Cinquant’anni di relazioni Italia Vietnam. Stabilità e crescita


Le relazioni con l’Italia risalgono ai primi missionari. Ma l’amicizia è stata rinnovata durante la Guerra contro gli Usa. E poi si è sviluppata sui piani economico e culturale. Ce ne parla la console a Torino.

Civiltà quadrimillenaria, «paese del mito», il Vietnam è rimasto nel cuore e nelle coscienze di più di una generazione di italiani che, al tempo dell’invasione Usa, sono scesi nelle piazze e hanno manifestato per l’indipendenza di quel piccolo, lontano Paese aggredito dalla maggior potenza militare del mondo. Al Vietnam del resto, tutti noi siamo debitori perché il suo popolo ci ha insegnato che «indipendenza e libertà non sono mai merci barattabili».

L’evangelizzazione, primi contatti

Le relazioni dell’Italia con il Paese del Sud Est asiatico hanno radici antichissime. Dal XVII secolo, periodo in cui la Chiesa romana estese l’opera di evangelizzazione al Vietnam meridionale, in particolare, presero avvio rapporti sempre più intensi: nel 1695, Francesco Buzomi, religioso italiano della Compagnia di Gesù, residente nella concessione di Macao, dopo aver udito le impressioni di un viaggiatore portoghese di ritorno dal Vietnam, chiese e ottenne il permesso di stabilirsi in quel luogo per diffondervi le parole del Vangelo.

Nacque così la «Missione cocincinese», la cui data di fondazione può essere identificata con il giorno in cui Buzomi e il suo confratello portoghese, Diego Carvalho, sbarcarono al Porto di Kean, nella regione di Da Nang e celebrarono la loro prima messa. Undici anni dopo, sarebbe sorta, nel Nord del Paese, la «Missione del Tonchino» per opera di un altro italiano, padre Giuliano Baldinotti e di un francese, Alexandre de Rhodes che sarebbe diventato in seguito una figura di grande rilievo nella storia del Vietnam.

A differenza del suo confratello portoghese, che rimase in Vietnam per un solo anno, Buzomi visse nel Paese per oltre vent’anni; fondò numerose parrocchie e si dedicò all’opera di conversione ottenendo la fiducia degli Nguyen, i signori del Sud.

Sebbene all’epoca i religiosi stranieri presenti nell’area fossero per la maggior parte portoghesi – in ragione di una precisa ripartizione della sfera di influenza ecclesiastica che assegnava come territorio di evangelizzazione l’emisfero orientale al Portogallo – Alexandre de Rhodes individuò proprio in padre Buzomi, «il vero apostolo della Cocincina».

Nei primi dieci anni di attività della missione cocincinese, fra i ventuno componenti del clero presenti, si potevano contare dieci portoghesi e cinque italiani. Essi «inventarono» e diedero forma ad una nuova scrittura, il Quoc ngu, trascrizione fonetica della lingua vietnamita in caratteri latini, ancora oggi scrittura nazionale del Vietnam unificato, libero e indipendente.

Tra le figure di maggior spicco nel panorama ecclesiastico troviamo: Francesco de Pina, portoghese giunto nel Sud Vietnam nel 1617, il già citato Alexandre de Rhodes, francese, giunto nel 1624 – che apprese la lingua vietnamita proprio da de Pina – e l’italiano Cristoforo Borri (1583-1632), originario di Milano, che si stabilì nel Paese nel 1618 e visse prevalentemente a Nuoc Man (Regione di Binh Dinh).

A quanto pare, quest’ultimo aveva una particolare attitudine allo studio delle lingue. Contrariamente a de Rhodes che confessava di essere particolarmente scoraggiato di fronte alla complessità della fonetica vietnamita, simile al «cinguettio degli uccellini», Borri entrò in immediata sintonia con i toni e le ricche sonorità della lingua locale. Scriveva infatti: «La lingua vietnamita, con le sue numerose vocali, è soave e dolce ed essendo altresì ricca di toni e suoni, è melodiosa e armoniosa. Ritengo che, per tutti coloro che possiedono orecchio musicale e riescono a distinguere la differenza di toni e suoni, la lingua vietnamita sia in assoluto la più facile da apprendere».

