Celebrare le navi (ma dimenticare le origini)

testo di José Auletta |


In Argentina, essere indigeno è sempre difficile. I diritti sono più teorici che reali, a iniziare da quello alla terra ancestrale. Lo stesso presidente, Alberto Fernández, ha riassunto la storia del paese senza citare i suoi primi abitanti, i popoli indigeni.

«L’Argentina, la nostra, è di origine indigena – scrive Endepa, organizzazione cattolica al servizio dei popoli indigeni -. Deploriamo profondamente le parole del presidente della Repubblica argentina, Alberto Fernández, quando, nel contesto dell’incontro con il primo ministro spagnolo del 9 giugno 2021, ha detto che: “Noi argentini veniamo dalle navi”. Tra il 1881 e il 1914, la storia politica argentina guardava all’Europa e ci fu un’esplosione migratoria, ma già prima del XVI secolo il territorio che oggi chiamiamo Argentina era abitato. Quindi, ridurre la storia o raccontarne solo una parte implica rendere invisibile l’altra. L’immaginario bianco europeo come unico modello in America, provoca una tensione etnico – razziale, e acuisce una ferita ancora aperta. E la reiterazione di questo modello etnocentrico riproduce l’idea mitica di un’Argentina egemonica.

Il presidente Alberto Fernández con la vicepresidente Cristina Kirchner: oggi i sorrisi sono scomparsi, sostituiti da polemiche e recriminazioni. Foto Instagram alferdez.

La realtà di un’Argentina ancestrale indigena multiculturale emerge, invece, dalla storia stessa. L’infelice frase rende invisibili anni di lotte delle comunità indigene per il rispetto della loro identità e del diritto ai propri territori, che negli ultimi anni stanno ottenendo riconoscimenti a livello mondiale. La Costituzione nazionale, nel suo art. 75, comma 17, ordina di “riconoscere la preesistenza etnica e culturale dei popoli indigeni argentini”, che il presidente non può ignorare. Nella riforma costituzionale del 1994 è stato espressamente affermato che l’Argentina ha origini indigene, con i popoli nativi soggetti di diritti, il che rende inaccettabile il pronunciamento del presidente.

Questa sfortunata menzione è riprovevole per le sue concezioni razziali discriminatorie. Essa coincide con i discorsi dei predecessori: Cristina Kirchner aveva affermato: “Siamo figli, nipoti e pronipoti di immigrati. Questa è l’Argentina” (aprile 2015) e Mauricio Macri: “In Sud America siamo tutti discendenti di europei” (gennaio 2018). Si tratta di una costante dei discorsi presidenziali, che si traduce in fatti e che permane nel tempo, di mandato in mandato, segnando un indirizzo discriminante del governo nazionale che va oltre i partiti politici.

L’Équipe nazionale di pastorale aborigena (Endepa) è solidale con i popoli indigeni che resistono in questo paese dove i loro diritti sono solo sulla carta, mentre nella realtà viene loro negata la proprietà dei territori ancestrali, l’accesso a un sistema sanitario adeguato, l’istruzione multiculturale, abitazioni consone, un’infanzia dignitosa e un’alimentazione adeguata dal punto di vista nutrizionale alle loro esigenze. Ci battiamo per il riconoscimento di un’Argentina multiculturale, nel contesto di una convivenza americana consapevole della propria preesistente ascendenza indigena.

Signor presidente, ci aspettiamo da lei non solo le doverose scuse, senza giri di parole, ma l’effettivo rispetto dei diritti menzionati nella Costituzione che lei ha giurato di rispettare».

Le scuse non bastano

Il logo di Endepa.

Questo è il duro comunicato (datato 10 giugno) di Endepa, con la quale mi onoro di collaborare.

Pochi giorni dopo le sue infelici affermazioni (peraltro, erroneamente attribuite al premio Nobel Octavio Paz), Alberto Fernández si è scusato: «Non volevo – ha detto – offendere nessuno; in ogni caso, a chiunque si sia sentito offeso o reso invisibile, sin da ora offro le mie scuse».

Successivamente, il presidente ha aggiunto un nuovo tweet in cui ha citato parole di Litto Nebbia, un cantautore argentino di cui Fernández è un grande ammiratore, inserendo la strofa della canzone «Siamo arrivati ​​dalle barche» (Llegamos de los barcos), perché «sintetizza meglio di me – ha detto – il vero significato delle mie parole».

