L’Amazzonia, invasa e avvelenata


Come negli altri paesi, anche in Venezuela nulla sembra fermare la distruzione dell’Amazzonia per mano dell’uomo. È l’attività mineraria illegale a produrre i danni maggiori. Il governo Maduro sembra non avere né la forza né la volontà per cambiare la situazione. Il prezzo di quest’anarchia lo pagano l’ambiente, i popoli indigeni e un esercito di disperati.

Il buco è una voragine gigantesca, profondissima e larga. Una decina di uomini, legati alle corde ma vestiti in modo del tutto inadeguato, sono abbarbicati alle pareti di terra rossa e lavorano di pala per scavare dei gradoni. L’intenzione è di costruire una sorta di via d’accesso alla voragine: non sia mai detto che la natura risulti vincitrice.

La voragine è quello che resta della miniera d’oro a cielo aperto conosciuta con il nome di Bulla Loca («giacimento matto»).

Siamo in località La Paragua, stato Bolívar, Amazzonia venezuelana (conosciuta anche come Guayana). Lo scorso 20 febbraio la miniera è franata facendo una trentina di morti tra le centinaia di minatori che vi lavoravano. Minatori illegali di una miniera illegale come moltissime altre. E gli incidenti sul lavoro sono una tragica consuetudine, come quello che il 3 giugno 2023 ha fatto 12 morti a El Callao, sempre nello stato di Bolívar. El Callao è un villaggio la cui vita gira attorno all’estrazione dell’oro: la maggioranza dei suoi 30mila abitanti partecipa direttamente o indirettamente a questa attività. La località è salita alla ribalta delle cronache anche per l’impiego di bambini (addirittura di soli sei anni) nelle sue miniere.

Virgilio Trujillo Arana, indigeno Uwottüja di 38 anni, attivista ambientale, assassinato a Puerto Ayacucho a fine giugno 2022. Foto Orpia-Coica.

Un’invasione senza fine

Dell’Amazzonia venezuelana si parla poco. Eppure, è importante tanto quanto le Amazzonie più conosciute: quelle del Brasile, del Perù, dell’Ecuador, per esempio. Purtroppo, è anche afflitta dai loro stessi problemi: oltre che dalle attività minerarie, da deforestazione, incendi, inquinamento da mercurio, diffusione della malaria, violazione dei diritti dei popoli indigeni residenti, sfruttamento del lavoro minorile, presenza di gruppi armati.

La regione amazzonica del Venezuela si estende nel Sud del paese attorno al corso del fiume Orinoco (inclusi i suoi affluenti, escluso il delta) e copre quasi interamente gli stati Bolívar e Amazonas più alcune porzioni di altri due (Delta Amacuro e Apure) per un totale di circa 490mila chilometri quadrati (circa metà del Paese, una volta e mezzo la superficie dell’Italia). È abitata da oltre venti popoli indigeni. Secondo il censimento del 2011, gli indigeni sarebbero 54mila in Bolívar e 76mila in Amazonas. Le etnie principali sono i Pemón (30mila), i Uwottüja o Piaroa (20mila), gli Yanomami (15mila) e i Kariña (10mila).

La corsa all’oro uccide

La sfortuna vuole che nel sottosuolo dell’Amazzonia venezuelana si trovino minerali come ferro, bauxite e rame, ma soprattutto oro, diamanti e coltan. Sono questi ultimi tre ad aver scatenato una vera corsa all’attività mineraria, soprattutto quella illegale. Non da oggi, in verità. Da resoconti e cronache dei missionari Cappuccini e dei funzionari dell’epoca, si sa che l’oro venezuelano veniva estratto – con il lavoro forzato degli indigeni – già prima del 1800, e portato in Spagna. Oggi tutti parlano di una presenza di minatori illegali in crescita continua (le stime variano da 50mila a 300mila persone). Una parte importante sono garimpeiros (minatori) brasiliani, soprattutto nell’Alto Orinoco-Casiquiare, straordinaria regione che ospita la Riserva della biosfera dell’Unesco e il Parco nazionale Parima Tapirapeco. Tra l’altro proprio ai minatori brasiliani si deve il massacro di Haximú compiuto nel giugno del 1993 ai danni di un gruppo di Yanomami (anziani, donne e anche bambini) nativi del luogo.

Secondo un rapporto dell’organizzazione ambientalista «Sos Orinoco», molti garimpeiros entrano nella zona con elicotteri e piccoli aerei e – ultima novità – hanno iniziato a utilizzare droni per filmare il territorio. Gli invasori distruggono la foresta per costruire piste di atterraggio e basi operative. In cambio della complicità, la Guardia nazionale venezuelana riceverebbe una parte dei profitti.

«Horonami», l’organizzazione degli Yanomami del Venezuela (162 comunità), ha denunciato che membri della sua popolazione sono stati costretti a lavorare come schiavi dai garimpeiros, che, inoltre, hanno violentato e prostituito donne e ucciso membri delle comunità. Nella loro strategia per arrivare al controllo del territorio rientrano i regali alle comunità indigene: cibo, armi, fucili, machete. Alla gravità della situazione si aggiunge l’indifferenza dello Stato centrale e la complicità dei suoi organi locali, che può anche trasformarsi in violenza diretta.

Nel mese di marzo 2022 c’è stata una disputa tra i militari della base area B7 di Parima e membri della locale comunità indigena, che chiedevano l’accesso al servizio internet. L’alterco si è concluso con la morte di quattro Yanomami. Il tragico episodio riflette tensioni e problemi di una difficile convivenza tra indigeni e non indigeni. A due anni di distanza, la richiesta di giustizia da parte della comunità non ha trovato ancora alcuna risposta da parte delle autorità venezuelane.

Nella vasta regione amazzonica la violenza non è un’eccezione, ma una consuetudine sempre più diffusa. A fine giugno 2022, Virgilio Trujillo Arana, un indigeno Uwottüja di 38 anni, è stato ammazzato con tre spari alla testa a Puerto Ayacucho, capitale dello stato di Amazonas. L’uomo era un attivista ambientale. Nel municipio di Autana era, infatti, coordinatore di un gruppo di difesa indigeno contro le invasioni territoriali e le attività minerarie illegali.

Secondo l’Observatorio para la defensa de la vida (Odevida), «tra il 2013 e il 2021, 32 leader indigeni e ambientalisti sono stati assassinati, 21 dei quali da sicari minerari o membri di organizzazioni di guerriglia colombiane, e 11 da membri delle Forze armate nazionali bolivariane (Fanb)».

Tuttavia, non tutti i popoli indigeni dell’Amazzonia venezuelana affrontano il problema delle minerie allo stesso modo.

I Pemónes, il maggiore gruppo indigeno della regione, vivono nei territori di Sud Est dello stato Bolívar, a ridosso del confine con Brasile e Guyana. Il loro territorio è annoverato tra i più ricchi di oro al mondo e per questo estremamente attrattivo. Già un certo numero di indigeni lavora nelle miniere aurifere, altri chiedono al governo centrale di porre fine allo sfruttamento illegale del loro territorio e di istituire miniere legali sotto controllo Pemón.

Un’immagine dall’alto dell’accampamento cresciuto accanto alla miniera illegale «Bulla Loca» (La Paragua, stato Bolívar), teatro di un tragico incidente lo scorso 20 febbraio. Screenshot da filmato TeleSur.

Dall’anarchia all’«Amo»

Dopo la scomparsa di Hugo Chávez (2013), con la presidenza di Nicolás Maduro il Venezuela è precipitato in una crisi infinita. Anche per far fronte alla perdita di gran parte delle entrate petrolifere, nel 2016 il governo di Caracas ha varato il progetto «Arco minero del Orinoco», noto con l’acronimo di Amo. L’Arco minerario occupa un’area di 111.843 chilometri quadrati di territorio nel Nord e nell’Est dello stato di Bolívar, più grande del Portogallo o di Cuba, 12% della superficie del Venezuela.

Sul sito del ministero (dal nome altisonante: Ministerio del poder popular de desarrollo minero ecológico), gli obiettivi propagandati sono «pace, protezione ambientale e prosperità economica» da raggiungere attraverso il «controllo della catena produttiva mineraria» con «una delimitazione delle aree minerarie e la protezione delle zone sacre ancestrali».

A questa narrazione edificante si contrappone una realtà molto diversa. Come riassume «Sos Orinoco»: «I risultati sono stati catastrofici sia per la regione che per la sua popolazione e gli ecosistemi. Avrà effetti tragici e duraturi – forse irreversibili – in Venezuela e oltre i suoi confini». Se è vero che queste critiche sono fatte da un’organizzazione antigovernativa, è altrettanto vero che altri arrivano alle stesse identiche conclusioni. In particolare, Wataniba, gruppo socioambientale venezuelano, la Chiesa cattolica e la Repam (Red eclesial pan amazónica).

A oggi, nell’Amazzonia venezuelana vige l’anarchia con le mafie e i gruppi armati illegali a dettare legge. Gli investitori stranieri millantati da Maduro («35 paesi sono interessati», aveva assicurato il presidente) sono rimasti lontani. Anche la Cina – specialista in business strategici – e sempre privilegiata dal governo di Caracas è rimasta cauta. In compenso, la distruzione ambientale e l’avvelenamento da mercurio si sono diffusi andando ben oltre i confini teorici dell’Arco minero.

Oggi tutti i parchi e le aree protette dell’Amazzonia venezuelana sono sotto attacco. Come il Parque nacional cerro Yapacana (Amazonas) che, a fine 2023, è stato oggetto di una propagandata operazione – nota come Operación Autana – da parte delle Forze armate bolivariane con questi risultati ufficiali: 86 miniere sotterranee chiuse, 241 imbarcazioni sequestrate, 4.450 villaggi improvvisati distrutti, 14mila persone espulse. Tuttavia, come fossero vasi comunicanti, liberata una zona, il problema si ripresenta in un’altra, passando – ad esempio – dal Parco Yacapana a quello di Canaima (Bolívar).

Come quasi sempre accade, la ricchezza di un luogo naturale è anche la sua dannazione perché attrae appetiti umani senza limiti ed eserciti di poveri disposti a tutto pur di cambiare la propria esistenza. Succede in tutta l’Amazzonia e quella del Venezuela non fa eccezione.

Paolo Moiola

L’impressionante devastazione ambientale prodotta dall’attività mineraria illegale attorno a La Paragua, stato Bolívar, Amazzonia venezuelana. Screenshot da filmato TeleSur.

 




Gli incendi bruciano anche il nostro futuro


In Italia, ogni anno, migliaia di ettari di aree boschive sono perse a causa del fuoco. Sei incendi su dieci sono di origine dolosa e criminale. In Siberia e Brasile la situazione è ancora peggiore.

Ogni anno, durante il periodo estivo, sono molte le regioni italiane nelle quali vaste aree boschive sono colpite da incendi. E la situazione sta rapidamente peggiorando. Nell’estate 2021, tra le regioni più interessate da incendi ci sono state la Sardegna, la Sicilia e la Calabria, che hanno registrato il maggior numero di danni, ma anche la Campania, la Basilicata, l’Abruzzo, le Marche, il Molise e la Toscana. Secondo il report di Europa Verde Incendi e desertificazioni, in Italia, dall’inizio dello scorso anno, sono bruciati circa 158mila ettari di boschi e di macchia mediterranea e questo ha ovviamente comportato la morte di migliaia di animali selvatici, nonché la perdita di oliveti e di pascoli. Nel 2021 l’Italia ha detenuto in Europa il record estivo d’incendi, che sono cresciuti del 256%, rispetto alla media storica 2008-2020, secondo i dati Effis (European forest fire information system). Secondo la Coldiretti, 6 incendi su 10 sono di origine dolosa.

Meno agricoltori e zero forestali

La situazione è aggravata dalla dismissione di parecchie aziende agricole, quindi dalla cospicua riduzione del numero di agricoltori, che hanno sempre esercitato un’azione di vigilanza e di gestione del patrimonio boschivo, che in Italia rappresenta un terzo della superficie, per un totale di 11,4 milioni di ettari (di cui il 32% fa parte di aree protette).

Un altro colpo alla sorveglianza e alla salvaguardia delle aree boschive in Italia è stato dato dalla riforma Madia del 2016, durante il governo Renzi, che ha riformato il Corpo forestale dello stato, sotto la spinta della spending review e sostanzialmente privatizzato la flotta dei canadair. Purtroppo in Italia, secondo il «Rapporto ecomafie 2020» di Legambiente, gli incendi scoppiano più frequentemente nelle regioni a forte presenza della criminalità organizzata, che spesso colpisce le aree naturalistiche sotto vincolo, come è avvenuto nella riserva dello Zingaro, in provincia di Trapani, nel Metapontino in Basilicata, nella riserva di Punta Aderci e nelle colline intorno a Pescara, nelle aree protette del Lazio, sulla costiera amalfitana, nella Sila e in provincia di Olbia. In Italia, la situazione è aggravata da due fattori: da un lato l’aumento delle temperature e la riduzione delle precipitazioni, che hanno caratterizzato gli ultimi anni con conseguente siccità sulle foreste, che risultano quindi meno resilienti nei confronti degli incendi; dall’altro gli errori nella scelta delle piante nelle attività di forestazione. Talora, infatti, vengono scelte, per la piantumazione di aree verdi, specie che soddisfano solo le ragioni estetiche, ma sono inadatte a resistere all’impatto climatico. Come capitò nel 2017 quando un incendio colpì le pendici del Vesuvio, dove erano stati piantati dei pini, che nulla avevano a che fare con la flora del territorio, cioè la macchia mediterranea, la quale ha una maggiore capacità di resistere alle temperature locali. In Italia, il pericolo d’incendi ha un andamento stagionale legato al fattore climatico, che influenza il grado di umidità della vegetazione, in particolare di quella erbacea del sottobosco.

Ci sono zone dove il pericolo d’incendio è maggiore che in altre. In base all’andamento meteorologico e climatologico, possiamo individuare due periodi di particolare pericolosità: quello estivo per le regioni del Sud e per la Liguria, e quello invernale per le regioni dell’arco alpino, quindi ancora la Liguria, il Piemonte, la Lombardia e il Veneto.

Ci sono, inoltre, diverse situazioni, che possono favorire lo scoppio di incendi boschivi come l’afflusso turistico, il già citato abbandono rurale delle campagne, particolari attività agronomiche e pastorizie, le vendette e le speculazioni. Queste ultime andrebbero sempre e comunque contrastate in base all’art. 9 della legge 1 marzo 1975, n.47, che vieta l’insediamento di qualsiasi tipo di costruzioni nelle zone boschive distrutte o danneggiate dal fuoco, impedendo così che tali zone assumano una diversa destinazione rispetto a quella avuta prima dell’incendio.