Evidentemente, i missionari occidentali, nell’inventare il Quoc ngu, perseguivano il fine dell’evangelizzazione; tuttavia questa scrittura in caratteri latini avrebbe assunto un ruolo determinante nella storia e nella vita culturale del Vietnam. Ancora oggi, a oltre quattro secoli dal suo impiego in seno alla comunità vietnamita, non ci si è ancora resi pienamente conto del grande significato e della portata storica di tale evento. Occorre dire che, nel momento in cui la Chiesa portoghese non poté più assicurare la «propaganda» religiosa in Asia orientale, in seguito alla creazione della Société des missions étrangères, sorta nel 1668, furono i missionari francesi a concentrare nelle proprie mani la gestione dell’evangelizzazione in Vietnam, opera che assunse di fatto il significato di attività preliminare alla dominazione coloniale francese.

Modernità

Oggi, nel centro del Sud Est asiatico, il Vietnam è in rapido sviluppo economico. Uno sviluppo, anche culturale e umano, che il Paese vuole durevole e sostenibile. Prosegue un’esperienza sociale ed economica di grande interesse, con la crescita delle sue variabili macroeconomiche (dai flussi di import export all’attrazione di investimenti stranieri). A fronte di un avanzamento della sua popolazione, è divenuto un partner ambito e affidabile dell’Occidente. Ha senso pertanto oggi avvicinarsi, conoscere e visitare questo Paese per cercare di cogliere la sempre più articolata complessità di questo universo in transizione, poiché le impressioni vaghe e talvolta pregiudizievoli – di cui, da sempre, questo Paese è oggetto -, non si addicono al Vietnam, né alla sua gente, un popolo, come recita un antico adagio vietnamita, «che non smette di crescere». E, per avvicinarci a questo affascinante e orgoglioso Paese è inevitabile risalire al passato, per scovare le radici lontane di quella realtà che, di mutamento in mutamento, ha costituito, seppure sotto diverse denominazioni, l’odierno Vietnam.

Il cinquantenario

Quest’anno si celebra il 50° anniversario delle relazioni Italia-Vietnam. La ricorrenza segna un nuovo, importante tassello nella storia del rapporto fra i due Paesi. Le relazioni diplomatiche vivono oggi una stagione di grande intensità. L’Italia fu uno dei primi Paesi europei a stabilire relazioni diplomatiche ufficiali con il Vietnam (23 marzo 1973), nonostante l’orientamento della politica americana – volta allora a isolarlo dal contesto internazionale -, così come, nei lunghi anni dell’embargo statunitense, fu tra i primi Paesi a fornire aiuti.

Negli anni della cosiddetta «guerra americana», l’Italia fu protagonista di una vasta ondata di solidarietà a favore della popolazione vietnamita; il sostegno di quel tempo ha forgiato i sentimenti di amicizia e la volontà di scambio e cooperazione che ancora oggi legano la penisola italiana al Vietnam.

Nel corso dei cinquant’anni trascorsi, le relazioni si sono costantemente sviluppate e sono giunte oggi al culmine del consolidamento. Il partenariato strategico siglato nel 2013, ha sancito una nuova fase del comune percorso e ha determinato non solo il punto d’arrivo di un rapporto antico e fecondo, ma altresì l’esordio di nuovi scenari nelle relazioni bilaterali. Nel quadro della cooperazione economico-commerciale bilaterale, le istituzioni vietnamite hanno avviato efficaci collaborazioni con vari ministeri, enti e istituzioni italiane.

Accanto all’intensificazione delle relazioni diplomatiche ed economiche, nel corso di questi 50 anni, si è assistito, inoltre, allo sviluppo delle relazioni culturali e scientifiche fra i due Paesi.

