Malaysia: Allah… ma non per tutti


Un paese ricco di diversità, diviso tra il continente asiatico e l’isola del Borneo. Un tempo ponte tra Occidente e Oriente. Da oltre due secoli vi convivono tre principali gruppi etnici e quattro grandi religioni. Non senza problemi. Abbiamo incontrato il direttore del settimanale cattolico nazionale che ci ha raccontato le nuove sfide della Malaysia.

Kuala Lumpur. Padre Lawrence Andrews, gesuita malese, nel 1994 ha fondato il settimanale cattolico «Herald» (www.heraldmalaysia.com). Con una tiratura di 16.000 copie, il periodico è distribuito in tutta la Malaysia. Il giornale pubblica articoli in diverse lingue, le principali parlate nel paese: malay (lingua malese), cinese mandarino, indiano tamil e inglese. Il paese è infatti un mosaico di popoli e culture. Le etnie principali, oltre ai nativi (malesi o malay, che si dividono a loro volta in diverse etnie locali, molte delle quali vivono nel Borneo), i cinesi (migrati qui a partire da inizio 1800) e gli indiani tamil.

La Malaysia è una federazione di monarchie costituzionali, e riunisce 11 stati della Malesia continentale (o peninsulare) e gli stati Sabah e Sarawak sull’isola del Borneo. Oltre il 61% della popolazione è musulmana (l’islam è pure religione ufficiale), seguono i buddhisti (19,8%), i cristiani (9,2%) e gli induisti (6,3%), oltre altre religioni.

«La maggioranza dei cattolici parla malese e vive in Borneo. Qui invece, nella Malaysia occidentale, c’è una grande mescolanza di lingue e quella più comune è l’inglese», ci racconta padre Lawrence che incontriamo nel suo ufficio, alla parrocchia Saint Francis Xavier, a Petaling Jaya, comune periferico di Kuala Lumpur, la capitale.

«È importante sottolineare che i nativi cattolici che parlino malay vivono in Borneo. Su questioni linguistico-religiose abbiamo avuto un contenzioso con il governo. Il termine “Allah” in malay significa “Dio” ed è un nome generico, ma lo stato ha proibito a noi cattolici di usarlo, in particolare a mezzo stampa, perché lo possono utilizzare solo i musulmani. Per secoli abbiamo detto e scritto “Allah” anche noi per indicare Dio, ecco perché mi sono impuntato. Ma abbiamo perso. Adesso dobbiamo scrivere nomi come la traduzione di “Lord” (Signore) che è “Tuan”, che però non è la stessa cosa. Si dovrebbero usare entrambi».

Le comunità etniche

Il giornale cattolico è dunque indirizzato a tutte le comunità etniche del paese. Padre Andrews ci racconta l’evoluzione del multiculturalismo in Malesia.

«A partire dagli anni ’80 c’è stata una progressiva sistematica polarizzazione su base etnica. La gente è diventata più cosciente del proprio background culturale e quindi è andata nella direzione di una maggiore divisione tra un gruppo e un altro. Se negli anni ’50 e ’60 i gruppi non erano un problema, c’era una grande mescolanza, le persone di comunità etniche diverse erano amiche tra loro, si invitavano a casa una con l’altra, oggi assistiamo a maggiore divisione. In particolare si sta verificando un’avanzata del fondamentalismo islamico a causa di un’influenza che viene dal Medio Oriente. Le donne hanno iniziato a coprirsi con l’hijab (velo semplice che lascia scoperto il volto, ndr), e a ritirarsi nel proprio gruppo. Prima si dava la mano anche alle donne, adesso non più, o almeno è sconsigliato. Oggi se un musulmano va nella casa di un non musulmano non mangia, perché ha paura che ci sia carne di maiale. Questo processo si è molto accentuato negli ultimi anni».

Malesi per Costituzione

In Sarawak, Borneo, un testimone ci aveva raccontato: «Ci sono molte differenze tra Malaysia peninsulare e Borneo per quello che riguarda l’integrazione tra le comunità. Nella penisola i gruppi etnici sono molto più divisi, ovvero si frequentano persone dello stesso gruppo. In Borneo invece è molto comune la frequentazione interetnica, ad esempio tra musulmani e cristiani o tra cinesi e malay».

Continua padre Lawrence: «I gruppi etnici e le religioni stanno diventando una cosa sola, mentre prima non era così. In Malaysia vivono cinesi di differenti dialetti, indiani e diversi gruppi etnici e nativi, di cui i malay sono la maggioranza. Questi ultimi sono in gran parte musulmani (soprattutto nella zona peninsulare, ndr). Questo è l’unico paese al mondo in cui le etnie sono definite nella Costituzione. Essere malay è definito nella carta fondamentale».

La Costituzione federale malese definisce come malay colui che è nato localmente, abitualmente parla malay, segue i costumi malay e professa l’islam (art. 160). Cinesi e indiani sono definiti come discendenti di immigrati di questi due gruppi. L’articolo 153, inoltre, conferisce particolari privilegi ai malay. Un malay che si converte e non è più musulmano, non è più considerato malay per la legge e perde tali privilegi.

«Gli indiani qui sono maggioritariamente indu, ma ci sono anche musulmani. Il 60% dei cattolici vivono nel Borneo (Sabah e Sarawak) e sono anche malay. In Malaysia occidentale, invece, i cattolici non sono mai malay, ma solo cinesi e indiani. I malay sono musulmani. Qui in territorio peninsulare se un malay vuole diventare cattolico, può essere arrestato. Ecco perché non possiamo usare il nome Allah, perché i musulmani temono che si possa creare confusione (e quindi conversioni)». Di fatto legalmente un malese deve essere musulmano. Le corti islamiche, hanno deciso che i malesi etnici devono rimanere musulmani e non è loro consentito cambiare religione. Questo è valido anche per una persona di altra etnia convertita all’islam. «In tutto siamo circa 3 milioni di cattolici su una popolazione totale della Malaysia di 30 milioni. In penisola siamo circa 300.000 cattolici».

In Malaysia l’islam è religione ufficiale di stato e, questioni linguistiche a parte, le relazioni tra chiesa cattolica e governo sono passabili. «Sono ok – ci dice padre Lawrence, ripetendo più volte l’ok -, non possiamo dire buone, ma va bene. Occorre avere permessi per qualsiasi cosa. Per costruire una chiesa devi avere il permesso e a volte non te lo danno. Tutto ciò crea ritardi. Se non chiedi troppo puoi vivere in pace, nessun problema. Non siamo al livello dell’Indonesia, a grande maggioranza musulmana, dove gli islamici possono andare in una chiesa e chiedere che si fermino le funzioni. Qui non lo hanno ancora fatto, almeno fino ad ora.

Con la polizia, inoltre, abbiamo buoni rapporti, possiamo parlare con loro. Ci danno protezione durante le grandi feste. In questo periodo storico è importante, con l’avanzata del terrorismo e dell’Isis».

Non è terra di missione

La chiesa cattolica in Malaysia storicamente ha avuto l’appannaggio dell’educazione. Tramite istituti religiosi, come i fratelli delle Scuole cristiane (di La Salle) e le suore canossiane, ma anche le francescane, da Italia, Francia e Irlanda, furono fondate scuole di ogni grado. «Oggi la maggior parte delle scuole sono però gestite dal governo. Il numero di religiosi è sceso, per cui le risorse umane sono diminuite. Molte delle nostre scuole sono ora gestite da islamici e hanno professori musulmani. Le migliori scuole sono quelle in lingua cinese, ma non ci sono religiosi. Cerchiamo di assumere professori cinesi, ma difficilmente sono cattolici. E non saremo sorpresi se una volta ritirati, saranno sostituiti da musulmani».

In Malaysia sono presenti diverse congregazioni religiose anche di origine europea, ma non ci sono quasi più missionari. «La chiesa locale è forte e inoltre non possono più venire gli stranieri a causa di una legge del 1970 che ostacola l’arrivo di nuovi missionari. Quelli che vivevano già nel paese, potevano stare ma al massimo otto anni. Alcuni sono diventati residenti per cui sono riusciti a prolungare la loro permanenza, ma in generale non abbiamo possibilità di avere altri missionari. Le congregazioni sono tutte costituite da persone locali, il che è un bene. Non siamo più un paese di missione», dichiara con un certo orgoglio. In Malaysia, non si vedono appariscenti casi di povertà, neppure nelle grandi città, come invece capita in tante capitali nel mondo. La povertà è presente ma circoscritta, ci ricorda padre Andrews. Secondo la Banca mondiale la Malaysia è quasi riuscita a eradicare la povertà, portando il numero di famiglie che vivono sotto la soglia di 8,50 dollari al giorno dal 50% degli anni ‘60 al 1% di oggi. Secono padre Andrews «si tratta di statistiche un po’ esagerate. Il Borneo è più povero, soprattutto nelle zone rurali. Anche qui a Kuala Lumpur ci sono quartieri poveri. Se in una famiglia entrano 1.500 ringgit al mese (320 euro) e ne servono 500 per l’affitto, quello che resta non basta».

Occhio alle conversioni!

I cattolici non sono gli unici cristiani. Sono presenti anglicani e gli altri protestanti. «Con gli altri cristiani, anglicani, luterani, metodisti, evangelici, partecipiamo alla Christian federation of Malaysia, Cfm. È una piattaforma che ci permette di parlarci e confrontarci quando ci sono difficoltà. Ad esempio adesso non possiamo più stampare bibbie in malese. Una legge ce lo proibisce. Stiamo negoziando con il governo per cambiare le cose. Ci sono le vecchie bibbie ma non possiamo averne di nuove. Gli evangelici sono piuttosto duri, per cui a volte hanno avuto problemi. Ad esempio quando cercano di battezzare dei musulmani. Due pastori sono scomparsi per questo motivo. Noi cerchiamo di metterli in guardia».

Chiediamo a padre Andrews qual è, secondo lui, la sfida per il futuro. «Ne abbiamo due: una all’esterno della comunità cristiana e l’altra all’interno. Quella all’esterno è la sfida dell’islam, sempre più presente. I musulmani cercano di convertire i fedeli di altre religioni. Noi, invece, dobbiamo lavorare per costruire ponti ovunque con altre comunità e religioni, come dice papa Francesco. Dobbiamo cambiare la nostra mentalità e non guardare solo noi stessi. Se non riusciamo a lavorare con le altre religioni non ci sarà pace in questo paese, perché una religione dominerà sulle altre. Lo chiamiamo dialogo interreligioso. Il papa sta spingendo su questo e ha creato un nuovo dicastero su questo tema. In particolare lui parla ai musulmani, affinché non ci sia scontro, ma amicizia. L’altra sfida che abbiamo è non perdere i nostri fedeli, in quanto siamo una minoranza».