Ha anche citato una frase simile attribuita allo scrittore argentino Julio Cortázar: «È stato affermato più di una volta che “gli argentini provengono dalle navi”. Nella prima metà del XX secolo abbiamo accolto più di cinque milioni di immigrati che vivevano con i nostri popoli nativi. La nostra diversità è un orgoglio».

Dopo lo scandalo dell’«Olivos Gate» (una festa presidenziale organizzata in piena pandemia) e del «Vacunas Vip» (le vaccinazioni in via privilegiata per la gente vicina al potere), un altro scandalo si è dunque abbattuto sul presidente argentino, peraltro da molti considerato come un mero esecutore delle volontà della vice Cristina Kirchner.

In aggiunta, le primarie del 12 settembre – che hanno anticipato le elezioni del 14 novembre – hanno portato a una pesante sconfitta della coalizione di governo (Frente de todos) nei confronti dell’opposizione (Juntos por el cambio) di Mauricio Macri (il quale, durante la sua presidenza, era stato a sua volta del tutto inadeguato).

La reazione della vicepresidente è stata la pubblicazione, il 16 settembre, di una durissima lettera contro Alberto Fernández, amplificando in tal modo la crisi politica interna al governo.

L’arrivo in Argentina del transatlantico Giulio Cesare, attivo dal 1922. Foto Centro de Estudios Migratorios Latinoamericanos (CEMLA).

Leggi inattuate

In Argentina, non mancano le leggi a tutela dei popoli indigeni: manca la loro applicazione da parte dei governi. Ricordiamo, in breve, i riferimenti normativi più importanti.

Josefa Jofré, anziana donna Huarpe. Foto José Auletta.

La convenzione numero 169 del 1989 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) sui popoli indigeni fu sottoscritta dall’Argentina nel 1992 con la legge n. 24.071.

Due anni dopo, il paese varò un’importante riforma della Costituzione in cui l’articolo 75 inciso 17 chiedeva al Congresso di «riconoscere le radici etnico-culturali delle popolazioni indigene argentine; garantire il rispetto della identità di tali popolazioni e il diritto ad un’educazione bilingue e interculturale; riconoscere la personalità giuridica delle loro comunità e il possesso e la proprietà comunitaria dei territori che tradizionalmente occupano; regolamentare, inoltre, il conferimento di altri terreni adatti e sufficienti per lo sviluppo umano; nessuna di tali terre sarà alienabile, trasmissibile, né soggetta a gravami o sequestri. Assicurare la partecipazione di tali popolazioni alla gestione delle proprie risorse naturali e delle altre cointeressenze che le riguardino».

Come ha riassunto l’Equipo diocesano de pastoral aborigen (Edipa) di Formosa: «Le comunità indigene che abitano quella che oggi è l’Argentina sono state dichiarate preesistenti nella Costituzione nazionale dal 1994. I popoli indigeni si auto-determinano, hanno i loro modi e mezzi per organizzarsi; chiediamo che ci permettano di vivere in comunità, esigiamo il rispetto permanente della nostra diversità e la giusta applicazione dei nostri diritti già stabiliti a livello internazionale, nazionale e provinciale».

Nel 2006 venne varata la legge numero 26.160 per affrontare l’emergenza territoriale delle comunità indigene: essa proibisce gli sfratti e ordina il rilevamento tecnico e catastale dei territori che appartengono ancestralmente ai popoli indigeni. La legge è già stata prorogata tre volte e scade di nuovo il 23 di questo mese di novembre.

In questi 15 anni di vigenza il rilevamento non ha però raggiunto il 50%, e gli sfratti continuano.

Mappa Inai.

Attività mineraria e «zone di sacrificio»

Per una nuova proroga della Legge 26.160 sulle terre dei popoli indigeni dell’Argentina. Immagine Endepa.

Un esempio d’inadempienza da parte delle autorità pubbliche si è avuto, lo scorso giugno, nella provincia di Chubut dove vivono comunità di due popoli indigeni, i Mapuches e i Tehuelches. Qui la Corte d’appello di Puerto Madryn ha respinto, per una questione di tempi di presentazione, l’appello delle comunità indigene contro un progetto di legge (n. 128, novembre 2020) che sacrifica parte dei loro territori in favore delle imprese estrattive. La cosa è talmente palese che viene utilizzato proprio il termine «zonas de sacrificio».