In questo contesto, nel 2013, furono siglati memorandum d’intesa e programmi di azione in materia di cooperazione tra i due governi, nell’ambito dell’istruzione, della formazione e della ricerca scientifica. Negli ultimi anni, questi settori, hanno registrato importanti sviluppi e lo scambio in ambito accademico, scientifico e culturale, si è fortemente incrementato.

Tali risultati sono frutto di visite istituzionali, missioni ufficiali e tavoli di lavoro che i due Paesi hanno messo in atto dando prova di una cooperazione ad ampio raggio e di un dialogo costruttivo.

Gli aspetti più importanti di questo comune percorso hanno riguardato altresì la sicurezza: la collaborazione tra i rispettivi ministeri della Difesa, ad esempio, si è incentrata anche sull’elaborazione di strategie per garantire la sicurezza marittima, mantenere la pace e la stabilità nella regione Asean (Associazione delle nazioni del Sud Est asiatico).

Si tratta, per il Vietnam, di una questione antica, ma di grandissima attualità dal punto di vista geopolitico, strategico, e giuridico. Il Mare orientale (Mar cinese meridionale, ndr) – quel «Mediterraneo d’Oriente» su cui si affaccia il Vietnam – è divenuto infatti uno dei grandi polmoni dell’economia mondiale.

Nazione in crescita

In un contesto di crisi globali, sfide climatiche e ambientali, epidemie e guerre, il Vietnam continua a mantenere la sua crescita grazie al rispetto dei principi essenziali del diritto internazionale, della carta delle Nazioni Unite, degli interessi nazionali e del suo popolo. È oggi un paese che mantiene una certa stabilità macroeconomica e promuove la crescita della nazione, aumentando le esportazioni e sostenendo nel contempo lo sviluppo a lungo termine.

Il Vietnam intende oggi preservare un ambiente pacifico, proteggere la sua indipendenza, la sovranità e l’integrità territoriale e migliorare la sua posizione internazionale.

Il 2022 è stato un altro anno di successo per il Vietnam che, negli ultimi trent’anni, ha ottenuto notevoli risultati, permettendogli di costruire una rete diversificata di partenariati globali e strategici per mantenere un alto livello di sviluppo socio-economico e guadagnare prestigio a livello regionale e internazionale. Fra questi, il partenariato siglato dall’Italia e altre nazioni. Oggi il Vietnam continua a promuovere la sua partecipazione attiva e responsabile e a offrire i suoi contributi a importanti organizzazioni multilaterali come le Nazioni Unite, l’Asean, l’Apec (Asia-Pacific economic cooperation).

Nel corso del 2022, il Paese è stato eletto a molti incarichi da importanti organizzazioni internazionali, tra cui quelli di vicepresidente della 77a sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e di membro del Comitato intergovernativo dell’Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale per il mandato 2022-2026.

La diplomazia economica da parte del Vietnam ha contribuito a mantenere la stabilità macroeconomica promuovendo la crescita economica della nazione, aumentando le esportazioni e attingendo a varie risorse esterne, sostenendo nel contempo la riforma economica e lo sviluppo a lungo termine.

La società vietnamita del terzo Millennio

Il Vietnam è poco più grande dell’Italia ma ha una popolazione di circa cento milioni di abitanti. Un popolo giovane, colto e laborioso. La società vietnamita è estremamente aperta e ricettiva al cambiamento; è inoltre la più ottimista del mondo (secondo la Gallup international). Sono oggi emerse nuove classi e nuovi ceti e il contrasto tra città e campagna ha assunto moderni connotati. Nonostante i risultati raggiunti, sono numerose le sfide che il Paese deve ancora affrontare, come ad esempio nel campo della qualificazione professionale. È pur vero che il partito comunista vietnamita, evitando di contrapporre modernità e tradizione ed evocando la società civile in ragione della sua conclamata coesione, insiste su temi come la «socializzazione culturale», la solidarietà, il comune interesse nel contesto dello sviluppo economico della nazione e, così facendo, per certi aspetti, solletica l’orgoglio nazionale.