Marco Bello
(fine prima parte – continua)


Cronologia essenziale

Dalla via delle spezie alla Petronas

  • 1402 – Il principe pirata hindu Parameswara, giunto da Sumatra, fonda quello che sarà il grande porto commerciale di Melaka (a Sud dell’attuale Kuala Lumpur), cerniera tra India e Cina. Negli anni successivi viene adottata la religione musulmana (la penisola era buddhista e hindu) e Melaka diventa centro nevralgico per la diffusione della fede e della lingua malese.
  • 1509-11 – Arrivano i primi commercianti portoghesi in cerca di spezie. Melaka viene poi conquistata dai portoghesi che la controllano per 130 anni.
  • 1641 – Gli olandesi, in concorrenza con i portoghesi per il commercio delle spezie dall’Asia all’Europa, si fanno aiutare dal sultano di Johor e conquistano Melaka, che gestiranno per 150 anni. Inizia il declino della città. Gli olandesi potenziano Batavia, l’attuale Jakarta (Indonesia).
  • 1786 – Anche gli inglesi, con la loro Compagnia delle Indie Orientali, si rendono conto dell’importanza di una base commerciale sulla penisola malese, tra India e Cina. Il britannico Francis Light ottiene l’isola di Penang (a Nord di Kuala Lumpur) per un primo insediamento.
  • 1819 – Stamford Raffles, governatore inglese di Java, sbarca sull’isola di Singapore e negozia un accordo con il sultano: la Compagnia delle Indie ottiene l’isola in cambio di denaro e ne fa un importante porto.
  • 1824 – Gran Bretagna e Paesi bassi firmano un trattato per dividere la regione in due distinte zone d’influenza: agli olandesi l’Indonesia e ai britannici i territori sulla penisola.
  • 1839 – L’avventuriero inglese James Brook sbarca nel Borneo Nord orientale, dove aiuta il sultano del Brunei a sedare una rivolta. Nel 1841 riceve l’incarico di governare sulla regione (Sarawak), che si allargherà e sarà prospera sotto di lui e suoi discendenti (i rajah bianchi) per 100 anni, fino all’invasione giapponese durante la seconda guerra mondiale e poi al protettorato britannico.
  • 1865 – Il console statunitense del Brunei (impero potente in passato) approfitta della malattia del sultano per farsi affidare il Nord (l’attuale Sabah) che poi passerà agli inglesi diventando British North Borneo company (1881). Nel 1888 il Brunei diventa protettorato britannico.
  • 1941 – I giapponesi conquistano la Malaysia peninsulare e il Borneo. Reprimono il movimento comunista cinese. Si crea una guerriglia nella giungla che si oppone all’invasore. Nel 1945 i giapponesi si arrendono e i britannici riprendono il controllo della penisola.
  • 1946 – I britannici convincono i sultani a creare Malay Union controllato dall’Inghilterra. I malesi protestano e viene creato il primo partito malese: United Malays National Organization (Umno). Questo porta alla creazione della Federazione della Malesia e apre la via per l’indipendenza.
  • 1953 – L’Umno stringe un’alleanza con la Malayan chinese association (i cinesi) e il Malayan indian congress (gli indiani). Nasce il Parti Perikatan guidato da Tunku Abdul Rahman, che vince le prime elezioni nazionali nel 1955 e guida il paese verso la Merdeka (indipendenza).
  • 1957 – Dichiarata l’indipendenza della Malesia peninsulare. Rahman diventa primo ministro.
  • 1963 – Sabah e Sarawak (Borneo sotto controllo britannico) si uniscono a Malesia e Singapore formando la moderna Malaysia. Singapore ne esce due anni dopo per problemi interetnici cinesi – malesi.
  • 1969 – La Federazione vive frizioni tra le comunità etniche. I malesi nativi (detti bumiputra) sono più poveri di cinesi e indiani, ma hanno privilegi politici. Le tensioni sfociano in disordini in capitale che fanno 198 vittime. Il governo a prevalenza malese, vara un programma economico a favore dei nativi (1971), che continua ancora oggi. In venti anni di programma sono aumentate le aziende gestite dai nativi ed è cresciuta una classe media dei malesi.
  • 1970 – oggi – Grazie ai numerosi giacimenti di petrolio e gas naturale (getiti dalla Petronas, compagnia di stato), ma anche alla diversificazione industriale, la Malysia è riuscita a mantenere tassi di crescita vicini al 7% per 25 anni (Banca mondiale). Anche durante la crisi finanziaria asitica (‘97-’98) e quella mondiale (dal 2008), i livelli di crescita si sono mantenuti intorno al 5,5%. La crescita ha agito nel senso della riduzione delle disuguaglianze, con l’effetto di eradicare la povertà estrema, passata da oltre il 50% della popolazione negli anni ‘60, all’1% di oggi, secondo dati ufficiali.

Ma.Bel.




Isis, il terrore come spettacolo


Prima puntata: Comprendere (tra paure e diffidenze)


La nostra inchiesta sul radicalismo islamico e le sue cause si sposta in Italia. A Ravenna abbiamo incontrato Marisa Iannucci, musulmana e islamologa. Con lei, autrice del saggio «Contro l’Isis», abbiamo parlato della posizione degli studiosi islamici e delle comunità dei fedeli rispetto all’ideologia e al terrorismo delle milizie del califfo al-Baghdadi. Ma anche della compatibilità tra islam e democrazia e del (timido) femminismo musulmano.

Marisa Iannucci è musulmana e islamologa, nonché ricercatrice e autrice del saggio «Contro l’Isis».

Impegnata a livello sociale, culturale e politico (anche come presidente dell’associazione «Life Onlus»), Marisa Iannucci ha affrontato, e vinto, diverse battaglie, tra cui quella giudiziaria a seguito di una sua dichiarazione sulla scarsa trasparenza nella gestione contabile di una moschea di Ravenna, e quella contro le intimidazioni e discriminazioni nei confronti delle donne da parte di alcune realtà islamiche italiane. Lei, donna musulmana, aveva osato sfidare «poteri forti» all’interno dell’islam nazionale ed era stata attaccata da persone e entità abituate a vincere sugli altri, a intimorirli, a imporre il proprio diktat e ad avere, da anni (dalle «primavere arabe»), la simpatia di politici e dei media mainstream. In questa prospettiva di coraggio e lucidità di pensiero e di azione, non poteva mancare il suo impegno nella denuncia di ciò che è e rappresenta il Daesh per l’islam mondiale e per l’umanità.

Le strategie comunicative del Daesh

Secondo lei, cos’è e quali sono le «cause» del Daesh?

«La guerra d’Iraq del 2003 è il terreno su cui nasce il Daesh, che è apparso per molti versi come un fenomeno nuovo, ma non lo è affatto. Ha saputo caratterizzarsi come tale grazie a una intensa strategia comunicativa, e un uso attento del web e delle tecnologie mediatiche che hanno creato nell’opinione pubblica il fenomeno del terrore come spettacolo. Ma vi sono elementi di continuità tra Isis/Daesh e al-Qa‘ida e i gruppi a essa affiliati, da cui il Daesh nasce per poi rendersi autonomo, conquistare e controllare territori soprattutto inserendosi in fratture esistenti e facilitato anche dalla guerra civile siriana. La leadership e parte dei combattenti del Daesh provengono da formazioni già esistenti, e lo stesso nucleo di al-Baghdadi è un ramo di al-Qa‘ida ribellatosi all’autorità dei capi. Anche dal punto di vista ideologico non vi sono grandi novità. L’organizzazione ha i suoi riferimenti politici e religiosi in un pensiero di tipo neo salafita wahabita come al-Qa‘ida e altri gruppi che utilizzano il terrorismo internazionale, oltre alla guerriglia, e veicola tra i musulmani una lettura letteralista dei testi per convincerli a prendere le armi per realizzare un nuovo ordine politico e sociale di tipo salafita. Il cosiddetto «califfato» di al-Baghdadi non si differenzia in questo, né nella legittimazione della violenza, né nei riferimenti teologici, dalla dottrina di Ibn Taymiyya o altri, che pure sono ampiamente distorti per la loro causa. Nonostante questo il Daesh rifiuta l’autorità di altri gruppi e ha sempre rifiutato l’arbitrato di altri esponenti islamici, perseguendo un atteggiamento assolutamente “takfirista”, ovvero escludendo e tacciando di miscredenza chiunque non sia a loro sottomesso. L’ostilità non è diretta solo contro i non musulmani (cristiani o yazidi), ma all’interno del mondo islamico contro gli sciiti (ad esempio, contro alawiti, ismailiti, drusi e altri). Va ricordato che anche i sunniti che si rifiutano di aderire alla visione del Daesh e alla sua causa sono considerati miscredenti e quindi nemici. Il Daesh è cresciuto sull’instabilità territoriale, politica e sociale, sulle macerie della guerra dell’Iraq e del governo di stampo sciita di al-Maliki (appoggiato da Usa e Iran), sotto il quale i sunniti iracheni sono stati penalizzati. Le profonde divisioni tra sciiti, sunniti e curdi hanno favorito un gruppo che senz’altro proponeva una strada per la possibile rivalsa sunnita nell’area. Ma il Daesh ha stretto alleanze con altre realtà locali in Nordafrica e in Africa – prima di tutto con Boko Haram -, e ha allargato il campo al terrorismo internazionale».

Senza dimenticare la guerra in Siria…

«La Siria è il campo di battaglia per Arabia Saudita e Iran e per chi li supporta nei loro progetti. La comunità internazionale si è trovata di fronte a una scelta: sostenere il regime siriano contro il Daesh legittimando Bashar al-Assad, dittatore che si è macchiato di crimini contro l’umanità, oppure sostenere la sua variegata opposizione, che ha numerose infiltrazioni e ciò comporta il rischio di rafforzare gruppi che un domani potrebbero costituire un’ulteriore minaccia per l’equilibrio dell’area e il futuro della Siria. Ciò che non si è stati in grado di fare è proteggere i civili da ogni fazione, e creare le condizioni per garantire il soccorso umanitario, questo è molto grave. Era necessario creare dei corridoi umanitari per garantire l’intervento delle agenzie internazionali in favore della popolazione civile: non si è fatto abbastanza in questo senso».

Mosul, Iraq, gennaio 2017 / Yunus Keles / Anadolu Agency

Il mondo islamico davanti al Daesh

Che cosa possono fare le comunità islamiche?

«Le comunità islamiche possono fare molto soprattutto fuori dai contesti di guerra, per impedire la radicalizzazione e isolare l’ideologia fondamentalista. È, tuttavia, un lavoro molto difficile, considerando che un’altra “guerra” (quella della propaganda) viene combattuta senza armi, ma con grandi somme di denaro, che arrivano anche in Europa, e con le quali si controllano centri islamici e moschee. Lo fanno anche gli stati a maggioranza musulmani come l’Arabia Saudita, il Qatar e l’Iran. Ognuno gioca la sua parte.

È importante che i musulmani in Occidente lavorino per l’integrazione, e agiscano attraverso la partecipazione politica alle società in cui vivono e la cittadinanza attiva. L’emarginazione e la povertà culturale in cui versano molti immigrati provenienti da paesi a maggioranza musulmana, in particolare Nordafrica, fornisce materiale per le attività di radicalizzazione. Grandi responsabilità hanno i governi europei e le loro politiche sull’immigrazione. Probabilmente ci sono molti mercenari nei “foreign fighters” arruolati nel Daesh, e non mancano certo gli apporti dei vari servizi segreti, ma non si può ignorare che l’indottrinamento esiste, ed è rivolto alle fasce più vulnerabili tra cui gli emarginati, disagiati anche psichici e con dipendenze da sostanze, detenuti, persone che passano dall’essere lontanissimi dalla religione al fanatismo. Si fa leva sul bisogno di riscatto, e sul risentimento di questi giovani, che non è poca cosa. Inoltre, bisogna saper dare delle risposte teologiche e politiche alle esigenze dei musulmani in epoca moderna, che siano un’alternativa al salafismo o all’islamismo dei Fratelli Musulmani».

Dal suo libro emerge che molte voci islamiche autorevoli si sono sollevate contro il cosiddetto jihadismo, dal 2014, quando ormai la situazione era diventata drammatica. Secondo lei, come mai nei tre anni precedenti, in coincidenza con lo scoppio della guerra civile in Libia (2011) e in Siria (2012), c’è stato silenzio o addirittura appoggio ad alcune organizzazioni o gruppi?

«Noi abbiamo considerato le dichiarazioni emesse a partire dal giugno 2014, ovvero dalla proclamazione del cosiddetto califfato da parte di al-Baghdadi. Volevamo fare emergere l’aspetto teologico e la delegittimazione religiosa del califfato, poiché abbiamo concepito il volume come uno strumento, nel suo piccolo, contro il radicalismo, da fare circolare anche nelle moschee. Condivido che l’appoggio di alcuni sapienti salafiti alle organizzazioni o, in misura maggiore, il silenzio di fronte al loro operato, è grave. L’idea che la profonda ingiustizia politica e sociale presente nel mondo arabo e musulmano e le ferite della storia possano essere guarite con le armi o, peggio, con il terrorismo o l’odio verso l’Occidente è presente e va isolata e contrastata dagli stessi salafiti.

Un dibattito c’è tra gli studiosi e c’è una presa di coscienza di questo, abbiamo riportato anche nel libro alcune riflessioni di esponenti del neo salafismo che fanno autocritica. Segnalo però che un grande numero di fatwa, sentenze giuridiche islamiche, sono state emesse in tutto il mondo contro i gruppi che compiono attentati terroristici e uccidono civili, e in generale contro il terrorismo di matrice religiosa. Nel libro diamo anche indicazioni per accedere ad archivi online di questi documenti, almeno dal 2001, dall’attentato alle Torri Gemelle. Al-Qa‘ida è stata oggetto di molte prese di posizione forti».

Dalle fatwa emerge che alcuni professori e scienziati islamici condannano il Daesh ma non altri gruppi jihadisti qaedisti, come Jabhat al-Nusra. Perché?

«Nel libro abbiamo preso in considerazione le opinioni dei sapienti solo sul Daesh, ma ci sono state molte fatwa anche contro al Qa‘ida e affiliati, anche all’epoca di Bin Laden. In alcuni testi tradotti nel volume emerge che il Fronte al-Nusra è stato visto inizialmente come una importante forza anti Assad, mentre il Daesh è un’organizzazione che ha contrastato e indebolito l’opposizione ad Assad. La condanna delle azioni terroristiche, però, è un punto fermo, indipendentemente dai gruppi».

