Esseri umani respinti da un’Europa disumana


Da quando nel 2017 il governo ungherese ha ultimato la recinzione metallica alta 3,5 metri e lunga circa 175 km, sigillando il confine con la Serbia, la rotta migratoria balcanica si è spostata a Ovest, in quel lembo di Bosnia che si incunea nell’Unione europea, il cantone di Una-Sana. È da quell’angolo di mondo che nasce questo reportage.

Testo e foto di. Alberto Sachero

I rifugiati provenienti dalla Grecia, attraverso le rotte di Albania e Montenegro o Macedonia e Serbia, giungono alla porta d’ingresso dell’Unione, il confine con la Croazia, il 28° e ultimo paese, in ordine cronologico, a entrare in Ue nel 2013.

Si stima che più di 25.000 persone siano transitate in Bosnia nel 2018, ma nessuna di queste si vuole fermare in uno stato dove povertà e disoccupazione spingono gli stessi suoi abitanti ad emigrare altrove. Tentano di entrare nell’Ue per raggiungere i paesi tanto sognati: Germania, Olanda, Belgio, Francia, Spagna, Italia e Inghilterra.

Nei pressi del confine bosniaco-croato le cittadine di Velika Kladuša e Bihać, a partire da marzo 2018, si sono trovate a gestire una situazione di emergenza. Migliaia di migranti si sono concentrati nel campo «palude» vicino al canile municipale di Kladuša, e a Bihać all’interno del «Dom», un fatiscente stabile nel parco del centro cittadino. Nel primo, le persone dormivano in tende improvvisate, fatte di rami d’albero e teli di plastica; nel secondo in una struttura senza infissi, senza luce elettrica e con pericolosi buchi nei pavimenti dei suoi tre piani.

Le organizzazioni internazionali Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) e Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) si sono dimostrate da subito inadeguate a gestire tale emergenza. I migranti erano (e sono tutt’ora) sostenuti da una parte della popolazione bosniaca, reduce dalla guerra nell’ex Jugoslavia (1991-2001), e dalle associazioni di volontariato. I volontari di Croce Rossa, Medici senza frontiere, Ipsia, No Name Kitchen, Sos Team Kladuša e altri lavorano senza sosta per tamponare una situazione sempre più drammatica che l’Europa per il momento non vuole risolvere.

Per la maggior parte giovani uomini, più raramente donne e famiglie con bambini, provengono da quell’area geografica che dal Medio Oriente arriva fino alla Cina: Siria, Iraq, Iran, Afghanistan e Pakistan. Popoli che fuggono da guerre, persecuzioni politiche e fame. Popoli che cercano rifugio politico in Europa, ma ai quali l’Europa non concede il diritto di richiederlo, contravvenendo alle proprie leggi.

La maggioranza di loro ha provato più volte il «Game» senza vincerlo. «Game» (il gioco) è termine con cui i profughi ironicamente chiamano il tentativo di entrare nell’Unione europea. Partono in genere di notte, in piccoli gruppi. Spesso la polizia croata li intercetta con droni, cani e rilevatori di calore, e li respinge in Bosnia. Vengono picchiati, umiliati e derubati dei pochi soldi che hanno, mentre i loro telefonini, indispensabili per orientarsi col Gps nella fitta foresta, sono distrutti a manganellate.

I ragazzi raramente vincono, più spesso perdono il «Game» e, dopo giorni e giorni di cammino nei boschi e nei fiumi gelati, tornano a Kladuša o Bihać con il corpo martoriato, ferite sugli arti e piedi macerati. Qualcuno è morto annegato o per ipotermia nel tentativo di fuggire dalla polizia.

Perché i confini sono chiusi?

Alcuni, in alternativa al «Game», acquistano documenti contraffatti o pagano (i pochi che se lo possono permettere) qualche migliaio di euro ai trafficanti per farsi trasportare in furgone in Slovenia. Qui però spesso vengono scovati, consegnati alla polizia croata e deportati nuovamente in Bosnia. Il cerchio è così chiuso.