I principali tratti del discorso ufficiale, pur nell’interesse della collettività, puntano sulla promozione dell’individuo e sulla sua unicità: per mantenere l’alto grado di fiducia che la popolazione gli riserva, lo stato-partito deve oramai recepire e adattarsi alle nuove aspettative e alle nuove costruzioni identitarie e simboliche della comunità nel suo insieme. Il Paese è destinato a divenire il centro di gravità nell’Asia del sud est, hub strategico per commercio e business nonché punto nevralgico delle relazioni internazionali. Posta di fronte a precise scelte, pur nell’attuale prosperità, la nazione vietnamita (che con l’adozione della politica del Doi Moi ha mostrato di saper affrontare le incognite dello sviluppo), deve inoltre confrontarsi con una congiuntura mondiale particolarmente complessa. Del resto, è difficile mettere in discussione la leadership del partito che è riuscito a ridare dignità internazionale, indipendenza, unità e crescita al paese.

Prospettive di cooperazione

La salda amicizia che lega Italia e Vietnam è cresciuta sia sul piano della cooperazione sia sul piano istituzionale, sino alla ratifica del partenariato strategico nel 2013. Essa si è via via intensificata sino a coprire, accanto ai tradizionali ambiti economici, turistici e culturali, nuovi settori: dall’economia verde a quella digitale e altro ancora. Nel corso di questi cinquant’anni sono stati raggiunti numerosi traguardi al punto che, oggi, il Vietnam è il principale partner commerciale dell’Italia tra i Paesi dell’Asean mentre l’Italia è il quarto partner commerciale del Vietnam tra i Paesi Ue. Basti soltanto considerare che nel 2022, nonostante le difficoltà dovute alla pandemia, l’interscambio commerciale bilaterale ha raggiunto quota 6,2 miliardi di dollari, in crescita dell’11% rispetto all’anno precedente.

Il Vietnam è un Paese che non evoca più soltanto la memoria di una lunga guerra ma si compone di una realtà complessa, affascinante e dinamica.

Sandra Scagliotti*

 *Docente di storia e letteratura del Vietnam all’Università di Torino, e visiting professor presso università in Canada, Francia e Vietnam; cofondatrice del «Centro studi vietnamiti», cofondatrice della «Camera di commercio Italia-Vietnam»; cofondatrice della «biblioteca di studi vietnamiti Enrica Collotti Pischel»; è console onorario del Vietnam a Torino.


Nota: in un prossimo numero, approfondiremo con il contributo di un collaboratore dal Paese.

 

 




Ripresa e resilienza,

quale Italia ci aspetta?

testo di Francesco Gesualdi |


Al nostro paese stanno arrivando i soldi dell’Ue. La domanda è: come utilizzarli? Riprendere la strada della vecchia economia o cercare una vera svolta verso l’equità e la sostenibilità?

In Italia, il piano messo a punto per poter ricevere e spendere i soldi resi disponibili dall’Unione europea, nell’ambito del progetto Next generation Eu, è stato battezzato «Piano nazionale di ripresa e resilienza», in sigla Pnrr. E, per dargli un tocco di patriottismo, è stato sottotitolato: «Italia domani».

Il documento non è di facile lettura, non foss’altro per la sua lunghezza: ben 269 pagine. Del resto, la posta in gioco è alta: dalle sue scelte dipenderà l’assetto dell’economia e della società italiana dei prossimi decenni. Non a caso la stesura del piano è stata la pietra d’inciampo che ha fatto cadere il governo Conte 2.

Ripresa e resilienza, crescita e sostenibilità

Troppi soldi in ballo che hanno inevitabilmente acceso appetiti e divergenze non solo finanziarie, ma anche ideologiche, perché quei soldi potrebbero essere utilizzati per rafforzare l’economia produttivista, vecchia maniera, o per imprimere una svolta in una logica di equità e sostenibilità.