Alcuni studiosi occidentali, come Massimo Campanini e Bruno Étienne, vedono nel «fondamentalismo» islamico una sorta di «potere costituente», cioè rivoluzionario, contro l’oppressione sia interna sia esterna al mondo islamico. Cosa ne pensa?

«Il pensiero politico islamico, l’islamismo nelle sue varie forme, è una importante eredità del Novecento e non va demonizzato. Il mondo musulmano ha elaborato teorie politiche diverse per risolvere i problemi dovuti al colonialismo, al sionismo, agli autoritarismi nati dalla decolonizzazione, mai avvenuta in realtà. Io credo che il pensiero di Sayyid Qutb, o di Ali Shari‘ati, ma anche di Hassan al-Banna abbia avuto un ruolo fondamentale nell’acquisizione di consapevolezza della propria condizione rispetto a queste questioni. Anche pensatori più recenti come Ghannushi hanno elaborato teorie che possiamo inserire nel quadro del costituzionalismo islamico. Ma il terreno è pieno di insidie, come abbiamo visto dopo le cosiddette primavere arabe. Si può vedere però anche in positivo. L’islamismo militante degli ultimi decenni è anche un segnale della rinascita del mondo islamico e del rialzarsi delle società civili nonostante i governi, e può essere letto come l’affermazione di una potenza costituente dell’islam. Le correnti che si rifanno alla “teologia islamica della liberazione”, e anche il femminismo musulmano, che è emerso negli ultimi decenni del secolo scorso, sono degli esempi. Nell’elaborazione politica di un potere islamico entrano discorsi complessi, come la sovranità – di Dio e del popolo – i diritti umani e la tutela delle minoranze, la forma di governo dei musulmani, lo stato e le sue fonti di legge, la shari‘a.

La questione della forma di governo, così attuale dopo il fallimento delle primavere arabe e il fanta-califfato siriano, è divenuta centrale già nel 1924, dopo la caduta dell’ultimo califfato».

Islam e democrazia

Hukûmatu-l-lah, «il governo di Dio», e hakimiyya, «la sovranità di Dio», concetti chiave dell’islamismo politico, sono contrapposti alla visione occidentale della democrazia. Che risposte danno gli intellettuali musulmani?

«Il nodo attorno cui hanno discusso e discutono ancora i teorici musulmani è la liceità per i credenti di dotarsi di un governo che abbia le caratteristiche del costituzionalismo occidentale. In particolare, può una concezione democratica, che richiede la sovranità popolare, realizzarsi in paesi dove i popoli scelgono la sovranità di Dio e quindi lo stato è confessionale, oppure indica nella costituzione il riferimento all’islam come religione di stato e alla shari‘a come fonte primaria della legge? Al momento non vi è risposta a una domanda così complessa, e il mondo musulmano sembra lontano dal trovare una soluzione: il dibattito è aperto. Diversi intellettuali musulmani contemporanei hanno elaborato teorie sia di ispirazione islamista che liberale, cercando di affrontare la problematica che, soprattutto dopo le cosiddette primavere del 2011, si è concretizzata in difficili processi di transizione democratica e, ad eccezione della Tunisia, in tragici fallimenti. Gli studiosi riformisti musulmani oggi mettono costantemente in rapporto l’islam e la democrazia, perché i progetti politici dei partiti islamisti, che, seppur si siano inseriti con successo nella competizione elettorale, hanno dimostrato grandi difficoltà alla prova di governo, prevedono, sì, la confessionalità dello stato ma non ignorano che vi sia una richiesta dalle società di maggiore partecipazione politica, tutela delle libertà, e delle minoranze. La democrazia non è una, ma ha preso nella storia forme e percorsi differenti. Non vi è ragione di credere che ciò non possa accadere anche nel mondo musulmano, che potrebbe aprirsi a nuove esperienze politiche, a meno che non si sostenga la teoria dell’incompatibilità tra islam e democrazia. Una sfida per il mondo musulmano nel XXI secolo, in cui oggi si combattono – nel Vicino Oriente – la maggior parte delle guerre in atto, è proprio l’autodeterminazione nella forma di governo.

Si tratta di elaborare una teologia islamica che tenga presente la realtà attuale, le esigenze dei nostri tempi».

Per un femminismo islamico

Marisa, cosa fa la Onlus (lifeonlus.net) di cui è presidente?

«L’associazione Life Onlus è un’associazione culturale e di volontariato fondata nel 2000 a Ravenna da un gruppo di donne musulmane di varia nazionalità. Si occupa di tutela dei diritti, con particolare attenzione alle donne e ai bambini; mediazione interculturale, per la prevenzione dei conflitti e l’educazione alle differenze, contro razzismo e discriminazione, dialogo interreligioso, solidarietà, cultura.

Io mi occupo principalmente di diritti umani e di questioni di genere, e in particolare studio i femminismi musulmani. Ritengo che la questione dell’equità di genere sia fondamentale per l’islam del XXI secolo. Le donne possono dare un grande contributo attraverso le loro battaglie di liberazione, per svegliare la coscienza dei musulmani su molti temi e per vivere questi tempi in maniera autonoma affrancandosi dal colonialismo culturale, e non solo, da cui non si sono mai liberati davvero».

Angela Lano
(seconda puntata – continua)




La Costa d’Avorio in ostaggio /1


Reportage dalla Costa d’Avorio. Dall’arrivo ad Abidjan, capitale economica e culturale del paese, proprio nella settimana dell’ammutinamento dell’esercito e dello sciopero dei dipendenti pubblici, alla visita alle missioni di Marandallah e Dianra, nel Nord del paese dove operano i missionari della Consolata.

«Sei stata in Costa d’Avorio dieci anni fa? La troverai molto cambiata, allora. Abidjan ad esempio: ora ha strade nuove, un nuovo ponte con il pedaggio ed è molto, molto più pulita». Così mi dice durante il volo una trentenne ivoriana che vive da vent’anni in Germania, dove lavora in proprio come parrucchiera. Di Costa d’Avorio, in realtà, sa poco o nulla, ormai: torna una volta all’anno per vedere i fratelli e per godersi il buon cibo ivoriano: il foutou, una sorta di polenta fatta con la banana, la manioca o l’igname a seconda della zona e il pesce cotto al vapore dentro una foglia di banano.

Ammutinamento dei militari

All’uscita dell’aeroporto della capitale ivoriana, però, le notizie che raccogliamo non riguardano i passi avanti nell’urbanistica di Abidjan, ma l’ammutinamento dei militari del Nord del paese, in particolare a Bouaké. Non di tutti i militari, bensì degli anciens combattants, cioè i ribelli integrati nell’esercito che avevano sostenuto, nella fase di uscita dalla crisi, la corsa alla presidenza dell’attuale capo di Stato ivoriano, Alassane Dramane Ouattara, detto Ado. L’attuale insubordinazione in seno all’esercito altro non è che il batter cassa degli ex ribelli, ai quali la compagine politica di Ado aveva promesso premi in denaro e privilegi in cambio del loro sostegno. Nel novembre 2014 c’era stata un’avvisaglia, ma si trattò di una semplice protesta; quello di oggi, gennaio 2017, è un vero e proprio ammutinamento iniziato la settimana successiva all’Epifania dalle città del Nord ed esteso poi agli ex ribelli nell’esercito di stanza in tutto il paese.

La richiesta al governo era chiara: soldi, miglioramento delle condizioni delle caserme e case per le famiglie dei soldati. Ouattara era in Ghana alla cerimonia di insediamento del suo omologo dopo le elezioni nel vicino anglofono. È rientrato in tutta fretta per convocare un Consiglio dei ministri e reagire all’emergenza. Dopo momenti di grande tensione culminati nel sequestro del ministro della Difesa inviato a Bouaké a trattare, un accordo è stato raggiunto e i militari sono rientrati nelle caserme. Ma il 13 gennaio, giudicando insufficienti i gesti del governo in direzione del rispetto degli accordi, i soldati hanno ricominciato a protestare creando disordini, stavolta più violenti.

Proteste e disordini

«Padre Alexander Likono, uno dei nostri confratelli, era a Bouaké per delle commissioni», racconta padre Ramón Lázaro Esnaola, superiore dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio. «All’entrata in città ha trovato una cinquantina di militari: abbiamo preso Bouaké, dicevano, e prenderemo tutta la Costa d’Avorio. Poi gli hanno ordinato di scendere dalla macchina e di cederla a loro. Al suo rifiuto, lo hanno minacciato. Dopo una serie di negoziazioni e dopo avergli estorto denaro lo hanno lasciato andare, ma la paura è stata davvero tanta». I giornali hanno scritto che non ci sono stati incidenti seri, ma chi era a Bouaké parla di due morti e diversi casi di stupro.

«La situazione è grave», continua padre Ramón, «perché la popolazione, esasperata da una settimana di blocco delle attività economiche, si è ribellata ai militari, e questi hanno aperto il fuoco sulla folla. È un miracolo che non ci siano decine di morti».

Anche dopo i fatti del 13 gennaio governo e militari hanno siglato un accordo, ma il 17 gennaio c’è stata una terza ondata di disordini che ha causato quattro morti. A protestare non sono stati stavolta gli ex ribelli integrati nell’esercito, ma quelli entrati in forze alla gendarmerie e alla polizia, intenzionati a ottenere lo stesso trattamento dei «fratelli» militari. A peggiorare ulteriormente il clima è stato lo sciopero dei dipendenti pubblici a partire dal 9 gennaio, che ha portato, fra le altre cose, alla chiusura delle scuole per tre settimane.

La tensione sociale è alta: il governo avrebbe accettato, almeno sulla carta, l’esorbitante richiesta dei circa 8.500 militari ribelli, equivalente a circa 7.500 euro a testa (ma secondo altre fonti a questi si aggiungerebbero altri 10 mila euro da corrispondere in sette mesi), creando malumore in tutto il paese. I dipendenti pubblici, ad esempio, vivono la resa del governo come un’ingiustizia che aggrava l’inadeguatezza dei loro salari.

Il 7 febbraio le Forze speciali dell’esercito si sono ammutinate a Adiaké, città di confine con il Ghana. Reclamano pure loro premi economici come quelli accordati ai commilitoni.

Malumore popolare

Ma, ricorda ancora padre Ramón, il malcontento è diffuso soprattutto nella fascia più ampia della popolazione, quella che non può far valere le sue ragioni attraverso le armi né far sentire la propria voce con uno sciopero. Si tratta della gente comune, che un salario non lo ha mai visto e che vive di agricoltura e commercio. «Con quali soldi il governo pagherà i ribelli?», si chiede la gente. «Userà denaro pubblico sottraendolo agli investimenti in infrastrutture, sanità e scuola?».

La popolazione è disgustata dai militari che, riconvertendo i blocchi stradali del tempo di guerra in improvvisate frontiere interne, non hanno mai smesso di estorcere denaro a chi passa per trasportare cacao, anacardi, cotone o per andare a coltivare i campi. È stufa di non poter mandare i figli a scuola e di avere i servizi sanitari ridotti al minimo a causa dello sciopero. È, infine, spaventata dalla possibilità di ricadere in un conflitto – logorante, estenuante – come quello che solo dieci anni fa aveva trasformato il Paese modello dell’Africa Occidentale in una discarica di odio interetnico, di macerie di interi settori economici e di detriti di servizi pubblici e infrastrutture, sbriciolati dai tarli della corruzione. Alla data di chiusura di questo articolo la situazione sembra essersi stabilizzata, ma sono tanti a temere che il ritorno della tensione sia dietro l’angolo.

Marandallah, la missione del dialogo

Marandallah è una sottoprefettura nel Nord Ovest della Costa d’Avorio a poco meno di 500 chilometri da Abidjan. Siamo in piena zona koro, gruppo mandé presente in tutto il Nord ivoriano. Il 72 per cento della popolazione è musulmano, seguito da un 25 per cento che pratica le religioni tradizionali, mentre le diverse denominazioni cristiane si dividono il restante tre per cento. I cattolici sono 912 su un totale di 42mila abitanti.

«Date queste premesse», dice padre Alexander Likono, keniano missionario della Consolata che lavora a Marandallah (quello scampato al posto di blocco di Bouaké), «è facile capire come il dialogo interreligioso sia al centro del nostro lavoro qui. Al servizio del dialogo è anche il nostro impegno nel campo della sanità e dell’istruzione e formazione».

