studi in laboratorio sui motori a combustibile liquido e, a seconda degli accordi che si andranno a sottoscrivere, le ricerche correlate ai missili imbarcati sui sottomarini. Dato che i test sui Icbm devono passare attraverso lo sviluppo dei missili Srbm (Short Range Ballistic Missiles, missili balistici a corto raggio) e sui motori a combustibile liquido, sarà molto probabile che gli Stati Uniti chiederanno la sospensione totale di questi esperimenti.
Alla Corea del Nord potrebbe anche venir chiesto di rientrare nel Ctbt, il «Trattato per il bando totale degli esperimenti nucleari» (Comprehensive Test-Ban Treaty) da cui era uscita il 10 gennaio 2003. Nel caso il paese accetti, sarà obbligato ad aprire i suoi siti di ricerca e di produzione a ispezioni internazionali, le quali potrebbero intervenire senza lungo preavviso nel caso vi siano prove di violazione del trattato. Inoltre, i tecnici del Ctbt sarebbero autorizzati ad installare strumenti di controllo in remoto nelle aree più delicate, incluse quelle ritenute segrete, che possano ravvisare eventuali attività non autorizzate. La rivelazione agli Stati Uniti o a parti terze delle proprie basi segrete, i centri di produzione missilistica e nucleare, le rotte, legali o no, attraverso cui i militari si riforniscono per i propri programmi, sarebbe sicuramente la fase più delicata: Pyongyang potrebbe vederla come il punto di non ritorno perché taglierebbe in modo pressoché definitivo ogni futuro sviluppo del paese in senso militare.
Sanzioni e sviluppo economico
Questo calo delle difese da parte di Pyongyang, considerato critico e pericoloso da parte della leadership nordcoreana, dovrebbe essere a sua volta accompagnato da ampie assicurazioni da parte di Washington e dei suoi alleati che, una volta esposta e indifesa, la Corea del Nord non verrà attaccata in alcun modo, non solo militarmente, ma anche con ritorsioni economiche, politiche e di altro genere. Nei suoi comunicati ufficiali, Pyongyang ha sempre considerato le ritorsioni economiche come delle vere e proprie dichiarazioni di guerra e di questi collegamenti si dovrà tener conto quando le parti si siederanno di nuovo al tavolo delle trattative. La sospensione delle esercitazioni militari, dei voli dei bombardieri e la navigazione di portaerei e sottomarini nel Mar Giallo e nel Mar del Giappone, auspicate per la prima volta quest’anno da parte di Trump subito dopo il vertice di Singapore, dovrebbero risultare permanenti, possibilmente accompagnate da un patto di non aggressione, mentre la Cina (ed eventualmente la Russia) potrebbe proporsi come garante nella protezione militare di Pyongyang.
È anche impensabile cancellare il programma sino a quando non si instaureranno le condizioni per sopperire alle falle energetiche e finanziarie che ora vengono parzialmente colmate dal nucleare. L’economia nordcoreana ha estremo bisogno di elettricità. Le centrali che alimentano le industrie e le abitazioni civili sono vetuste e hanno urgente bisogno di essere rinnovate. L’embargo imposto dalle Nazioni Unite impedisce al paese di importare pezzi di ricambio così come il petrolio, e l’unica fonte di approvvigionamento rimangono le miniere di carbone la cui estrazione è fortemente rallentata da macchinari antiquati e da continui incidenti. In questa situazione i black out energetici sono frequenti, rallentando la produzione economica e costringendo la popolazione a fare i conti con improvvise interruzioni delle attività quotidiane. Se a Pyongyang e nelle altre città la situazione è ancora sostenibile, nelle campagne è, invece, più seria. Per far fronte alla carenza di energia elettrica quasi ogni casa nordcoreana ha pannelli solari che permettono il funzionamento degli elettrodomestici e dei macchinari meno energivori.
La società nordcoreana si sta sempre più dividendo in due, tra chi abita in città ed è testimone di mutamenti sempre più repentini e chi, invece, vive nelle campagne, dove la vita scorre più lineare e le riforme economiche e sociali si materializzano sotto forma di mercatini privati, commercio con il mercato nero, disoccupazione.
Se il trio Kim-Moon-Trump è riuscito a portare una nuova speranza di pace e sviluppo nella storia della penisola coreana, ora i nordcoreani aspettano fiduciosi un nuovo boom economico che permetta loro di migliorare le proprie condizioni di vita.
Piergiorgio Pescali
Il presidente nordcoreano a Singapore
Un selfie con Kim
Il comportamento di Kim Jong Un è molto diverso da quello dei suoi predecessori: il padre Kim Jong Il e il nonno Kim Il Sung. In questo cambiamento è stato aiutato anche dalla sorella Kim Yo Jong. A Singapore, il presidente nordcoreano è stato più «mediatico» del presidente Usa.