Nizar, giovane siriano di Aleppo: «Io non sono qui per scelta, in Siria stavo bene, ma ora è un paese completamente distrutto. Vorrei tornare, ma forse non ci tornerò mai».

Amhed, iracheno di Baghdad: «Ho camminato due anni con mia moglie e i miei due figli per arrivare in Grecia, lì ci siamo fermati altri due anni. Le condizioni nei campi erano terribili e quindi siamo ripartiti e arrivati in Bosnia, sempre a piedi. Ora vogliamo entrare in Europa e raggiungere i nostri parenti in Germania. In Iraq non possiamo tornare. Perché il confine è chiuso?».

Questa è la domanda che tutti fanno: «Why is the border closed?».

L’Europa continua a ignorare questo fatto e mantiene i rifugiati in un limbo: a casa non torni, ma in Europa non entri.

Manganelli e spray

Alla fine di ottobre 2018 i rifugiati hanno manifestato per una settimana intera al valico di Maljevac, al confine tra Bosnia e Croazia, costruendo un nuovo campo di tende con rami e plastica. I poliziotti croati hanno costituito un blocco per respingerli, ma alcuni hanno cercato di forzarlo. Si sono verificati scontri e la polizia ha usato manganelli e spray al peperoncino per farli indietreggiare. Anche donne, bambini e poliziotti bosniaci (che spesso proteggono i migranti dalla polizia croata) sono stati curati per asfissia e bruciori agli occhi nel furgone di Medici senza frontiere.

Il nuovo campo profughi distava trecento metri dalla dogana, ma il confine è stato chiuso allo scopo di fomentare il malcontento della popolazione locale, che vive di scambi economici tra i due paesi. L’Oim, che distribuiva cibo tre volte al giorno nel campo originario, si è rifiutata di portarlo al nuovo campo. I rifugiati, per mangiare, doverano tornare al vecchio campo o facevano spesa in paese, ma più spesso erano le stesse famiglie bosniache e i volontari stranieri a portare cibo e acqua per sostenerli.

Le autorità hanno bloccato le strade adiacenti la frontiera e dopo cinque giorni hanno comunicato ai profughi che se non fossero tornati al campo originario (a tre km dal confine), avrebbero bloccato l’unico sentiero utile per rifornirsi. I migranti si sono rifiutati, ma dopo due giorni, stremati, hanno dovuto cedere e sono stati trasferiti con cinque bus al nuovo campo: il «Miral». Questa struttura, gestita dalla Oim, è una ex fabbrica dotata di riscaldamento fuori dall’abitato di Kladuša.

Confinati e ignorati

La stessa cosa si è verificata a Bihać, dove dal fatiscente «Dom» sono stati trasportati al «Bira», ex fabbrica di frigoriferi. A gennaio 2019 ci vivevano circa 2.300 persone.

Un servizio privato di sicurezza nega l’accesso a chiunque non lavori all’interno. Non è quindi possibile verificare le condizioni di vita dei migranti, ma le testimonianze di volontari e rifugiati riportano che sono terribili. Nonostante la grande disponibilità di fondi delle agenzie Oim e Unhcr, mancano un’adeguata assistenza sanitaria e psicologica, per alleviare le sofferenze delle persone. A ottobre 2018 è morto all’interno del «Bira» un giovane ragazzo in circostanze poco chiare. Le organizzazioni internazionali, invece di garantire a chi ne ha diritto la richiesta di asilo politico, forniscono a malapena vitto e alloggio in ghetti prefabbricati. La convivenza forzata di più di 2.000 uomini provenienti da paesi diversi, sommata alle pessime condizioni, scatena spesso risse. Le associazioni indipendenti di volontari svolgono un lavoro straordinario fornendo assistenza sanitaria di base, scarpe e indumenti, servizio docce, pasti caldi e tanta comprensione umana.

