Convivere con l’autismo


È un disturbo del cervello e della mente che può manifestarsi in forme molto diverse. Si stima che nel mondo le persone autistiche siano 60 milioni. Per le famiglie dei 500 mila autistici italiani le difficoltà sono tante.

Nel 2007 le Nazioni Unite hanno indetto per il 2 aprile la Giornata Mondiale della consapevolezza sull’autismo. Questa celebrazione annuale ha lo scopo di sensibilizzare la popolazione su una sindrome in aumento e ancora difficile da comprendere e nel contempo di sollecitare le istituzioni a migliorare i servizi e l’assistenza alle persone colpite e alle loro famiglie. In questo numero di MC parleremo delle caratteristiche note della malattia, mentre nel prossimo articolo vedremo quali possibili implicazioni può avere l’inquinamento ambientale sulla sua insorgenza e, più in generale, sullo sviluppo del cervello umano.

Il disturbo autistico

Fino a qualche decennio fa si pensava che l’autismo fosse una conseguenza del rifiuto del figlio da parte della madre in sua attesa, per cui si sottoponevano a inutili sedute psicologiche sia la madre che il bambino. Le conoscenze attuali ci permettono di dire invece che l’autismo è un disturbo dello sviluppo biologicamente determinato, i cui sintomi compaiono nei primi tre anni di vita. È provato che questa patologia è associata a un disturbo dello sviluppo tanto del cervello (con alterazione delle strutture e delle funzioni nervose) che della mente (con alterazioni dello sviluppo psico-cognitivo ed emozionale).

Secondo il DSM IV-TR (Diagnostic Statistical Manual IV, redatto dall’American Psychiatric Association), il manuale dei disturbi mentali in uso presso gli specialisti, si tratta di una disabilità permanente, che perdura per tutta la vita. Le caratteristiche del deficit variano nel corso dello sviluppo di ogni individuo ed inoltre le manifestazioni della malattia possono essere molto diverse da bambino a bambino, andando da una lieve a una grave sintomatologia, tanto che si preferisce parlare di «Disturbi dello spettro autistico» o di «Disturbi pervasivi dello sviluppo». In realtà in questa categoria i clinici comprendono anche la sindrome di Asperger (che qualcuno considera una forma di autismo ad alto funzionamento, senza ritardo mentale), la sindrome di Rett, o altri disturbi (si veda la tabella). Circa il 50% degli autistici presenta ritardo mentale e il 30-40% epilessia.

Le principali aree di compromissione sono tre e riguardano l’interazione sociale, la comunicazione verbale e non verbale e il comportamento.

L’interazione sociale del soggetto autistico è caratterizzata dalla compromissione, dal ritardo o dall’atipicità dello sviluppo delle competenze sociali soprattutto nelle relazioni interpersonali. Il bambino mostra scarso interesse a relazionarsi con gli altri, tende all’isolamento e può mostrare un’apparente indifferenza emotiva agli stimoli o, al contrario, ipereccitabilità. Inoltre può esserci difficoltà a instaurare un contatto visivo.

La comunicazione dell’autistico è compromessa sia a livello verbale che non verbale. Si stima che circa il 25% degli autistici non sia in grado di comunicare verbalmente, mentre coloro che riescono a utilizzare il linguaggio spesso si esprimono in modo bizzarro, ad esempio con parole fuori contesto o con ecolalia, cioè con molteplici ripetizioni della stessa parola.

L’immaginazione risulta povera e stereotipata. Il bambino autistico difficilmente riesce a fare un gioco simbolico o di immaginazione. I suoi comportamenti sono ritualistici e ripetitivi e caratterizzati da scarsa flessibilità ai cambiamenti della routine quotidiana e dell’ambiente circostante, al punto da avere reazioni abnormi, come perdita di controllo, rabbia, aggressività nel caso in cui qualcosa cambi. Anche le posture e certe sequenze di movimenti possono risultare stereotipati.

Oltre alle tre principali aree di compromissione, la cui osservazione permette di porre la diagnosi di autismo, ci sono altri sintomi che da soli non bastano per fare questa diagnosi, ma che spesso sono presenti come la ipersensibilità agli stimoli sensoriali, le condotte autolesive e le aree di abilità. Ad esempio la capacità di contare un impressionante numero di oggetti in pochissimo tempo o di memorizzare l’elenco telefonico, come faceva il protagonista di Rain Man, film del 1988, che per la prima volta portò il problema dell’autismo sul grande schermo, mirabilmente interpretato da Dustin Hoffman nella parte del malato di autismo e da Tom Cruise, il fratello minore che se ne prendeva cura (in foto).