Il summit di Singapore si può riassumere in due foto particolarmente emblematiche: la prima è il selfie che il ministro degli Esteri singaporeano Vivian Balakrishnan ha scattato assieme al collega della Pubblica Istruzione Ong Ye Kung con un sorridente Kim Jong Un in mezzo a loro. La foto, fatta con un cellulare, è in assoluto il primo selfie del leader nordcoreano ed è stata scattata nel Gardens by the Bay durante il tour che ha portato Kim e l’ormai inseparabile sorella Kim Yo Jong allo Sky Park del Marina Bay Sands. Il ritratto mostra, forse più di ogni altra immagine, il nuovo corso che il Grande Leader vuole imprimere alla Corea del Nord. Non più immagini costruite e stereotipate come quelle che, per anni, hanno contraddistinto il padre e il nonno; per la prima volta questo selfie ha mostrato il Kim quotidiano, genuino, perfettamente a suo agio in un ambiente a lui estraneo, ma che sente come amico. L’estemporaneità della postura è perfettamente in linea con la nuova politica intrapresa dal leader nordcoreano sin dai primi giorni del suo governo. Una politica che, a differenza del padre, lo ha portato a stretto contatto con il popolo: le apparizioni del Grande Leader, rare durante il periodo di Kim Jong Il, si sono fatte sempre più frequenti e alla severità del padre si è sostituito il sorriso del figlio, sicuramente impresso nel suo carattere, ma dettato anche dal nuovo stile costruito dalla sorella, non per nulla vice direttrice del dipartimento di Propaganda e che esprime un senso di sicurezza ad una nazione stremata da anni di chiusura e di embarghi politici e economici.
Di Singapore Kim Jong Un ha apprezzato la pulizia e l’architettura degli edifici, «che ricordano la storia e il passato» aggiungendo di «aver imparato molto dall’esperienza fatta nella città-stato e che sarà utile per il futuro» del suo paese. Il panorama notturno che Kim ha osservato dallo Sky Park del Marina Bay Sands lo ha impressionato tanto da auspicare una trasformazione simile anche per la sua Pyongyang.
La seconda fotografia che racchiude la sintesi del summit ritrae Kim Jong Un e Donald Trump di spalle a tre quarti che camminano lungo il porticato che si affaccia sul giardino del Capella Hotel. Kim sta parlando a Trump sorridendo mentre, con la mano destra appoggiata all’altezza del gomito del braccio sinistro di Trump, accompagna il presidente Usa. L’immagine è emblematica perché racchiude la sintesi dei colloqui tra i due capi di stato. Kim ha il sopravvento su un Trump che, pur continuando a ricoprire la figura del borioso e dello spaccone, si lascia guidare dal collega nordcoreano sottomettendosi, almeno in parte, alle sue volontà. I due sembrano prendere confidenza l’uno con l’altro prima di avanzare verso un futuro che appare luminoso con le palme sullo sfondo. E tra loro è Kim Jong Un che guida il percorso e incoraggia il collega. Un ribaltamento di ogni prevedibile situazione: a Singapore non sono stati gli Usa a condurre i giochi, bensì la Corea del Nord. Seguendo Kim nel suo tour a Singapore, il bagno di folla e le inaspettate ovazioni a lui riservate hanno mostrato che, almeno in questa città, il leader nordcoreano è visto in modo diametralmente opposto rispetto a come è stato descritto in Occidente. Per contro il presidente statunitense è stato snobbato ed era chiaro che si sentisse un pesce fuor d’acqua al di là del contesto mediatico del Capella Hotel.
Sicuramente questo modo di vedere ha a che fare con gli storici legami politici e economici che Singapore ha avuto con la Corea del Nord a cui si aggiungono le simpatie personali tra Lee Kuan Yew (morto nel 2015, ndr) e con Kim Il Sung (morto nel 1994, ndr), fondatori, padri-padroni autoritari dei rispettivi stati. Lee Kuan Yew e Kim Il Sung condividevano l’assolutismo, il rigore e un’idea differente dei diritti umani, basati su una «visione asiatica» che predilige il diritto sociale a quello individuale.
Piergiorgio Pescali
Irriducibili sognatori
Editoriale. | Di Gigi Anataloni |
Mentre scrivo si stanno contando i voti. Populismo e destre sembrano alla riscossa. C’è chi esulta e c’è chi piange. «Metà Italia contro élite e migranti», titola un giornale. Quando leggerete queste righe, forse avremo già un nuovo presidente del consiglio e un nuovo governo. Il devoto di san Gennaro o chi ha in tasca il rosario della mamma? Oppure si deciderà di andare a una nuova votazione? Bisognerebbe essere indovini per saperlo.