L’Europa ha così «confinato» migliaia di esseri umani in due ex fabbriche bosniache, in modo da allontanare la minaccia di «invasione» da parte di questa povera gente. Un atto disumano contro ogni legge del diritto internazionale.

Oggi in pieno inverno, tra freddo, neve e respingimenti, i profughi continuano a tentare il «Game», che spesso perdono. Esseri umani respinti da una Europa disumana.

Alberto Sachero




La Croazia: Una spiaggia non basta


Indipendente dal 1991, la Croazia racchiude molteplici identità, una ricchezza che spesso produce tensioni. Le cicatrici della storia ad esempio riemergono periodicamente sia all’interno del paese sia nei rapporti con gli ex fratelli jugoslavi, in primis con la Serbia. Ai problemi politici si sono aggiunti quelli economici e sociali. L’entrata nell’Unione europea e il boom del turismo non sono stati sufficienti a evitare anni di recessione economica e la fuga dei giovani dal paese.

Est o Ovest? Europa centrale, Balcani o Mediterraneo? La geografia e la storia della Croazia non sono d’aiuto quando si tratta di posizionare il paese all’interno di queste categorie concettuali. La giovane repubblica, indipendente dal 1991, ha infatti diverse anime, che si ritrovano nei suoi dialetti, nei suoi stili architettonici e persino nella sua gastronomia. Terra di isole adriatiche, montagne innevate e pianure danubiane, la Croazia trae dalla propria ricchezza culturale le sue multiple identità: romana, slava, veneziana, austro-ungarica, jugoslava, europea… Un patrimonio di influenze e di sfumature, da cui derivano però anche le tensioni del presente. Le interpretazioni del passato, le opinioni sulla religione o ancora i rapporti con i paesi confinanti, scatenano periodicamente dei dibattiti capaci di spaccare in due la società croata, producendo un costante senso di lacerazione, che nemmeno l’ingresso nell’Unione europea, nell’estate del 2013, è riuscito a placare.

Se la presidente guarda a Višegrad

«Vorrei che non si utilizzasse più l’espressione “Balcani occidentali” per indicare questa regione. Parliamo piuttosto di Sud Est europeo». Nel novembre del 2015, in occasione di un vertice multilaterale, la presidente croata Kolinda Grabar-Kitarovi? ha espresso così il suo punto di vista sulla questione geografica della Croazia e dei suoi vicini. Il termine «Balcani» veniva allora bandito dai discorsi ufficiali della capo di Stato, eletta ad inizio 2015 tra le fila del partito conservatore Hdz e decisa ad avvicinare il paese al cosiddetto gruppo di Višegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia). Anche se la diplomazia internazionale ha in realtà mantenuto il vecchio vocabolario, per la Croazia, l’approccio di Grabar-Kitarovi? ha marcato un cambio di passo, confermato in quello stesso mese di novembre anche dal risultato delle elezioni legislative. L’Hdz, vincitore relativo dello scrutinio, è riuscito infatti a tornare al potere dopo una parentesi socialdemocratica (2011-2015) ed il governo che ne è risultato, guidato dal premier tecnico Tihomir Oreškovi?, ha riaperto in meno di un anno tutte le ferite proprie del tessuto sociale croato.