Più maschi che femmine

Per quanto riguarda la diffusione dell’autismo, non ci sono prevalenze geografiche o etniche, ma si tratta di una patologia ubiquitaria. C’è invece una prevalenza di sesso, poiché i maschi sono colpiti circa quattro volte più delle femmine. La stima di prevalenza più attendibile attualmente sembra essere di 10 casi su 10.000 bambini in età scolare. Secondo il Centers for disease control and prevention (cdc.gov), su dati 2012 riferiti a bambini di 8 anni, 1 su 68 è affetto da disordine autistico (aprile 2016). Confrontando questi dati con quelli del passato, si può dire che attualmente l’autismo è 3-4 volte più frequente di 30 anni fa. Molti studiosi pensano però che, più che un reale incremento della malattia, questa disparità di dati con il passato sia dovuta alla migliore capacità diagnostica di oggi, all’allargamento dei criteri diagnostici, all’abbassamento dell’età alla diagnosi, alla maggiore sensibilizzazione degli operatori e della popolazione in generale verso questo disturbo. Attualmente negli Stati Uniti le persone interessate sono circa 3,5 milioni. Nel mondo le persone autistiche sono circa 60 milioni e si stima che, in Italia, siano circa 500.000 (0,86% circa della popolazione), anche se tuttora nel nostro paese non esistono dati ufficiali.

Oltre al miglioramento della capacità di diagnosticare l’autismo, molti esperti imputano l’aumento del numero dei casi registrati negli ultimi trent’anni a cause genetiche ed epigenetiche. In NPJ Genomic Medicine sono stati pubblicati i risultati di uno studio condotto da S. Scherer all’Hospital for Sick Children di Toronto, in cui sono stati esaminati i campioni di Dna di 200 famiglie con un figlio autistico. In particolare sono state ricercate le mutazioni de novo, cioè quelle non ereditate dai genitori, ma insorte casualmente nel corso della vita nelle cellule germinali. È stato osservato che il 75,6% di tali mutazioni interessa gli spermatozoi e che la loro frequenza subisce un notevole incremento con l’aumentare dell’età del padre. Per quanto riguarda gli ovociti materni, le mutazioni de novo si presentano sotto forma di ammassi (cluster) dovuti a polimorfismi del Dna (variazioni nel numero delle copie di geni), che di solito vengono eliminati spontaneamente dal cromosoma materno. Le mutazioni de novo correlate allo spettro autistico riguardano in particolare geni coinvolti nella trasmissione sinaptica, nei meccanismi dell’espressione dei geni e nell’organizzazione della cromatina. Un’altra interessante ricerca condotta dagli scienziati del Centre national de la recherche scientifique di Marsiglia, mediante la risonanza magnetica nucleare effettuata su bambini di due anni di età, ha evidenziato nell’«area di Broca» del cervello (l’area che presiede alle funzioni del linguaggio e della comunicazione) una minore presenza di materia grigia nei cervelli dei bambini autistici, rispetto ai controlli normali. Questa ricerca ha il merito di avere dimostrato che un marcatore specifico dell’autismo è presente nel cervello già in tenerissima età. Da qui l’importanza fondamentale di una diagnosi precoce, che permetta l’avvio di interventi mirati capaci di sfruttare la neuroplasticità del cervello del bambino, in modo da attivarne le potenzialità, che rimarrebbero sopite con interventi tardivi.

Diagnosi e terapie

Fino a non molto tempo fa la diagnosi di autismo veniva posta tra i due e i quattro anni, ma attualmente gli specialisti ritengono che già intorno ai 18 mesi, quando i genitori si rendono conto che qualcosa non va, sia fondamentale sottoporre il bimbo a visita specialistica. Un esempio di grande recupero dalla malattia è rappresentato dalla dottoressa Temple Grandin, che – pur essendo autistica – è riuscita a conseguire un dottorato in zootecnica presso l’Università dell’Illinois e ha una carriera internazionale nell’ambito delle apparecchiature zootecniche. La Grandin, autrice di Emergence: Labeled Autistic (1986), sostiene che il suo recupero è avvenuto grazie all’intervento di insegnanti esperti a partire dai due anni e mezzo.

La scarsa conoscenza dei meccanismi biologici alla base dell’autismo è chiaramente un grosso limite per una terapia mirata, soprattutto in considerazione dei diversi gradi di disturbo dello spettro autistico. Questo implica l’indispensabilità di espandere la ricerca. Attualmente gli interventi a disposizione per migliorare la qualità della vita dei soggetti autistici sono di tipo farmacologico (limitati di solito ai momenti di maggiore instabilità) e di tipo abilitativo comprendenti diverse metodologie come le tecniche di analisi del comportamento, le tecniche di apprendimento basate sul rinforzo per migliorare le capacità cognitive e adattative, il gioco come tecnica di apprendimento, per migliorare gli aspetti emotivi relazionali. È fondamentale che i piani d’intervento siano personalizzati, così come lo è una stretta collaborazione e cornordinazione tra la famiglia del soggetto autistico, il servizio di neuropsichiatria infantile e la scuola.

