Si chiamava Ilaria Alpi


Dal 20 marzo 1994 si cerca (inutilmente) di capire chi l’abbia uccisa. Lei era una giovane giornalista della Rai che indagava sui traffici di rifiuti tossici e armi tra la Somalia e l’Italia. Il 19 ottobre 2016 l’unico imputato per quell’omicidio è stato assolto, dopo aver trascorso in carcere 16 anni. Questa bruttissima storia di depistaggi e bugie di Stato non riesce a trovare la parola fine.

Domenica 20 marzo 1994. La notizia dell’eccidio in Somalia di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin mi arrivò dietro le quinte del «concertone», l’evento organizzato davanti la Basilica di San Giovanni in Laterano dalle forze progressiste che si preparavano alla consultazione elettorale della settimana seguente.

Quella notizia – un assassinio apparentemente senza senso, ma legato alla piaga della mala cooperazione italiana con il continente africano – sembrò un segnale sinistro per il nostro paese.

Non conoscevo personalmente Ilaria e l’operatore Hrovatin. Avevo già apprezzato, però, il lavoro della Alpi che con molta sensibilità raccontava il mondo islamico. Come fanno i giornalisti di razza, aveva impiegato il suo tempo per laurearsi in lingua araba all’Università del Cairo invece di fare subito la cronista embedded su un tank o su un camion di uno dei tanti eserciti di occupazione dell’epoca.

La comunicazione, però, è un magistero complicato. Non ero sicuro che una piazza traboccante di mezzo milione di ragazzi avrebbe saputo adeguare i propri umori alla tristezza improvvisa che l’assassinio di due connazionali impegnati nella ricerca della verità sui traffici di rifiuti tossici e di armi nell’ambito della nostra malefica «cooperazione» con la Somalia, avrebbe imposto. Così presi per mano Piero Pelù, il leader dei Litfiba, e gli chiesi di uscire con me sul palco, non per cantare, ma per commemorare il coraggio di Ilaria e Miran. Pelù capì il momento.

Uscimmo e io detti la notizia tutta d’un fiato. Sulla piazza calò un silenzio assordante. Allora chiesi di ricordare con un gesto qualunque il sacrificio di due giornalisti che non subivano l’informazione acriticamente, ma andavano a cercare la verità anche quando era scabrosa, nei posti dove si poteva trovare e documentare. Per quei due colleghi che non avevano tradito il loro mestiere, come è sempre più di moda in un universo informativo in cui l’apparenza, l’interesse del più forte, è ormai più importante della realtà, piazza San Giovanni rispose all’invito con un applauso lunghissimo e commovente.

Dopo pochi giorni le salme di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin tornarono in Italia, accompagnati subito dalle bugie di Stato, che Luciana e Giorgio, gli intrepidi genitori di Ilaria, dovettero immediatamente imparare a decifrare per dar corpo a quello che sarebbe diventato il loro unico obiettivo nella vita: la verità sulla morte della figlia.

In questi anni, le istituzioni non li hanno molto aiutati. Per chiarire questo vero e proprio scandalo politico hanno lavorato di più alcuni colleghi, come Maurizio Torrealta, e tre giornalisti di Famiglia Cristiana come Barbara Carazzolo, Alberto Chiara, Luciano Scalettari, un’indomabile parlamentare di quello che allora era il Pds, Mariangela Gritta Grainer, e un avvocato di incrollabile etica, Domenico D’Amati, capace di costringere il mondo politico a istruire una Commissione parlamentare sul caso Alpi (anche se ben presto fallita soprattutto a causa del suo presidente, l’avvocato Carlo Taormina) e di svegliare, più volte, dal suo torpore la Procura di Roma, non a caso soprannominata il «Porto delle nebbie».

In verità un magistrato, Giuseppe Pititto, era inizialmente arrivato vicino a una ricostruzione credibile dei fatti e di alcune responsabilità.

Dal ruolo ambiguo svolto dal faccendiere italiano Giancarlo Marocchino, all’inefficacia degli agenti dei servizi segreti italiani, una dozzina, che lavoravano all’epoca in Somalia e che avevano segnalato al loro capo, il colonnello Luca Raiola Pescarini, il pericolo che correvano i due giornalisti del Tg3 in cerca di prove sui traffici illegali di rifiuti tossici e armi tra la Toscana e la Somalia. Il Pm Pititto fu però subito esautorato dall’indagine con la scusa «di aver creato un clima di mancanza di lealtà e spirito di collaborazione nei rapporti con il procuratore di Roma».