La copertina del documento sul Pnrr, scaricabile dal web.

Una contrapposizione riportata nel titolo stesso del piano tramite le due parole «ripresa e resilienza». Dove per ripresa si intende il rilancio dell’economia intesa come crescita di produzione, Pil, vendite, affari, esportazioni; per resilienza si intende l’introduzione di tutti quei cambiamenti utili ad arrestare il deterioramento della situazione ambientale. La pretesa del piano, tuttavia, è di aver saputo affrontare i due aspetti non come esigenze in contrapposizione fra loro, ma come due percorsi  complementari che si sostengono a vicenda.  Sarà davvero così? Il sistema si illude di poter tenere insieme crescita e sostenibilità, ma può farlo perché dimentica l’equità. In realtà, quando pensa a un «mondo verde», tiene a mente solo il miliardo di persone che popola i paesi del Nord. Senza dichiararlo, la sua idea di sostenibilità è quella dell’apartheid, un mondo nel quale le poche risorse e gli scarsi spazi ambientali esistenti sono messi al servizio esclusivo di una minoranza di cui i paesi del Nord sono la componente pigliatutto, mentre tutti gli altri non sono neppure presi in considerazione.

Per questo possiamo fantasticare di mobilità basata sull’auto elettrica per chiunque, senza pensare che se il poco cobalto, nickel, litio, esistente sul pianeta ce lo prendiamo tutto noi, gli altri non potranno neanche disporre di un pannello solare per accendere il frigorifero. Purtroppo, solo il tempo potrà stabilire se certe previsioni rientrano nella categoria del catastrofismo o del realismo. Ma allora sarà troppo tardi, esattamente come è successo per gli avvertimenti relativi ai cambiamenti climatici: gli scienziati più attenti hanno cominciato a segnalare il problema attorno agli anni Settanta del secolo scorso, ma i governi hanno riconosciuto l’esistenza del fenomeno solo attorno al 2010.

Sia come sia, è comunque certo che la stesura del Next generation Eu non è stato il massimo della partecipazione democratica. Nella fretta di passare alla fase esecutiva, la Commissione europea ha imposto tempi di presentazione del progetto troppo brevi che la concomitante caduta del governo ha ulteriormente corroso. Fatto sta che nel paese non c’è stato dibattito e neanche il Parlamento ha avuto la possibilità di dire la sua. L’unico progettista è stato il governo, prima sotto la guida di Conte, poi di Draghi, mentre il Parlamento si è limitato a una funzione poco più che notarile con tempi di discussione che hanno permesso solo dichiarazioni di voto.

I fondi in gioco: 236 miliardi di euro

Alla fine, i soldi complessivi che il Pnrr conta di spendere entro il 2026, ammontano a 236 miliardi di euro, 44 in più di quelli messi a disposizione dall’Unione europea tramite il Recovery fund. Un’aggiunta, in parte finanziata da prestiti ottenuti direttamente dal sistema bancario e finanziario (Fondo complementare), in parte da ulteriori sostegni offerti dall’Unione europea attingendo a un fondo speciale denominato React.

Volendo ricapitolare, le fonti di finanziamento si possono analizzare sotto due grandi profili: la provenienza e la natura. Dal punto di vista della provenienza, l’87% giunge dall’Unione europea, il rimanente 13% dal sistema creditizio privato. Dal punto di vista della natura, si tratta per il 65% di prestiti e per il 35% di somme a fondo perduto. In termini monetari, mettendo insieme i soldi provenienti dal Recovery fund e quelli ottenuti dal fondo React, le sovvenzioni a fondo perduto sono 82 miliardi. Ma sarebbe sbagliato considerarli tutti in entrata perché l’Unione europea conta di recuperare i soldi che regalerà tramite un aumento di contribuzione da parte degli stati membri. Sulla reale entità della somma netta incassata dall’Italia esistono numerosi calcoli molto diversi fra loro. Alcuni danno un’entrata netta di circa di 10 miliardi di euro, altri di una quarantina di miliardi. La verità è che le incognite sono ancora troppo ampie per azzardare ipotesi fondate.