Non sempre però gli incendi sono di origine dolosa, seppure correlati alle attività umane. È stato, infatti, osservato che ad un progressivo aumento del numero dei veicoli circolanti e dello sviluppo viario, corrisponde un progressivo aumento degli incendi boschivi. Si è, inoltre, osservato che molti incendi hanno inizio ai bordi di strade e di autostrade. Anche le linee ferroviarie possono essere responsabili dell’innesco di incendi, quando nelle cunette e nelle scarpate c’è dell’erba secca, che può prendere fuoco per le scintille sprigionate dalle ruote dei treni. Da tutto ciò si evince che non solo è necessario ripristinare il Corpo forestale, rafforzando i nuclei investigativi con risorse umane e materiali adeguate, ma è indispensabile formare personale, che sia in grado di prevenire gli incendi con le tecniche più avanzate, tra cui quella degli incendi volontari controllati («fuochi prescritti»).

Nel resto del mondo

Se la situazione italiana quest’anno è stata drammatica, la mappa elaborata dal Fire information for resource management system della Nasa ci mostra che le fiamme hanno devastato i territori di molti stati nel mondo, soprattutto laddove le temperature estive sono state molto alte a lungo. Nel Sud dell’Europa, oltre all’Italia, sono state colpite la Grecia, la Turchia e la Spagna. Nel Nord Europa, la Finlandia e nell’Europa nord orientale, vaste regioni della Russia meridionale. Oltre oceano sono state interessate da incendi ampie zone del Nord e del Sud America. Nella zona centro meridionale dell’Africa, gli Stati più colpiti sono Zambia, Angola, Malawi e Madagascar. Le fiamme hanno inoltre colpito la penisola arabica e in Asia, le coste dell’India, la Siberia, la Cina e l’Indonesia.

In Siberia, il bilancio degli incendi da cui è stata colpita quest’anno, complici le insolite ed elevatissime temperature (intorno ai 39°C), che hanno interessato per giorni questa immensa regione russa, è superiore a quello disastroso del 2012, in cui aveva perso 181.100 Km2, infatti a metà settembre è stata registrata una perdita di 181.300 Km2 di foresta, ma se si considera che le fiamme hanno colpito anche praterie, canneti e tundra, l’estensione dei fuochi potrebbe essere superiore a 300mila Km2 (cioè un territorio di poco inferiore all’Italia). Gli incendi che colpiscono la taiga siberiana, cioè la più grande regione boschiva del mondo (comprendente quasi un quarto delle foreste del pianeta), sono estremamente dannosi perché non solo rilasciano enormi quantità di anidride carbonica (immagazzinata sia nella vegetazione, che nella torba del terreno) in atmosfera, ma riescono a sopravvivere all’inverno continuando a bruciare nel sottosuolo. Essi, pertanto, restano invisibili fino al rialzo delle temperature, pronti a tornare poi in superficie durante la stagione estiva. Il sistema di monitoraggio satellitare europeo Copernicus ha rilevato una quantità di 970 Mega tonnellate (Mt) di CO2 immessa nell’atmosfera tra giugno e agosto 2021 dovuta solo agli incendi siberiani. Tale quantità aumenta a 1.258 Mt a luglio e 1.384,6 Mt ad agosto, se si considerano le immissioni di CO2 dovute agli incendi, in tutto l’emisfero boreale.

Se in quest’ultimo la maggior parte degli incendi boschivi è legata a incuria, combustione di rifiuti, eventi accidentali, incidenti industriali e talvolta dolo, nelle regioni tropicali e subtropicali, gli incendi sono appiccati per lo più intenzionalmente con lo scopo di cambiare la destinazione d’uso dei terreni, che possono essere così utilizzati per la coltivazione e gli allevamenti intensivi.

Il decadimento dell’amazzonia

È evidente che il cambiamento climatico, con l’innalzamento delle temperature per lunghi periodi dell’anno, favorisce l’attecchimento degli incendi boschivi e la loro propagazione, ma la CO2 rilasciata in atmosfera dai roghi è essa stessa causa dell’innalzamento globale della temperatura, pertanto si instaura un circolo vizioso. Si stima che ogni anno gli incendi delle foreste immettano in atmosfera una quantità di CO2 equivalente a quella immessa dall’Unione europea e che vi siano circa 340mila morti premature causate da problemi respiratori e cardiovascolari attribuiti al fumo degli incendi.

Se da un lato la perdita di enormi quantità di foreste è dovuta agli incendi, dall’altro essa è legata al disboscamento illegale causato dall’agricoltura commerciale e dalla richiesta di legname. Secondo il rapporto Forest Trends 2021, il Brasile è il paese maggiormente responsabile di disboscamento illegale, insieme al Congo e all’Indonesia. Questi tre paesi, insieme, rappresentano il 50% del global logging (termine anglosassone che accorpa il taglio e il trasporto del legno). A sua volta, la Cina è responsabile del disboscamento illegale della taiga siberiana, essendo il più grande importatore di legname al mondo e avendo vietato il disboscamento delle proprie foreste.

Si stima che, tra il 2013 e il 2019, quasi 2/3 delle perdite delle foreste tropicali sia stata causata dall’agricoltura commerciale e che 3/4 della conversione agricola dei terreni sia avvenuta illegalmente.

Secondo i dati della Ong brasiliana Imazon, tra agosto 2020 e luglio 2021, il disboscamento dell’Amazzonia ha raggiunto 10.476 Km2, cioè una superficie grande il doppio di quella della provincia di Roma. L’ecosistema forestale amazzonico sta versando in condizioni critiche con 10mila specie dichiarate a rischio. Inoltre, con il 35% della superficie disboscata o degradata, uno studio decennale è arrivato alla conclusione che la foresta attualmente emette più CO2 di quanta ne assorba, per cui non può più essere considerata il polmone verde della terra.

Le promesse della Cop26

Durante la conferenza sul clima dell’Onu, la Cop26 di Glasgow (cfr. dossier in questo stesso numero), oltre 100 paesi hanno sottoscritto una dichiarazione sulle foreste e sull’uso del suolo, che dovrebbe limitare e invertire la deforestazione entro il 2030.

In pratica 114 paesi, che detengono insieme l’85% delle foreste mondiali, si sono impegnati a mettere a disposizione circa 16,5 miliardi di euro, tra fondi pubblici e privati, per il recupero dei terreni danneggiati, per la gestione degli incendi e per gli aiuti alle comunità che vivono in questi ambienti. La prima criticità di questo accordo è rappresentata dal fatto che i paesi partecipanti hanno avuto una richiesta, non un obbligo, a «rivedere e a rafforzare gli obiettivi sul clima al 2030 nei loro contributi nazionali entro la fine del 2022 di quanto è necessario per allinearli con l’obiettivo di temperatura dell’Accordo di Parigi, tenendo in considerazione le diverse circostanze nazionali», come recita il punto 29 del patto sul clima di Glasgow. Questo ha permesso ad Australia e Nuova Zelanda di affermare che non presenteranno contributi nazionali volontari prima della Cop27 del prossimo anno, perché si ritengono già allineate. Un’altra criticità emersa da Glasgow è il ruolo della piantagione di nuovi alberi (l’Unione europea si è impegnata a piantare 3 miliardi di piante entro il 2030), unitamente al contrasto alla deforestazione, nella lotta al cambiamento climatico. Di per sé, la piantagione di nuovi alberi sembra una buona soluzione, ma non può essere considerata fondamentale per la lotta al cambiamento climatico perché prima che, in un terreno distrutto da un incendio, essa sia in grado di ricostituire un bosco, devono passare almeno 15 anni, troppi per i danni all’ambiente e all’economia delle popolazioni locali.

È molto più importante perseguire politiche di prevenzione degli incendi e del disboscamento illegale, così come la lotta alla criminalità organizzata, piuttosto che correre ai ripari a cose fatte. È altrettanto importante un’azione di educazione delle popolazioni alla conoscenza e alla salvaguardia dei boschi e delle foreste, soprattutto perché le piante, con la loro organizzazione, hanno molto da insegnarci. Ogni singola pianta è infatti costituita da una rete di moduli e una foresta è una rete di reti, cioè un superorganismo. Dall’unione di tante unità emergono caratteristiche, che non esistono nel singolo individuo, ma permettono di superare le difficoltà presentate dall’ambiente. Le piante quindi ci insegnano la cooperazione, il senso di comunità e di rete, cioè che non vince il più forte, ma chi sa cooperare.

Rosanna Novara Topino


Una difesa naturale

Piante fuocoresilienti

Può sembrare strano l’utilizzo del fuoco per controllare gli incendi. Si tratta di una tecnica già utilizzata negli Stati Uniti dai primi anni del secolo scorso. Essa mira a sfruttare la capacità di resistenza di alcune specie di piante nei confronti del fuoco. Pertanto, la loro presenza può salvaguardare il bosco da un incendio più distruttivo. Un esempio è dato dal comportamento del Pinus palustris, che allo stadio giovanile è poco più di un ciuffo di aghi verdi su un esile fusto, che rimane a lungo in questo stato, se circondato e sovrastato da erbe e arbusti, che lo adombrano e gli tolgono spazio. Quando però un incendio colpisce il suo territorio, con l’eliminazione delle piante concorrenti, questo tipo di pino cresce molto rapidamente, diventando in breve tempo una delle piante più alte del bosco. Come ci riesce? Grazie alla protezione della propria gemma apicale con un mazzetto di aghi lunghi circa 20 centimetri, che bruciano se attaccati dal fuoco, lasciando la gemma intatta alla loro base. Anche il cisto e il pino di Aleppo utilizzano il fuoco per svilupparsi. Lo stesso discorso vale per la quercia da sughero, la cui spessa corteccia serve proprio a proteggere la pianta dal fuoco, oppure per i castagni, i corbezzoli e le robinie, tutte piante capaci di sopravvivere a un incendio emettendo nuovi fusti dai ceppi residui o dalle radici. La tecnica del fuoco prescritto sfrutta tutto questo: serve a selezionare piante resistenti e autoctone e nel contempo a eliminare il carico di combustibile presente nel territorio, in modo che un incendio incontrollato possa raggiungere le chiome degli alberi. È chiaro che, per poterla applicare, sono necessarie condizioni meteorologiche favorevoli (vento e umidità) e uno studio accurato del territorio. Nei terreni dove da lungo tempo manca un incendio, può verificarsi il cosiddetto «paradosso del fuoco» cioè l’accumulo di arbusti, legno e foglie secche diventa un pericoloso combustibile, che per un evento accidentale (fulmini, forte siccità, azioni umane) può dare origine ad un incendio devastante e incontrollabile. Per evitare tutto questo, se non si vuole ricorrere alla tecnica del fuoco prescritto, a cui non tutti sono favorevoli perché comunque essa può alterare la flora e la fauna del sottobosco, è necessario ricorrere a un’asportazione meccanica dei carichi d’incendio e quindi un controllo costante del patrimonio boschivo, che da anni in Italia è abbandonato a sé stesso. (RNT)




Carta versus digitale (con molte sorprese)


La carta è un prodotto che genera un forte impatto sull’ambiente. È meglio scegliere il digitale? Non è detto. Per valutare l’impronta ecologica di un dispositivo elettronico occorre infatti considerare il suo intero ciclo di vita.

Nel tentativo di ridurre la nostra impronta ecologica, talvolta rischiamo di fare delle scelte sbagliate a causa di una visione incompleta delle questioni ambientali. Uno dei luoghi comuni più frequenti è che leggere libri o riviste in formato digitale sia un modo di salvaguardare l’ambiente, perché in tal modo si riducono il consumo di legname e di acqua e le emissioni di gas a effetto serra. Ma è proprio così? Per rispondere a questa domanda è necessario confrontare l’intero ciclo di vita di libri e riviste cartacee da un lato e delle tecnologie digitali utilizzate nella trasmissione, ricezione ed elaborazione di dati (Ict) dall’altro. Il metodo da utilizzare è l’Lca (Life cycle assessment o analisi del ciclo di vita), che ci dà un’esatta valutazione dell’impatto ambientale di un prodotto o di un servizio perché prende in considerazione tutte le fasi del ciclo di vita che lo riguardano, partendo dall’estrazione delle materie prime necessarie alla sua produzione fino allo smaltimento del prodotto finale.

Un triciclo carico di carta da riciclare in Vietnam. Foto Falco – Pixabay.

Il ciclo della carta

Per quanto riguarda la carta, essa, per essere prodotta, richiede il legname. Per fortuna, una quantità sempre maggiore di carta viene recuperata tramite la raccolta differenziata. Il riciclo però non è possibile all’infinito, perché ogni volta la lunghezza delle fibre, di cui è costituita la carta, si riduce un po’ (e questo è il motivo per cui anche la carta riciclata deve contenere una minima quantità di fibre nuove).

La produzione della carta, tuttavia è responsabile della deforestazione solo in minima parte. Secondo il Wwf, infatti, la deforestazione e il grave degrado delle foreste naturali sono dovuti a molteplici fattori, tra cui l’agricoltura intensiva, il disboscamento non sostenibile, l’attività mineraria, la costruzione di nuove strade e l’aumento del numero e dell’intensità degli incendi.

Del legname raccolto, il 50% viene usato per produrre energia, il 28% per le costruzioni, mentre per la produzione di carta viene impiegato circa il 13%. Nel mondo, l’area con certificazione di gestione forestale è passata da 18 milioni di ettari nel 2000 a 438 milioni nel 2014. Mentre le foreste naturali rappresentano il 93% dell’area boschiva mondiale, quelle piantate sono il 7%. Anche queste ultime, come le naturali, possono assorbire CO2 dall’atmosfera. La carta, come derivato del legno, rappresenta un magazzino di CO2 per tutto il suo ciclo vitale.

Per quanto riguarda le emissioni di gas a effetto serra, quelle dell’industria della carta si sono ridotte del 22% tra il 2005 e il 2013, e attualmente rappresentano l’1% del totale di quelle dell’industria manifatturiera (che rappresentano a loro volta il 29% delle emissioni di gas climalteranti a livello mondiale), contro il 6% dell’industria dell’estrazione e lavorazione dei minerali non metallici, del 4,8% di quella del ferro e dell’acciaio, del 4,3% del settore petrolchimico, dell’1,4% di quella dei metalli non ferrosi, dell’1,1% della produzione del cibo e del tabacco e del 10,5% di altri tipi d’industrie.

Bisogna comunque considerare che alcuni tipi di carta, come quella dei giornali e dei materiali da imballaggio sono costituiti completamente da fibre riciclate. In Europa, nel 2020, la raccolta differenziata della carta si è attestata intorno all’81% con una lieve flessione di 3 punti percentuali dovuta all’emergenza sanitaria da Covid-19. Nello stesso anno, in Italia, la raccolta è stata del 70%, pari a 9,6 milioni di tonnellate.

Naturalmente, quando si considerano i consumi e le emissioni per produrre libri, giornali e riviste cartacei, bisogna tenere conto che per la produzione della carta sono necessari dei procedimenti che comportano sia l’utilizzo che l’inquinamento dell’acqua. Per quanto riguarda l’utilizzo di acqua necessario a produrre una tonnellata di carta, le significative innovazioni introdotte negli ultimi anni dall’industria cartaria italiana, per ottimizzare i consumi, hanno permesso di arrivare a un consumo attuale di soli 26 metri cubi di acqua dolce per tonnellata, contro i 100 della fine degli anni ‘70. Inoltre solo il 10% dell’acqua utilizzata nell’intero processo produttivo è costituito da acqua fresca, mentre il 90% è acqua di riciclo.