Le cicatrici della storia

L’esempio più significativo è quello di Zlatko Hasanbegovi?, uno storico accusato di revisionismo e negazionismo, ma nominato ministro della Cultura. Tra dichiarazioni sprezzanti e decisioni liberticide (ad esempio, la sospensione dei fondi pubblici ai media no-profit e al quotidiano della minoranza italiana «La Voce del Popolo»), Hasanbegovi? si è fatto notare anche per le sue osservazioni sul campo di concentramento di Jasenovac, il lager croato in cui morirono durante la Seconda guerra mondiale più di 83mila persone. «Tra le 20mila e le 40mila», è stata invece la stima del ministro, fatta proprio alla vigilia della cerimonia commemorativa nell’aprile 2016, boicottata allora dai rappresentanti delle vittime serbe ed ebree. Accadeva appena un anno fa, ma le radici del dibattito vanno cercate nel 1941, «l’anno che continua a tornare» come l’ha definito il celebre storico croato-bosniaco Slavko Goldstein. Nel 1941, lo scoppio della Guerra mondiale ha diviso il paese in due: tra ustascia e partigiani, i primi sostenitori dello Stato indipendente croato (Ndh), alleato della Germania nazista e dell’Italia fascista e guidato da Ante Paveli?; i secondi schierati con Josip Broz, detto Tito, diventato poi il leader della Jugoslavia socialista. E da allora, il 1941 «continua a tornare» come una maledizione.

Lo scontro sui diritti civili

La carriera ministeriale di Hasanbegovi?, convinto che la Croazia abbia «perso la Seconda guerra mondiale», è durata appena un anno. Nel giugno del 2016, il primo ministro Oreškovi? è stato sfiduciato, dopo che uno scandalo di corruzione aveva diviso i due partiti di maggioranza. Tuttavia, anche se si è trattato del «governo più breve della storia croata», come l’ha battezzato la stampa locale, diverse polarizzazioni proprie del paese sono state accentuate proprio in quel periodo. Oltre al caso Hasanbegovi?, che ha portato nel paese anche una missione del Consiglio d’Europa preoccupato per lo stato della libertà di espressione, un secondo terreno di scontro è stato quello della questione dell’aborto e dei diritti civili. Già nel 2013, ai tempi del governo socialdemocratico (Sdp), il fronte conservatore «Nel nome della famiglia» (U ime obitelji) era riuscito a rendere illegale il matrimonio tra persone dello stesso sesso, dopo aver organizzato un referendum costituzionale. L’esecutivo aveva risposto approvando le unioni civili anche per le coppie omosessuali, ma non era riuscito a chiudere il dibattito, in un paese che si professa cattolico quasi al 100%.

Durante il mandato di Oreškovi?, quindi, questo stesso movimento è tornato alla ribalta organizzando una «Marcia per la vita», con l’obiettivo di «proibire l’aborto in Croazia», come assicurava allora uno dei registi dell’evento, Vice John Batarelo, presidente dell’Ong «Vigilare». Al corteo, a cui presero parte migliaia di persone, sfilò in prima fila anche la moglie del premier, mentre a qualche metro di distanza si teneva una seconda manifestazione, voluta dai gruppi femministi e Lgbt della capitale e con obiettivi diametralmente opposti. Anche se è difficile che i militanti di «Nel nome della famiglia» arrivino a vietare l’interruzione di gravidanza, va detto che il tribunale di Zagabria, rispondendo ad una denuncia del 1991, ha dato al parlamento croato due anni di tempo (fino al 2019) per aggiornare la normativa in materia di aborto (che risale al 1978) in modo da renderla pienamente compatibile con l’ordinamento nato dopo la dissoluzione della Jugoslavia. La riforma della normativa non mancherà dunque di riaccendere il dibattito.

Croazia-Serbia: una ruggine che non passa

Un’altra questione religiosa – e legata anch’essa all’anno 1941 – ci porta ad affrontare il capitolo dei rapporti con la Serbia. Il caso del cardinale croato Alojzije Stepinac provoca infatti degli scontri regolari tra le cancellerie di Belgrado e di Zagabria. In breve, Stepinac (1898-1960), che fu arcivescovo nella capitale croata durante la Seconda guerra mondiale, è accusato dalle autorità serbe di crimini di guerra e di collaborazionismo con il regime di Ante Paveli? e, proprio per questo, fu condannato a 16 anni di prigione nel 1946 dalla giustizia jugoslava. Ma per la Croazia, Stepinac fu in realtà una vittima del comunismo, come dimostra il fatto che papa Giovanni Paolo II lo abbia proclamato «beato» nel 1998 e che una commissione in Vaticano stia discutendo ora della sua eventuale santificazione. Lungi dall’essere aneddotica come potrebbe sembrare, questa vicenda funge da leitmotiv nelle relazioni bilaterali serbo-croate, intervallate dagli anniversari del conflitto e dalle frequenti dichiarazioni incendiarie.