L’Italia e la legge 134

Come si affronta il problema dell’autismo in Italia? Pur essendo noto da anni alla scienza, alla medicina e alla società, in Italia la prima legge dedicata specificamente a questo problema è la n. 134 emanata il 18 agosto 2015, contenente «Disposizioni in materia di diagnosi, cura e abilitazione delle persone con disturbi dello spettro autistico e di assistenza alle famiglie». Questa legge, che stabilisce le linee guida per i servizi, la formazione degli operatori sanitari, la definizione di équipe territoriali, la promozione dell’informazione e della ricerca, le buone pratiche terapeutiche ed educative e la cornordinazione dei vari interventi, rischia di rimanere però solo sulla carta poiché all’art. 4 si dice che «Dall’attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Le amministrazioni interessate alla relativa attuazione vi provvedono con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente». In tal modo spesso solo le famiglie più abbienti possono fare curare efficacemente i propri figli autistici, rivolgendosi a centri privati. Oltretutto non sempre l’offerta privata è sicura poiché il rischio di incorrere in terapeuti improvvisati, in questo campo, è elevato. Inoltre la legge si disinteressa degli autistici adulti, che al compimento dei 18 anni perdono ogni diritto ad essere seguiti gratuitamente da medici specializzati e da insegnanti di sostegno, rischiando di retrocedere nelle abilità acquisite. Per loro è prevista al massimo l’indennità di accompagnamento. Insomma, l’autismo è per sempre, ma la legge italiana non lo sa. Anche se forse qualcosa si muove. I nuovi Livelli essenziali di assistenza (Lea), varati lo scorso 12 gennaio, recepiscono la citata legge n. 134 del 2015, per la diagnosi precoce, la cura e il trattamento individualizzato dei disturbi dello spettro autistico. Speriamo sia la volta buona.

Rosanna Novara Topino
(seconda puntata – continua)




Viaggio nella disabilità


È questo il nome di una legge approvata dal parlamento italiano lo scorso 14 giugno. Parla di assistenza alle persone con disabilità grave prive di
sostegno familiare. Una norma importante, una norma di civiltà, che ora passa alla (difficile) prova dei fatti.

Che succederà dopo di noi? Questa è da sempre la domanda che si pongono i genitori di figli portatori di handicap gravemente invalidanti. Per cercare di dare una risposta a queste famiglie, il 14 giugno 2016 la Camera ha approvato in via definitiva – con 312 voti a favore, 64 contrari e 26 astenuti – la legge n° 2.232, «Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare», detta anche legge «Dopo di noi». Questa norma fa seguito alla n° 104 del 1992, che per prima iniziò a occuparsi della nozione di «disabile grave», cioè delle situazioni dei soggetti che a causa di una minorazione, singola o plurima, abbiano una ridotta autonomia personale, anche correlata all’età, e abbiano quindi bisogno di un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale. Successivamente, nel 1998, con la legge n° 162 furono elaborati programmi di aiuto ai disabili presso comuni, regioni ed enti locali, ma fino alla legge promulgata quest’anno non era ancora stato preso alcun particolare provvedimento per quei disabili a cui viene a mancare il sostegno familiare.

Con la Dopo di noi, lo stato ha stabilito la creazione di un fondo per l’assistenza e il sostegno ai disabili privi di aiuto familiare e sgravi fiscali per privati, enti e associazioni che stanzieranno risorse per la loro tutela. Il fondo è compartecipato da regioni, enti locali e organismi del terzo settore e avrà una dotazione triennale così ripartita: 90 milioni di euro per il 2016, 38,3 milioni per il 2017 e 56,1 milioni per il 2018.

I requisiti di accesso al fondo sono individuati dal ministero del Lavoro e le regioni definiscono i criteri per l’erogazione dei finanziamenti, la verifica dell’attuazione delle attività svolte e le ipotesi di revoca dei finanziamenti.

Questa legge dovrebbe garantire la massima autonomia e indipendenza possibili alle persone disabili, permettendo loro di vivere nelle proprie case o in strutture gestite da associazioni, cioè case-famiglia o comunità, in modo da evitare il ricorso all’assistenza sanitaria. Le tutele sono estese anche ai soggetti disabili che, pur avendo ancora i genitori in vita, non possono fruire del loro sostegno.