Tra i maggiori inquinanti rilasciati con le acque reflue dall’industria cartaria c’è il mercurio, che viene trasformato dai microrganismi degli strati superficiali dei sedimenti marini in metilmercurio, una forma estremamente tossica del metallo, che entra nella catena alimentare attraverso il plancton, percorrendola interamente fino ai pesci di grossa taglia, i grandi predatori, in cui si concentra in maggiore quantità, a causa del processo di biomagnificazione.

Anche gli inchiostri utilizzati per la stampa contribuiscono all’inquinamento sia delle acque, durante la loro produzione, che dell’aria, durante il loro uso, per via dei solventi in essi presenti.

Bisogna inoltre considerare il trasporto sia della carta alle case editrici, che dei prodotti stampati ai punti di vendita o a casa dei lettori, nel caso della distribuzione attraverso le grandi piattaforme di vendita on line.

Il corretto smaltimento dei cellulari (e dei rifiuti elettronici in generale) è possibile ma costoso. Foto Fairphone.

L’impronta digitale

La lettura di testi per mezzo di un dispositivo elettronico come un e-reader, un tablet o un pc sembrerebbe essere molto più «leggera» per l’ambiente, rispetto alla carta stampata, perché un dispositivo può contenere migliaia di testi, questi si possono scaricare in un attimo e non devono essere trasportati, quindi apparentemente non c’è inquinamento. Nemmeno per spostarsi con un mezzo di trasporto per il loro acquisto, dal momento che esso può essere effettuato su internet. Inoltre i testi sono dematerializzati, quindi non si contribuisce alla deforestazione. Apparentemente la lettura dei testi digitali sembra rivoluzionaria per l’ambiente, ma un attento esame dimostra che la sua impronta ecologica è piuttosto elevata e non si discosta da quella della carta stampata. Questo perché non possiamo considerare solo i consumi del nostro dispositivo elettronico, ma dobbiamo innanzitutto considerare i consumi e gli scarti relativi al suo intero ciclo di vita e quelli di tutta la tecnologia necessaria per fare arrivare i testi fino al nostro dispositivo. In pratica, dobbiamo tenere conto delle materie prime utilizzate per la costruzione del nostro dispositivo, tra cui le terre rare, come il coltan, estratte con procedimenti e in luoghi rischiosi per i lavoratori, soprattutto perché spesso teatro di guerre per la loro appropriazione. Dobbiamo, inoltre, considerare il quantitativo di energia necessario sia per la sua costruzione, che per il suo trasporto fino a noi da luoghi lontanissimi e che per tale trasporto sono necessari mezzi ad altissimo consumo energetico come navi mercantili o aerei e autotreni. Certo non possiamo comparare il consumo di energia per la costruzione di un dispositivo elettronico con quella per la produzione di un singolo libro o rivista o giornale. Come dicevo prima, il nostro dispositivo può contenere fino a qualche migliaio di libri e, se siamo dei lettori particolarmente assidui, almeno in considerazione di questo fatto, potremmo pensare ad un risparmio energetico con la lettura di testi digitali. Il nostro dispositivo però ha bisogno di corrente per funzionare, mentre se leggiamo di giorno basta la luce solare.

Una caratteristica dei dispositivi elettronici è che la loro vita è piuttosto breve, sia perché le batterie al litio, di cui sono dotati, durano pochi anni, sia perché caratterizzati dall’obsolescenza programmata. Dopo un po’, infatti, pc, tablet ed e-reader non riescono più a effettuare i necessari aggiornamenti per adeguarsi ai nuovi sistemi operativi e alle nuove app (applicazioni), che hanno bisogno di una memoria sempre più ampia per funzionare. La batteria esaurita e l’obsolescenza programmata ci portano, quindi, a cambiare i nostri dispositivi dopo pochi anni di uso, anche se ancora funzionanti e a doverli smaltire come Raee (Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche).

lo smaltimento

Il corretto smaltimento di questa tipologia di rifiuti è un processo multifase, lungo e costoso, che prevede il recupero e il riutilizzo di buona parte dei componenti. Tuttavia, non sempre questi rifiuti tecnologici vengono smaltiti correttamente, con il rischio che le sostanze tossiche contenute nei loro componenti, se gettati in discariche e non trattati in modo adeguato, possano inquinare l’ambiente.

È quello che sta capitando in molti paesi a basso reddito, dove viene effettuato in modo illegale e non tracciato lo smaltimento dei nostri rifiuti tecnologici, come ad esempio in diverse regioni o città africane, che si stanno trasformando in discariche a cielo aperto di rifiuti tecnologici dei paesi occidentali. Questo avviene perché gli impianti per il corretto trattamento dei rifiuti elettronici sono all’avanguardia, ma costosi. Si stima che già nel 2006, in Europa siano stati prodotti tra 8-12 milioni di tonnellate di Raee, ma attualmente si pensa che la loro percentuale rispetto al totale dei rifiuti solidi urbani sia equivalente a quella degli imballaggi in plastica. Il loro tasso di crescita è infatti elevatissimo. È evidente che smaltire un libro è molto più semplice ed economico: la cosa migliore da fare è donarlo oppure, nella peggiore delle ipotesi, destinarlo alla raccolta differenziata e riciclarlo.

Il peso dei data center

Ciò che ho descritto fino a qui però riguarda solo il nostro dispositivo personale. Quindi, molto meno dei reali consumi legati alla fruizione on line di libri, riviste, giornali (oltre che di video, film, podcast, ecc.), perché tutto ciò di cui possiamo fruire è formato da dati che si trovano in qualche gigantesco data center, da cui partono i servizi digitali che utilizziamo.

L’insieme dei data center è un sistema, che identifichiamo con il cloud, rappresentato da quella eterea nuvoletta, che vediamo nell’icona corrispondente, ma che ha ben poco di etereo. Si tratta in realtà di un insieme di strutture fisiche costituite da fibre ottiche, router, satelliti, cavi posizionati in fondo all’oceano, giganteschi centri di elaborazione dati pieni di computer. Tutto questo consuma un’enorme quantità di energia, anche perché molte di queste strutture necessitano, per funzionare bene, di impianti di raffreddamento.

Gli utenti finali non si rendono minimamente conto di questo grandissimo dispendio energetico, perché pagano esclusivamente la piccola quantità di energia consumata dai loro dispositivi, gli abbonamenti ai fornitori di contenuti e i gigabyte di traffico ai loro operatori telefonici. È evidente, quindi che anche le letture online pesano parecchio sull’ambiente e probabilmente non ci sono vantaggi in termini di risparmio energetico totale e di riduzione dell’inquinamento, rispetto alla carta stampata.

I servizi offerti dagli strumenti digitali costano (e molto) anche in termini ambientali. Foto Gerd Altmann – Pixabay.

Digitale e problemi fisici

Nella scelta tra un modo di leggere e l’altro pesano diversi fattori, tra cui l’età dei lettori (le persone anziane non sempre hanno dimestichezza con i mezzi informatici), la necessità di risparmiare spazio (la carta pesa e occupa grandi volumi), la possibilità di facilitare la lettura regolando le dimensioni dei caratteri offerta dai dispositivi elettronici, le esigenze dell’insegnamento a distanza, per cui è necessario che i due sistemi continuino a coesistere.

È però importante considerare che un’eccessiva esposizione agli schermi dei dispositivi elettronici può portare alla «sindrome da visione al computer» o Cvs (Computer vision syndrome), una condizione sempre più diffusa che interessa tra il 70-90% delle persone che passano diverse ore davanti ad uno schermo. I sintomi di questa sindrome sono variabili e sono di tipo visivo, neurologico e muscolo-scheletrico. Non è detto che si presentino tutti insieme e possono variare da una persona all’altra, in base alle abitudini di lettura allo schermo. Frequentemente, dopo alcune ore allo schermo, si presentano bruciore agli occhi, affaticamento e talora sdoppiamento della visione, mal di testa e dolori al collo, per la posizione assunta.

Molti problemi legati a una lunga esposizione a uno schermo sono dovuti al fatto che gli schermi di computer, tablet e smartphone emettono luce blu, che ha effetti negativi su uno dei nostri pigmenti visivi, la rodopsina, portando a un più rapido invecchiamento della vista. Inoltre, la luce blu influenza negativamente il sonno e la concentrazione, in particolare se l’esposizione avviene nelle ore serali, perché rallenta la produzione di melatonina, l’ormone che induce il sonno, provocando insonnia, irritabilità e ansia. Oltre a questo, un’esposizione costante alla luce blu può danneggiare la retina, che non ha sufficienti schermature per questa lunghezza d’onda. A differenza delle altre gamme di luce, che vengono assorbite dalla cornea e dal cristallino, quella blu-viola penetra in profondità nell’occhio e arriva alla zona centrale della retina, la macula, che elabora le nostre informazioni visive.

Infine, la luce blu è capace di influenzare i neurotrasmettitori del tratto retino-ipotalamico, responsabile della regolazione del nostro ritmo circadiano, che è alla base dei nostri processi biologici, tra cui sonno-veglia e produzione ormonale, con alterazioni sia fisiche, che comportamentali.

In conclusione, con un occhio alla salute del pianeta e uno alla nostra, scegliamo il supporto che più ci è confacente.

Rosanna Novara Topino

Quanto inquina l’Internet?

Sebbene sia difficile quantificarlo, secondo una recente ricerca di Greenpeace, il consumo energetico di internet è circa il 7% dell’energia elettrica mondiale. Il suo rilascio di CO2 sarebbe di circa un miliardo e 850 milioni di tonnellate cubiche all’anno, cioè circa 400 grammi per ciascun utente di internet. E l’energia utilizzata dai grandi data center è «pulita» o «sporca», cioè deriva da fonti rinnovabili o no? Secondo un altro report del 2017 di Greenpeace, che ha preso in considerazione i grandi data center e una settantina tra siti web e applicazioni, per quanto riguarda l’utilizzo di energia pulita, per le loro operazioni negli Usa, al primo posto si trova Apple con l’83% di energia pulita, seguita da
Facebook con il 67%, Google con il 56%, Microsoft con il 32%, Adobe con il 23% e
Oracle con l’8%. La restante parte di energia usata è fornita da gas naturale, centrali a carbone e nucleare.

RTN




Il volto indio di Iquitos. Nella capitale amazzonica peruviana

Testo e foto di Paolo Moiola |


Si ipotizza che l’80 per cento degli abitanti di Iquitos, la più grande città dell’Amazzonia peruviana, siano indigeni urbani: Huitoto, Kukama, Kichwa. Non esistono numeri certi perché la maggior parte di loro preferisce tacere sulla propria origine. Quando non è l’aspetto fisico a tradirne la provenienza, lo è quello culturale. Vivono nelle periferie di Iquitos, dove manca di tutto e vivere dignitosamente è un’impresa. Accompagnati da due amici missionari abbiamo visitato il barrio di Masusa e quello delle Malvinas.

Iquitos. Accanto alla pulsantiera dell’ascensore c’è, ben visibile, un adesivo: «No allo sfruttamento sessuale di bambini, bambine e adolescenti. Il nostro hotel protegge il futuro di Loreto». A Iquitos, capitale del dipartimento peruviano di Loreto, la gran parte dei visitatori arriva per le meraviglie della natura (la riserva di Pacaya Samiria, quella di Allpahuayo Mishana, la laguna di Quistococha) e – non si può tacerlo – per il turismo de la pobreza, il turismo della povertà, tale è infatti la visita alla comunità di Belén (definita, con rozzo cinismo, la «Venezia amazzonica»). Altri ancora giungono a Iquitos per provare l’esperienza dell’ayahuasca, la bevanda indigena dagli effetti allucinogeni. Ci sono, infine, i visitatori che arrivano fin qui allo scopo di adescare minori.

La pedofilia non è che uno dei tanti problemi che affliggono la capitale dell’Amazzonia peruviana. È proprio per vedere e capire la città reale che prendo contatto con due vecchi amici missionari: padre Miguel Ángel Cadenas e padre Manolo Berjón, da tre anni tornati nel capoluogo loretano dopo aver vissuto per venti tra le comunità dei Kukama lungo il rio Marañón.

Masusa e gli indigeni urbani

Con un mototaxi – il tipico mezzo di trasporto di Iquitos (le auto sono una rarità, i bus sono pochissimi e scalcinati) – mi reco alla parrocchia della Immacolata Concezione dove i due missionari spagnoli prestano servizio. La loro parrocchia serve il vasto territorio di Punchana, uno dei quattro distretti municipali di Iquitos.

La chiesa della Inmaculada si nota subito, non tanto per i suoi due tozzi campanili, quanto per il suo colore blu elettrico. Miguel Angel e Manolo sono già in strada. Un abbraccio e, su due mototaxi, partiamo subito alla volta del barrio di Masusa. Questo è il quartiere cresciuto attorno al principale porto fluviale di Iquitos, quello sul rio Amazonas.

Scesi dai veicoli, a piedi ci addentriamo nel barrio e nei suoi vari asentamientos humanos (insediamenti umani). Man mano che proseguiamo il contesto urbano si degrada e con esso peggiora a vista d’occhio la situazione di chi vi abita. Dopo qualche minuto di cammino arriviamo in una specie di piazzetta il cui pavimento è fango mischiato con detriti legnosi (scopriremo più in là il motivo). Tutt’attorno abitazioni su palafitte costruite con legno di recupero e dalla struttura visibilmente precaria.

In un angolo sorge la cappella Sagrado Corazón de Jesús, dove una ventina di fedeli e una decina di bambini attendono i padri per la messa domenicale. Dopo la celebrazione, padre Miguel Ángel sollecita le persone presenti a prendere il microfono e a raccontarsi davanti alla telecamera. Si alternano in molti, donne e uomini, probabilmente attratti da quella piccola ma inaspettata opportunità di uscire dall’anonimato, di far sentire la propria voce. Con grande dignità raccontano da dove vengono, cosa fanno, dei problemi quotidiani. Che sono tanti, dalla mancanza di un lavoro a una situazione abitativa subumana.

«Nessuno ha confessato di essere indigeno per timore della discriminazione – commenta poco dopo padre Miguel -. Ma è importante sapere che questa gente proviene da comunità native. Si tratta di indigeni urbani. Secondo noi, arrivano all’80 per cento della popolazione, in particolare qui, nelle periferie. Ci sono persone con tratti somatici indigeni, in altre si notano meno. Però i tratti culturali sono evidenti, soprattutto con riferimento alla cosmologia (la visione del mondo) e allo sciamanesimo». Gli chiedo di farmi qualche esempio. «Una città come Iquitos è piena di “piante che proteggono contro gli spiriti maligni”. Non ci sono cifre precise, ma sappiamo che il numero di sciamani è altissimo. Quando muore qualcuno si cerca un colpevole, anche se il referto medico parla di cancro. Ci sono persone che dicono di “fotografare gli spiriti” con il cellulare. Si lascia che i bambini prendano le proprie decisioni fin da piccoli, frutto di una concezione indigena della persona».