Anche in questo caso, l’apice della tensione diplomatica tra Croazia e Serbia è stato raggiunto durante il mandato di Oreškovi?, quando il ministro degli Esteri di Zagabria era Miro Kova? – uno dei falchi dell’Hdz – ed il suo corrispettivo serbo era Ivica Da?i?, alla guida del Partito socialista (Sps) che fu di Slobodan Miloševi?. Nell’estate del 2016, Belgrado si è spinta fino a scrivere all’Unione europea per protestare contro «la riabilitazione dell’ideologia ustascia in Croazia», mentre a livello locale continuavano le provocazioni, almeno fino alla nuova tornata elettorale croata. La nuova vittoria dell’Hdz, epurato questa volta dal suo vecchio leader Tomislav Karamarko e guidato dal più moderato Andrej Plenkovi?, ha portato ad una rosa di ministri quasi completamente rinnovata. Lungi dall’aver estinto le fonti di conflitto all’interno della società, il «riaccentramento» dell’esecutivo croato ha comunque contribuito a limitare la retorica nazionalista nei confronti dei vicini.

La stanchezza dei giovani

In questo contesto pesantemente influenzato dal passato (dal 1941, prima ancora che dal 1991), che ne è delle giovani generazioni? Anche qui, si fa sentire la stessa divisione che attraversa la società nel suo insieme, ma con una novità. Se è vero che una parte della gioventù croata rimane sensibile ai discorsi che ruotano attorno alla retorica conservatrice, un’altra parte, stanca del dibattito politico nazionale e avvilita dalle magre prospettive economiche, sceglie sempre più spesso la via dell’emigrazione (a maggior ragione dopo il 2013, anno dell’ingresso del paese nell’Ue). Spinti da una disoccupazione giovanile che supera il 30% (dati fine 2016), i ventenni croati preferiscono traslocare in Irlanda, Germania o in altri paesi dell’Europa settentrionale. E non sono un’eccezione: secondo un sondaggio realizzato a febbraio 2017 dal portale MojPosao.hr, quattro cittadini su cinque sono pronti a lasciare il proprio paese pur di trovare un posto di lavoro. Una vera e propria emorragia, al punto che secondo alcuni osservatori la Croazia conterebbe oggi meno di 4 milioni di abitanti, contrariamente a quanto affermato dal censimento del 2011, che ne rilevava 4,3 milioni.

Instabilità

Colpita da sei anni di recessione (2009 – 2015) e prigioniera delle ricorrenti discussioni politiche e religiose, la Croazia fatica dunque a trovare quella serenità necessaria a costruire il suo tanto agognato futuro europeo. Il ritorno della crescita, sostenuta soprattutto dal turismo che nel 2016 ha portato nel paese 16 milioni di visitatori (rappresentando quasi un quinto del Pil, vedi pag. 28) e l’elezione di un governo più moderato (ma già in crisi a metà 2017) sembrano rappresentare le giuste condizioni per voltare pagina in Croazia. Ma gli sforzi di una parte della società croata per lasciarsi alle spalle i fantasmi del nazionalismo dovranno fare i conti con il contesto regionale, caratterizzato da una crescente instabilità nei Balcani. In bilico tra passato e futuro, Zagabria ha oggi l’urgenza di completare il processo di riconciliazione con la propria storia recente e con i suoi vicini. Solo su delle basi prive di retorica, il paese potrà finalmente abbracciare tutte le sue identità.

Giovanni Vale*

* Giornalista professionista, Giovanni Vale è collaboratore di diverse testate italiane e francesi. Laureato in Scienze internazionali e diplomatiche all’università di Trieste, scrive perlopiù di Balcani per Il Piccolo, Osservatorio Balcani e Caucaso-Transeuropa e per Pagina99.