Una delle zone di sacrificio dovrebbe essere quella conosciuta come «la Meseta».

«Come popoli in lotta – hanno scritto gli indigeni – contro il mega estrattivismo minerario, avvertiamo le persone mobilitate e la società in generale circa una nuova manovra per far prevalere la volontà politica di consegnare il territorio della provincia di Chubut alle compagnie minerarie transnazionali».

Raggiunto telefonicamente, il dottor Eduardo Hualpa, già consulente di Endepa e oggi funzionario pubblico, mi spiega: «Il progetto di “zonificazione mineraria”, promosso dal governo di Chubut, è stato deciso alle spalle delle comunità indigene e della società civile. Esso consentirà alle imprese minerarie un grande utilizzo di acqua, miniere a cielo aperto e uso di sostanze tossiche. Insomma, esso sarà una minaccia per la vita di tutti».

Un cartello indica la proprietà indigena della terra.

Gli Huarpe

Lo stato non ha ancora censito il 58 per cento delle terre dei popoli indigeni dell’Argentina. Immagine Endepa.

Da alcuni anni lavoro nella provincia di Mendoza (regione di Cuyo) con il popolo degli Huarpe. La loro organizzazione è dovuta, in gran parte, al fatto che hanno mantenuto in vigore le loro istituzioni ancestrali, sia pure con alcuni cambiamenti. Così, il loro «Consiglio degli anziani» è quello scelto secondo gli statuti da ciascuna comunità.

Nel 1999, con la cosiddetta dichiarazione di San Miguel de los Sauces, gli Huarpe hanno spiegato: «Siamo membri della grande nazione argentina. Ci sentiamo e siamo orgogliosi del nostro gruppo etnico Huarpe Millcayac. Rispettiamo le diverse etnie che compongono la nazione argentina e le rispettive culture, e vogliamo collaborare con tutti per il bene comune. Chiediamo il riconoscimento e il rispetto della nostra identità, della nostra cultura e del diritto di possedere e vivere sulle nostre terre, che abbiamo occupato pacificamente e ininterrottamente da prima della colonizzazione, e che comprendono tutte le Lagunas de Huanacache, cioè i distretti: Asunción, San José, Lagunas del Rosario e San Miguel de los Sauces. I nostri antenati pacifici e operosi sono stati oppressi. Oggi, senza rancore o risentimento, vogliamo collaborare con i nostri valori per costruire un mondo migliore, un paese fraterno e solidale, una Mendoza prospera e ricca di culture diverse».

Arrivati al termine del 2021, gli Huarpe stanno ancora aspettando che sia loro riconosciuto il titolo comunitario del territorio che occupano ancestralmente, nonostante l’esistenza della Legge provinciale 6.920, approvata nel 2001 e il cui adempimento è stato più volte reclamato dagli interessati. Ciò ha permesso e sta permettendo che privati e agenti immobiliari usurpino diverse zone del loro territorio.

Celebrazione a Lagunas

Il genocidio sconosciuto

Padre José (Giuseppe) Auletta, missionario IMC e, da anni, collaboratore di Endepa. Foto archivio José Auletta.

Sul genocidio dei popoli indigeni dell’Argentina non è mai stata fatta luce. Per questo condivido l’idea della criminologa e professoressa Valeria Vegh Weis (11 giugno 2021, su Pagina 12) di istituire una «Conadep indigena», una Commissione nazionale sulla sparizione di persone per i popoli indigeni.

«La negazione delle radici indigene e la violazione dei loro diritti – ha scritto la Vegh Weis – non è un problema esclusivo dell’Argentina. Tuttavia, ci sono alcuni paesi che hanno compiuto progressi nel riconoscere i genocidi originari su cui sono state fondate le nostre nazioni. […] le commissioni sulla verità sono state globalmente fondamentali nel gettare le basi per una “svolta narrativa”. Cosa riguarda? La ricerca di una storia attendibile delle nostre radici che si costruiscano su processi di memoria collettiva e che finiscano per dare fondamento alla nostra identità e agli interessi della nazione. La svolta narrativa implica un nuovo accordo sociale sul cosa e sul perché del passato, del presente e del futuro […]».