Le attività economiche principali della zona sono le coltivazioni dell’anacardo e del cotone. «I campi hanno un’estensione di un ettaro o due per famiglia», spiegano John Baptist Ominde Odunga, confratello e connazionale di padre Alexander. «A lavorare la terra sono, insieme agli adulti, anche i bambini, che spesso per questo smettono di frequentare la scuola primaria o addirittura non iniziano nemmeno il percorso scolastico.

La scuola secondaria conta circa 450 allievi, ma i professori – assegnati a settembre – hanno iniziato ad arrivare solo a gennaio. «È un luogo troppo isolato», continuano i due missionari, «qui gli insegnanti non ci vogliono venire. Per questo abbiamo proposto una soluzione temporanea ispirandoci a quel già avviene nel paese dal 2002 a causa della crisi: abbiamo coinvolto i giovani che hanno finito la secondaria chiedendo loro di darci una mano». A partire da novembre questi giovani sono impegnati come insegnanti volontari. Le famiglie degli studenti si auto tassano e riescono a dare ai volontari un piccolo rimborso di trentamila franchi al mese, pari a circa 45 euro, un quinto del salario di un insegnante statale. «Io stesso ho insegnato inglese», racconta Alexander. «Certo non può essere una soluzione definitiva, ma l’alternativa era lasciare 450 ragazzi senza scuola».

Il dialogo interreligioso e, più in generale, la reciproca conoscenza e cooperazione con la popolazione di Marandallah ha come luogo simbolo il Jardin de l’Amitié (Giardino dell’amicizia), una sorta di parco poco fuori dal villaggio. Nel Jardin, ideato e curato da padre João Nascimento, missionario portoghese attivo a Marandallah fino a dicembre 2016, si svolgono, oltre alle celebrazioni cattoliche, momenti di aggregazione ai quali partecipano tutti gli abitanti del villaggio. Altro luogo di aggregazione è il centro per le attività sociali di fronte alla missione, che ha sale per la formazione, un piccolo ristorante, un campo da gioco. Vi è poi l’alfabetizzazione, che si svolge sia a Marandallah che nei villaggi intorno all’interno degli appatames, strutture aperte simili a paillotte (tettornie circolari aperte, con tetto di paglia).

Altra attività fondamentale dei missionari a Marandallah è il centro di salute Notre Dame de la Consolata. Il centro ha un dispensario, una maternità che segue fra le quaranta e le sessanta donne per mese, un laboratorio utilizzato anche per la diagnosi e il monitoraggio dei casi di Hiv. Dalla fine dello scorso anno, poi, la maternità dispone anche dell’ecografia. Il centro è una struttura di riferimento per la diagnosi e cura dell’Hiv/Aids in collaborazione con Sev-Ci, Ong ivoriana specializzata in questo campo. «La difficoltà maggiore», spiega ancora padre Likono, «è far capire alle persone quanto sia importante venire tempestivamente al centro di salute quando hanno un problema. Spesso tentano di curarsi con i metodi tradizionali e si trascinano per mesi malattie guaribili in pochi giorni. Lo stesso vale per quelle donne incinte che non vengono a farsi visitare durante la gravidanza e che, in caso di parti problematici, arrivano qui in condizioni terribili, a volte troppo tardi». Portare i pazienti all’ospedale più vicino, se il caso è troppo complicato per essere risolto al centro, significa far loro affrontare ore di viaggio in ambulanza su piste difficili, specialmente con le piogge, per un costo fra i 60 e i 90 euro.

Dianra. Salute, alfabetizzazione e microcredito

Ottanta chilometri di pista più a Nord – l’asfalto finisce una quarantina di minuti prima di arrivare a Marandallah ed è praticamente assente in tutto il Nord – si trova Dianra. Un bambino di una decina d’anni attraversa il cortile della missione nel buio della sera, ha in mano una busta di plastica con dentro penna, matita, quaderno e lavagnetta. Raggiunge gli altri circa 160 bambini e adulti che si intravedono nei quadrati luminosi di porte e finestre delle aule della missione, le teste chine sui banchi o protese verso la lavagna.

«Questi sono i corsi di alfabetizzazione, sono cominciati quindici anni fa», spiega padre Raphael Njoroge Ndirangu, un altro missionario keniano che lavora a Dianra. «Non sono decollati subito, ma poi piano piano le persone hanno cominciato a vederne l’utilità nel loro quotidiano». Hanno capito, ad esempio, che saper leggere e scrivere permette loro di gestire direttamente la vendita del cotone o degli anacardi che producono invece di mettersi nelle mani di intermediari che barano sul peso e si accordano con i compratori per spartirsi il maltolto. Oppure hanno visto tre loro colleghi degli anni passati superare l’esame di stato che riconosce il livello scolastico raggiunto e trovare così lavori che altrimenti non avrebbero potuto avere. «Certo, non è facile per loro rimanere concentrati dopo una giornata nei campi, ma sono motivati e in questo gli insegnanti hanno un ruolo fondamentale». Altra attività che riesce a influire sul quotidiano delle persone è il microcredito, cornordinato da padre Manolo Grau, missionario spagnolo con all’attivo parecchi anni di Congo, poi approdato in Costa d’Avorio. «A oggi abbiamo 165 donne che partecipano al programma di microcredito, che è un’iniziativa stabile e, anzi, in crescita». A gestire le donne, suddivise in gruppi di cinque, sono sei responsabili, una delle quali è musulmana, a riprova che anche la missione di Dianra, come Marandallah, ha nel dialogo con le altre religioni uno dei suoi punti fermi. «Finora i vari gruppi di donne hanno semplicemente completato i cicli triennali di microcredito con percentuali di rimborso che non sono scese mai sotto il 98 per cento. Ora, dato il consolidamento dell’iniziativa, padre Manolo e le sei responsabili cominciano a pensare a un salto di qualità. «Potrebbe essere una cornoperativa, un orto comunitario, un’attività generatrice di reddito che riunisca alcune di queste donne in un progetto comune. Ma un’iniziativa del genere può funzionare solo se viene da loro. Il nostro lavoro è quello di accompagnarle nella riflessione e nell’eventuale formalizzazione di una proposta».

Un salto di qualità, invece, lo ha fatto nel 2016 il Centro di Salute Giuseppe Allamano a Dianra Village, località a 22 chilometri da Dianra. Padre Matteo Pettinari, missionario italiano e responsabile del centro, ha radunato tutto il personale nell’atrio del dispensario e Victor, infermiere recentemente entrato in forze al centro, guida la visita alla maternità, al laboratorio, allo studio dentistico terminati nel febbraio 2016. Questi completano il dispensario e la farmacia, che esistevano già; il centro così ampliato riceve crescenti richieste da parte di nuovi pazienti. I parti sono arrivati a circa 28 al mese.

«Grazie al sostegno di Amico, di Mco e di una parrocchia di Pesaro», spiega padre Matteo, «abbiamo inoltre costruito le cases de santé nei villaggi intorno a Dianra Village. Si tratta di piccole strutture presso le quali facciamo sanità di base e portiamo avanti il programma sulla lotta alla malnutrizione». «In quattro degli undici villaggi che serviamo», afferma Suzanne, ausiliaria responsabile con Victor del programma malnutrizione e membro dell’équipe mobile del Centro, «seguiamo 152 bambini malnutriti, ma prevediamo di ampliare progressivamente il programma anche agli altri piccoli che abbiamo individuato nei restanti villaggi».

Chiara Giovetti – [continua]




Islam religione radicale?



Introduzione / Gli obiettivi della serie

Il nostro viaggio nel mondo islamico
(con molte domande in cerca di risposte)

A sei anni dalla cosiddetta «primavera araba», trasformatasi in un inverno di caos, guerre e instabilità dal Nordafrica al Medioriente, con gruppi e milizie di al-Qa‘ida e del Daesh (l’Isis)1 che occupano regioni intere, con attacchi terroristici in Europa e in vari paesi islamici e il coinvolgimento delle potenze mondiali nello scenario siriano, una parte del pianeta sembra sull’orlo di un conflitto globale dagli esiti imprevedibili.

Dalla un tempo prospera Libia devastata dalla rivolta – pilotata da agenzie di intelligence inteazionali (Usa, Gran Bretagna, Francia e Qatar), insieme a combattenti islamisti giunti da Europa e mondo islamico -, e dalla guerra Nato, e ora ridotta a un cumulo di macerie e violenza, le bande armate scorrazzano per l’Africa subsahariana, alimentando tensioni e caos e giustificando la presenza in quelle zone di truppe dell’Africom2. Nell’area di Sirte, il Daesh ha creato la propria roccaforte e invita tutti i musulmani a fare la hijra, emigrazione, nello «Stato islamico» di Libia. Anche la Tunisia post primavera araba è entrata nella nebulosa di attentati terroristici e del reclutamento di combattenti islamici; in Algeria, al-Qa‘ida (Aqi) e il Daesh si contendono territori e militanti; l’Egitto, paese chiave tra Africa e Asia islamiche, è preda di gravi problemi economici e instabilità politica (mentre chiudiamo questo numero un attentato dell’Isis ha fatto almeno 25 morti in una chiesa cristiano-copta de Il Cairo, 11 dicembre 2016, ndr).

In questo scenario drammatico, i già complicati rapporti tra «occidente» e «mondo arabo e islamico», sembrano ingarbugliarsi ulteriormente, con accuse reciproche di ingerenze, violenze e destabilizzazioni. I fedeli musulmani, come quelli cristiani, ripetono che la loro religione è pace e tolleranza, e che l’islam affonda le proprie radici nel concetto di sottomissione a Dio. Ma è vero? Oppure esistono dottrine, all’interno del mondo islamico, che predicano la guerra permanente contro tutti coloro che non le seguono (musulmani compresi)? E da dove derivano la propria «autorità» e dottrina formazioni terroristiche come al-Qa‘ida e il Daesh? Queste dottrine hanno trovato spazio tra le comunità musulmane europee e in che modo? Questi network del terrore sono utili alle agende occidentali e mediorientali?

In questo e nei prossimi articoli discuteremo di tutti i temi accennati sopra con studiosi, ricercatori e rappresentanti del mondo musulmano, per tentare di trovare spiegazioni ed eventuali strade di pacifica convivenza in un mondo dilaniato dai conflitti.

Angela Lano

Note dell’Introduzione:

(1) Daesh (D?’ish): acronimo di «al-Dawla al-Isl?miyya f? al-‘Ir?qi wa sh-Sh?m» (in cui «al» è l’articolo), Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (Islamic State of Iraq and Syria, ovvero Isis nell’acronimo inglese), chiamato anche Stato islamico, Is.

(2) Africom: US Africa Command. Il contingente di soldati e contractor statunitensi in Africa (www.africom.mil).


L’articolo

Comprendere (tra paure e diffidenze)

Con il salafismo si è affermata un’interpretazione letterale, dogmatica, atemporale e astorica dei principi religiosi islamici. Con il Daesh – lo Stato islamico – si è giunti al limite estremo, arrivando a costruire un «islam fai da te» con cui i «jihadisti» giustificano il proprio comportamento. Compresi ovviamente gli atti di terrorismo che, con il sangue e i morti, hanno fatto dilagare paure e diffidenze. Il salafismo si è diffuso in gran parte del mondo islamico sulla spinta dei capitali dell’Arabia Saudita e del Kuwait. Solo il Marocco è riuscito – per il momento – a fermare l’infezione.

Cominciamo il nostro viaggio nell’islam contemporaneo dal Marocco. Negli ultimi anni, il paese nordafricano ha conosciuto attentati – Casablanca nel 2003, e Marrakech nel 2011 -, e il reclutamento di terroristi. Recentemente circa 400 suoi cittadini si sono uniti al Daesh per combattere in Siria.

Molti di questi appartengono a classi medie, benestanti ma scarsamente istruite. Avevano iniziato a frequentare moschee e centri islamici di orientamento salafita, che hanno modificato la loro visione della vita, della religione e i loro comportamenti sia in famiglia sia in società.

In Marocco, come in altre regioni del Nordafrica e dell’Africa subsahariana, il salafismo wahhabita1, sponsorizzato da Ong saudite e kuwaitiane, si sta diffondendo, grazie a ingenti capitali, strutture e predicatori indottrinati in Arabia Saudita.

Il regno del Marocco, che segue il sufismo2 della confrateita tijaniyya3, contrasta questo fenomeno con centri islamici e istituzioni controllate dal governo e indirizzate verso l’islam ortodosso lontano dagli estremismi salafiti. Polizia e intelligence fanno il resto, non perdendo di vista gli esaltati.