Accanto alla cappella c’è una piccola e tristissima struttura che funge da asilo e i missionari scrollano la testa sconsolati. Pochi passi più in là, un signore attorniato da un nugolo di bambini sta caricando su un motocarro delle taniche di acqua. «Siamo a 300 metri dal rio Amazonas, ma qui non c’è acqua da bere, per lavarsi, per cucinare o per lavare. Non c’è acqua per nulla. Come, d’altro canto, in gran parte della città di Iquitos».

Le «madereras»

Dall’asentamiento humano Alejandro Toledo ci incamminiamo verso quello chiamato Santa Rosa del Amazonas.

Le stradine sterrate su cui camminiamo sono piene di trucioli e segatura di legno.

«Il municipio – spiega padre Miguel – invece di riempire con terra ha permesso alle segherie di usare i loro scarti di lavorazione per rialzare il terreno. Quando arriva la creciente (termine che indica i periodi – normalmente da marzo a maggio – di massima portata del rio Amazonas e dei suoi affluenti, quando le acque esondano, ndr), l’acqua continua a inondare le case, anche se si nota meno perché non compaiono ponteggi e passerelle. Sotto le case a palafitta sono però rimasti grandi vuoti dove si accumulano acqua putrida e rifiuti. Senza dimenticare che gli scarti del legno hanno fatto aumentare la popolazione di topi e di zanzare. Ancora una volta ha vinto l’opportunismo di politici e affaristi a scapito dei diritti dei cittadini». Eccole, le madereras, le segherie, le imprese del legname. Sono state costruite in questa zona per la vicinanza con il porto di Masusa. Il problema è che oggi sono circondate da insediamenti umani densamente abitati. Questo significa che la gente vive in mezzo ai residui della lavorazione del legno, tra cui particelle minuscole che vengono respirate. Allo stesso tempo molti abitanti traggono vantaggio dalla vicinanza delle madereras per recuperare materiale per le loro abitazioni o per costruire esteras (stuoie di legno) da vendere al mercato.

Le segherie hanno barriere d’alluminio che impediscono di vedere all’interno e torrette di guardia agli angoli. Ma per una cinquantina di metri lungo il perimetro c’è ancora una semplice staccionata (probabilmente in attesa di essere sostituita), che consente la visione. Al di là, cumuli di pezzi di tronchi dal diametro enorme. Un bulldozer sta spostando materiale di ogni dimensione.

Attività legale o illegale?, chiedo a padre Manolo. «Sicuro che è illegale – risponde il missionario -. O meglio: può essere che formalmente siano imprese legali, ma quasi sempre estraggono il legno illegalmente. Mi spiego: hanno una concessione per una data zona, ma poi lavorano in un’altra». In cerca di legno prezioso?, insisto io. «Dipende. La verità è che adesso di legno prezioso ne è rimasto veramente poco».

Mentre faccio foto e filmati noto che ci stanno osservando da una baracca che funge da ufficio. Probabilmente la loro è soltanto curiosità.

In ogni caso, a pochi metri di distanza, sull’angolo, un container color verde pallido è stato adibito a stazione di polizia. Lo hanno messo su ruote, in modo che sia a mezzo metro dal terreno sconnesso. Ci hanno ricavato alcune finestrelle e una porta. Dipinto due stemmi: quello del governo di Loreto e quello della polizia. E una scritta rassicurante: Juntos por la Seguridad Ciudadana! (Uniti per la sicurezza cittadina!).

La porta è aperta e così ne approfitto per entrare.

C’è una piccola scrivania, due sedie, un vecchio televisore e due brandine a castello. E soprattutto ci sono due giovanissimi poliziotti che stanno ascoltando musica dal cellulare. Appena mi vedono, abbassano il volume e si mettono in testa il cappellino d’ordinanza. I due mi accolgono calorosamente, nonostante abbia una telecamera in mano.

Mi dicono che sono aperti 24 ore e che intervengono principalmente per casi di violenza familiare e furti. Chiedo della droga di cui tutta l’Amazzonia peruviana è grande produttrice. «Sì – confermano i poliziotti -, c’è spaccio di pasta basica di cocaina. Sono coinvolti molti minori. Una dose costa un sol (25 centesimi di euro, ndr)».

Li ringrazio e raggiungo di nuovo le mie guide. Uno dei due poliziotti ci raggiunge però dopo pochi secondi per chiederci se vogliamo essere accompagnati nel nostro percorso. «No, grazie. Non c’è bisogno», rispondono i missionari. Questa non è una zona frequentata da stranieri, ma i due padri sono conosciuti anche perché qui c’è una delle quattro cappelle della loro parrocchia.

L’insediamento di Santa Rosa è triste e squallido come il precedente con la differenza che è tagliato in due da una via sterrata, usata da qualche veicolo delle segherie. La strada prosegue per qualche centinaio di metri fino a raggiungere il punto dove il rio Itaya sbocca nell’Amazonas. Sulla spiaggia che guarda i due fiumi da una parte c’è una catasta di enormi tronchi d’albero, dall’altra una montagna illegale di rifiuti e davanti a questa, tra l’acqua e la terraferma, un cimitero di vecchi battelli arrugginiti. Giriamo a destra seguendo l’Amazonas e, dopo poche decine di metri, giungiamo al porto di Masusa, conosciuto anche con il nome di puerto Silfo Alvan del Castillo.

I battelli amazzonici

I cancelli sono aperti e non c’è alcun controllo. Sulla riva sono ormeggiati una serie di battelli di medie dimensioni (50-100 tonnellate), all’apparenza tutti piuttosto scalcinati, ma che raggiungono quasi ogni angolo dell’Amazzonia peruviana. Il porto di Masusa funziona per merci e passeggeri.

Oggi c’è poca gente perché è domenica. Tuttavia, ci sono alcuni camion che caricano o scaricano mercanzia.

«Arriva soprattutto frutta e viene imbarcato soprattutto riso per le comunità dell’interno. E naturalmente arriva la droga. Da qui partono anche le persone vittime di tratta per andare verso Lima o la costa dove saranno impiegate nella prostituzione o in lavori illegali. Ci sono sia maschi che femmine e moltissimi di loro sono minorenni. È facile cadere nella tratta di persone. Se sei un ragazzo che vive in una famiglia povera e ti offrono un lavoro in un altro posto, alla fine decidi di partire».

Lasciamo il porto per entrare nell’adiacente mercato di Masusa. È una struttura riparata da una tettornia dove si vendono prodotti alimentari. Sui tavolacci in legno è rimasto poco o nulla perché l’ora è tarda. Su uno ci sono mucchi di zampe di gallina, su un altro razzolano alcuni pulcini.

Usciamo da una porta laterale del mercato per trovarci in un vicolo di sassi e rifiuti. I due missionari debbono fare visita a un’anziana malata. Abita sotto una palafitta, una sorta di pianoterra aperto, senza pareti circostanti, senza porte e finestre. Un tugurio con un pavimento di nuda terra e un soffitto di assi la cui altezza non permette a una persona di stare in piedi. Su un lato di questa stanza improbabile c’è un gruppetto di bambini con gli occhi fissi su un piccolo televisore, dall’altra una signora sdraiata su un vecchio letto circondato da indumenti e medicine. Alla vista dei missionari lei si mette seduta e scambia qualche parola. È anziana e malata, ma il suo viso conserva i segni di un’antica bellezza. Marta, questo il nome, non ha famiglia e sopravvive con l’aiuto dei vicini di casa. Prima dei saluti, chiede a padre Miguel Ángel di ricevere la comunione. Una visita, quella alla signora Marta, che ti prende lo stomaco e che ti lascia senza parole.

Abitare alle Malvinas

Con i consueti mototaxi lasciamo il quartiere del porto. La prossima destinazione è il barrio delle Malvinas. Anche qui, come a Masusa, le condizioni abitative peggiorano man mano che ci addentriamo, in particolare verso l’asentamiento Iván Vásquez.

Percorriamo una calle pavimentata con cemento, tanto stretta che a stento ci passa un mototaxi. Poi la viuzza termina e il luogo si allarga in maniera inaspettata, ma anche poco piacevole. La stradina nascondeva la rete fognaria (acantarillado), che ora invece esce allo scoperto in forma di un fiumiciattolo di acque putride e puzzolenti (desagüe).

È riduttivo definirla una fogna a cielo aperto perché è larga alcuni metri. L’acqua ha un colore grigio, impenetrabile dallo sguardo. È stagnante tanto che i sacchetti di rifiuti gettati sul fondo non si muovono e sono oggetto di attenzione da parte di vari gallinazos – grandi uccelli dalla testa nera appartenenti alla famiglia degli avvoltorni – che vi cercano cibo.

Sulle due sponde della fogna è cresciuta una ininterrotta serie di abitazioni con le persone che all’aperto cucinano, lavano i panni o vendono mercanzie (dal pesce alle banane agli spiedini).

Non è strano che la gente accetti tutto questo?, chiedo alle mie guide. «No, non è strano. Sono venuti da fuori per cercare migliori condizioni di vita ma hanno trovato questo».

Camminiamo lungo il canale finché arriviamo a una curva, dove una conduttura in cemento sbuca dal greto della cloaca. «Ecco questo è il punto più incredibile. Qui fuoriescono i rifiuti dell’ospedale Essalud, che sta a cento metri di distanza», mi spiega padre Miguel Ángel. Vista la situazione, non stupisce che, oltre alla malaria e al dengue, diffuse in tutta Iquitos, qui siano endemiche anche le infezioni respiratorie acute e le malattie diarroiche acute.

Dopo la curva, il fiume-fogna torna diritto proseguendo per alcuni chilometri fino a terminare nel rio Nanay, molto vicino alla confluenza di questo con l’Amazonas. Sulle due sponde sono state poste barriere in legno e sacchi di sabbia per frenare l’acqua nei periodi della creciente, la piena dei fiumi. Per passare da una sponda all’altra gli abitanti hanno costruito passerelle di assi. Ne attraversiamo una per andare a camminare sul lato esterno.

L’insediamento è molto esteso. Tutte le abitazioni sono su palafitte e costruite con assi di legno e tetti in lamiera. I bambini sono ovunque e, come in ogni parte del mondo, trovano il modo di giocare e divertirsi. C’è anche un ampio spazio libero dove in molti stanno seguendo una partita di calcio. Più avanti, nello spazio tra alcune abitazioni, un gruppo di giovani sta giocando a pallavolo.

Dato che non esiste alcun sistema di distribuzione idrica, incrociamo varie persone che, a mano, trasportano secchi d’acqua. «A dispetto di tutto questo – chiosa padre Miguel Ángel -, da qui non vogliono andarsene. Il barrio è vicino al porto. E Masusa è il solo luogo dove molti di loro possono trovare un lavoro: o come scaricatori o come rivenditori dei prodotti più vari. Questa città non offre altro».

Tra invisibilità e indifferenza

Ormai è quasi buio. È ora di tornare indietro. Oggi abbiamo conosciuto due barrios di Iquitos, dove la gente – quasi sempre indigena – vive in condizioni di povertà o di estrema povertà. La maggior parte degli abitanti della più importante città dell’Amazzonia peruviana vive così. Ma rimane invisibile agli occhi dei più. O indifferente, che forse è anche peggio.

Paolo Moiola

 




Carbone vegetale,

risorsa o piaga?

Testo di Chiara Giovetti |


Un terzo della popolazione mondiale usa legna e carbone per cucinare e a volte anche per fornire energia alle proprie piccole e medie imprese. In Africa si tratta di un settore in forte espansione e i potenziali danni per ambiente, finanze pubbliche e lotta al terrorismo non sono da sottovalutare.

Una donna seduta su uno sgabello a bordo strada e, accanto, qualche sacco chiaro alto più di un metro, con le scritte sbiadite di questa o quella industria locale, di questa o quella agenzia umanitaria. Dentro, tanti cubi neri trattenuti da una rete di cordicelle o di foglie di palma annodate ai bordi del sacco. Oppure un uomo che spinge una bicicletta con almeno un paio di questi sacchi posati uno sopra l’altro e assicurati al portapacchi con un legaccio di camere d’aria annodate fra loro. Succede spesso di imbattersi in scene come queste lungo le strade africane, in città come nelle zone rurali. I cubi neri sono pezzi di carbone vegetale e il loro impiego più frequente è quello di fare fuoco per cucinare.

A vederli così, questi venditori improvvisati, si direbbe che quello del carbone è uno dei tanti piccoli commerci con cui molte famiglie africane si guadagnano di che sopravvivere. Ma sarebbe un’impressione errata. Aggregando tutte le donne sedute a bordo strada e gli uomini che spingono una bici nel continente, il giro d’affari del carbone vegetale appare nella sua reale dimensione: colossale. E ingenti sono i danni che rischia di infliggere all’ambiente, alle finanze pubbliche e persino alla lotta al terrorismo perché, nonostante abbia un ruolo di primo piano nelle economie del continente, il settore del carbone e della legna da ardere rimane per la maggior parte informale.

Vendita di carbone nello slum di Kibera a Nairobi (© The Seed / Pamela Adinda)

Legna e carbone vegetale in numeri

Secondo i dati del rapporto The Charcoal Transition della Fao, nel 2016 il mondo ha estratto circa 3,7 miliardi di metri cubi di legno dalle foreste del pianeta. Di questi, circa la metà sono stati usati come combustibile e sono diventati per l’83% legna da ardere e per il 17% carbone vegetale. Quest’ultimo è dunque è quantificabile 351 milioni di metri cubi, pari a in 52 milioni di tonnellate, di cui 32 milioni prodotti nella sola Africa@.

Per farsi un’idea delle proporzioni può essere utile un confronto con i volumi italiani: nel 2016 una nota del Crea (Consiglio per la ricerca nell’agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) riportava che i boschi italiani contengono «oltre 1,2 miliardi di metri cubi di legno, con un aumento annuale di massa legnosa di oltre 36 milioni di metri cubi. Di questi ogni anno vengono tagliati oltre 10 milioni di metri cubi»@.

Sempre i dati Fao indicano che ancora oggi quasi due miliardi e mezzo di persone sul pianeta ricorrono a legna e carbone per cucinare: un terzo della popolazione mondiale. In Africa subsahariana, il dato sale di parecchio: a contare su queste fonti di energia è il 90% della popolazione. Sostengono il trend, in crescita, della produzione e del consumo principalmente due fattori: l’aumento demografico e la rapida urbanizzazione.

Trasporto di carbonea Bagamoyo, Tanzania (© AfMC / Jaime Patias)

In Tanzania, ad esempio, l’85% della popolazione urbana utilizza carbone sia per cucinare che per la fornitura di energia a piccole e medie imprese: secondo uno studio del 2007 citato nel rapporto Fao, alla fine del secolo scorso la sola città di Dar es Salaam, il centro urbano più grande del paese, era responsabile del consumo di metà del carbone a livello nazionale.

Quanto al volume economico dell’industria del carbone vegetale in Africa subsahariana, nel 2011 le proiezioni di Afrea – il programma della Banca mondiale finanziato dai Paesi Bassi che si occupa di studiare le energie rinnovabili in Africa – indicavano in 8 miliardi di dollari il valore del settore per il 2007 e ipotizzavano per il 2030 lo sfondamento della soglia dei 12 miliardi, con un totale di 12 milioni di persone impiegate nella produzione, vendita e distribuzione del carbone.