Vale la pena di ricordare che Domingo Faustino Sarmiento, presidente tra il 1868 e il 1874, parlò di «barbarie» (le popolazioni locali) contro «civiltà» (gli immigrati europei). Secondo l’ultimo censimento disponibile (2010), oggi gli indigeni argentini, divisi in 40 etnie, sono circa un milione, il 2,3 per cento della popolazione nazionale. Tuttavia, il censimento – previsto nel 2020 e poi rinviato al 2022 a causa del Covid-19 – vedrà probabilmente una popolazione indigena in aumento. Il questionario, infatti, permette l’auto riconoscimento etnico, identificando una persona come appartenente a un popolo indigeno o a un gruppo di afrodiscendenti.

«L’esigenza di una svolta narrativa è solo l’inizio di un lungo viaggio verso la piena attuazione dei diritti indigeni, – ha scritto ancora la Vegh Weis -. L’Argentina ha già sperimentato, dopo l’ultima dittatura, quanto sia cruciale questa svolta narrativa per chiarire il ruolo degli oppressori, dei sopravvissuti, delle vittime e dei familiari. La sfida è ora pendente in relazione a una narrativa chiara sui popoli indigeni. Potrà una Conadep indigena fare questo lavoro?».

Alle tante leggi esistenti si aggiungerebbe così un nuovo elemento per il riconoscimento storico dei popoli indigeni. Perché sia finalmente chiaro a tutti che l’Argentina è un paese plurietnico e multiculturale di cui andare fieri.

José Auletta

Protesta indigena contro le miniere. Tra la gente, le bandiere dei Mapuche. Foto Endepa.

 




Consiglio indigeno di Roraima: «Per la terra e per il rispetto»


Il Consiglio indigeno di Roraima (Cir) riunisce nove etnie. In Brasile, è considerato una delle organizzazioni indigene più attive. Come testimonia anche la vittoria ottenuta per il riconoscimento e la difesa della terra indigena Raposa Serra do Sol. Abbiamo incontrato il coordinatore generale del Cir, Enock Batista Tenente, un Taurepang di 29 anni.

Testo e foto di Paolo Moiola

Boa Vista. Sul murale, al centro del disegno con le piume colorate, è posta la sigla Cir. Sta per «Conselho indígena de Roraima» (Consiglio indigeno di Roraima), la principale organizzazione indigena dello stato amazzonico brasiliano. Formalmente essa esiste dal 1990, ma in realtà è operativa dagli anni Settanta.

Il Cir ha come obiettivo la lotta per garantire i diritti e l’autonomia dei popoli indigeni di Roraima, uno stato che conta (almeno) nove etnie: Macuxi, Wapichana, Ingarikó, Patamona, Sapará, Taurepang, Wai-Wai, Yanomami e Yekuana.

Questa varietà di soggetti fa sì che la struttura organizzativa del Cir sia improntata alla massima partecipazione. Ogni anno si tiene una grande assemblea generale che costituisce il maggiore organo deliberativo. L’ultima – la 48ª – si è svolta al lago Caracaranã, nella terra indigena Raposa Serra do Sol, dall’11 al 15 marzo.

Per parlare del consiglio indigeno e dell’attuale situazione politica brasiliana, nella sede del Cir, a Boa Vista, capitale di Roraima, incontriamo Enock Batista Tenente, che da due anni riveste il ruolo di coordinatore generale, in questo aiutato dal vice Edinho Batista de Sousa e da Maria Betania Mota de Jesus, in rappresentanza del movimento delle donne indigene.

Enock, 29 anni e 3 figli piccoli, ci accoglie nel suo ufficio «da bianco» indossando però un copricapo di piume colorate.

«Senza terra non esistiamo»

Enock, a chi è venuta l’idea del Conselho Indígena de Roraima?

«Il Cir è stato creato dai nostri leader con una partecipazione importantissima della Chiesa cattolica. Oggi esso coordina 237 comunità in 11 regioni dello stato di Roraima».

Quali etnie sono rappresentate nell’attuale coordinamento generale del Cir?

«La giunta è composta dal sottoscritto Taurepang e da due Macuxi, Edinho e Maria Betania».

Taurepang e Macuxi, dunque. L’organizzazione però abbraccia altri gruppi indigeni.