La resistenza del Marocco

Medina di Fez, agosto del 2016. Incontriamo Mohammad Boukili, docente e studioso marocchino, laureato in filosofia islamica.

Prof. Boukili, lei ha conosciuto personalmente alcune delle persone che si sono unite al Daesh?

«Sì, alcune erano conoscenti di lunga data. Quattrocento jihadisti è un numero importante, ma non è così grande come in altri paesi.

Si tratta di individui con scarsa istruzione, hanno seguito le predicazioni dei seguaci del Daesh, che a loro volta vengono indottrinati da persone più competenti e sostenute economicamente.

In molti casi non si tratta di poveri: quelli che conoscevo avevano ereditato beni, case; erano sposati. Erano poveri a livello culturale, questo sì. Ricordo uno in particolare (chiamiamolo Ahmad), perché la sua visione ideologica emergeva anche nelle discussioni in famiglia. Odiava il sufismo e, qui in Marocco, la maggior parte della popolazione segue questa dottrina, anche se da qualche anno in parlamento siede come partito di maggioranza “Giustizia e Sviluppo”4, ideologicamente vicino alla Fratellanza musulmana, quindi a un islam più politico.

Il mio conoscente che si è unito al Daesh aveva iniziato a imporre alla sua famiglia, a sua madre, atteggiamenti e scelte che non facevano parte della tradizione familiare e locale. Alla vecchia mamma ha strappato via il rosario islamico con cui ella pregava e l’ha costretta a non frequentare più la zawiya5, in quanto luogo di kufr, miscredenza. Per i salafiti, il sufismo è, appunto, una forma di miscredenza e va perseguitato.

Prima della “conversione” radicale, Ahmad era molto occidentalizzato, beveva vino… Dopo essersi sposato, aveva deciso di farsi crescere la barba, aveva cambiato modo di discutere. Aveva iniziato a citare Ibn Taymiyya6. Quando parlava con me recitava frasi per le quali sarebbe stato necessario riflettere accuratamente. Ognuna aveva un certo peso, invece lui le lasciava uscire così, con leggerezza. La situazione è andata peggiorando, finché è partito per la Siria.

È rimasto coinvolto in questo giro di fanatismo anche un nipote di Ahmad, figlio del fratello: riceveva foto dello zio, dalla Siria, sul suo cellulare, e i servizi di intelligence, che evidentemente controllavano tutta la famiglia e i parenti, lo hanno arrestato in quanto simpatizzante; probabilmente l’hanno preso prima che si unisse al gruppo. Durante il processo ha detto al giudice che non voleva andare in Siria ma che “loro hanno ragione”. Sua moglie indossava il neqab, il velo nero integrale che copre anche il volto, anche quando andava a trovarlo in carcere. Dal punto di vista ideologico era uno di loro. È stato condannato a due anni di carcere, come è previsto dalla legge».

In Marocco i salafiti sono tenuti d’occhio, dunque.

«Sì. Dopo gli attentati del 2003 sono molto controllati. La polizia fa retate periodiche. Qui a Fez i salafiti hanno aperto una scuola coranica dove offrono scolarizzazione, ma anche propaganda. Per fortuna, con i giovani marocchini il loro proselitismo non ha successo: i ragazzi vanno su internet, sono informati, amano certe cose e non è facile manipolarli con idee che li farebbero tornare indietro di mille anni.

Gli stessi figli di questi salafiti o dei jihadisti non condividono le visioni dei padri, come è avvenuto per i ragazzi di Ahmad: non lo seguivano nei suoi discorsi. Dicevano che il padre aveva la testa troppo chiusa. Un altro elemento importante è che il nostro Re ha sempre lottato contro questa dottrina».

Interpretazioni atemporali e astoriche: l’islam-fai-da-te

Lei considera il salafismo wahhabita una dottrina deviata?

«Il salafismo ha introdotto molte novità, bid‘a, proibite nell’islam. Un tempo esisteva la dialettica, animata dalla filosofia. Poi, a un certo punto della storia del mondo islamico, questa è stata ritenuta pericolosa. La ragione, la logica, sono morte, e ha prevalso il letteralismo dogmatico e pieno di regole, legato a un’interpretazione fissa, atemporale e astorica dei principi religiosi.

Pensiamo solo a quando governavano i turchi, cioè l’Impero Ottomano, cosa facevano gli ‘ulema, gli scienziati musulmani? Facevano dimenticare alla gente la sofferenza, la riempivano di regole… Tutta questa esteriorità ha lo scopo di far allontanare i credenti dalla vera spiritualità».

Il Daesh, in quanto emanazione della dottrina salafita wahhabita, è dunque un’ideologia deviata del sunnismo?

«Certo, l’islam non è questo. Nel Daesh danno un’interpretazione restrittiva e letteralista, basata su certi hadith. Di hadith ce ne sono così tanti che ognuno potrebbe scegliere ciò che più giustifica il proprio comportamento. Così fanno loro: scelgono un hadith e si autorizzano da soli. È l’islam-fai-da-te».

In Europa ci sono giovani che seguono il Daesh, che si fanno indottrinare da predicatori e poi si uniscono allo “Stato islamico”. Come lo spiega?

«Ho vissuto dieci anni in Italia, dove insegnavo nelle università. Mio padre viveva tra Francia e Italia, e faceva l’imam. In Francia lo chiamavano per fare scuola coranica ai giovani nei centri islamici. I suoi allievi erano figli di arabi, ragazzini emarginati e spesso violenti delle periferie. Seguivano – perché vi erano costretti dalle famiglie – le sue lezioni, dove venivano insegnati i principi etico-morali dell’islam, ma usciti di lì continuavano a comportarsi male.

È da quelle sacche di emarginazione sociale giovanile, con integrazione mancata, che arriva il terrorismo islamico in Europa. Questi giovani, a un certo punto incontrano predicatori salafiti che li indottrinano, dando all’Occidente tutte le colpe della loro situazione. Dunque, su una base di odio sociale si inserisce la dottrina del takfir7, e il resto è fatto».

I (finti) misteri del Daesh

Fez, medina al-Jadid (città nuova), sede del «Consiglio superiore degli ulamâ», gli scienziati musulmani, un’organizzazione nazionale che fa capo al Re e al ministero dell’Educazione del Marocco.

È un’ampia costruzione con giardino interno da cui si diramano varie sale. Il centro forma imam e murshidun e murshidat (guide religiose), uomini e donne. Qui incontriamo uno dei responsabili, che preferisce non rivelarci il proprio nome.

Il Daesh sta creando problemi in Africa e Medio Oriente, e in Occidente. Come lo considerate?

«Il Daesh non fa parte dell’islam. Hanno capito l’islam molto male. Il terrorismo non fa parte di questa religione. Né l’Occidente né il mondo islamico hanno capito cos’è veramente l’islam. Bisogna tornare al Corano, alla sunnah. L’islam è tolleranza, non estremismo».

Allora il Daesh su cosa basa la propria legittimità?

«Sulla propria cattiva comprensione dell’islam. Prendiamo il termine jihad8 nella sua accezione di sforzo militare: ci sono norme che lo regolano. Non è possibile che un gruppo decida per conto proprio. Daesh ha trasformato l’obbligo collettivo (fard al-kifaya) in individuale (fard el-‘ayn) soggetto, cioè, alla decisione del singolo e non più dell’intera comunità, e questo non è corretto».

Allora, qui ci si chiede, il Daesh chi è? Chi l’ha creato?

«Chiunque riceva soldi e armi può creare un’organizzazione come questa.

Sono dei delinquenti che interpretano i testi a modo loro. L’islam non accetta l’assassinio.

Chi ha creato il Daesh sono gli stati o le persone che beneficiano dei proventi del petrolio e chi soffre a causa di questa organizzazione sono soprattutto i musulmani stessi. Infatti, la maggior parte delle persone uccise dal Daesh sono musulmane. Tutti noi siamo responsabili e dobbiamo difendere i nostri valori.

Chi dà le armi al Daesh? L’Europa e gli Usa; l’Arabia Saudita è un’intermediaria. L’Iraq, per esempio, dove il Daesh ha una parte dei suoi domini, è un laboratorio per sperimentare tali armi.

Poi arriviamo al paradosso di un al-Baghdadi che si dichiara “Am?r al-Mu’min?n”, principe dei credenti. Ma non è possibile! Non ha alcuna autorità e potere per dichiararsi tale».

Gli imam vanno formati

Il Marocco cosa fa per contrastare il proselitismo del Daesh?

«Il punto di forza del Marocco è che forma imam. Lo stato ha deciso di formare imam e guide religiose – murshidun – sia uomini sia donne: devono essere laureati e sottoporsi a un anno di formazione specialistica. Il loro ruolo è quello di dare lezioni nelle moschee e anche di controllarle. Controllare, cioè, che non vengano diffusi insegnamenti errati che incoraggiano lo sviluppo del radicalismo. Inoltre, danno consigli scientifici e religiosi. In ogni prefettura c’è un centro come il nostro, che si occupa della formazione di queste guide. Sono 80 in tutto, i centri formativi in Marocco.

In ciascuna sede ci sono sale di conferenza che ospitano 600 persone. Siamo una realtà statale e dipendiamo direttamente dal Re in quanto Am?r al-Mu’min?n. Lui è il presidente del Consiglio scientifico religioso e ha rapporti diretti con il ministero dell’Educazione per indicare le vie corrette nelle scuole e nei libri didattici».

Angela Lano

NOTE

(1) Il salafismo è una scuola di pensiero (un metodo) dell’Islam sunnita che si rifà ai «salaf al-?ali??n» («i pii antenati», «precedessori»), ovvero le prime tre generazioni di musulmani (VII-VIII secolo), che vengono considerate modelli da seguire. Dal salafismo ha avuto origine il neosalafismo: un’ideologia rivolta sia alle masse arabe diseredate sia alle classi medie (e alte, in certi casi), trasformandosi in movimento «anti-intellettuale» e reazionario, divenendo espressione di forme di fondamentalismo, fino alle estreme conseguenze del salafismo jihadista attuale. Wahhabismo: movimento fondato nel 1700 da Muhammad ibn Abd al-Wahhab, teologo arabo della scuola giuridica hanbalita. Attualmente è la dottrina di stato in Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi, Kuwayt e in altri paesi.

(2) Sul sufismo MC ha pubblicato una serie di articoli usciti ad agosto 2015, novembre 2015 e gennaio-febbraio 2016, tutti reperibili sul sito della rivista.

(3) Tijannyya. Si tratta di un ordine sufi sunnita, originario del Nordafrica, diffusosi poi nell’Africa occidentale. È presente in Marocco – la Casa reale e la maggior parte della popolazione -, in Senegal, in Mauritania, Niger, Chad, nord Nigeria, parte del Sudan, e altri stati.

(4) «Hizb ‘adâla wa tanmia». È stato riconfermato partito di governo nelle elezioni marocchine del 2016.

(5) Zâwiya (oppure ribat in arabo e tekke in turco): è il luogo dove vivono o si riuniscono i musulmani che appartengono alle confrateite sufi. Sono anche locali che assolvono compiti di istruzione, accoglienza o sanitari.

(6) Ibn Taymmyya. Teologo e giurista musulmano, vissuto a Damasco tra il XIII e il XIV secolo e appartenente alla scuola hanbalita, la più severa delle madhhab sunnite. È il teologo-icona del radicalismo islamico, dai movimenti salafiti più moderati fino al Daesh.

(7) Takf?r: dichiarare un musulmano miscredente. Il takfirismo è un «movimento» fondamentalista di musulmani che fanno dell’accusa di miscredenza rivolta ad altri correligionari una delle basi portanti della loro ideologia. È emerso soprattutto con la guerra civile in Siria e la diffusione di organizzazioni come il Daesh e al-Nusra, che hanno diviso drammaticamente il mondo islamico, costringendolo a un conflitto e spaccando precedenti alleanze e cornoperazioni.

(8) Jihâd: sforzo. Nella maggior parte dei casi in Occidente è tradotto come «guerra santa», ma è una generalizzazione. La radice «jhd» ha il significato di sforzo, compromesso, lotta interiore, applicazione con zelo. La forma verbale «jâhada» significa «lottare contro qualcuno», ma «al-jihâd fî sabîl Allâh» è «lo sforzo/lotta sul cammino di Dio», uno «sforzo sacro». L’Islam distingue due tipi di jihâd: il «grande jihâd», che è contro le proprie passioni, contro l’anima che si perde (nafs ammâra bi-s-sû’: l’ego che indirizza verso il male o ordina il male), è lo sforzo nel cammino del bene, sociale o personale; è la perseveranza nella fede e nelle avversità della vita;  il jihâd minore, o «piccolo jihâd» (jih?d al-as?aru): sforzo militare difensivo, che deve essere fatto con le armi per la difesa della comunità, la ummah e il Dâr al-Islâm, il territorio dell’Islam, quando è minacciato dai nemici. Ciò non ha nulla a che vedere con la guerra indiscriminata, con i genocidi di popolazioni, le torture, i cadaveri fatti a pezzi, gli organi interni mangiati, gli stupri. Il jihad come sforzo militare è un concetto che si presta a interpretazioni e utilizzi differenti, a seconda delle scuole giuridiche e delle correnti.