Unep, l’agenzia Onu per l’Ambiente, propone invece altri dati, partendo dal valore ufficiale della produzione di carbone (dati 2012) e usando prezzi variabili da 200 dollari per tonnellata sul mercato locale (cioè 5 dollari per un sacco da 25 chili) a 800 dollari per tonnellata sul mercato internazionale. Con queste premesse Unep arriva ad assegnare al settore un valore economico compreso fra i 9,2 e i 24,5 miliardi di dollari.

Per fornire il polso della situazione a livello dei singoli paesi, il rapporto Fao riporta ad esempio che in Tanzania il settore del carbone vegetale contribuisce all’economia nazionale per circa 650 milioni di dollari (pari a circa il 2,2% del Pil) mentre in Kenya il valore più che raddoppia toccando 1,6 miliardi (1,2% del Pil).

Si cucina col carbone nello slum di Korogocho a Nairobi (© The Seed / Purity Mwendwa)

Carbone e vita quotidiana

Guardando al quotidiano delle vite delle persone, la popolarità del carbone è facile da spiegare. Dal lato di chi lo compra, è la fonte di energia più conveniente: brucia più a lungo e produce più calore della legna, è più leggero e per questo più facile da trasportare e può essere conservato più a lungo, senza rischiare di marcire o di essere danneggiato dagli insetti.

Dal lato di chi lo produce e vende, data l’abbondante domanda, è una fonte di reddito piuttosto sicura. Standard Digital, uno dei principali quotidiani keniani, racconta la storia di Sipporah Kemunto, che vende carbone a Kisii, nel Kenya occidentale. Sipporah ha iniziato vent’anni fa con 200 scellini (circa 2 euro al cambio di oggi) prestati da un’amica, con i quali ha comprato il suo primo sacco di carbone. «Con quell’unico sacco sono riuscita a vendere dieci barattoli di carbone il primo giorno: molto al di sopra delle mie aspettative». Oggi la signora Kemunto vende un sacco a 1.100 scellini, per un guadagno fra i 500 e i 550 scellini, in un paese dove la paga giornaliera per un addetto alle pulizie, ad esempio, è di 622 scellini a Nairobi e 349 scellini in aree non urbane. Il suo lavoro l’ha costretta a molti sacrifici, come quello di svegliarsi prestissimo la mattina per fare il giro dei ristoranti suoi clienti e fornire loro il carbone, o quello di lavorare in condizioni non molto salubri. Ma grazie al carbone è riuscita a comprare due acri di terra fuori Kisii e a far studiare due figli all’università mentre il terzo sta finendo le superiori@.

Taglio della foresta nel Congo RD ( AfMC / Ennio Massignan)

Impatti del carbone

Il primo impatto connesso alla produzione di carbone vegetale riguarda il degrado delle risorse forestali – definito come riduzione della biomassa, declino della composizione e della struttura della vegetazione – se non addirittura la deforestazione. È difficile, avverte il rapporto Fao, indicare con chiarezza quanto la produzione di carbone vegetale da sola determini degrado o deforestazione. Un tentativo di fornire una stima del fenomeno è uno studio del 2013 che quantifica gli ettari di foresta persi in Africa a causa del carbone in quasi tre milioni, pari all’80% della deforestazione complessiva nelle aree tropicali. La Tanzania distrugge così ben un terzo delle sue risorse forestali, mentre lo Zimbabwe si ferma allo 0,33 per cento.

Vi è poi la questione delle emissioni di gas serra (anidride carbonica, ma anche metano e carbonio) durante tutte le fasi della filiera. Anche in questo caso si tratta di un dato stimato e si collocherebbe fra 1 e 2,4 miliardi di tonnellate di gas serra, cioè fra il 2 e il 7 per cento delle emissioni globali imputabili all’attività umana.

Altro impatto è quello sulle casse dello Stato: la Fao stima che le perdite per tasse non pagate si collochino, a livello continentale, fra il miliardo e mezzo e i 3,9 miliardi di dollari. Anche in questo caso è la Tanzania il paese dove il danno è maggiore: 100 milioni di dollari di tasse non riscosse. Un ruolo non secondario in questo meccanismo di evasione è quello della consolidata prassi della tangente, che ha anche l’effetto di aumentare il prezzo del carbone per il consumatore finale. L’incidenza delle mazzette – di solito richieste da militari e polizia durante il trasporto – sarebbe pari al 12% in Malawi e fino al 30% in Kenya.

Infine, l’ampia informalità del settore genera un sommerso che apre ampie zone di manovra per gruppi criminali e terroristici. Il rapporto di Unep e Interpol, The Environmental Crime Crisis@, stima che milizie e gruppi terroristici nei paesi africani dove sono in corso conflitti – fra cui Mali, Repubblica Centrafricana, RD Congo, Sudan e Somalia – possono guadagnare fra i 111 e i 289 milioni di dollari all’anno fra mazzette e partecipazione attiva al commercio illegale. In un posto di blocco nel distretto di Badhadhe, Somalia, i terroristi di Al Shabaab sono riusciti a raccogliere fra gli 8 e i 18 milioni di dollari in un anno, più altri 38-56 fra commercio in proprio e tangenti nei porti.

Quanto al contrabbando internazionale le osservazioni sul campo degli estensori del rapporto hanno permesso di documentare, fra Uganda, RD Congo e Tanzania, movimenti di camion che di notte portavano sacchi di carbone in punti di raccolta nei pressi di aree protette o addirittura attraverso i confini. Nel complesso, il giro d’affari del carbone illegale crea profitti fra i 2,4 e i 9 miliardi di dollari nella sola Africa orientale, centrale e occidentale.

Fornello ad uso domestico di bassa resa e grande spreco di calore (© AfMC / Ennio Massignan)

Ultimo aspetto è poi quello della salute umana: alcuni studi indicano che nei contesti domestici in cui si usano fornelli a carbone la concentrazione di Pm10 (polveri sottili) è di un sesto rispetto alle case in cui si usa legna da ardere. La transizione da legna a carbone potrebbe ridurre del 65% le infezioni respiratorie. Tuttavia, i bracieri tradizionali attualmente in uso, e sono la stragrande maggioranza, rappresentano una minaccia alla salute perché sprigionano più monossido di carbonio.

Le possibili soluzioni

Secondo il rapporto Fao, una riduzione pari all’86% nelle emissioni generate da produzione e consumo di carbone vegetale potrebbe ottenersi attraverso una serie di interventi. Fra questi vi sono l’introduzione di pratiche sostenibili nella gestione delle foreste, l’uso di biomasse alternative provenienti ad esempio dagli scarti della lavorazione del legno, l’introduzione di prodotti agglomerati (briquettes) che riutilizzino la polvere di carbone combinata con scarti della produzione agricola o con terreno e l’introduzione di fornelli migliorati, in grado di consumare meno carbone.

La riduzione più significativa tuttavia verrebbe, secondo la Fao, dal miglioramento dei sistemi tradizionali di carbonizzazione, che di solito avviene dentro fornaci con un’efficienza di conversione molto bassa. Secondo uno studio del 2016, migliorare tale efficienza dal 15 al 25% permetterebbe di ridurre del 40% la legna necessaria per produrre la stessa quantità di carbone.

Lavoro comunitario per ripiantare alberi nelle colline attorno a Morogoro, le Mukunganya Hills, durante la stagione delle piogge.  (© AfMC)

Il lavoro dei missionari della Consolata

In Tanzania, dove il problema del degrado delle risorse forestali e, a volte, addirittura della deforestazione è particolarmente serio i missionari della Consolata hanno iniziato in due località altrettanti progetti per sensibilizzare la popolazione e coinvolgerla in un’opera di rimboschimento.

  • Il primo microprogetto si svolge nel villaggio di Makota, a Ihemi, circa 50 chilometri da Iringa. La popolazione locale vive di agricoltura di sussistenza, alla quale affianca altre attività occasionali per aumentare il proprio reddito. Fra queste vi è proprio il taglio degli alberi per ottenere legname e carbone. Le attività relative al legname vengono svolte in modo incontrollato, senza pianificazione né reintegro delle piante tagliate con nuovi alberi. Per questo l’erosione del suolo e la deforestazione stanno diventando fenomeni evidenti. Il progetto in corso prevede tre seminari di formazione per la popolazione locale tenuti dai leader locali e dai funzionari dell’agenzia tanzaniana per i servizi forestali. Le persone formate parteciperanno poi alla posa di alcune piante pr ogni famiglia e se ne prenderanno cura.
  • Alle Makunganya Hills, vicino a Morogoro, vi è poi in corso da fine 2016 un progetto simile. In questa zona, le colline sono ora spoglie, sia a causa dei frequenti incendi che del taglio degli alberi per ottenere legname per costruzioni e legna da ardere. A detta del responsabile sul campo, il microclima locale è cambiato e le risorse idriche della zona si sono notevolmente ridotte. Anche qui il progetto prevede la posa di migliaia di piante e tre seminari di approfondimento per la popolazione locale sui problemi e sui rischi connessi alla deforestazione. Parteciperanno circa 500 persone e, oltre al rimboschimento, si lavorerà con la comunità locale per avviare un progetto parallelo di apicoltura.

Chiara Giovetti




Borneo, giungla addio


La terza isola per estensione al mondo ha anche il primato della più alta concentrazione di biodiversità. Vi si trovano otto distinti habitat naturali. Oggi però circa la metà della sua superficie è deforestata, per far spazio alle palme da olio, oltre che per il saccheggio di preziosi legnami. Ma i suoi abitanti forse hanno capito come proteggere quello che resta.

Sandakan. Viaggiando da Kota Kinabalu, capitale del Sabah nel Borneo malese, a Sandakan sulla costa Nord orientale, la strada asfaltata affronta la dorsale montana del Crocker Range. Qui, dopo una serie di curve, compare in tutto il suo splendore il monte Kinabalu, la vetta più alta dell’isola con i suoi 4.095 metri. La cima, nera e frastagliata, si staglia verso il cielo, circondata da nuvole in rapido movimento. La strada prosegue poi scendendo dalla montagna coperta di vegetazione tropicale di una varietà sorprendente. Alberi altissimi ricoperti di innumerevoli piante parassite. Foglie enormi e fusti slanciati.

Ma quando si scende di quota ecco che compaiono le prime palme. E non sono palme originarie di qui e neppure piante qualsiasi. Sono le palme che producono il famoso olio, ingrediente ormai presente nella maggior parte dei nostri cibi. Continuando a scendere verso la costa, il panorama diventa terribilmente uniforme. Filari di palme da olio si susseguono, uno attaccato all’altro. In alcuni appezzamenti le piante sono piuttosto alte e mostrano i preziosi frutti: grappoli di noci rosso scuro e nere. In altri le palme sono ancora basse, mentre altre aree sono state recentemente ripulite e si presentano come distese brulle in attesa di piantumazione.

Questa visione prosegue per ore, ovvero centinaia di chilometri, mentre il nostro mezzo continua la sua corsa verso Sandakan. Palme da olio a perdita d’occhio. Intanto sulla strada incontriamo autobotti, che invece di trasportare carburante, riportano la scritta «Palm oil». Ogni tanto, una raffineria spunta in mezzo al «mare» di palme e inonda l’area circostante di fumi bianchi e neri.

L’isola misteriosa

Il Borneo ha una superficie complessiva di 743.107 km quadrati (due volte e mezza l’Italia) ed è suddivisa in tre stati: il Nord è parte della Malaysia (province Sabah e Sarawak), Sud e centro dell’Indonesia (il Kalimantan) e infine il piccolo ma ricchissimo stato islamico del Brunei (Nord). La terza isola al mondo per estensione (dopo Groenlandia e la vicina Nuova Guinea) era, in un passato non troppo remoto, ricoperta di foreste pluviali. Foreste considerate dagli esperti quelle a maggiore concentrazione di biodiversità del mondo. È stato infatti calcolato che il Borneo, sebbene costituisca l’1% della superficie terrestre, ha originato sul suo territorio una biodiversità pari al 6% di quella globale del pianeta. All’inizio del 1900 si calcola che il 96% della superficie dell’isola fosse occupata da foresta. Si tratta di diversi tipi di vegetazione, che costituiscono ben otto ecosistemi, dalla foresta tropicale montana alle mangrovie sulla costa, passando per la foresta pluviale di collina e pianura. Nel 2005 la copertura era ancora il 71%, mentre nel 2015 è scesa al 55%. Quasi la metà della superficie del Borneo è oggi deforestata1.

Quando negli anni ‘50 sono arrivati i caterpillar e le motoseghe il panorama è rapidamente cambiato. La foresta è stata penetrata e diverse strade l’hanno devastata, modificando irreversibilmente gli ecosistemi. La deforestazione è iniziata per scopi commerciali, inizialmente la vendita di legni pregiati e la produzione della gomma. Ma è a fine anni ’90 inizio 2000 che ha visto l’escalation maggiore2. In quel periodo si è infatti diffuso a livello mondiale il consumo dell’olio di palma e le foreste di Sabah, Sarawak e Kalimantan hanno subito un’aggressione senza precedenti. La crisi dell’estrazione della gomma aveva creato grande disoccupazione e la palma da olio è stata vista come la grande opportunità.

Dati del 2007 mostrano che Indonesia e Malaysia, insieme, producevano quasi il 90% dell’olio di palma consumato nel mondo3.

Uno studio4 pubblicato nel luglio 2014 sul giornale Plos One 4 da David Gaveau ricercatore del Center for International Forestry Research, Indonesia e i suoi colleghi, mostra che agli inizi degli anni ’70, circa il 75% del Borneo era ancora ricoperto di foreste, e dal 1973 al 2010, l’area forestale si è ridotta di circa il 30%, il che corrisponde a quasi il doppio della velocità di deforestazione osservata nelle foreste tropicali in altre aree del mondo.

È stato calcolato (fonte Wwf1) che oggi oltre 7 milioni di ettari in Borneo sono già coltivati a palma da olio e altri 6 milioni nel solo Kalimantan sono coltivati per produrre pasta di legno (materiale di basso livello per produrre mobili). E, ancora più grave, altri 10-13 milioni di ettari sarebbero in fase di deforestazione tra il 2015 e il 2020. Rimangono 40 milioni di ettari di foresta, dei quali una parte intatta e altra parzialmente distrutta. Di questi solo il 31% (ovvero il 17% dell’intera isola) è destinata ad aree protette, mentre il restante a «foresta produttiva». La copertura forestale rischia di scendere a un terzo di quella iniziale già nel 2020.

Lo spirito della foresta

Navigando con una piccola barca a motore sul fiume Kinabatangan, si possono scorgere sugli alti alberi delle rive molti animali. Dalle scimmie nasiche al più famoso orangutan (che in malay, lingua dei malesi, vuole dire l’uomo, oran, del bosco), ai molti macachi. Si può intravedere nelle acque un grosso coccodrillo, o essere sorvolati da famiglie di beceri (uccelli dal grande becco colorato), oppure vedere un coloratissimo martin pescatore (di una delle tante specie) all’opera.