«Certo. Il Cir raggruppa nove diverse etnie sotto una sola bandiera e con tre obiettivi: terra, educazione e salute. È una lotta dura visto che l’attuale congiuntura politica non è favorevole per i popoli indigeni. Anche se, per la prima volta, abbiamo eletto una deputata federale, Joênia Wapichana».

La terra rimane sempre la vostra priorità?

«Il nostro territorio è per noi il bene più prezioso. Senza territorio non possiamo avere né salute, né educazione. In una parola non esistiamo. Per questo siamo sempre pronti a dare la vita per la terra».

In che modo? Percorrendo quale strada?

«Non tirando le frecce, perché occorre sempre rispettare la vita del prossimo, sia esso un indigeno o un non indigeno.

Noi chiediamo che ci vengano assicurati i diritti garantiti nella Costituzione federale del 1988. Abbiamo persone preparate in legge per aiutarci in questo.

Noi non abbiamo invaso la terra di nessuno: chiediamo soltanto rispetto. Di essere rispettati nel diritto a vivere nel nostro territorio. Di essere rispettati come società, come esseri umani e come indigeni. E qui intendo dire Macuxi, Wapichana, Ingarikó, Patamona, Sapará, Taurepang, Wai-Wai, Yanomami, Yekuana».

È corretto dire che la diversità indigena è anche una diversità tra indigeni?

«Il Cir non ha una sola identità. Per questo è stato capace di unire le identità di nove popoli differenti. Perché non va dimenticato che noi siamo differenti: un Taurepang è differente da un Macuxi, un Macuxi è differente da Wapichana e così via. Eppure questa organizzazione è capace di unirci tutti in un luogo, in una sala per discutere della nostra vita. Il Cir è un’università e un tribunale: è tutto per noi».

Da fuori, cioè dal mondo non indigeno, vengono i garimpeiros e le grandi opere. Che ne pensa il Cir?

«Che non vogliamo i grandi progetti che distruggono la natura. Non vogliamo estrazioni minerarie nei nostri territori. Se il grande Creatore ha messo il petrolio sotto la terra è per lasciarlo lì».

Vi accusano di non volere il progresso, la civiltà, il futuro.

«I governanti ci dicono che siamo arretrati. Ma costoro non si sono mai seduti con noi per chiederci cosa vogliamo come società, popoli e individui. Noi non chiediamo cose che vengano da fuori: non ci occorrono quelle per essere felici. Vogliamo valorizzare ciò che esiste nelle nostre comunità: la nostra cucina, le nostra medicina, i nostri canti, le nostre danze. Soltanto questo e nulla di più».

Ci dica di Joênia.

«Nella elezione della dottoressa Joênia si è riflessa la nostra forza e unità. È un risultato ottenuto con molta lotta, ma soprattutto senza comprare voti e senza corruzione. Lei è la nostra deputata. La sua elezione è una cosa molto buona per noi».

Come la quasi totalità dei leader indigeni, anche lei pare avere una pessima opinione dei politici brasiliani. Adesso anche Joênia è un rappresentante politico.

«La tratteremo non come una politica, ma come una donna indigena. Lei non ha il profilo, la parola o i sorrisi di un politico. I politici hanno ingannato non soltanto la società indigena ma anche quella bianca. Per questo chiediamo a Joênia di comportarsi come un leader indigeno e non come un leader politico. Lei è nata nel movimento indigeno. È stata la prima donna indigena a difenderci nel Supremo tribunale federale nel giudizio sulla Raposa Serra do Sol. Ha appena vinto lo stesso premio che ricevette Martin Luther King» (Enock si riferisce allo United Nations prize in the field of human rights assegnatole il 25 ottobre 2018, ndr).

Enock, con un presidente come Bolsonaro e un Congresso così anti indigeno Joênia non avrà vita facile.

«Joênia è figlia del movimento indigeno di Roraima. E proprio per questo la gente crede nel suo lavoro. Lei non sarà mai sola. Perché noi siamo Joênia».

Paolo Moiola


Joênia Batista de Carvalho Wapichana

Donna, indigena, deputata

© Carlo Zacquini

Molti anni dopo Mario Juruna Xavante, un altro indigeno entra nel congresso brasilano. E, per la prima volta, è una donna.