Fare il commentatore politico non è mia competenza ma, come cittadino, prete e missionario, non posso essere indifferente a quanto succede, soprattutto di fronte alla svolta populista e razzista che intravedo nel paese che amo e di cui sono orgoglioso. Paese che, tra l’altro, ha uno dei tassi più alti di mescolamento genetico al mondo (le analisi sul nostro Dna ce lo confermano), visto che da tempi immemori è stato luogo di incontro e scontro tra i popoli più diversi. L’Italia deve molta della sua bellezza e genialità proprio alla sua diversità.
Quasi tutti i commentatori concordano nel dire che uno degli elementi che ha favorito i vincitori è stata la questione dei migranti, come se fossero loro la causa della mancanza di lavoro e dell’insicurezza diffusa. Noi, da irriducibili sognatori che siamo, continueremo a sostenere, incoraggiati da quei tantissimi italiani che danno più ascolto al cuore che alle paure della pancia, che i migranti non sono un pericolo, ma un valore; che sono persone, uomini e donne come noi, non alieni o nemici, e vanno trattate con giustizia, rispetto e dignità, senza falsi paternalismi o pregiudizi. Giustizia richiede pratiche burocratiche snelle ed efficienti, accoglienza in strutture adeguate e non mezze prigioni, e inserimento, integrazione, scuola, lavoro regolare, salari giusti e cittadinanza a chi è già italiano di fatto (jus soli e affini). Giustizia è anche eliminazione delle nuove schivitù, della tratta, dello sfruttamento dei minori, del lavoro nero. Giustizia è anche dire no al paternalismo e creare con i migranti rapporti seri basati su correttezza e responsabilità, diritti e doveri, e rispetto delle leggi, senza condonare atteggiamenti antisociali o mafiosi.
La paura e l’esagerata percezione di insicurezza stanno spingendo molti ad armarsi, imitando?i nostri eterni modelli e rivali nordamericani. La corsa alle armi non è solo degli individui, ma anche degli stati. La nostra bella nazione, che nella sua Costituzione rigetta la guerra, ha aumentato le spese militari almeno del 4,5% rispetto al 2017, e del 25,8% rispetto al 2006, ed è una delle prime produttrici e venditrici di armi al mondo. Noi, da irriducibili sognatori, continueremo a sostenere che la pace non si ottiene né mantiene con le armi, ma con il dialogo, il rispetto, l’aiuto reciproco tra le nazioni, la difesa dell’ambiente, il commercio equo, un’economia solidale e la lotta alla povertà. Che a livello personale l’arma più potente è il perdono e la nonviolenza, e che gratuità, volontariato, servizio, condivisione, aiuto a chi è nel bisogno e rispetto delle diversità sono più forti e danno più sicurezza di porte blindate, di regolamenti razzisti, di armi in casa, di ronde e vigilantes. Siamo incoraggiati dal fatto che il nostro paese è davvero ricco di gruppi, associazioni e movimenti che «lottano» per la pace e la nonviolenza e sono attivi nel volontariato e nel servizio alla comunità. Questo è bello e dà tanta speranza.
C’è un germe di speranza anche nelle elezioni appena svolte: l’affluenza alle urne ha battuto tutte le previsioni di astensionismo, soprattutto tra i giovani. Questo significa che, nonostante certi politici fallimentari e autoreferenziali, gli italiani credono ancora nella «Politica» e nella partecipazione alla vita del paese, e sono coscienti «del diritto, che è anche dovere, di usare del proprio libero voto per la promozione del bene comune» (Gaudium et Spes 75). Perché «la comunità politica esiste in funzione di quel bene comune, nel quale essa trova significato e piena giustificazione e che costituisce la base originaria del suo diritto all’esistenza» (GS 74). Noi, irriducibili sognatori, continueremo a credere che il futuro non è dei corrotti, dei venduti ai grandi poteri economici, di chi mette i suoi interessi al primo posto o è affamato di potere, dei mafiosi e dei massoni, ma di quegli uomini, cristiani e non, che, presa «coscienza della propria speciale vocazione nella comunità politica», si impegnano in prima persona, «sviluppando in se stessi il senso della responsabilità e la dedizione al bene comune» (GS 75).?«Bene comune» che, oggi più che mai, ha dimensioni planetarie, visto che ogni scelta politica, economica e ambientale ha effetti su tutta l’umanità.
Gigi Anataloni
_________________________ P.S. MC non ha cambiato titolo.Quest’anno la testata ricorda i 120 anni della rivista, fondata dal beato Allamano nel 1899 come il bollettino «La Consolata» dell’omonimo santuario di Torino. Dal 1901 il bollettino ha due anime: il santuario e le missioni d’Africa. Così nel 1928 si divide in due pubblicazioni: quella del santuario e «Missioni Consolata» che è la voce dei missionari.