Anche andare a piedi nella giungla è un’esperienza particolare. Ci si immerge subito in un mondo di «suoni» molto speciale: un crepitare di versi di ogni tipo che spesso sembrano attenuarsi e ripartire per andare, a tratti, all’unisono. Si cammina su un terreno umido, spesso fangoso, in mezzo a alberi e piante di una varietà sorprendente. Un vero e proprio «santuario» del mondo vegetale. Ma occorre fare attenzione alle sanguisughe (indossando apposite calze fin sopra al ginocchio) e a estese ragnatele sulle quali si dondolano grossi ragni. Il caldo, ma soprattutto l’umidità, possono a tratti toglierci il respiro.

Impatto devastante

La riduzione della foresta significa la perdita di biodiversità sia animale sia vegetale. Oltre a questo impatto enorme in termine di riduzione delle specie, gli altri effetti devastanti sono l’erosione dei suoli, il diffondersi di inondazioni, le frane e l’alto rischio di incendi. Quest’ultimo dovuto al fatto che le foreste naturali sono meno inclini agli incendi (più protette), mentre quelle parzialmente distrutte o influenzate dalla presenza umana sono molto più soggette, perché più secche.

Il taglio della foresta combinato con la pioggia torrenziale ha effetti disastrosi per l’erosione e la modifica dei fiumi, che causano devastazioni lungo il loro corso trasportando materiale a valle. Specie animali uniche in Borneo, come l’orangutan, la scimmia nasica e l’elefante pigmeo, vedono di anno in anno ridursi il loro habitat di percentuali a due cifre. Molto grave è anche il traffico illegale di animali esotici che diventa un effetto collaterale della deforestazione. Altre cause del taglio incontrollato di alberi sono legate alle concessioni minerarie, che vanno dagli scavi per il carbone a quelli per metalli e pietre preziose.

Il cuore del Borneo

Un passo positivo è stato fatto da Malaysia, Indonesia e Brunei, nella definizione del Heart of Borneo (HoB, Cuore del Borneo). Si tratta di un’area di circa 240.000 km quadrati (due terzi l’Italia), composta da diverse zone di foresta pluviale da proteggere. Nel 2007 i tre paesi hanno firmato una dichiarazione per dare vita al «HoB initiative». Lo scopo è la conservazione delle biodiversità, che tenga conto anche del bene della popolazione, tramite una rete di aree protette e, in parte, l’utilizzo sostenibile di terra forestale. Non si parla però di fare un unico parco naturale, ma piuttosto una situazione a macchia di leopardo, e, inoltre, occorre considerare che molte specie animali hanno il loro habitat fuori da questa zona. È un piccolo passo, che cerca il compromesso tra garantire la conservazione delle specie e della foresta, dell’ambiente di vita di alcuni gruppi etnici legati a questo habitat (come i Penan del Sarawak) e le esigenze di sviluppo economico dei paesi coinvolti.

Troppo tardi?

In Borneo sono ancora presenti «isole» protette di foresta primaria, ovvero quella foresta pluviale mai tagliata e ripiantata. Oggi sembra che la gente di questa splendida isola, unica al mondo, abbia imparato a rispettare queste aree e pure a trarne i mezzi di sussistenza, grazie a un turismo, di solito, non troppo invasivo. In questi luoghi si possono vedere delle perle di natura e immaginare come fosse un tempo l’intera isola. Ma ormai, per chi pensa al mito della giungla incontaminata del Borneo, è troppo tardi.

Marco Bello

Note

  1. S. Wulffraat, C. Greenwood, K. Fahmi Faisal, D. Sucipto, The eviromental status of Borneo. Report 2016, Wwf.
  2. Rhett A. Buttler, The Impact of Oil Palm in Borneo, mongabay.com
  3. Sophie Yeo, 80% of Malaysian Borneo’s rainforests destroyed by logging, Climate change news, 2013.
  4. David L. A. Gaveau et. al., Four Decades of Forest Persistence, Clearance and Logging on Borneo, PLoS ONE, 2014.

Una storia unica
Il Sarawak dei rajah bianchi

Nel 1839 l’avventuriero inglese James Brooke approda per la prima volta nel Borneo Nord occidentale, nei pressi del villaggio di pescatori chiamato Kuching. Nell’area, controllata dal sultano del Brunei, è in corso una rivolta che coinvolge diversi gruppi etnici in lotta tra di loro. Brooke e il suo equipaggio, con le armi e il negoziato, riescono a riportare la pace. È per questo che il sultano Omar Ali Saifuddin II gli affida il governo del Sarawak nominandolo rajah. Inizia così un esperimento di geopolitica unico nella storia mondiale, che durerà 100 anni. James Brooke imposta un governo di tipo liberale, rispettoso dei diritti ma osservante delle regole, al quale fa partecipare i capi delle diverse etnie, nessuno escluso. James si guadagna molti alleati, anche se non tutti sono contenti e alcuni leader locali si oppongono al rajah bianco. In questa compagine si inserisce Sandokan, il longevo personaggio immaginario inventato dallo scrittore veronese Emilio Salgari.
James riesce a portare pace e prosperità in una regione agitata da scontri interetnici (vi operano i famosi Dayaki, i tagliatori di teste) e infestata dai pirati. Alla sua morte nel 1868 gli succede il nipote Charles Brooke (James non si era sposato e non aveva figli legittimi). Questi regnerà come secondo rajah bianco fino al 1917. Charles si inserisce sulla scia dello zio ma sviluppa il paese dal punto di vista infrastrutturale ed economico. Sotto il suo governo il Sarawak si estende con nuovi possedimenti, annettendo parte dell’attuale Sabah (Nord Est del Borneo). Il territorio viene anche protetto dall’invasione delle multinazionali straniere che disboscano la giungla per piantare il caucciù. Gli succede il figlio Charles Vyner Brooke, che regna fino al 1941, anno dell’invasione giapponese durante la seconda guerra mondiale. Charles Vyner riprende il potere per alcuni mesi nel 1946, quando nel luglio è costretto a cedere il Sarawak alla corona britannica.
Anthony Brooke (1912-2011), nipote di Charles Vyner è stato rajah Muda (principe ereditario) e ha combattuto nel movimento anti colonialista, che si è opposto alla cessione del paese ai britannici. Si è poi ritirato in Nuova Zelanda dove ha vissuto, continuando a viaggiare e tenere conferenze a supporto di diversi movimenti per la pace.
L’erede della dinastia è Jason Brooke (1985), figlio di James Bertram “Lionel” Brooke (1940-2017) e nipote di Anthony. Jason è impegnato tra la Gran Bretagna e il Sarawak nella promozione storica dei Brooke, anche attraverso l’associazione Brooke Trust (www.brooketrust.org).

Ma.Bel.




RD Congo. Pigmei, scuola, foresta: un momento difficile


Dagli anni Novanta i missionari della Consolata sono presenti fra i Pigmei Bambuti di Bayenga, nella Repubblica Democratica del Congo. Dal 2007 l’équipe missionaria può contare su padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata di origine spagnola. Nell’inverno scorso è stato in Camerun a osservare il lavoro che i Fratelli delle scuole cristiane portano avanti nel paese con i Pigmei Baka nel campo dell’istruzione.

Mezzo milione di persone distribuite fra Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Camerun, Rwanda, Burundi e Uganda: queste le dimensioni della comunità pigmea secondo le stime riportate da Survival International, organizzazione che si occupa della difesa dei diritti dei popoli indigeni in tutto il mondo. Si tratta di un popolo che vive a stretto contatto con la foresta, spesso al suo interno, vivendo di caccia e raccolta. Il rapporto con le vicine popolazioni bantu, maggioritarie, è difficile: un po’ per lo scontro antico fra chi, come i Pigmei, la foresta la vive come casa, rifugio e riserva di cibo e chi, invece, la taglia per ottenerne terreni da coltivare, come è il caso dei Bantu, agricoltori. E un po’ per i pregiudizi che quasi sempre accompagnano i conflitti per le risorse: i Bantu vedono nei Pigmei degli esseri inferiori, dei selvaggi da sfruttare o isolare, mentre per i Pigmei i loro vicini sono i padroni violenti che rubano loro la foresta e li costringono con la forza a fare da servi per sopravvivere.

Oggi, la speranza di vita di un Pigmeo è fra i 40 e i 45 anni contro una media dei Bantu di 59. La mortalità infantile nei bambini fino a cinque anni, che fra i Bantu è al 20%, raddoppia fra i Pigmei.

Cambiare questa situazione è un lavoro lungo, delicato e costantemente a rischio. Ma in Camerun il metodo applicato dai Fratelli delle scuole cristiane (detti anche Lasalliani dal nome del loro fondatore, Jean-Baptiste de La Salle) sta lentamente provando a creare le condizioni perché i Pigmei escano dal misto di vergogna e rassegnazione in cui anni di discriminazioni li hanno confinati. Abbaimo fatto alcune domande a padre Andrés che con padre Flavio Pante è nella missione di Bayenga e lavora con i Pigmei da 10 anni e recentemente è stato in Camerun.

Andrés, perché questo viaggio-studio in Camerun?

«Per studiare il metodo O.R.A., che i Fratelli applicano nell’istruzione prescolare dei Pigmei Baka. Anche qui in Congo lo conoscevamo, ma in Camerun lo usano da più tempo e in maniera più organizzata. Guidato da fratel Gilbert Ouilabegue, ho visitato le tredici scuole fondate da fratel Antornine Huysmans nella zona di Lomié, regione dell’Est. Le chiamano Centri di Educazione di Base per evitare che siano classificate come scuole ufficiali e, per questo, tenute a rispettare programmi, calendari e metodi ufficiali che sarebbero del tutto inadeguati per i Pigmei».

Che cosa significa O.R.A.?

«È l’acronimo di Osservare-Riflettere-Agire. Il metodo si applica negli anni precedenti la scuola primaria con bambini fra i cinque e gli otto anni. Fratel Antornine, ideatore di O.R.A., pensava che fosse inutile tentare di chiudere in un’aula scolastica dei bambini abituati a vivere liberi nella foresta, senza muri né orari, e formati fino ad allora alla «scuola della vita», dove i maestri erano i loro genitori e fratelli maggiori e le materie l’uso dell’arco o le tecniche per pescare.

Così, un po’ alla volta e con l’aiuto anche di alcuni Bantu della zona, Antornine cominciò a ideare una pedagogia dinamica, che si adattasse ai ritmi, alla lingua e alla cultura dei Baka invece che mirare alla completa omologazione di questi ai Bantu. Il metodo si basa su questi tre principi: osservare, riflettere, agire, perché sono il più vicino possibile al modo in cui i bambini pigmei sono abituati ad imparare, cioè per osservazione ed emulazione degli adulti».

Come funziona in concreto?

«Innanzitutto, bisogna considerare che la funzione di questa pre-scuola è anche quella di liberare i bambini dalla paura della classe, del maestro, della lavagna e del parlare in pubblico. Si cerca sempre di coinvolgerli con canti, racconti, giochi di ruolo. Come punto di partenza si usa un disegno, che poi resta lì come per invogliare ad ascoltare la storia che segue. Ogni lezione, infatti, si apre con una piccola storia che introduce la parola, il numero, il concetto che si vuole insegnare».

E quanto ai contenuti?

«Nel primo anno, i bambini cominciano parlando nella lingua baka. Il punto di partenza, dicevo, sono i disegni che rappresentano scene quotidiane del campement (accampamento) pigmeo. Da qui si passa a nozioni di base come grande/piccolo, uguale/diverso, lungo/corto, poi ai primi segni grafici, alle cinque vocali e ai numeri da uno a sei, sempre partendo dalla lingua baka per poi tradurre in francese. Verso la metà del primo anno i bambini imparano qualche consonante, incominciano a formare delle sillabe, a fare qualche operazione aritmetica. Al termine del secondo anno, sono in grado di fare addizioni, sottrazioni e moltiplicazioni con i numeri da zero a venti e di parlare francese con una fluidità che mi stupisce ancora oggi, se penso che non sono ancora alla scuola primaria».

Che cosa ti sembra che funzioni particolarmente bene nel metodo O.R.A.?

«Te lo dico con un esempio. Ricordo la dinamica di una classe con un’insegnante, Souzanne, che era davvero splendida: non ha mai sgridato nessuno, non è stata quasi mai alla lavagna. Quello era il posto dei bambini che, uno alla volta, ci andavano spontaneamente per partecipare, scrivere, cantare, mostrare un oggetto, un frutto. Lei è davvero una formidabile narratrice di storie che fa «sognare» chi la ascolta. Gli allievi vengono sempre incoraggiati, non sono giudicati o valutati per il risultato ma per lo sforzo. Ho visto in quei bambini la voglia di venire a scuola, di scoprire, d’imparare, di essere… protagonisti».

A questo punto i bambini sono pronti per la scuola elementare ufficiale?

«Sì, e nei primi anni si distinguono rispetto ai loro pari per il livello di scrittura e lettura. Poi, però, in Camerun come da noi, cominciano i problemi. I pregiudizi, che i bambini bantu «assorbono» dai loro genitori, cominciano a farsi strada e i Pigmei – che spesso non hanno l’uniforme, le scarpe o il sapone per lavarsi prima di andare a scuola – diventano l’oggetto di beffe e dispetti. Questa stigmatizzazione a poco a poco umilia e scoraggia i Pigmei, che finiscono per lasciare la scuola. Qui a Bayenga, su cento che iniziano la scuola primaria solo cinque o sei arrivano a concluderla (alle volte neanche uno)».

Per chi ce la fa, la vita cambia in meglio?

«Non direi. A scuola, i ragazzi pigmei hanno preso coscienza dell’immagine che i Bantu hanno di loro, hanno visto le differenze e capito perché gli altri hanno certi atteggiamenti al loro riguardo: per questo vivono il ritornare al campement come una sorta di arretramento. D’altra parte, inserirsi nel villaggio assieme ai Bantu è come piantare un albero senza radici, fra persone che non li accettano come propri pari e che tendono a imporre loro delle relazioni verticali, gerarchiche. Per molti si apre la strada di quella che noi chiamiamo la destrutturazione, dove alcol e cannabis diventano i mezzi con cui tenere a bada, nell’immediato, la frustrazione e la depressione e portano presto all’abbrutimento».

Arriviamo così a parlare del rapporto fra Pigmei e Bantu che piano piano, anche grazie a strumenti come il metodo O.R.A., state cercando di rendere meno conflittuale.

«Sì, ma non sarà un processo breve né semplice. La relazione fra i due gruppi nel territorio della nostra parrocchia qui a Bayenga è assai complessa: alcuni Pigmei erano già qui quando i Bantu arrivarono nella grande foresta che copriva la zona; altri sono arrivati con i loro padroni bantu da diverse zone del Congo per cercare lavoro nelle piantagioni belghe e greche, ai tempi della colonizzazione. In generale, si può dire che ci sono famiglie bantu che sono proprietarie di gruppi di Pigmei, e succede che un proprietario si riferisca ai Bambuti come ai «miei Pigmei, i Pigmei che mi ha lasciato mio padre quando è morto». Questi Pigmei sono in qualche modo parte della famiglia, ma come servi, non come membri alla pari degli altri (per maggiori dettagli sul rapporto fra Bantu e Pigmei vedi articolo Echi dalla foresta, di M. Bello, MC ottobre 2012).Invece ora, già per il fatto di sentirsi accompagnati e voluti bene da noi così come sono, incoraggia alcuni Pigmei a relazionarsi con dei Bantu su basi più paritarie. Ci sono anche dei Bantu che già s’avvicinano ai Pigmei con altro approccio, con una nuova maniera di relazionarsi che non è più quella del padrone con lo schiavo».