Mario Juruna

Nata nel 1973, l’avvocata Joênia Batista de Carvalho detiene una serie di primati. Appartenente al popolo Wapichana, nel 1997 è la prima indigena del paese a ottenere la laurea in diritto (prima all’Università federale di Roraima e, anni dopo, anche all’Università dell’Arizona, negli Stati Uniti). Nel 2008 è la prima a difendere un caso davanti al Supremo tribunale federale, il massimo organo giudiziale del Brasile.

Nel 2018 si presenta alle elezioni per il congresso federale con la «Rede sustentabilidade», il partito fondato dalla candidata presidenziale ed ex ministra dell’ambiente Marina Silva. Nonostante lo scarso successo del suo partito, Joênia Wapichana ottiene 8.267 voti, un numero sufficiente per diventare la prima deputata indigena nella storia del Brasile. In precedenza, a Brasilia era arrivato solamente un indigeno: Mario Juruna del popolo Xavante, in carica dal 1982 al 1986.

Per la neodeputata il 2018 si conclude in bellezza: il 25 di ottobre le viene infatti assegnato dalle Nazioni Unite il prestigioso premio per i diritti umani (United Nations prize in the field of human rights), per la sua attività in difesa delle comunità indigene.

Joênia proviene dalla Terra indigena Raposa Serra do Sol, omologata dal presidente Lula nel 2005. Per oltre dieci anni il suo lavoro di responsabile legale del Conselho indígena de Roraima (Cir) ha riguardato la difesa della demarcazione e l’uscita da quei territori dei fazendeiros (arrozeiros, produttori di riso, per la precisione). Oggi si ritrova a difendere quella conquista dalla volontà del nuovo presidente Bolsonaro e del nuovo Congresso di rimettere tutto in discussione.

Paolo Moiola


Governo Bolsonaro, popoli indigeni e Cimi

«Il maggior latifondista del paese è l’indigeno»

In tutte le sedi le posizioni circa i diritti indigeni appaiono inconciliabili.

All’apertura della 40a sessione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (Ginevra, 25 febbraio 2019) Damares Alves, ministra brasiliana della donna, della famiglia e dei diritti umani, ha affermato che i popoli indigeni avranno «uno sguardo speciale» («um olhar especial») dal governo Bolsonaro. Volendo apparire credibile la ministra ha precisato di essere «madre socioaffettiva di una giovane indigena dell’etnia kamayurá».

Le affermazioni della ministra sono state molto criticate dalla delegazione del Consiglio indigenista missionario (Cimi) durante il suo incontro con Michelle Bachelet, alta commissaria dell’Onu per i diritti umani. «Sottolineiamo che le popolazioni indigene non vogliono una relazione socioaffettiva con lo stato brasiliano. I popoli indigeni non vogliono essere portati a casa alla fine della giornata. Vogliono una relazione (con lo stato) che riguardi i loro diritti», ha detto il responsabile degli affari internazionali del Cimi, Flávio Vicente Machado.

L’onorevole Ms. Damares Regina Alves, Ministero per le Donne, la Famiglia e i Diritti Umani | © UN/Violaine Martin

Il clima che si respira con il governo di Jair Bolsonaro è ben esemplificato da quanto detto da un funzionario della ministra dell’agricoltura Tereza Cristina, proprietaria terriera ed ex presidente del gruppo parlamentare degli agricoltori e allevatori (Frente parlamentar agropecuária). Il suo segretario speciale per le questioni fondiarie, Luiz Antonio Nabhan Garcia, latifondista e presidente dell’Unione democratica ruralista (l’associazione dei grandi proprietari terrieri del Brasile), ha affermato che «il più grande latifondista del paese è l’indigeno» («o maior latifundiário do país é o índio», 22 febbraio 2019).

Potrebbe essere una semplice opinione se non fosse che il ministero dell’agricoltura ha ricevuto dal presidente Bolsonaro (con Medida provisória n. 870 del 1 gennaio 2019) l’incarico per «l’identificazione, la delimitazione, la demarcazione e le registrazioni di terre tradizionalmente occupate da popolazioni indigene». Pertanto, quella di Nabhan Garcia è da considerarsi non tanto un’affermazione personale quanto piuttosto una vera e propria minaccia ai diritti costituzionali dei popoli indigeni del Brasile.

Paolo Moiola