 


Migranti e «rotta balcanica»

Più Budapest che Bruxelles

La crisi dei migranti non ha risparmiato Zagabria. Che ha fatto le sue scelte.

La «rotta balcanica». Con quest’espressione, la stampa internazionale ha battezzato, nell’estate del 2015, il flusso di rifugiati che ha attraversato per mesi la Turchia, la Grecia e alcuni paesi dell’ex Jugoslavia, portando decine di migliaia di persone all’interno dello spazio comunitario. Siriani, iracheni o, ancora, afghani in fuga dai conflitti in Medio Oriente, hanno raggiunto in questo modo il territorio dell’Unione europea (e più precisamente lo spazio Schengen) nella speranza di ottenere una protezione umanitaria. Per la Croazia, questo flusso migratorio ha rappresentato una sfida logistica, prima ancora che politica. Il paese è stato coinvolto nella cosiddetta «rotta» a partire dal 15 settembre 2015, ovvero da quando il governo di Budapest ha ultimato il suo «muro», una barriera provvista di filo spinato e lunga più di 170 km con cui ha sigillato il confine serbo-ungherese. Da allora, la colonna di rifugiati che quotidianamente attraversava il Nord della Serbia in direzione settentrionale ha deviato verso ovest, entrando sul territorio croato.

Il governo di Zagabria, allora guidato dal premier socialdemocratico Zoran Milanovi?, ha dapprima deciso di far proseguire il flusso verso l’Ungheria, poi – dinanzi alla costruzione di una seconda barriera da parte di Budapest (questa volta al confine croato) – ha ripiegato sulla Slovenia. Data la geografia della Croazia, che pone la capitale lontana dalle pianure della Slavonia, interessate da questi eventi, si può dire che pochi cittadini croati abbiano realmente percepito la crisi migratoria del 2015, come è invece avvenuto nella vicina Serbia o ancor più in Grecia. Inoltre, similmente agli altri paesi della regione, soltanto un numero insignificante di rifugiati ha fatto domanda di asilo alle autorità croate, preferendo piuttosto proseguire verso la Germania e l’Europa settentrionale. Ciononostante, la questione migratoria ha avuto delle conseguenze politiche, prima nei rapporti con i vicini (tensioni con l’Ungheria, la Serbia e la Slovenia), poi, dal punto di vista interno.

Le elezioni di fine 2015 hanno infatti portato ad un cambio di governo a Zagabria ed il nuovo esecutivo si è schierato su posizioni più filo ungheresi sul tema delle migrazioni. Come la presidente Grabar-Kitarovi? aveva manifestato il suo appoggio ai paesi del gruppo di Višegrad (Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia), così il premier Oreškovi? ha assicurato fin da subito di capire il bisogno di sicurezza di Budapest e Vienna. Nella primavera del 2016, gli stati della «rotta balcanica» (Austria compresa) hanno dunque deciso di contraddire apertamente la posizione di Bruxelles, decidendo autonomamente di sbarrare il passaggio ai profughi, prima permettendo l’accesso a soltanto tre nazionalità (siriani, afghani e iracheni), considerati a priori come legittimi beneficiari della protezione umanitaria, poi chiudendo definitivamente l’ingresso in Macedonia ed isolando così la Grecia. L’accordo turco-europeo ha poi permesso di includere anche Atene in una soluzione comune.

Gio.Va.


La Chiesa cattolica croata

Diffusa, forte e schierata

In Croazia nove cittadini su dieci si dichiarano di religione cattolica. Limitata e ostacolata all’epoca della Jugoslavia socialista, oggi la Chiesa croata è su posizioni conservatrici e nazionaliste.