Di recente è apparso in Italia un articolo che parla del conflitto fra Pigmei e Bantu nella regione del Tanganika, nel Congo orientale. Lì, dall’estate 2016 ci sono stati quasi 500 morti, 2.500 feriti e 70 mila sfollati prevalentemente Bantu. I Pigmei si sono armati e combattono, bruciano villaggi, uccidono chi non scappa.

«Non conosco la situazione di quella regione, ma mi pare che quel che avviene qui a Bayenga sia piuttosto il contrario: i Pigmei, pacifici abitanti della foresta, hanno accolto senza condizioni i Bantu al loro arrivo. Poi si sono create relazioni di sfruttamento (soprattutto nei lavori dei campi) ma anche di «simbiosi»: i Pigmei sentono il bisogno di ritornare dai padroni bantu per vendere la selvaggina, il miele, i frutti presi nella foresta. Ci sono conflitti, sì, ad esempio quando i Bantu non pagano i Pigmei e questi rubano nel campo del padrone, o gli sottraggono una gallina. Ma lo fanno per sopravvivere, non per lucrare, e senza usare la violenza. Di solito queste scaramucce vengono regolate in «famiglia» o dal giudice di pace locale. Purtroppo, però, non posso escludere che la situazione si evolva nella direzione che l’articolo descrive per il Tanganika».

Che cosa potrebbe portare al conflitto?

«Nella nostra missione ci sono circa tremila Pigmei e quattordicimila Bantu. Le attività economiche che la maggioranza bantu svolge – agricoltura, taglio e commercio del legno, sfruttamento minerario – fanno precipitare in fretta la foresta e i suoi biomi verso una situazione non sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, e non solo per i Pigmei. Ci sono molti interessi in gioco e molto poca formazione per affrontarli: è grande l’ignoranza che si rallegra del profitto veloce delle miniere e dell’esportazione del legno. Nella quasi totale assenza dello stato, la foresta diviene piazza aperta per quanti hanno un po’ di forza fisica o economica per sfruttarla».

Okapi nella Okapi Wildlife Reserve (© Kim S. Gjerstad)

La vecchia storia del Congo supermercato a cielo aperto alla mercé di chiunque abbia abbastanza armi o soldi.In un rapporto del 2015 dal significativo titolo Exploiter (dans) le désordre, la Caritas e la Commissione giustizia e pace della diocesi di Wamba spiegano la situazione della Riserva Forestale degli okapi (Rfo), a una manciata di chilometri da Bayenga. Secondo il rapporto, nel parco ci sarebbero una settantina di cantieri artigianali – uno di questi sarebbe in grado di produrre oro per 300 mila dollari settimanali – dove lavorano decine di migliaia di minatori informali. Sempre secondo il documento, a questi cantieri si aggiungono poi quelli semi industriali e industriali nei dintorni della Rfo:  a competere per la corsa all’oro ci sono proprio tutti, dai minatori artigianali alle grandi compagnie minerarie come la Kilo Goldmines, passando per le Fardc (l’esercito congolese) e le milizie ribelli.

«Esattamente. Fra la Rfo e la foresta intorno a Bayenga non c’è praticamente soluzione di continuità e i Pigmei Bambuti da sempre hanno cacciato in quest’area. Non l’okapi, però, visto che si concentrano su prede più piccole. Eppure, ora è proibito a tutti l’accesso alla riserva, i cui limiti sono stati fissati senza interpellare né i Pigmei né i Bantu. L’ente responsabile della vigilanza al parco dice che l’interdizione riguarda qualche specie soltanto, ma visto che non ha mezzi e personale sufficienti per fare i controlli, il risultato è il divieto assoluto di caccia e, addirittura, di passaggio nella riserva. Questa interdizione è rafforzata dalle attività dei ribelli e dei cacciatori di frodo, che invece nella Rfo ci sono e non gradiscono la presenza di possibili testimoni delle loro attività. Sì, come vedi c’è molto di più in ballo che non la convivenza fra due gruppi umani che faticano ad accettare l’uno lo stile di vita dell’altro».

Quello che racconti ricorda molto le difficoltà che i nostri missionari hanno affrontato e affrontano in Amazzonia.

«Ci sono molte somiglianze, sì, ma anche molte differenze. Qui non c’è mai stata una demarcazione delle terre indigene né un riconoscimento giuridico dei diritti dei Pigmei. Quello che noi cerchiamo di fare è accompagnare tanto i Bambuti quanto i Bantu in un cammino di reciproca conoscenza e comprensione che, se da un lato probabilmente dovrà passare per un adattamento dei Pigmei al contesto circostante, cerca però anche di evitare l’omologazione e valorizzare e difendere le caratteristiche dei Bambuti e della foresta che esso abita. Foresta che, vale la pena di ricordarlo, è un patrimonio per tutto il pianeta».

Chiara Giovetti




Burkina Faso: l’uomo che fermò il deserto


È nato in una regione del mondo dove la natura è avversa. E produrre cibo è molto difficile. Le grandi carestie degli anni ‘80 hanno allontanato gli uomini validi. Ma lui è rimasto e ha studiato un metodo per coltivare nel deserto. Con la sola acqua piovana. Ora a casa sua c’è una foresta con una grande biodiversità.

Ma le sfide non sono terminate.

Alto e secco, indossa l’abbigliamento tipico saheliano delle persone di una certa età e quindi, per l’Africa, autorevolezza sociale: un grand boubou (vedi foto pag. 15) e un cappellino circolare. Sembra un po’ spaesato quando lo incontriamo a Cumiana, cittadina in provincia di Torino, dove l’amministrazione comunale e l’Ong Cisv hanno organizzato il CumianaFest, di cui Yacouba Sawadogo è l’ospite d’onore. Il Festival presenta le esperienze di piccoli agricoltori che hanno fatto del loro lavoro un modo di salvare il pianeta e la sua biodiversità.

Yacouba Sawadogo è un contadino del Nord del Burkina Faso. Non è mai andato in una scuola di tipo «occidentale», per cui non sa leggere né scrivere e parla solo la sua lingua, il moore. Ha invece frequentato una scuola coranica nel vicino Mali, quando era ragazzo.

Originario di Gourga, piccolo villaggio nei pressi di Ouahigouya, quarta città del Burkina Faso, con 70.000 abitanti, vi ha passato tutta la sua vita. La zona è in pieno Sahel, la fascia climatica che taglia l’Africa in senso orizzontale a Sud del Sahara. Una cintura di savana secca e poco arborata, che costituisce il raccordo tra il deserto nel Nord e le zone più umide a Sud. Tecnicamente si considera Sahel la fascia climatica che ha una pluviometria media annuale, misurata in millimetri di pioggia caduti all’anno, tra i 150 e i 600.

Negli ultimi 50 anni la zona ha continuato a deteriorarsi: sono diminuiti gli alberi e gli arbusti, mentre lo strato di terra organica coltivabile si è assottigliato. Un fenomeno causato dall’erosione delle violente piogge, concentrate in poche settimane, ma anche dalla pressione umana (taglio degli alberi e pastorizia) e, a livello più globale, dal cambiamento climatico e diminuzione delle piogge. È come dire che il deserto del Sahara si è impossessato di una striscia mediamente di 100 km, e la banda saheliana si è spostata della stessa distanza verso Sud. Per questo motivo si dice che il Sahara si estende verso il Sud.

A Ouahigouya la pioggia è scarsa e cade in un unico periodo dell’anno, tra giugno e settembre. È in questi mesi che i contadini coltivano il miglio e il sorgo, i cui semi, stoccati in magazzini tradizionali, dovranno nutrire le loro famiglie per l’intero anno successivo. Sempre più accade che le precipitazioni siano scarse e irregolari per cui le piantine non riescono a svilupparsi e le pannocchie ad arrivare a maturazione.

È in questo contesto che periodicamente si verificano fenomeni di siccità e carestia. Ed è proprio durante la grande carestia agli inizi degli anni ’80 (1980-83) che inizia la storia di Yacouba Sawadogo.

I soldi non si mangiano

«Quando rientrai in Burkina dal Mali, dopo aver frequentato la scuola coranica, iniziai un commercio. Conoscevo la meccanica delle moto. Il lavoro andava bene, e i soldi non mi mancavano» ci racconta Yacouba. È la fine degli anni ’70. Poi iniziano i problemi. «Dopo qualche tempo, a causa della grande siccità, la gente iniziava ad andarsene dal Nord per cercare zone in cui poteva trovare da mangiare. Anche io sono andato a lavorare in Costa d’Avorio, ma sono tornato dopo poco tempo». Yacouba prende una decisione, quella di seguire la strada più dura: lavorare la terra. «Quando ho cominciato, non c’era acqua, per cui non solo non si poteva coltivare, ma anche gli animali morivano perché non c’era pascolo. Ho osservato che anche quelli che avevano i soldi, non avevano nulla da comprare. Ho visto commercianti più ricchi di me, che se ne andavano». Yacouba comprende una semplice ma essenziale verità: «In quel periodo ho capito che né i soldi, né la ricchezza delle mandrie dominano il mondo, ma è il cibo la chiave della vita». Così decide: «Invece di scappare, attaccherò il problema».

Yacouba conosce una tecnica ancestrale, che a quelle latitudini ha permesso ai contadini di sopravvivere. Si chiama «Zai» e consiste nello scavare nel terreno delle conchette di una ventina di centimetri di diametro, una accanto all’altra, allineate secondo la pendenza del terreno. In esse si depositano i semi. Le conchette, talvolta riempite di concime, hanno l’effetto di trattenere l’acqua, che le piogge torrenziali e il terreno secco tendono a far scorrere velocemente a valle, non penetrando nel suolo e, anzi, erodendolo.

Il nostro uomo si ingegna e modifica la tecnica dello Zai tradizionale migliorandola. Modifica la zappa utilizzata per scavare le conchette e le scava più grandi e profonde. Fa poi in modo di porvi sempre del concime organico e talvolta altri elementi, come le termiti.

All’inizio è dura: «Ho cominciato da solo sulla mia terra. Quando ho visto che le migliorie funzionavano e riuscivo a produrre miglio e sorgo, ho coinvolto mia moglie e i miei figli. Poi si sono aggiunti i vicini. Siamo arrivati a un lavoro comunitario».

Proprio il lavoro comunitario ha un’importanza fondamentale per Yacouba: «Apporta molte conoscenze a tutti quelli che vi partecipano e aiuta molto il proprietario del campo. È un lavoro che coinvolge anche i più riluttanti che vedono che gli altri lavorano insieme, e imparano. Inoltre essendo in tanti si può fare un lavoro più efficace tutti insieme».

Yacouba ha coinvolto anche villaggi dei dintorni e ha realizzato una specie di credito in natura. A chi lo aiuta fornisce parte dei suoi semi. Questi li utlizzano per coltivare e poi, a loro volta, renderenno a Yacouba parte dei semi raccolti.

Un’oasi di biodiversità

Ma Yacouba non si ferma all’agricoltura di sostentamento e inizia a portare semi di diverse piante nel suo campo. Arriva così a sviluppare, in quasi 40 anni di lavoro continuativo, una vera foresta in una zona altamente desertificata. La foresta di Gourga, su una superficie di 23,5 ettari, è un polmone a elevata biodiversità.

«All’inizio nacquero delle piante spontaneamente perché nel letame usato come concime c’erano i semi dei frutti mangiati dagli animali. Poi iniziai io stesso a portare semi di piante che erano scomparse dalla zona». Senza accorgersene Yacouba realizza un esperimento di agroecologia in anticipo sui tempi.

«L’importanza delle piante e degli alberi è fondamentale: danno ombra all’uomo, fanno da frangi vento, in zone nelle quali il vento è molto forte, trattengono la terra, lottando quindi contro l’erosione, e fertilizzano il suolo. Inoltre alcune loro parti, come foglie, corteccia, radici, semi sono utilizzate per curare gli uomini. Per tutti questi motivi ho piantato gli alberi».

Ci sono anche animali nella foresta di Yacouba: diversi uccelli, tortorelle, lepri, scoiattoli, roditori. Tutti contribuiscono alla rigenerazione della foresta. Perché i volatili possono portare semi da altre zone, i roditori scavano gallerie che aiutano la fertilizzazione del suolo, sono utili per l’uomo, e alcune specie sono commestibili. L’anziano contadino «agroecologista» ha, anche in questo, molto da insegnare: «Io do da mangiare e da bere agli animali della foresta, in particolare gli uccelli. Metto delle ciotole con l’acqua e lascio per terra delle granaglie. Così gli uccelli si fermano e abitano la foresta. Con i benefici che questo crea. Inoltre voglio salvaguardare tutte le specie della foresta, anche quelle più rare nel Sahel».

Esiste un animale molto piccolo fondamentale per la lotta alla progressione del deserto: la termite.

Le termiti contribuiscono alla fertilizzazione dei suoli attraverso i cunicoli e la trasformazione dei microelementi del letame posto nelle conchette. «Ad esempio si possono utilizzare nello Zai migliorato. La tecnica è semplice: quando vedo un posto dove osservo la presenza di termiti, conosco quello che a loro piace mangiare, porto questi alimenti e vedo le termiti uscire per mangiare». Così Yacouba può spostare le termiti in altre zone e diffonderle. «Ci sono dei termitai morti, ovvero disabitati. Io riesco a riportare termiti in questi termitai che non sono più abitati per farli rivivere perché possano dare così il loro contributo all’ecosistema».

In queste attività Yacouba si fa aiutare dai suoi figli: «Quello che fanno è studiare le specie vegetali, entrano nella foresta e verificano se qualche specie locale non è ancora presente. In questo caso viaggiano nella regione per cercare i semi e piantarli nella foresta. Uno dei miei figli è andato fino in Mali per prendere i semi di un’erba specifica e portarli a Ouahigouya».

Dalla terra all’uomo

Ma dietro all’idea – e alla pratica – di salvaguardare l’ambiente, Yacouba Sawadogo ha come obiettivo, sul lungo termine, quello di curare le persone. «Mi ero detto: per 40 anni lavorerò per migliorare la terra e la foresta, producendo piante, portando specie da altre zone, ma dopo mi consacrerò a curare l’umanità».

Così una decina di anni fa, il contadino noto come «colui che ha fermato il deserto», inizia a utilizzare piante medicinali per curare i malati. «Quando ero piccolo, ho visto dei vecchi che curavano le persone con diverse malattie, usando semplicemente delle piante, scorze, fiori, foglie, radici. Ma ho notato che negli anni molte piante sono scomparse. Ecco perché ho iniziato a cercarle per introdurle nella foresta. Poi ho cominciato a usare le piante. Se vedevo qualcuno che aveva bisogno, allora intervenivo. Ma non mi proponevo come curatore. Solo più tardi ho iniziato a ricevere i pazienti come curatore. Ho costruito 10 piccole case nella foresta dove ricevere i malati. Adesso visito almeno un paziente al giorno. Da quando sono in Italia, ricevo telefonate di malati del mio paese che hanno bisogno di me, che mi chiamano per andare a curarli».