L’approfondimento

Le «murshidat», predicatrici islamiche
(che non sono imam)

Da oltre dieci anni, il governo del Marocco forma le murshidat, predicatrici, donne laureate, per insegnare e tenere conferenze nelle moschee e nei centri islamici del Regno e all’estero. Tra queste ci sono teologhe islamiche con dottorati in università prestigiose. «Il nostro compito è insegnare i principi islamici – ci spiegano – come la compassione, la tolleranza, la pace, e tenere lontani dal fondamentalismo».

Periodicamente, alcune di loro sono inviate nei paesi europei dove vivono molte donne musulmane immigrate, per aiutarle nei vari ambiti della religione e della vita quotidiana.

Le murshidad lavorano anche per diffondere l’istruzione, l’educazione e aiutare le donne ad allevare i propri figli. Esse rappresentano un aspetto della svolta al «femminile», iniziata nel 2004 con la riforma del codice di famiglia marocchino, la moudawana, che ha portato all’introduzione di più diritti e tutele nei confronti delle donne.

Tali figure rappresentano un insieme di «religiose» e «assistenti sociali», e dipendono dal ministero marocchino degli Affari islamici. Hanno un livello culturale e accademico elevato. Si occupano di islam, ma anche di problemi sociali e psicologici.

Prima di iniziare a svolgere il loro compito, si preparano per un anno in centri ad hoc (si veda l’articolo) e, una volta diplomate, sono inviate nelle varie regioni del Marocco a predicare un islam moderato e rispettoso dei diritti civili e femminili.

Il curriculum delle predicatrici annovera un’ampia cultura generale – storia, religione, geografia, sociologia, psicologia, management, legge, codice di famiglia, lingua araba – e la conoscenza di almeno metà del Corano, studiato a memoria.

Le murshidat sostengono le varie attività nelle moschee e affiancano gli imam. Ma l’obiettivo privilegiato, sottolineano, è il sostegno alle donne, alle giovani generazioni, alle famiglie. Sono tutte concordi sul fatto che il Corano e il profeta Muhammad abbiano garantito rispetto e diritti alle donne, ma che i musulmani, nel corso dei secoli, se ne siano dimenticati e che il testo sacro islamico sia stato spesso «frainteso».

Una delle loro missioni fondamentali è quella di educare a una fede non politica o ideologica, lontano dagli eccessi radicali. Infatti, dopo gli attentati terroristici a Casablanca, nel 2003, il governo marocchino pensò che fosse importante e necessario promuovere una visione della religione tollerante e non aggressiva per combattere le tendenze estremiste.

È bene chiarire, tuttavia, che le murshidat non sono delle «imam al femminile», in quanto a loro non è permesso guidare la preghiera in moschea.

Angela Lano

Seconda puntata: Isis, il terrore come spettacolo




Kharkhorin e Torino: un patto per il dialogo


Il giorno 9 novembre, presso la Sala del Consiglio del Comune di Torino, comunemente conosciuta come “Sala Rossa”, è stato firmato il Patto di Collaborazione fra il capoluogo piemontese e la città di Kharkhorin (Mongolia). Con questo atto pubblico, La Sindaca di Torino, Chiara Appendino, e il Sindaco della cittadina mongola, Enkhbat Lamzav, si sono impegnati, a nome delle due cittadinanze, a permettere un interscambio maggiore fra i due paesi, soprattutto nei campi della cultura e del turismo.

Negli antichi scranni in cui, in pieno Risorgimento, si sedette Cavour, è stata ospitata una piccola delegazione di amici, parenti e invitati vari, tra cui anche i Missionari e le Missionarie della Consolata.

Entrambi gli Istituti sono presenti in Mongolia dal 2003, nella capitale Ulaanbaatar e nella cittadina di Arvaikheer, capitale della Provincia di Uvurkhangai, ubicata nel centro del paese, a poche decine di chilometri dall’inizio dell’immenso deserto del Gobi.

Della stessa provincia fa parte anche Kharkhorin, l’antica Karakorum, prima capitale dell’impero mongolo per volere dello stesso Genghis Kahn. La città conserva oggi un’impareggiabile importanza culturale, religiosa (e di conseguenza, turistica) per chi vuole capire la storia di questo paese e, più in generale, dell’Asia centrale. Un interessante museo storico-archeologico guida il visitatore alla riscoperta di questo luogo che varie squadre di archeologi stanno cercando di riportare alla luce, con difficoltà, ma anche con interessanti risultati. Una delle principali fonti di riferimento è il diario scritto da un frate francescano italiano, Giovanni di Pian del Carpine che visitò la zona come legato papale in missione presso la corte del Khan mongolo. Il racconto dettagliato di questa impresa, che risale al XIII secolo, parla della compresenza pacifica e tollerante in Kharkhorin di un grande tempio buddhista, di una moschea islamica e di una chiesa cristiana nestoriana. Questo mirabile esempio del passato ha molto da dire anche al tempo presente, in cui le religioni sono usate sovente per dividere anziché unire i popoli nella ricerca della pace.

Sin dall’inizio della loro presenza in Asia, i Missionari e le Missionarie della Consolata hanno ritenuto che il dialogo, alimentato dalla conoscenza delle tradizioni religiose presenti sul territorio, sia fondamentale per l’evangelizzazione, ma anche per una vera collaborazione nel quotidiano, in vista del bene comune. A questo scopo, studio e ricerca a tavolino sono molto importanti; ciò che tuttavia conta maggiormente sono le relazioni fratee di rispetto e amicizia, che nascono da una frequentazione reciproca protratta nel tempo. In Mongolia è quanto essi cercano di fare, sia con gli amici buddhisti (monaci e semplici fedeli) sia con chi segue altre forme religiose, come lo Sciamanesimo (che appartiene all’identità’ più ancestrale della Mongolia) e l’Islam (praticato soprattutto nell’ovest del Paese), sia con chi non aderisce a nessun credo religioso.

Il tentativo di assecondare il profondo desiderio di armonia e dialogo ha spinto Missionari e Missionarie a rivolgere verso Kharkhorin il loro sguardo, muovendo i primi passi verso la costituzione di un centro di dialogo interreligioso e di ricerca storico-culturale.

La Firma del Patto di Collaborazione è frutto dei contatti capillari che Padre Giorgio Marengo, Missionario della Consolata torinese, ha mantenuto vivi su entrambi i fronti, mongolo e piemontese. L’incontro del 9 novembre, infatti, porta a compimento i propositi messi sul tavolo soltanto l’anno scorso, durante una visita a Torino del Sindaco della Città di Kharkhorin, accompagnato dall’allora Vice Goveatore della provincia di Uvurkhangai, in occasione del Forum mondiale dello sviluppo economico locale.

Se l’aspetto turistico e commerciale di questo accordo è certamente molto importante, occorre sottolineare la forte componente culturale che sottostà a questa firma, come la stessa Sindaca di Torino ha sottolineato nel suo discorso di benvenuto. Non è un caso che, oltre al Sindaco di Kharkhorin, per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina.

I due studiosi hanno avuto modo di parlare del patrimonio culturale che gestiscono durante l’inaugurazione della mostra fotografica “Un tesoro nella steppa. Il monastero di Erdene Zuu in Mongolia”, in esibizione al MAO, il Museo di Arte Orientale di Torino, fino a domenica 11 dicembre 2016. La splendida coice del MAO ha esaltato i colori delle immagini che raccontano la storia centenaria del più importante ed antico centro di spiritualità buddhista del paese.

La mostra, realizzata grazie alle fotografie messe a disposizione dall’archivio della Regione di Uvurkhangai, presenta l’importante monastero buddhista costruito nel 1586 da Avtai Khan, principe dei Khalkha, l’odiea Repubblica di Mongolia. Delimitata da una cinta muraria di 400 metri per lato, scandita da 108 stupa, l’area sacra di Erdene Zuu era caratterizzata da numerosi edifici religiosi, costruiti nell’arco di tre secoli con differenti stili architettonici. Oggi, grazie anche ai Missionari della Consolata, questo tesoro viene condiviso in Occidente.

Firma del patto di collaborazione tra la città di Torino rappresentata dalal sindaca Chiara Appendino e la città di Kharkhorin in Mongolia rappresentata dal sindaco l. Enkhbat.
Firma del patto di collaborazione tra la città di Torino rappresentata dalla sindaca Chiara Appendino e la città di Kharkhorin in Mongolia rappresentata dal sindaco Lamzav  Enkhbat. Padre Giorgio Marengo, imc, che ha il dialogo non solo come traduttore. (foto Marco Bello)

Firma del patto di collaborazione tra la città di Torino rappresentata dalal sindaca Chiara Appendino e la città di Kharkhorin in Mongolia rappresentata dal sindaco l. Enkhbat.

Firma del patto di collaborazione tra la città di Torino rappresentata dalal sindaca Chiara Appendino e la città di Kharkhorin in Mongolia rappresentata dal sindaco l. Enkhbat.

Firma del patto di collaborazione tra la città di Torino rappresentata dalal sindaca Chiara Appendino e la città di Kharkhorin in Mongolia rappresentata dal sindaco l. Enkhbat.

Firma del patto di collaborazione tra la città di Torino rappresentata dalal sindaca Chiara Appendino e la città di Kharkhorin in Mongolia rappresentata dal sindaco l. Enkhbat.

Firma del patto di collaborazione tra la città di Torino rappresentata dalal sindaca Chiara Appendino e la città di Kharkhorin in Mongolia rappresentata dal sindaco l. Enkhbat.


Inaugurazione al Mao di Torino della mostra fotografica sugli scaviu archeologici a Kharkhoin alla presenza di Giorgio Marengo, imc, e il sindaco di Kharkhorin, Enkhbat Lamzav. Per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina
Inaugurazione al Mao di Torino della mostra fotografica sugli scavi archeologici a Kharkhoin alla presenza di Giorgio Marengo, imc, e il sindaco di Kharkhorin, Enkhbat Lamzav. Per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina (foto Paolo Moiola)

Inaugurazione al Mao di Torino della mostra fotografica sugli scaviu archeologici a Kharkhoin alla presenza di Giorgio Marengo, imc, e il sindaco di Kharkhorin, Enkhbat Lamzav. Per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina

Inaugurazione al Mao di Torino della mostra fotografica sugli scaviu archeologici a Kharkhoin alla presenza di Giorgio Marengo, imc, e il sindaco di Kharkhorin, Enkhbat Lamzav. Per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina

Inaugurazione al Mao di Torino della mostra fotografica sugli scaviu archeologici a Kharkhoin alla presenza di Giorgio Marengo, imc, e il sindaco di Kharkhorin, Enkhbat Lamzav. Per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina

Inaugurazione al Mao di Torino della mostra fotografica sugli scaviu archeologici a Kharkhoin alla presenza di Giorgio Marengo, imc, e il sindaco di Kharkhorin, Enkhbat Lamzav. Per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina

Inaugurazione al Mao di Torino della mostra fotografica sugli scaviu archeologici a Kharkhoin alla presenza di Giorgio Marengo, imc, e il sindaco di Kharkhorin, Enkhbat Lamzav. Per la delegazione mongola erano presenti l’Ambasciatore della Repubblica di Mongolia a Roma, dott. Tserendorj Jambaldorj, il direttore del Museo di Erdene Zuu, Naigal Tumurbaatar e la direttrice del Museo di Kharkhorin, Narangerel Giina




Cari missionari 76

Informazioni sbagliate?

Spettabile Redazione,
ho letto il fuorviante articolo del mese di maggio 2016 di Sabina Siniscalchi sulle disuguaglianze. Non voglio commentare quanto scritto ma ritengo che almeno i riferimenti a documenti citati debbano essere corretti.