A lungo controllata all’epoca della Jugoslavia socialista, la Chiesa cattolica croata si è schierata fin dall’indipendenza nel 1991 su posizioni molto conservatrici. Vicina all’«Unione democratica croata» (Hdz) – il principale partito di destra – la Chiesa svolge tuttora un ruolo di primo piano nel dibattito politico nazionale. Ferocemente anti-comunista e spesso apertamente nazionalista, la gerarchia ecclesiastica croata si esprime sia tramite il suo quotidiano, il «Glas Koncila», sia per mezzo dei suoi alti prelati, periodicamente autori di dichiarazioni forti e schierate.

Alla vigilia delle ultime elezioni parlamentari, ad esempio, il vescovo di Sisak Vlado Koši? ha invitato espressamente i suoi concittadini a votare per l’Hdz e non permettere un ritorno dei socialdemocratici al potere. L’anno prima, nel maggio del 2015, l’arcivescovo di Zagabria Josip Bozani? aveva invece celebrato una messa a Bleiburg in Austria, in occasione del 70° anniversario del massacro di migliaia di cittadini croati compiuto nel 1945 dai partigiani jugoslavi. Ogni anno, la commemorazione di questa vendetta degli uomini di Tito contro gli esponenti dello sconfitto «Stato indipendente di Croazia» (Ndh) raduna nella piccola cittadina dell’Austria meridionale migliaia di militanti croati di estrema destra ed alcuni dei suoi rappresentanti politici. La presenza di alti esponenti ecclesiastici è perciò vista come controversa, così come lo è la figura di Alojzije Stepinac (1898-1960), arcivescovo di Zagabria che la Chiesa croata vorrebbe santo ma che la Serbia considera un criminale di guerra (vedi pezzo principale).

Dalle questioni legate al matrimonio e all’aborto fino alla battaglia contro le unioni omosessuali (contro cui la gerarchia cattolica croata si è battuta con successo nel 2013), gli interventi della Chiesa nel dibattito politico della Croazia sono dunque numerosi e costanti. Nel paese, nove cittadini su dieci si dichiarano di religione cattolica.

Giovanni Vale


Ex Jugoslavia

Ci eravamo tanto amati

Dopo la dissoluzione della Jugoslavia, i rapporti con gli ex «fratelli» sono all’insegna del sospetto reciproco.

Il golfo di Pirano, la frontiera sul Danubio o ancora il ponte di Sabbioncello. Ecco tre dossier bilaterali che la Croazia discute oggi con i suoi vicini. Si tratta di questioni nate con la dissoluzione della Jugoslavia e con la necessità di dividere un patrimonio che prima era comune e che non sono ancora state risolte.

Il primo caso è quello che coinvolge Croazia e Slovenia, tuttora impegnate a tracciare una frontiera marittima nelle acque del golfo di Pirano, poco lontano da Trieste. È una controversia vecchia di 25 anni e che ha visto diverse evoluzioni, ma nessuna soluzione condivisa. Lubiana chiede un accesso indipendente alle acque internazionali e rivendica una sovranità più ampia sulla baia, incontrando però l’opposizione di Zagabria. Negli anni, i negoziati si sono susseguiti così come le proposte di nuove carte nautiche. Dopo l’ingresso della Croazia nell’Ue, il diverbio è finito davanti ad una corte internazionale di arbitrato, ma nell’estate del 2015, quando il tribunale stava per esprimersi, una fuga di notizie tra i giudici e i rappresentanti sloveni ha convinto le autorità croate ad abbandonare il processo. Così, ad oltre un quarto di secolo dalla fine della Jugoslavia, i pescatori di entrambi i paesi non sanno ancora dove finiscono formalmente le acque del proprio stato ed iniziano quelle dei vicini.