Per quanto riguarda le agevolazioni fiscali previste dalla legge Dopo di noi, ci sono sia detrazioni sulle spese relative a polizze assicurative e contratti a tutela dei disabili gravi, sia esenzioni e sgravi sui trasferimenti di beni dopo la morte dei familiari, costituzione di trust (affidamento fiduciario istituito a favore di persona con disabilità grave accertata) e altri mezzi di protezione legale. In pratica dal 1 gennaio 2017 per le polizze sul rischio di morte finalizzato alla tutela delle persone con disabilità grave accertata, l’importo scaricabile passa da 530 euro (come era previsto in un aggioamento dell’art. 15 della legge n° 917 del 22 dicembre 1986) a 750 euro. Inoltre la legge prevede significative agevolazioni fiscali, come l’esenzione dall’imposta di successione e donazione, in caso di trasferimento di beni a titolo gratuito o mediante trust. Per non pagare queste imposte bisogna dimostrare che ogni trasferimento di beni ha come finalità l’inclusione sociale, la cura e l’assistenza delle persone con disabilità. Per quanto riguarda la casa, è inoltre prevista l’esenzione delle imposte di registro, ipotecarie e catastali in misura fissa, la riduzione di aliquote e di franchigie e l’esenzione per l’imposta municipale sugli immobili. Inoltre sono esenti dal pagamento del bollo le erogazioni liberali, le donazioni e gli altri atti a titolo gratuito effettuati da privati. Essi potranno essere deducibili nella misura massima del 20% del reddito imponibile e fino a 100.000 euro annui.

Secondo coloro che l’hanno votata, questa nuova legge permette di evitare l’isolamento dei disabili e il ricorso automatico all’ospedalizzazione per i non autosufficienti privi di sostegno familiare. Secondo chi ha dato parere sfavorevole, invece, la Dopo di noi crea pericolose disparità tra chi può permettersi di lasciare fondi in gestione ad altri per le cure ai figli invalidi dopo la propria dipartita e chi invece non può permetterselo e deve contare esclusivamente sull’assistenza pubblica. Il Coordinamento nazionale famiglie disabili (www.famigliedisabili.org) la definisce una legge per i ricchi. Secondo gli oppositori, come il Movimento 5 Stelle, questa legge favorisce moltissimo le assicurazioni private.

Inoltre, per quanto riguarda il fondo di assistenza, per il triennio 2016-2018 sono stati stanziati 184,4 milioni di euro, ma buona parte di queste risorse è destinata a finanziare le detrazioni delle spese sostenute per le polizze assicurative o per costituire i trust per la tutela dei disabili. Di fatto resta ben poco per le prestazioni sociali a favore dei disabili.

Qualche miglioramento al testo originale del disegno di legge è stato fatto con gli emendamenti passati in senato, grazie ai quali è stato introdotto il rispetto della volontà del disabile o dei genitori, circoscrivendo in tal modo l’eventualità di ricovero in strutture specializzate soltanto a casi estremi. E ciò per evitare il rischio che i soggetti più deboli siano rinchiusi con troppa facilità in qualche istituto.

Rosanna Novara Topino
(fine prima puntata- continua)




Disabilità: diritto e deboli


Circa 150 comunità sparse nel mondo. Persone con e senza disabilità condividono la vita quotidiana. L’idea di fondo è l’accoglienza reciproca, la promozione dei singoli. Far fruttare la ricchezza della debolezza. Una realtà nata in Francia nel 1964 da un’aspirazione evangelica del suo fondatore, cresce promuovendo anche il dialogo interreligioso e interculturale.

Nella Comunità dell’Arca (Arche in francese, ndr) tutto è pensato a misura delle persone con handicap. Tutti sono uguali e hanno lo stesso spazio.

Jean Vanier, il fondatore, insiste molto nelle sue conferenze e nei suoi scritti sulla ricchezza del «vivere con». Lui, che ha vissuto e lavorato per la maggior parte della sua vita con le persone con handicap, sostiene che una relazione fondata solo sull’assistenza non può portare a cambiamenti, né dal punto di vista sociale, né personale. Per favorire un cambiamento occorre creare legami che escludano la dipendenza. L’amore, la vulnerabilità, il perdono, dice, hanno infatti una capacità trasformante, sia nei confronti della persona accolta che in quelli dei volontari e degli operatori. L’ospite della Comunità dell’Arca non è una persona solo da assistere e curare, ma un mistero da scoprire. I disabili, spesso rifiutati e emarginati, desiderano vivere con degli amici, cioè con persone che li accolgano così come sono, non li giudichino, non li condannino quando vedono i loro limiti, la vulnerabilità, la fragilità.

In un mondo ossessionato dalla perfezione, dal bisogno di affermazione, di successo, di produttività, la debolezza spaventa. Proprio il contatto con persone disabili può aiutare a scoprire il diritto di essere deboli.