Non sono andato a cercare «Finanza-Capitalismo» di Luciano Gallino ma ritengo impossibile che affermasse che «chi ha un capitale depositato di 28000 euro paghi 5600 euro senza muovere un dito!». Per fortuna un deposito in banca non costa niente anzi forse può rendere qualcosa e in ogni caso non è segno di grande ricchezza. Se si parlasse di utile da capitale e non di deposito sarebbe diverso. Il rapporto finanziario Fisac Cgil del 2015 non dice «che un dirigente percepisce un compenso medio pari a 4 milioni 326 mila euro all’anno», ma parla di top manager! Un dirigente medio è estremamente lontano da tale importo. Sarebbe opportuno che gli articoli venissero controllati da esperti per non dare informazioni sbagliate e devianti alla massa dei lettori. Cordiali saluti.

Vittorio Bosco
17/05/2016

Egregio sig. Bosco,
lei definisce il mio articolo fuorviante e le informazioni che foisco sbagliate e devianti, questo mi stupisce molto perché il grave fenomeno della crescita delle disuguaglianze, di cui il pezzo parla, è ormai riconosciuto e suscita la preoccupazione di tutte le istituzioni pubbliche e private, non solo per i costi umani e sociali che comporta, ma perché rappresenta un freno alla crescita economica. L’Ocse nei suoi tanti rapporti sulle crescenti disuguaglianze (growing inequalities) afferma che una delle cause del fenomeno è da ricercarsi nell’indebolimento dei sindacati e dei corpi sociali intermedi. La invito a riflettere sul fatto che una debolezza di pensiero si traduce in una debolezza di azione. Quanto alle citazioni, le confermo che quella attribuita a Gallino è pienamente corretta (v. anche pag. 24 di «La lotta di classe dopo la lotta di classe»), mentre mi scuso per l’errore di traduzione del termine top manager, laddove cito non virgolettato il rapporto Fisac Cgil. Cordiali saluti,

Sabina Siniscalchi

 

Mi permetto di aggiungere che un commento al testo di Gallino riporta «[…] mentre un redditiere con un capitale dello stesso importo […]», avallando così quello che giustamente lei interpreta come l’utile da capitale depositato. Non serve comunque fare una battaglia di cifre. Si trattasse anche solo di top manager iperpagati, questo non diminuisce il problema delle diseguaglianze crescenti (e della «scomparsa» della classe media). Ho qui davanti a me il numero 112, giugno 2016, della rivista «In dialogo», notiziario della Rete Radié Resch. Titola: «Sergio Marchionne | Nel 2015 ha guadagnato: 54 milioni e 543 mila euro. 150 mila al giorno. | Che senso ha?». In quest’ultima domanda è sintetizzato tutto il problema: «Che senso ha?».

Islam, dialogo e pace

Buongiorno,
da qualche tempo ho in corso con un amico di infanzia recentemente ritrovato una discussione a distanza sul tema in oggetto rispetto al quale siamo su posizioni divergenti. Il sottoscritto parrebbe un «utile idiota» rispetto alle tesi dell’altro. Vista l’importanza del tema e la mia impreparazione, che ho del resto confessato all’amico, vi chiedo come vecchio lettore della vostra ottima rivista se vorrete dare adeguato spazio ancora alla questione: il Corano è inconciliabile con l’idea della convivenza pacifica con popoli di altre religioni? Il musulmano moderato è fuori dall’Islam in quanto tale? Questa e altre domande fanno parte dello scambio di opinioni con il mio amico che è partito idealmente dalla lettura del vostro editoriale di maggio. Grazie dell’attenzione che darete alla presente. Cordiali saluti

Claudio Solavagione
14/05/2016

Caro sig. Claudio,
raccogliamo il suo invito, anche se non sarà un lavoro facile. Stiamo studiando seriamente un dossier o una serie di articoli sull’argomento, ma deve avere un po’ di pazienza. Indipendentemente da questo lavoro, c’è stato un avvenimento importante che fa ben sperare: la visita del grande imam sunnita di Al Azhar, Ahamad Muhammad Al-Tayyib, a papa Francesco il 23 maggio scorso. È stato un incontro positivo e incoraggiante in questi tempi difficili. Speriamo che una possibile visita del papa al Cairo possa consolidare il cammino iniziato.

Per quanto poi possa valere la mia esperienza personale, in Kenya posso dire di aver sperimentato le due facce opposte dell’Islam: da una parte una radicalizzazione sempre più evidente, dall’altra una bellissima e duratura amicizia con alcune famiglie musulmane con cui conservo ancora legami profondi. Quando le persone riescono a incontrarsi cuore a cuore, con semplicità e umanità, allora non conta religione, ideologia, casta o razza. La tragedia scoppia quando sulle persone prevale lo stereotipo, il pregiudizio o l’ideologia, sia essa politica che religiosa.

E a questo proposito mi viene da pensare che gran parte dei guai nostri con l’islamismo più radicale – diventato una minaccia mondiale – sono frutto di una politica dissennata che ha visto alleati i fondamentalisti cristiani d’America con i fondamentalisti wahabiti dell’Arabia Saudita per far crollare le «dittature» – religiosamente tolleranti – di Saddam Hussein (Iraq), Muhammar Gheddafi (Libia) e Assad (Siria). Quegli stessi fondamentalisti che sostengono ora Trump e la sua agenda piena d’intolleranza, gli stessi che continuano a finanziare in tutto il mondo le sette cristiane più integraliste che dividono le comunità in Africa e in America latina per lasciar spazio, nella divisione, agli interessi delle multinazionali che sfruttano senza controlli (vedi RD Congo e Amazzonia sia dell’Ecuador che del Brasile). Senza dimenticare la passività, divisione e confusione della politica estera dell’Unione europea che tollera (o permette e favorisce?) in paesi come il Kosovo e l’Ucraina la crescita e il prosperare di organizzazioni fondamentaliste, incubatori di foreign fighters e terroristi.

Musulmano Ucciso per salvare cristiani

Aiuto, qualcosa mi è sfuggito, leggo diversi giornali quotidiani tutti i giorni, ma non ho letto, se non in piccolissime recensioni sulla morte, il 18/01/16, di Salah Farah. Ho letto di Valeria Soresin, morta nell’attacco al Bataclan a Parigi, ho letto su Giulio Regeni morto misteriosamente in Egitto. Tutto ciò è molto giusto. Ho guardato in internet il cognome Salah: ho visto pagine su Abdelham Salah, terrorista, ma ancora di più su Mohamed Salah, calciatore della Roma, e del suo infortunio. Ho guardato vari programmi d’informazione e denuncia, ma mai si è parlato di Salah Farah. È solo un vero eroe dimenticato, Salah è l’insegnante keniota che ha difeso con la sua vita  dei cristiani da una morte certa, dicendo ai terroristi che cristiani e islamici sono tutti uguali e che dovevano uccidere tutti. Quindi, secondo me dovrebbe essere considerato un eroe sia per i cristiani che per i mussulmani. Ma nessuno ne parla, come per vergogna: il mondo islamico forse perché ha salvato dei cristiani, il mondo occidentale, forse perché nero, povero e non biondo. Io penso che meriterebbe almeno il Nobel per la pace, magari togliendolo a qualche potente, che ha reso il mondo molto pericoloso. Ora chiudo e vi incito a farvi promotori per una colletta per la sua numerosa famiglia che viveva solo con il suo stipendio.
Saluti

Stefano Graziani
08/05/2016

Ho fatto una rapida ricerca, e, a parte quattro testate, in Italia se ne è parlato poco o niente. Noi stessi abbiamo riportato solo quanto avvenuto il 21 dicembre sulla pagina Facebook della rivista. Il fatto a cui si riferisce il nostro lettore è l’agguato del 21 dicembre 2015 teso dagli Al-Shabab a un pullman diretto a Mandera, una cittadina del Kenya all’stremo Nord-Est del paese, ai confini con la Somalia. «L’uomo, al momento dell’assalto di un gruppo di uomini armati, appartenenti ai miliziani sunniti somali di al-Shabaab, si trovava a bordo di un autobus insieme a un gruppo di passeggeri cristiani e musulmani. Quando gli assalitori hanno intimato al gruppo di viaggiatori di dividersi fra musulmani e cristiani, Farah insieme ad altre persone si è rifiutato, sapendo che i cristiani sarebbero stati massacrati una volta individuati. L’insegnante musulmano si era rivolto agli uomini armati sfidandoli e dicendo loro: “Uccideteci tutti oppure lasciateci andare”. I miliziani, prima di lasciare che il bus proseguisse il suo tragitto per Mandera, avevano ucciso due delle persone a bordo e ne avevano ferite altre tre» (The Post Internazionale del 22/01/2016). «“Appena abbiamo parlato hanno sparato a un ragazzo, e a me”. Dopo quasi un mese in ospedale, Salah non ce l’ha fatta» (Avvenire del 21/01/2016). Salah Farah era un insegnate di 34 anni, padre di cinque figli.

In Kenya l’hanno onorato come un eroe e ci sono state preghiere di cordoglio da parte di tutti i gruppi religiosi ed è stata lanciata sui social media una colletta per aiutare la sua famiglia.

Resta comunque il fatto che spesso sui media non tutte le morti hanno lo stesso valore. La lista potrebbe essere lunga, dalla Nigeria alla Somalia, dalla Siria all’Iraq, non ultimo l’ennesimo massacro di civili avvenuto agli inizi di maggio nel Beni (una provincia della Repubblica democratica del Congo vicina all’Uganda) per mano di un gruppo di miliziani qaedisti ugandesi, uno dei 23 gruppi che si contendono il controllo del territorio a Est del Congo e le sue enormi risorse. Noi stessi abbiamo saputo del fatto solo perché vi sono state vittime tra i membri della famiglia allargata di un nostro missionario. Eppure non è una cosa da poco, oltre 1100 persone indifese, soprattutto donne e bambini, sono state uccise in quell’area negli ultimi tre anni e migliaia e migliaia costretti a fuggire dalle loro case.

E chi ha riportato che «è morta (il 20 maggio) suor Veronica Rackova, religiosa delle Suore Missionarie dello Spirito Santo (Ssp), la medico missionaria slovacca ferita gravemente in un agguato stradale in Sud Sudan il 16 maggio»? Ricordate l’assordante silenzio sul massacro delle quattro suore di Madre Teresa in Yemen all’inizio di marzo? Perfino papa Francesco, con la sua abituale franchezza, si sentì in dovere di stigmatizzare l’indifferenza dei media.

Notizie di questi drammi si trovano sull’informazione di «nicchia», come le agenzie missionarie, le riviste specializzate e quelle di ong e gruppi interessati a questi problemi, e qualche volta anche nelle pagine intee della grande stampa. Ma occorre avere un occhio attento, capace di andare oltre l’anestetizzante informazione di «prima pagina».

Avanti con MC

Caro padre
faccio riferimento alla lettera pubblicata su MC aprile 2016 (lettrice di Bologna), per incoraggiarvi a continuare nell’attività di stampa, spedizione e diffusione della rivista. In data odiea ho provveduto ad effettuarvi un piccolo bonifico che vorrete utilizzare per inviare la rivista a chi ne ha bisogno e trova in essa un utile strumento di informazione e formazione, soprattutto sulla chiesa missionaria ed in particolare di quella dei missionari della Consolata. Buon lavoro!

Email firmata
11/04/2016

A giorni vi faccio avere una piccola donazione per la vostra bella rivista. A volte mi chiedo se possa essere realizzabile una piccola campagna nelle mie tre parrocchie per far conoscere la rivista e favorire una cultura alternativa sui veri problemi del mondo… Forse sarà un’illusione, ma sarei lieto, magari per il mese missionario, di studiare con voi qualcosa. Se avete suggerimenti…

Don D.
17/05/2016

Grazie di cuore a tutti gli amici che ci sostengono e ci incoraggiano a continuare il nostro servizio in questi tempi duri. Come sapete questi ultimi sei anni hanno visto chiudere riviste missionarie una dopo l’altra. Altre stanno davvero lottando per la sopravvivenza proprio in questi tempi. Cose che vi abbiamo già detto altre volte. In MC stiamo facendo il possibile e l’impossibile per «fare bene il bene», convinti che se questa è un’opera voluta da Dio, Lui ci provvederà sempre la forza e i mezzi per andare avanti. Se non è opera sua, meglio chiudere.

Appello per lo ius soli

Agli immigrati di seconda generazione, nati e cresciuti in Italia, deve essere riconosciuto il diritto di cittadinanza. Lo sostengono le riviste missionarie e le associazioni per i diritti dei migranti. Che chiedono sia presentato quanto prima al Senato, per la sua definitiva approvazione, il disegno di legge sullo ius soli.