Anche con la Serbia, una frontiera precisa rimane da tracciare. I paesi sono separati dal corso del Danubio, ma la Croazia fa appello a dei documenti catastali di epoca austroungarica e reclama alcuni ettari di terra che si trovano oggi oltre il fiume. Belgrado, inutile dirlo, si oppone ed ecco che la disputa – anche qui, vecchia di oltre 25 anni – ha permesso la “nascita” del Liberland, uno “stato” autoproclamatosi indipendente su un isolotto che nessuno dei due stati rivendica come proprio. E se la vicenda del confine tuttora da definire fa capolino solo raramente sulla stampa locale, è soltanto perché i motivi di tensione tra i due paesi non mancano: dalla tutela della rispettive minoranze al trattamento dei crimini di guerra, passando per la più recente (e spesso esplicita) corsa agli armamenti, le relazioni bilaterali serbo-croate sono già ben fornite.

Infine, con la Bosnia-Erzegovina, Zagabria discute due temi principali: le sorti dei croati residenti in Bosnia, che premono per la creazione di una «terza entità» federata nel paese, ed il modo in cui bypassare il corridoio di Neum, unico acceso al mare bosniaco ma causa dell’isolamento della contea di Dubrovnik dal resto della Croazia. Il primo argomento è decisamente molto spinoso, perché prevede una riforma dei trattati di Dayton del 1995 che equivarrebbe ad aprire il vaso di Pandora del delicato sistema istituzionale bosniaco. Più abbordabile, invece, il dossier di Neum. A questo proposito, due paesi hanno trovato un accordo per la costruzione di un ponte che collegherà la penisola di Sabbioncello alla terraferma dalmata e i lavori dovrebbero iniziare entro la fine del 2017.

Gio.Va.


Turismo e ambiente

Turisti: tanti, forse troppi

Fonte primaria dell’economia della Croazia, il turismo incontrollato comincia a produrre danni collaterali.

Sedici milioni di visitatori l’anno, con un contributo pari a quasi il 20% del Prodotto interno lordo (Pil). Il turismo rappresenta per la Croazia una priorità economica ed è un settore a dir poco strategico. Ogni anno, l’inizio dell’estate in Dalmazia, in Istria e sulle isole marca una delle ricorrenze annuali più importanti per il paese, che dipende in larga misura (forse eccessivamente) dai risultati della stagione turistica. E se nei fatti, la Croazia registra ogni anno dei nuovi record nel numero di arrivi o di pernottamenti, questo continuo boom comincia già a provocare i primi danni collaterali.

A Dubrovnik o al parco nazionale dei laghi di Plitvice, il numero dei turisti supera ormai la quota massima indicata dall’Unesco come parametro per la protezione del patrimonio culturale e naturale. Si parla di 10mila persone al giorno in fila sui bastioni della vecchia Ragusa e di oltre 15mila all’interno del celebre parco croato: un flusso eccessivo per l’Unesco che ha già intimato alle autorità di Zagabria di rimediare alla situazione. Inoltre, altre conseguenze negative, anche se più difficilmente quantificabili, colpiscono le città della costa e le comunità che le abitano. Accade così che nel centro di Spalato ci sono sempre meno residenti locali, seguendo l’esempio di quanto già successo per le vie della vicina Traù (Trogir). Il successo della spiaggia di Zr?e sull’isola di Pago rappresenta anch’esso un’opportunità e una sfida per le autorità locali, impegnate ora a trovare un equilibrio tra il turismo di massa legato alle discoteca e la voglia di promuovere i propri siti storici e culturali.

Proprio per rimediare a questa strategia mono-settoriale che colpisce le coste croate, un movimento si è sviluppato negli ultimi anni in Dalmazia. Si tratta del «movimento delle isole» (Pokret Otoka), un’iniziativa lanciata da un gruppo di giovani abitanti (perlopiù donne) con l’obiettivo di immaginare e pianificare un futuro sostenibile per le mille isole croate. Nato a fine 2015, Pokret Otoka ha creato una rete per lo scambio di idee e buone pratiche e ha recentemente portato alla firma di una «Dichiarazione dell’isola intelligente» (Smart Island Declaration), presentata a fine marzo 2017 a Bruxelles.

Gio.Va.