Secondo Jean Vanier la debolezza è un dono e un’opportunità, una forza che porta le persone a dare il meglio di sé.

Strutture semplici ma vitali

Esistono in Italia molte realtà che si occupano di persone con handicap fisico e mentale. Tra di esse, le comunità Papa Giovanni XXIII, le Case della Carità, le comunità di Sant’Egidio e numerose altre a carattere locale, sorte in tante città.

Avendo l’occasione di fare del volontariato in alcune di queste case, si conoscono strutture molto semplici ma vitali, gestite da équipe di operatori qualificati, a volte in collaborazione con religiosi. Si incontrano numerosi altri volontari che aiutano nei diversi servizi e nelle attività ludico-formative con l’intento di rispondere alle esigenze particolari di ciascuna persona accompagnata.

La comunità dell’Arca

Qualche tempo fa, durante una tappa formativa del mio cammino di vita religiosa nelle Suore Ausiliatrici1, ho vissuto quattro mesi in Francia prestando il mio servizio all’Arche di Lione. La Comunità dell’Arca è una realtà internazionale fondata nel 1964 a Trosly-Breuil, piccolo comune francese a circa 100 km a Nord di Parigi, da Jean Vanier. La Comunità dell’Arca si articola in singole case (i foyer) nelle quali vivono assieme persone con e senza disabilità. Alla base di ogni comunità c’è la condivisione della vita quotidiana, del lavoro e dell’amicizia.

La comunità di Lione si trova nella periferia Sud Est della città. È formata da tre foyer-focolari che accolgono in maniera stabile circa 30 persone con handicap fisico e mentale e da un Centro diuo con laboratori e spazi per le attività formative a cui partecipano, oltre alle persone ospitate stabilmente, circa 10 persone estee. Dei tre foyer, due sono nello stesso cortile, in due casette indipendenti accanto alla struttura del Centro diuo, in una zona residenziale della città, il terzo è in un appartamento di un palazzo in Centro città. Ogni foyer ospita una decina di persone, ciascuna delle quali ha la propria camera. Uno di essi è per le persone disabili più autonome che lavorano anche all’esterno e che sono più coinvolte nella gestione del foyer stesso. La suddivisione tra uomini e donne è circa del 50%, grossomodo hanno dai 30 ai 60 anni. Le loro famiglie sono generalmente presenti, ma spesso non riuscivano a occuparsi più di loro. Alcuni genitori sono già anziani. Diversi collaborano con la comunità come volontari. Una volta al mese o ogni due mesi gli ospiti passano un fine settimana nelle famiglie.

La quotidianità dei foyer

La vita quotidiana a L’Arche è molto semplice e molto ricca, con un programma uguale tutti i giorni, ma sempre variato dagli imprevisti inevitabili con persone con un handicap mentale.

Dopo la sveglia e la colazione, gli ospiti si ritrovano nella Cappella del Centro diuo per un tempo facoltativo di preghiera, che permette a ciascuno, secondo la propria fede religiosa, di donare un senso alla giornata che sta iniziando. La preghiera è prima in ebraico, in unione con i fratelli ebrei, poi in arabo, in unione con i fratelli musulmani e, infine, in francese, in unione con tutti i fratelli cristiani, accompagnata da un segno di croce, un gesto semplice che fa già respirare un senso di unità, di comunione.

Segue un ampio spazio comunitario, un tempo importante durante il quale gli ospiti dei differenti foyer raccontano aneddoti quotidiani. Ciascuno può prendere la parola e raccontare un vissuto, qualcuno stringe semplicemente la mano, dà un abbraccio, chiede attenzione.

Seguono i diversi laboratori: sport di gruppo, passeggiate, mosaico, lettura, attività con le perle, ricamo, teatro, cucina, cinema, giardinaggio, falegnameria. I responsabili, affiancati dai volontari, usano la creatività per inventare sempre nuove attività.

Il programma della giornata è segnato su una lavagna: di ogni partecipante c’è la foto, ogni laboratorio è rappresentato da un disegno, e il luogo in cui si svolge è identificato dal colore della porta della sala in cui ci si riunisce. In questo modo tutti sanno cosa faranno quel giorno.

Gli espedienti per favorire la partecipazione degli ospiti alla vita comunitaria sono molti. Anche durante il pranzo condiviso tra volontari e persone disabili ognuno ha un proprio compito: qualcuno intona la preghiera, qualcun’altro va a prendere in cucina le pietanze, altri sparecchiano o puliscono i tavoli o danno una mano a lavare i piatti.

Nel primo pomeriggio, dopo un tempo di attività libere, riprendono altri laboratori. Alle 17.00, dopo una merenda insieme, ciascuno dei residenti rientra nel proprio foyer, gli ospiti estei in famiglia.