Le riforme: quali e per chi?

Va precisato subito che nessuno distribuisce pasti gratis e, analizzando meglio l’offerta dell’Unione europea, si scopre che essa condiziona il proprio sostegno alla realizzazione di una serie di riforme che, a suo avviso, i singoli paesi devono adottare per migliorare la propria situazione e di riflesso quella dell’Unione europea. Non a caso il Pnrr elenca un numero indefinito di riforme che lo stato italiano si impegna a realizzare in ambiti che spaziano dalla giustizia al fisco, dalla pubblica amministrazione alla concorrenza. Tutte con ottimi propositi considerato che, secondo il Pnrr servono per garantire al paese equità, efficienza, celerità. Parole rassicuranti, ma finché gli annunci non si trasformano in proposte di legge rimane difficile capire dove andremo davvero a parare e se si tratta di modifiche condivisibili.

A gettare acqua sulle aspettative c’è che il Pnrr pone troppa enfasi sulla crescita dandoci la sensazione che le riforme siano finalizzate solo a creare un contesto attraente per gli investitori e a rendere più spediti i progetti di investimento.

In questa prospettiva, ad esempio, si possono leggere la riforma della giustizia e degli appalti. Da tempo tutti gli organismi internazionali denunciano che la lentezza della giustizia italiana tiene alla larga gli investitori stranieri che non sopportano l’idea di dover aspettare anni per risolvere eventuali liti commerciali con i propri clienti, fornitori o concorrenti. Pertanto, quando si parla di riforma della giustizia si pensa soprattutto a rendere più spediti i contenziosi civili in cui le imprese incappano con grande frequenza. E se, nel caso della giustizia, la preoccupazione è che la riforma possa essere solo parziale, nel caso degli appalti il timore è che, pur di accelerare i lavori, si indeboliscano i controlli sull’impatto ambientale delle opere, sulla correttezza contabile delle imprese, sulle loro eventuali connessioni con soggetti mafiosi, sul rispetto dei diritti dei lavoratori. Del resto, già in passato abbiamo visto come il concetto di riforma fosse tutto impostato in chiave pro imprese e pro investimenti, trasformandosi, di fatto, in un processo di demolizione dei diritti dei lavoratori nel campo delle assunzioni, dei licenziamenti, della sicurezza, dell’attività sindacale. Dunque, è meglio drizzare le orecchie quando sentiamo pronunciare la parola «riforme».

Le sei «missioni» del piano

Mappa tricolore dell’Italia. Foto MMedia – Pixabay.

Volendoci focalizzare sulle spese previste dal Pnrr, che poi rappresentano l’argomento forte del piano, si possono analizzare sotto vari profili: per finalità, per settori, per ripartizione geografica, per ricaduta sociale per ricaduta ambientale. Ma volendo seguire l’ordine espositivo utilizzato dal Pnrr, si può senz’altro cominciare dicendo che le spese sono suddivise in sei grandi capitoli, più religiosamente definiti «missioni»: innovazione, transizione ecologica, mobilità sostenibile, istruzione e ricerca, inclusione e coesione, salute.

L’innovazione assorbe 50 miliardi, il 21% della spesa complessiva, e serve in gran parte a potenziare il processo di digitalizzazione della pubblica amministrazione, ma soprattutto del settore produttivo privato che assorbirà i 4/5 della spesa.

La transizione ecologica assorbe 70 miliardi, il 30% della spesa complessiva, ed è finalizzata a interventi per promuovere l’economia circolare, per mitigare la produzione di anidride carbonica, per potenziare la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. In questo capitolo ricadono anche le spese per il superamento dei veicoli a motore e per la riqualificazione energetica degli edifici.