Yacouba ottiene poi dal ministero della Sanità un’autorizzazione per curare le malattie. In particolare per raffreddori, bronchiti ed emorroidi.

Ecco perché, da qualche tempo, nella «sua» foresta sono prioritarie le piante medicinali, ma sta seminando anche piante per alimentazione. In particolare essenze che stanno scomparendo nella zona.

Fama internazionale?

Yacouba ha un aspetto tranquillo, quasi dimesso, ma si vede che è una persona autorevole. Non si dilunga in conversazioni inutili, e risponde in modo molto sintetico alle domande.

Circa 10 anni fa l’Ong Oxfam fa in modo di farlo invitare negli Stati Uniti, dove organizza la presentazione del suo lavoro al congresso statunitense. È un’occasione in cui il lavoro dello sconosciuto e riservato contadino burkinabè ha un momento di gloria. Qualche anno dopo, nel 2010, il documentarista britannico Mark Dodd ne fa un documentario: «L’uomo che fermò il deserto».

«Dopo il viaggio sono stato avvicinato da molte persone straniere e burkinabè e in diversi sono venuti a vedere il mio Zai. L’esperienza mi ha galvanizzato e mi ha dato più coraggio per perseverare in questo lavoro. Inoltre mi ha fatto comprendere che quello che faccio in questo angolo della terra è molto utile per l’umanità, a tal punto che la maggiore potenza del mondo mi chiede di spiegarlo».

Yacouba riceve pure un premio negli Usa, ma nessun aiuto materiale o finanziario per migliorare la sua pratica.

Anche in Burkina Faso il governo conosce il suo lavoro straordinario, ma nessuno si impegna ad andare a vedere, aiutarlo finanziariamente o riconoscerlo ufficialmente.

Preservare la foresta

Alcuni anni fa, a causa dell’estensione di Ouahigouya, una fascia intorno alla città viene lottizzata e venduta a privati. In Burkina Faso la terra in ambiente rurale è tutta di proprietà dello stato che la lascia sfruttare a chi ci abita, secondo delle regole di assegnazione attraverso i capi tradizionali. Quando un’area rurale diventa urbana, allora viene venduta e sono rilasciati titoli di proprietà. La terra della famiglia di Yacouba, sulla quale aveva lavorato suo padre e nella quale sono seppelliti lui e gli altri antenati, è proprio nei pressi della città. L’ultima lottizzazione la interessa e la sua casa viene suddivisa su quattro parcelle, la tomba di suo padre su due, un pozzo che lui utilizzava rimane su un’altra parcella ancora. Anche la foresta rischia di venire suddivisa, ma forse grazie al momento di notorietà, il comune la risparmia. «Tutto intorno alla foresta la terra è stata suddivisa e venduta a privati, ma gli alberi non sono stati toccati. Qualcuno ha cercato di costruire all’interno di essa ma lo stato li ha cacciati». Il nostro uomo però non dorme sonni tranquilli, teme che la foresta, se non viene protetta, un giorno scomparirà con tutta la sua biodiversità: «Sto chiedendo al governo che il suo territorio sia demarcato ufficialmente, e quindi protetto, e cerco finanziamenti per realizzare un muro di cinta che la circondi». Operazione non facile, la seconda, visto che si tratta di una superficie vasta, grosso modo, come 32 campi da calcio.

«Ogni giorno – ricorda l’anziano – recevo un visitatore nazionale o internazionale, vengono classi di studenti. Tutti a vedere la foresta e conoscere le mie tecniche. È come una scuola mondiale, un bene comune dell’umanità. Lasciarla distruggere sarebbe un grave errore»

La successione

Yacouba ha oggi 70 anni, un’età veneranda nel Shael, dove la speranza di vita si ferma intorno ai 55. Si preoccupa per la foresta per quando lui non sarà più sulla terra. Per questo ha formato uno dei suoi figli, che poi è andato a vivere vicino agli alberi. Un altro figlio lo ha mandato a studiare come tecnico forestale, affinché si formi meglio per poi tornare.

«Vorrei che questo luogo sia per tutta l’umanità una scuola di agroecologia, dove chiunque possa venire da altre zone della terra a imparare la tecnica dello Zai per rigenerare la natura. Vorrei salvaguardare tutte queste specie di piante e animali selvaggi, una biodiversità saheliana, per l’umanità».

Congedandoci dal questo «grande vecchio» non possiamo che pensare alla saggezza di questo uomo semplice, che ha dedicato tutta la vita per lottare contro la distruzione della natura, per e con il fine ultimo di migliorare le condizioni di vita dei suoi compaesani e dare un segnale a tutta l’umanità.

Marco Bello

 




Papua Nuova Guinea. Deforestazione: la rapina silenziosa


Lo stato di Papua Nuova Guinea divide con l’Indonesia la seconda isola più grande del mondo. Ma soprattutto il terzo polmone verde del pianeta. Un polmone messo in pericolo da una deforestazione incontrollata. Il programma delle Nazioni Unite denominato «Redd» può essere una soluzione?

Fermare la deforestazione che sta devastando il paese e stabilire un piano d’azione concreto per dar vita a un’industria del legname sostenibile, in grado di produrre vantaggi anche per le comunità locali e non solo per le grandi compagnie straniere. È questo l’obiettivo degli incontri del Redd+ in Papua Nuova Guinea, avvenuti ad aprile e agosto 2016 a Kimbe, nella regione della Nuova Britannia.

La sigla Redd+ sta per «Reduction of emissions from deforestation and forest degradation», un programma elaborato nell’ambito della Unfccc, la «Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici», per favorire la riduzione delle emissioni provenienti dalla distruzione delle foreste nei paesi in via di sviluppo. Il meccanismo alla base del progetto prevede l’istituzione di un sistema di pagamenti per quegli stati che riescono a dimostrare la capacità di ridurre le emissioni derivanti dalla deforestazione che, secondo le stesse Nazioni Unite, ammontano al 20 per cento del totale prodotto sul pianeta.

Per una terra verde e in buona parte ancora incontaminata come la Papua Nuova Guinea, che, secondo le stime degli esperti dell’Onu, ospita da sola circa il 5% della biodiversità di tutto il globo ma che da decenni è oggetto di un sistematico e violento saccheggio da parte di società straniere che commerciano in legname, il Redd+ non può essere considerato solo un programma di nicchia per biologi e addetti ai lavori, quanto piuttosto uno strumento da mettere in funzione prima che sia troppo tardi. Vale a dire prima che si superi quella soglia di non ritorno che porterebbe al definitivo collasso del terzo polmone verde più grande della terra, dopo la foresta amazzonica e quella che ricopre la parte meridionale del continente asiatico. Porre un freno alla deforestazione, però, è un’impresa tutt’altro che semplice in uno dei paesi tra i più poveri e arretrati del pianeta, oggetto delle voraci brame dell’industria dei tronchi d’albero.

Tremila alberi per abitante

La Papua Nuova Guinea occupa metà della seconda isola più grande al mondo dopo la Groenlandia e diverse centinaia di piccole isole. Tre quarti dei suoi 462.840 chilometri quadrati sono coperti da foreste, in un chilometro quadrato delle quali crescono circa 70.000 alberi. Partendo da queste premesse è facile calcolare a spanne che il paese ospita più o meno 24,3 miliardi di alberi, 3.037 per ognuno dei suoi 8 milioni di abitanti. Numeri impressionanti, che sembrerebbero mettere al sicuro il territorio da qualsiasi «calvizie» da disboscamento, e che invece devono essere confrontati con le ancora più sconcertanti cifre della deforestazione.

Superando tutti i paesi africani, asiatici e dell’America Latina, la Papua Nuova Guinea è divenuta infatti il primo esportatore mondiale di «taun». Conosciuto nella regione del Sud Est asiatico anche come ahabu, matorna, malugai, kasai, sibu, tava o truong, questo particolare tipo di legno tropicale simile al mogano risponde al nome scientifico di Pometia pinnata ed è ricercato principalmente, ma non solo, per le decorazioni degli interni. Secondo uno studio pubblicato a febbraio dal think tank califoiano Oakland Institute (oaklandinstitute.org), solo nel 2014 dall’isola sono stati esportati quasi 4 milioni di metri cubi di legname, l’80 per cento dei quali è finito sul mercato cinese. Il tutto senza che la disastrata economia locale ne abbia tratto sostanziale giovamento.

Il dossier, significativamente intitolato «The great timber heist» (La grande rapina del legno), sottolinea a questo proposito che attualmente circa un terzo del territorio coperto da foreste del paese è nelle mani di compagnie straniere, e che ogni anno l’isola perde oltre 100 milioni di dollari a causa dell’evasione fiscale perpetrata da queste società. Attraverso complessi sistemi di scatole cinesi e aziende controllate, spiega il documento, le imprese estere riescono a dichiarare prezzi di vendita del legname irrisori, gonfiando parallelamente i costi dei materiali acquistati e arrivando in questo modo a dichiarare profitti quasi nulli, e quindi non tassabili. L’Oakland Institute ha analizzato nel dettaglio il caso della società malese Rimbunan Hijau, le cui 16 consociate attive in Papua Nuova Guinea risultano essere in perdita e non pagano un dollaro di tasse, pur gestendo un quarto di tutte le esportazioni di legname del paese.

«I prezzi all’esportazione dichiarati per il legname dell’isola – si legge nel dossier – sono significativamente più bassi rispetto a quelli degli altri grandi fornitori di tronchi tropicali. Negli ultimi 15 anni il prezzo medio per metro cubo è stato inferiore del 20 per cento rispetto alla media degli altri cinque principali esportatori. Nel 2014, il prezzo medio dei tronchi prodotti da grandi esportatori come il Camerun e la Birmania era di 388 dollari al metro cubo, quasi il doppio del prezzo dei tronchi della Papua Nuova Guinea, che non arrivava ai 210 al metro cubo. Applicati ai volumi di esportazioni del 2014 questo si traduce in una variazione annua di fatturato di 679 milioni di dollari per le industrie del legno». Le autorità forestali del paese sono «inefficienti – prosegue lo studio – e presentano grandi carenze e una corruzione diffusa». In questo contesto «l’industria del legname ottiene in molti casi trattamenti preferenziali, mentre gli abitanti delle zone rurali subiscono le conseguenze sociali e ambientali prodotte da un settore che opera spesso al di fuori delle leggi». Se veramente il commercio del legname è un’attività in perdita, «perché le imprese straniere continuano la loro attività?», si è chiesto Frédéric Mousseau, direttore del think tank califoiano. Una domanda ovviamente retorica, se si considera che, malgrado i bilanci in rosso dichiarati dalle compagnie, le esportazioni sono quasi raddoppiate a partire dal 2009.

Terre in vendita

Il documento si sofferma anche sul problema delle cosiddette Sabl, le Special agriculture and business leases, locazioni a tassi agevolati per agricoltura e commercio concesse dalle autorità alle imprese e pensate teoricamente per attrarre investimenti. Tra il 2003 e il 2012 a causa delle Sabl, 5,5 milioni di ettari di foreste sono passati di fatto sotto il controllo di società del legname nazionali ed estere, mentre la percentuale della terra controllata dalle comunità locali è scesa dal 97 all’85 per cento. Un’inchiesta ufficiale condotta dalle autorità di Port Moresby ha dimostrato come le assegnazioni delle Sabl siano state caratterizzate da «abusi, frodi, assenza di cornordinamento tra le agenzie governative, fallimento e incompetenza dei funzionari governativi nell’assicurare il rispetto, la responsabilità e la trasparenza». Evidenze che hanno portato il primo ministro papuano Peter O’Neill ad ammettere in pubblico che «lo strumento delle Sabl ha fallito miseramente».

L’Oakland Institute aveva provato a portare all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale il problema della deforestazione in Papua Nuova Guinea già nel 2014 con il documentario On our land. Un cortometraggio di 36 minuti (è visibile su YouTube, ndr) che racconta il furto subito dalle comunità rurali dell’isola, nonostante la carta costituzionale del paese stabilisca l’autonomia e la sovranità della terra e delle risorse naturali, imponendone un impiego sostenibile e affidandone la gestione a clan e tribù, con l’esclusione quasi completa della proprietà privata. Anche grazie a queste e tante altre iniziative di sensibilizzazione portate avanti da numerosi gruppi e associazioni per la difesa della terra e dell’ambiente, le autorità di Port Moresby hanno iniziato a rendersi conto che lo sfruttamento delle foreste ha ormai raggiunto un livello insostenibile. Il problema, come ha spiegato il professor Simon Saulei del Papua New Guinea Forest research institute all’agenzia Inter press service (Ips), è che gli organismi governativi incaricati di difendere le foreste e l’ecosistema si scontrano con una cronica «carenza di personale e fondi», che blocca le attività avviate e non consente di intraprendere nuove iniziative.

Redd sarà la soluzione?

Una delle strade che l’esecutivo di Port Moresby sta cercando di percorrere per arginare in qualche modo la situazione è l’implementazione del Redd+. Come già ricordato, lo scorso aprile si è svolto a Kimbe il primo Redd+ expert training event, che ha visto la partecipazione di 37 rappresentanti del governo, della società civile e del settore privato. L’evento ha avuto il sostegno dell’Undp, il Programma di sviluppo delle Nazioni unite. «Abbiamo messo insieme esponenti di tutti i settori interessati dal problema della deforestazione – ha spiegato al quotidiano online Papua New Guinea Today Terence Barambi, manager della Climate change and development authority papuana -. Quello che vogliamo fare è individuare le diverse priorità e stabilire una strategia nazionale contro la deforestazione nell’ambito del progetto Redd+». Barambi crede che la massima di Lao Tzu secondo cui «Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce», descriva bene la situazione della Papua Nuova Guinea, dove la deforestazione ha prodotto danni enormi ma a suo avviso non ancora irreparabili.Nel frattempo prosegue un altro importante progetto che vede il National forest monitoring system (Nfms) papuano impegnato nella creazione di un inventario nazionale degli alberi. Un’iniziativa senza precedenti per un paese in via di sviluppo, che coinvolge anche l’Italia, dato che il Nfms si avvarrà della collaborazione di alcuni scienziati dell’Università La Sapienza di Roma. L’archivio comprenderà la misurazione del volume del legname, la stima delle riserve di carbonio immagazzinate dagli alberi e delle emissioni di gas a effetto serra in caso di deforestazione, consentendo di effettuare una valutazione concreta del rapporto costi-opportunità legati al taglio degli alberi. L’obiettivo è mostrare chiaramente i benefici economici collegati alla creazione di un’industria del legname che abbia ritmi di produzione commisurati alle esigenze di tutela dell’ambiente, con vantaggi di lungo periodo sia per le società impiegate nel settore che per le comunità locali.

Paolo Tosatti*
(China Files)

* Paolo Tosatti, giornalista, collabora con China Files dal 2011. Per MC ha già scritto: Timor Est, Piccoli imprenditori crescono, giugno 2016.

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