La serata nei foyer è caratterizzata da uno stile semplice e familiare: si prepara la cena condivisa, anche con i volontari, e ci si aiuta nella preparazione per andare a letto. Infine, c’è un tempo di scambio e di distensione tra volontari, responsabili e assistenti (ragazzi, francesi e non, che vivono per un anno nei foyer, condividendo la vita con i disabili, una sorta di anno di Servizio Civile Volontario).

La vita insieme è attuabile

A L’Arche i disabili sono al centro e «invitano» altri a vivere con loro, creando relazioni nuove, luoghi di incontro tra persone diverse per religione, origine sociale, cultura, livelli intellettivi, e annunciano che l’unità, la riconciliazione, la vita insieme sono attuabili.

Nei Principi Fondatori della Comunità dell’Arca è scritto: «Le persone che hanno un handicap mentale spesso hanno qualità d’accoglienza, di meraviglia, di spontaneità, e di verità. Nella loro sobrietà e nella loro fragilità, hanno il dono di toccare i cuori e di chiamare all’unità. Per la società sono un richiamo vivo ai valori essenziali del cuore, senza i quali il sapere, il potere, e l’agire perdono il loro senso e sono sviati dal loro fine. La debolezza e la vulnerabilità della persona umana, lungi dall’essere un ostacolo alla sua unione con Dio, possono favorirla. In effetti è spesso attraverso la debolezza riconosciuta e accettata che si rivela l’amore liberatore di Dio».

Cristiana, ma non per soli cristiani

L’Arche è profondamente radicata nella fede cristiana, ma non è solo per i cristiani2. Ogni persona che vive nella comunità o la frequenta è invitato a scoprire e approfondire la sua vita spirituale, e a viverla secondo la fede e la tradizione che gli sono proprie. La comunità diventa così sia cristiana che interconfessionale e interreligiosa. I valori cristiani diventano valori umani su cui basare e fondare la comunità: al centro c’è il paradigma della lavanda dei piedi e l’esperienza pasquale, cioè la speranza nella vita che rinasce dalla ferita.

Chiara Selvatici*

* Suora Ausiliatrice (si veda nota 1) di voti temporanei, cresciuta nel mondo scout a Imola,
ha incontrato la spiritualità ignaziana negli anni di ingegneria a Bologna. Oggi vive a Roma.

 Note:

1- L’Istituto delle Suore Ausiliatrici delle Anime del Purgatorio è una congregazione religiosa femminile di diritto pontificio di spiritualità ignaziana, fondato nel 1856 a Parigi da Eugénie Smet. Oggi, a 160 anni dalla fondazione, le Ausiliatrici sono circa 500, presenti in 24 paesi in 4 continenti, con una missione molto diversificata che cerca di rispondere in modo creativo ai bisogni della Chiesa e delle diverse società. In particolare, cercano di farsi prossime a quanti sono nella prova e «vivono situazioni di passaggio», come migranti, persone senza dimora, vittime della tratta, ammalati, carcerati, anziani, ma sono anche impegnate nell’accompagnamento umano e spirituale, nella formazione e nella catechesi, nella pastorale giovanile, nei movimenti di promozione della persona e di lotta alle ingiustizie. (www.suoreausiliatrici.it)

2 – Nel 2006 e 2008 Christian Salenson, teologo e direttore dell’Istituto di scienze e di teologia delle religioni di Marsiglia, ha cercato di leggere i principi fondativi de L’Arche alla luce della fede cristiana: C. Salenson, L’Arche. Une spiritualité singulière et plurielle, L’Arche en France, 2009.


La storia de «L’Arche» e dei suoi fondatori

50 anni di accoglienza

«Prima per me non era vita: tutta la giornata in una sala, seduto. Non potevo fare niente, non potevo uscire, non c’erano impegni, occupazioni, niente».

La prima comunità dell’Arca nasce nel 1964 a Troly-Breuil, una piccola cittadina a Nord di Parigi, dove Jean Vanier, incoraggiato dal suo padre spirituale, padre Thomas Philippe, domenicano, invita Philippe e Raphaël, due persone con handicap, a vivere con lui in una piccola casa che chiamerà «L’Arche», l’Arca, nome che ricorda l’arca di Noè, la barca della salvezza, simbolo di sicurezza e di rinnovamento, della prima alleanza tra Dio e l’umanità, e che ricorda anche Maria, definita dai padri della Chiesa come Arca dell’alleanza.

La piccola comunità cresce velocemente accogliendo altre persone disabili, ma anche giovani di tutto il mondo che desiderano conoscere e condividere questa esperienza di vita. La Comunità dell’Arca, iniziata da Jean Vanier, si diffonde presto nel mondo. Già nel 1969, il desiderio di aprire nuove comunità si concretizza nella fondazione di una comunità a Daybreak, vicino a Toronto, in Canada, e in India, a Bangalore.