In sintonia con la campagna «L’Italia sono anch’io», sostenuta da numerose organizzazioni della società civile, noi rappresentanti della stampa missionaria e di associazioni impegnate per i diritti degli immigrati, chiediamo al Parlamento italiano di portare a termine senza ulteriori dilazioni l’iter di riforma della legge che estende il diritto di cittadinanza agli stranieri nati nel territorio italiano. In modo particolare ci rivolgiamo alla presidente della Commissione affari costituzionali, Anna Finocchiaro, affinché stabilisca quanto prima la data per presentare al Senato il disegno di legge, già approvato in prima lettura alla Camera dei deputati il 13 ottobre 2015, per la sua definitiva approvazione.

La vigente legislazione, fondata su legami di sangue, garantisce il diritto di cittadinanza a nipoti di un nonno o nonna italiani, anche senza mai aver messo piede in Italia. A maggior ragione riteniamo giusto e doveroso che lo stesso diritto venga riconosciuto agli immigrati di seconda generazione, nati e cresciuti nel nostro paese, che oggi sono costretti ad attendere fino alla età di 18 anni prima di poter ottenere la cittadinanza. A tale obiettivo mira la riforma della legge 91 del 1992 che assicura ai figli di immigrati nati in territorio italiano da almeno un genitore con permesso di soggiorno di lungo periodo (ius soli temperato) o a seguito di un percorso scolastico (ius culturæ), il diritto a diventare cittadini.

L’approvazione della nuova legge – ne siamo certi – darà un segnale importante a oltre 1 milione di giovani di origine straniera che vivono in uno stato di precarietà esistenziale, che si sentono italiani di fatto, ma non lo sono per la legge. Grazie a questa normativa più della metà di costoro, con un genitore in possesso di un permesso di lungo soggiorno, potrebbero già beneficiare della riforma. L’accesso alla cittadinanza è l’unica via in grado di consentire ai figli di immigrati di essere considerati alla pari, nei diritti e nei doveri, rispetto ai loro coetanei, figli di italiani.

Come cittadini e cittadine italiane riteniamo l’approvazione della nuova legge sulla cittadinanza agli stranieri un atto di giustizia che il nostro Parlamento è chiamato a compiere per rimediare a una discriminazione che penalizza i nostri fratelli e sorelle immigrati di seconda generazione.

Questo documento è stato firmato in data 12 maggio 2016 dai direttori delle riviste aderenti alla «Federazione della stampa missionaria italiana» (Fesmi) e dai responsabili di altri organismi solidali e impegnati nel mondo dei migranti, rifugiati e nomadi. Il testo è stato pubblicato sui siti delle varie riviste (della Fesmi), su Avvenire e Vita (e su Famiglia Cristiana) e consegnato alla presidente della Commissione affari costituzionali, all’inizio di giugno. (Nella rivista è scritto così. perché questo era il piano, ma la realtà è più difficile e si sta ancora lavorando per riuscire a consegnare il testo a chi di dovere).

Nel documento si usa l’espressione «immigrati di seconda generazione» per adeguarsi al linguaggio della legge attuale, ma tale termine non ha senso. Bambini nati in Italia da genitori che qui vivono e lavorano da tempo, non possono essere considerati migranti. Eccetto che anche noi vogliamo introdurre il termine «alieno», lo stesso stampato sulla mia carta d’identità locale quando vivevo in un paese d’Africa.




Cina la storia aiuta il dialogo


Il rapporto tra Cina e gesuiti è antico. Una società di produzione cinese realizza film sulla vita di alcuni gesuiti famosi. Il successo è grande: l’audience raggiunge numeri a 9 cifre. Dopo un decennio (di film) i tempi sono maturi per un progetto ambizioso. Che potrebbe contribuire a migliorare i rapporti Cina – Chiesa cattolica.

La Cina sta riscoprendo la sua storia. E lo sta facendo attraverso i gesuiti. Negli ultimi anni, i film televisivi su Paolo Xu Guangqi, Johann Adam Schall von Bell, Giuseppe Castiglione e Ferdinand Verbiest, tutti missionari gesuiti, sono diventati veri casi mediatici con audience che in Europa non riusciamo neppure a immaginare. Questa riscoperta è frutto di una collaborazione tra le autorità di Pechino e la stessa Compagnia di Gesù. Una collaborazione che va avanti da più di un decennio con risultati che, all’inizio, sembravano impensabili.

Produzioni orientali

Tutto ha inizio alla fine degli anni Cinquanta con la nascita della Kuangchi Program Service, la società di produzione cinematografica dei gesuiti a Taiwan. «La Kuangchi Program Service – spiega Emilio Zanetti, gesuita italiano, che vi lavora – è la più vecchia società di produzione televisiva di Taiwan. È stata creata dai gesuiti nel 1958 e, da sempre, produce programmi educativi e di valore sociale. Nel 2003 i vertici dell’azienda sono entrati in contatto con la Jiangsu Broadcasting Corporation, la più grande società pubblica di produzione televisiva della Cina continentale. Allora il Presidente di Kuangchi era un laico ed era amico della presidentessa della Jiangsu. Dall’incontro è nata l’idea di produrre una pellicola su Matteo Ricci (1552-1610), gesuita, figura molto nota e apprezzata in Cina. L’idea piaceva a tutti, però è apparsa subito irrealizzabile, non tanto per motivi tecnici, ma di opportunità politica. Le autorità di Pechino non avrebbero apprezzato un film su Ricci che era uno straniero e un missionario cattolico (sebbene fosse anche un apprezzato scienziato). Si è così deciso di girare una pellicola su Paolo Xu Guangqi, amico cinese e collaboratore di Ricci, che si era convertito al cristianesimo. In questo modo, si poteva parlare in indirettamente anche del più noto gesuita italiano».

Il governo siamo noi

All’inizio delle lavorazioni, il gesuita Jerry Martinson, allora vicepresidente della Kuangchi, si preoccupa della censura e chiede ai funzionari della Jiangsu: «Ma siete sicuri di voler parlare di cristiani? Che cosa dirà il governo?». Gli rispondono: «Padre, non ci sono problemi: il governo siamo noi». A sottolineare che la Jiangsu è una struttura pubblica che si muove in piena sintonia con le autorità di Pechino. E, se c’è l’avallo della Jiangsu, dal punto di vista politico non ci sono problemi perché loro sanno come scrivere la sceneggiatura, sanno quali punti possono essere affrontati e quali è meglio evitare. «Con il film su Paolo Xu Guangqi – continua Zanetti -, i gesuiti sono entrati nei media cinesi dalla porta principale, cosa che risulta impossibile per qualsiasi altra organizzazione religiosa. Il fatto di essere gesuiti ci ha certamente favoriti perché la Cina e la Compagnia di Gesù hanno una relazione storica, fatta di rispetto e apertura dell’uno verso l’altro».

Audience da capogiro

La pellicola su Paolo Xu Guangqi va in onda nel 2005 su Cctv (China Central Television), la radiotelevisione pubblica cinese. E qui c’è la prima grande sorpresa: l’audience supera i cento milioni di telespettatori. Un risultato insperato, che stimola i gesuiti di Taiwan a rilanciare. L’occasione arriva nel 2006. L’allora Presidente cinese Hu Jin Tao va in visita ufficiale in Germania e nel suo discorso cita Johann Adam Schall von Bell (1592-1666), un gesuita tedesco che, come Ricci, visse e lavorò alla corte degli imperatori cinesi e fu la personalità occidentale che riuscì a raggiungere il più alto grado nella gerarchia dei mandarini (funzionari imperiali). Quando la presidentessa di Jiangsu viene a sapere che Hu Jin Tao ha parlato di Schall von Bell, contatta la Kuangchi proponendo di realizzare un film sul gesuita tedesco. E anche questo film riscuote un ottimo successo di pubblico.

«I buoni risultati raggiunti con Xu Guangqi e Schall von Bell – ricorda Zanetti – hanno convinto Martinson che era possibile insistere su questa strada. Nel 2009, quindi, ha lanciato l’idea di produrre, sempre in collaborazione con la Jiangsu, un film su Giuseppe Castiglione.

In Occidente, Matteo Ricci, Johann Adam Schall von Bell e il belga Ferdinand Verbiest (1623-1688) sono molto conosciuti. Castiglione, invece, è sconosciuto non solo in Europa, ma nel suo stesso paese, l’Italia (a parte una ristretta cerchia di esperti di arte).

In Cina, è in assoluto il gesuita più noto. Anch’io pensavo che Castiglione fosse un artista minore che, grazie alla fortuna, si era fatto un nome in Cina. Mi sbagliavo. Castiglione, nato a Milano, è rimasto 51 anni nella Città proibita e, in quel periodo, ha dato vita a quasi 550 progetti artistici. Ha realizzato dipinti di imperatori, delle loro mogli e concubine e di animali (famosi i quadri sui cavalli). Ma ha anche progettato i padiglioni occidentali dell’antico palazzo d’estate dell’imperatore». Castiglione rappresenta una svolta per la storia dell’arte in Asia perché ha introdotto le tecniche del chiaro-scuro e della prospettiva. Tecniche che ha inserito in una tradizione artistica millenaria, miscelando elementi occidentali e orientali con un gusto e una sapienza unici. Ai suoi tempi, gli imperatori invitavano moltissimi artisti occidentali a corte, ma solo pochi riuscivano ad avere successo. La memoria di Castiglione è talmente viva nei cinesi che il film, e qui è la seconda grande sorpresa, ha un successo enorme: nell’aprile 2015 raggiunge un’audience di seicento milioni di telespettatori.

I tempi sono maturi

Grazie al successo ottenuto dal film su Castiglione, il governo di Pechino si convince a fare un passo avanti e a mettere in programma una serie televisiva su Matteo Ricci. «Stavamo realizzando il film sul pittore gesuita Castiglione – spiega Zanetti -, quando Martinson è andato a Nanchino a parlare con il direttore della divisione documentari della Jiangsu Broadcasting Corporation. E questi gli ha detto: “Adesso i tempi sono maturi per realizzare un film documentario su Matteo Ricci”. Martinson ha colto la palla al balzo e gli ha risposto: “Va bene, noi siamo pronti!”». Le restrizioni sulle tematiche che riguardano gli stranieri e i religiosi sono cadute ed è possibile affrontare anche un tema delicato come quello di Ricci, missionario cattolico, straniero.

Così, quando nel 2015 le riprese del film su Roberto Castiglione terminano, la Kuangchi Program Service inizia a raccogliere fondi per un film sul gesuita di Macerata. «Nel settembre dello scorso anno ho iniziato a raccogliere fondi in Italia e in Germania – ricorda Zanetti -, poi mi sono recato negli Stati Uniti, infine a Taiwan e nella Cina continentale. È stato un lavoro non facile, ma all’inizio del 2016 ho messo insieme il budget necessario. A febbraio il direttore della televisione di Nanchino mi ha dato il via libera per partire e a marzo, gli autori hanno iniziato a scrivere la sceneggiatura».

Quattro pilastri

La sceneggiatura seguirà quattro blocchi tematici, che sono i pilastri della vita e dell’azione di Ricci. Il primo, che si intitolerà «Stringendo amicizie», tratta dell’amicizia tra persone e tra culture, valore portante del messaggio ricciano. La seconda «Oriente che incontra Occidente», riguarda l’amicizia di Ricci con Xu Guangqi. La terza si intitolerà «Curando i mali della Cina», perché Ricci e Xu Guangqi hanno lottato per migliorare il sistema agricolo, per superare la malnutrizione, per difendere l’impero, per minimizzare le perdite provocate dai disastri naturali e per massimizzare le risorse. La quarta «Sincronizzati con il mondo», riguarderà lo sforzo di Ricci per modificare il calendario, semplificandolo e rendendolo conforme a quello occidentale; nel campo della geografia, famoso il planisfero di Ricci con la Cina al centro invece dell’Europa; e della matematica, con gli elementi delle geografia euclidea tradotti da Ricci in cinese.

«Il flusso narrativo – conclude Zanetti – dipenderà dalla sensibilità di Gao Wei, il regista che curerà la realizzazione del film. Probabilmente userà la tecnica del flashback: Ricci anziano ricorda alcuni momenti della sua vita. Ma molto dipenderà anche dalle decisioni che verranno prese in fase di montaggio. Le riprese prenderanno il via a fine giugno, inizio luglio. Il film parla di Matteo Ricci e dei gesuiti in Cina, sarebbe interessante se nel documentario ci fosse anche una testimonianza di Papa Francesco che è gesuita e ha espresso più volte la volontà di recarsi in Cina e di riprendere le relazioni diplomatiche con Pechino. Un sogno? Forse, ma ogni tanto anche i sogni diventano realtà…».

Enrico Casale