La cosiddetta mobilità sostenibile assorbe 31 miliardi, il 13% della spesa complessiva e si riferisce in gran parte all’ammodernamento del sistema ferroviario (alta velocità), autostradale, portuale. Per tale ragione aveva più senso chiamare questa sezione «ammodernamento infrastrutturale».

Istruzione e ricerca assorbono 34 miliardi di euro, il 15% della spesa complessiva ed è suddivisa in due grandi capitoli: istruzione pubblica e ricerca al servizio delle imprese.

L’inclusione e coesione assorbe 30 miliardi, il 13% della spesa complessiva ed è finalizzata a migliorare gli uffici di collocamento, ad assistere l’imprenditorialità giovanile e femminile, a fornire protezione sociale a chi subisce contraccolpi occupazionali a causa dell’innovazione tecnologica.

Infine, la sanità assorbe 20 miliardi, l’8% della spesa complessiva, ed è finalizzata a potenziare la medicina del territorio e altre infrastrutture sanitarie.

Il senso del limite e l’ottica della sobrietà

Il Pnrr è stato molto elogiato dalle imprese e molto criticato dalle associazioni ambientaliste. Alle imprese è piaciuto perché prevede molti soldi per loro. Va detto, infatti, che non tutte le spese preventivate dal piano saranno eseguite direttamente dal governo o dagli enti locali. Parte di esse saranno delegate a famiglie e imprese. Le famiglie, ad esempio, riceveranno soldi per interventi di miglioramento energetico alle proprie abitazioni. Le imprese, invece, per l’ammodernamento energetico, informatico o ambientale delle proprie attività produttive. Per quale importo, il piano non lo dice con precisione: verosimilmente oltre i 40 miliardi di euro che poi rappresentano il 17% dell’intero stanziamento.

Gli ambientalisti contestano al piano di non impegnarsi abbastanza per limitare la produzione di rifiuti e di CO2, ma solo di volerne ridurre gli effetti. Gli rimproverano di concentrarsi troppo sui trasporti di lunga distanza e poco su quelli locali, di non spendere abbastanza per la difesa del territorio.

In una parola gli contestano di non fare nessun tentativo per invertire il senso di marcia verso una società che faccia i conti con il senso del limite, una società che cioè tenti di riorganizzare produzione, consumo, mobilità rifiuti, edifici, servizi pubblici in un’ottica di sobrietà che però garantisca a tutti di vivere dignitosamente nel rispetto della piena inclusione lavorativa.

«Transizione» non significa «conversione»

Questa prospettiva avrebbe richiesto non solo più investimenti verso l’energia elettrica di tipo rinnovabile, verso la mobilità pubblica locale di tipo sostenibile, verso un programma integrale di recupero e riciclaggio di tutti i rifiuti, verso la ristrutturazione edilizia generalizzata finalizzata al risparmio energetico, ma anche più impegno per la messa in sicurezza del territorio indebolito da decenni di cementificazione selvaggia e di abbandono delle zone montane. Più impegno per organizzare una formazione scolastica capace di mettere i cittadini in condizione di saper badare a se stessi tramite la «prosumazione» (consumazione di ciò che si produce) ossia ricorrendo il meno possibile agli acquisti. Più impegno per potenziare i servizi pubblici gratuiti specie nelle periferie e nelle zone più disagiate con il duplice compito di promuovere il ripopolamento delle zone abbandonate e di evitare lunghi ed estenuanti spostamenti per il semplice godimento di servizi essenziali. Interventi, insomma, per evitare che la stretta sui carburanti si trasformi in un castigo per i più poveri. Ed è con questa attenzione di tipo sociale che gli ambientalisti ci richiamano alla necessità di non limitarci a una pura e semplice «transizione tecnologica», ma di procedere verso una vera e propria «conversione ecologica». Più di un cambio di tecnologia, un cambio dell’essere.

Francesco Gesualdi