L’espansione, totalmente inaspettata per Jean, apre l’Arca a nuove culture, nuove lingue, nuove realtà sociali molto differenti da quella francese. Nel 1972 viene quindi creata la Federazione internazionale delle Comunità dell’Arca.

Sorte da un’ispirazione cattolica, dal desiderio di Jean di dare carne al suo percorso spirituale di incontro con il Signore delle beatitudini, le comunità diventano presto luoghi ecumenici e di dialogo interreligioso, luoghi di accoglienza e segni di speranza e di solidarietà.

Nel 2014, l’Arca festeggia i suoi primi 50 anni. Attualmente è presente nei cinque continenti con 149 comunità in 38 paesi1.

Jean Vanier.

Nasce il 10 settembre 1928 a Ginevra, in Svizzera, da una famiglia canadese. Vive la sua infanzia in Canada, nel Regno Unito e in Francia, dove suo padre viene inviato come diplomatico. Pochi giorni prima dell’occupazione nazista, insieme ai suoi quattro fratelli e a sua sorella, scappa da Parigi e, in previsione di una carriera da ufficiale della Marina, volendo seguire le orme del padre George, nel 1941 è ammesso all’accademia navale britannica. All’inizio del 1945 Jean visita Parigi dove suo padre era ambasciatore del Canada e, insieme a sua madre, si prende cura dei sopravvissuti dei campi di concentramento. Il contatto con queste persone, segno di un’umanità ferita, lo tocca profondamente. All’età di diciassette anni diventa ufficiale e si unisce alla Royal Navy. Tre anni più tardi viene trasferito alla Marina canadese, ma, nonostante una carriera promettente, nel 1950 lascia per studiare filosofia e teologia all’Istituto Cattolico di Parigi. Nel 1963 pubblica la sua tesi di dottorato su Aristotele e insegna filosofia all’Università di Toronto. Fondamentale per il cambiamento radicale della sua vita è l’incontro con la sua guida spirituale, padre Thomas Philippe, domenicano, cappellano di un centro per malati mentali a Trosly-Breuil, a Nord di Parigi. Tramite lui conosce la condizione di persone con grave disabilità, «ragazzi che […] si chiedevano “chi sono, perché sono così, perché nessuno mi crede, perché i miei genitori non sono felici che io esisto?”. Persone desiderose di sapere chi vuole loro veramente bene»2. Nel 1964 lascia il mondo accademico per proseguire la sua ricerca interiore e spirituale, compra una piccola casa a Trosly e invita a vivere con lui Raphaël e Philippe, due persone con handicap che vivevano nel Centro di Trosly-Breuil, ma che, abituati a vivere in famiglia, non riuscivano ad adeguarsi alla vita dell’Istituto. Mentre la comunità di Trosly cresce rapidamente, Jean inizia a viaggiare per tutto il mondo: partecipa a dibattiti, conferenze e ritiri, parlando della debolezza, del diritto di essere deboli, raccontando e testimoniando la sua esperienza, rivolgendosi soprattutto ai giovani.

Nel 1968, nell’Ontario, riunisce laici, religiosi e persone con handicap per il primo ritiro di «Foi et Partage», Fede e Condivisione, esperienza che dà origine a comunità, soprattutto in Canada, che si riuniscono e pregano insieme una volta al mese3. Nel 1971, dopo un pellegrinaggio a Lourdes con 12.000 persone, di cui 4.000 disabili, fonda, assieme a Marie Hélène Mathieu, «Foi et Lumière», Fede e Luce, un movimento che riunisce ogni mese gruppi di 20-40 persone con handicap, le loro famiglie e i loro amici, per momenti di amicizia, condivisione, preghiera e festa. Oggi esistono più di 1.500 gruppi di Fede e Luce in 82 paesi, tra cui una sessantina anche in Italia4.

Jean Vanier è molto impegnato anche nella vita della Chiesa e nel dialogo ecumenico: pronuncia il discorso di apertura dell’Assemblea generale del Consiglio ecumenico della Chiesa, a Vancouver, nel 1983, partecipa al Sinodo sulla laicità a Roma su invito del papa, nel 1998 partecipa al Comitato centrale del Consiglio ecumenico della Chiesa a Ginevra ed è invitato dall’Arcivescovo di Canterbury al consiglio dei vescovi della Chiesa anglicana durante la Conferenza di Lambeth.

Numerosi i riconoscimenti per la sua attività nell’ambito della difesa dei diritti umani e dello sviluppo dei popoli. Tra di essi riceve il Premio Internazionale Paolo VI nel 1997, il Pacem in Terris nel 2013, il Templeton nel 2015.

Nel 2000 fonda «Intercordia», un’associazione con lo scopo di offrire ai giovani universitari un anno di «formazione alla pace» mediante un’esperienza interculturale tra i poveri e gli emarginati nei paesi in via di sviluppo5.

Nonostante i suoi 87 anni, continua a fare conferenze e a dare ritiri, principalmente a Trosly. I suoi libri, diffusi in tutto il mondo, sono tradotti in più di 30 lingue6.

Raphaël Simi. Coetaneo di Jean Vanier, nasce nel 1928 a Marsiglia e cresce a Parigi con i suoi genitori, sua sorella e suo fratello. All’età di tre anni, a causa di una meningite e di altre complicanze, perde l’uso della parola e un’emiplegia gli causa problemi di deambulazione. Alla morte dei suoi genitori, nel 1962, viene mandato nella struttura per disabili di Trosly, dove si sente «rinchiuso». Cresce il suo malessere per il distacco dal mondo e dalle relazioni. Nel 1964 accetta l’invito di Jean Vanier ad andare a vivere con lui, insieme a Philippe. Resta in contatto con i suoi fratelli fino alla loro morte. Quando la comunità di Trosly si ingrandisce, nel 1988 chiede di andare a L’Arche di Verpillieres, a Nord di Parigi, per vivere in un ambiente più tranquillo. Fa il postino della comunità ed è sempre disponibile per piccoli servizi e nei laboratori fino alla sua morte, avvenuta il 24 marzo 2003.

Philippe Seux. Nasce nel 1941 a Casablanca, in Marocco. All’età di due anni contrae un’encefalite che gli procura danni cognitivi permanenti. Quando ha 20 anni, sua madre si ammala e, in cerca di cure, si trasferiscono in Francia. Due anni più tardi, nel 1963, alla morte della madre, viene mandato nel Centro per disabili di Trosly. Dopo un anno di sofferenza incontra Jean Vanier che lo invita a vivere con lui. Philippe si trasferisce il 4 agosto 1964. Racconta: «Quando sono arrivato a L’Arche, non c’era l’elettricità, non c’era niente. Si usavano candele per illuminare la casa, era divertente! Mancavano i sanitari e la doccia in bagno. Ho detto “Ok, non c’è problema!”, perché ero felice. Prima per me non era vita: tutta la giornata in una sala, seduto. Non potevo fare niente, non potevo uscire, non c’erano impegni, occupazioni, niente. Ho anche pianto. Non ero a mio agio. Poco a poco tutto poi si è messo in ordine a L’Arche». Nel 1975 si trasferisce a Compiègne, vicino a Trosly, continuando per 10 anni a frequentare i laboratori diui a Trosly. Oggi la sua salute e autonomia sono peggiorate, ma continua a vivere con gioia nella comunità.

C.S.

Note:

1- www.larche.org.
2- J. Vanier, Il sapore della felicità. Alle basi della morale con Aristotele, EDB, Bologna 2002.
3- http://foietpartage.net.
4- www.foietlumiere.org.
5- www.intercordia.org.
6- www.jean-vanier.org.

 


Due comunità crescono

L’Arca in Italia

Il Chicco, la prima comunità italiana, è nata nel 1981 quando Guenda e Anne hanno accolto in una piccola casa a Ciampino, vicino a Roma, Fabio e Maria, bambini con handicap. La storia della casa e della comunità è legata alle parole del Vangelo di Giovanni, 12,20-28: «Se il chicco di grano non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto».

Nel progetto iniziale Guenda e Anne avrebbero voluto accogliere la piccola Chicca che però morì poco prima del trasloco, e in suo ricordo la comunità ha preso il nome Il Chicco. In oltre 30 anni di vita la comunità si è ingrandita e attualmente è composta da tre foyer, Il Chicco, La Vigna e L’Ulivo, che ospitano circa 20 persone con handicap mentale, e un Centro di accoglienza diuo con quattro laboratori: Nido, Universo, Mulino e Natura.

L’Arcobaleno, la seconda comunità italiana, è nata nel 2001 a Quarto Inferiore, in provincia di Bologna, con l’accoglienza di Albertina e Cristina nel primo foyer chiamato Il Cedro. Dopo un anno è stato aperto il laboratorio La Formica per le attività diue, sia per i residenti nella comunità che per gli estei. Negli anni la comunità si è ingrandita con la costruzione di due nuovi foyer, Il Grano, nel 2007, e la Manna, nel 2013, con l’ampliamento del Centro diuo, con la creazione del laboratorio La Tartaruga e, nel 2012, del laboratorio La Civetta.

C.S.