Anni dopo, nel processo svoltosi a Roma contro Omar Hashi Hassan – uno dei presunti componenti del commando da cui sarebbe uscito quel giorno a Mogadiscio il killer che freddò, con un colpo alla nuca, Ilaria e Miran – proprio il colonnello Luca Raiola Pescarini avrebbe rischiato l’incriminazione per falsa testimonianza. Questo per ricordare quale è stato il clima che, fin dall’inizio, ha accompagnato il tentativo di far luce su questa scabrosa vicenda.

Una storiaccia. Perché l’esecuzione di Ilaria e Miran fu richiesta, ormai è più che mai palese, proprio dall’Italia, dove c’era una società che amministrava, come qualcosa di personale, il traffico di cinque navi per la pesca, donate dal governo italiano al tempo di Craxi al dittatore somalo Siad Barre. Questa piccola flotta, invece di frequentare i porti del commercio ittico, toccava sistematicamente quelli in cui veniva praticato, più o meno palesemente, il traffico d’armi. Forse con la copertura dei nostri servizi di intelligence.

Mi resi conto di questo stato delle cose quando, quattro anni dopo, nell’estate del 1998, decisi di imbastire una delle puntate del programma «Storie» della Rai con i genitori di Ilaria, instancabili nella loro richiesta di giustizia.

Un filmato, che mi aveva passato la Tv svizzera e che era stato girato pochi secondi dopo l’eccidio, aveva una volta di più smentito la versione dei fatti sostenuta in una lettera alla famiglia, inviata all’epoca (e senza che fosse stata richiesta) dal comandante del Corpo di spedizione italiano in Somalia Carmine Fiore.

Al contrario di quello che scriveva l’alto ufficiale, le immagini confermavano che: il primo ad arrivare sul luogo dell’eccidio era stato Giancarlo Marocchino, collaboratore dei nostri servizi segreti in quella Somalia disperata e senza legge, e non qualcuno dei militari acquartierati sul cacciatorpediniere Garibaldi. Era stato lo stesso Marocchino a trasferire i corpi di Ilaria e Miran dal van in cui erano stati colpiti a una jeep di sua proprietà, dopo un tesissimo scambio di battute a un radiotelefono con qualcuno che si rifiutava di intervenire e che, alla fine del colloquio – carpito dal microfono della cinepresa dell’operatore svizzero – lo spingeva a commentare: «Quei bastardi non vengono, hanno paura». I bastardi erano evidentemente i militari del corpo di spedizione italiana, a cui lo stesso Marocchino, subito dopo, sarebbe andato a consegnare il suo tragico carico al Porto Vecchio, dove finalmente era in arrivo un elicottero delle nostre forze armate.

Ad Ilaria Alpi, nel momento dell’intervento di Marocchino, come confermano le immagini, colava sangue dal naso. Un dettaglio che segnala come il suo cuore pompasse ancora sangue e quindi, pur con sicuri danni cerebrali, che la giornalista fosse ancora viva.

Sulla Garibaldi sarebbe stato fatto un esame dei corpi, sicuramente fondamentale per stabilire i particolari della morte, ma del quale il generale Fiore non avrebbe fatto nessun cenno nella sua lettera. Di quell’esame i genitori di Ilaria sarebbero venuti a conoscenza solo parecchi anni dopo.

Le scarne notizie della lettera del generale Fiore erano comunque quasi tutte inesatte, tanto che Luciana e Giorgio Alpi non avrebbero partecipato al riconoscimento della salma al suo arrivo in Italia, perché era stato loro preannunciato che la figlia era sfigurata dalle pallottole, mentre invece il colpo mortale era stato uno solo e alla nuca.

L’enormità e la crudeltà di queste bugie sollecita, ancora adesso, una domanda fondamentale: che interesse potevano avere certe istituzioni dello Stato italiano a coprire simili efferatezze? In nome di cosa l’hanno fatto? Quali realtà il cittadino della Repubblica italiana non deve sapere? Nello studio della Rai Luciana e Giorgio Alpi (nella foto in alto) ripercorsero, in quel torrido luglio del ’98, le tappe della loro infinita amarezza finché, alla fine di un filmato sul ritorno a casa delle salme, Luciana si accorse che i bagagli di Ilaria e Miran, nello scalo di Luxor, in Egitto, dove l’aereo di linea era stato sostituito da un velivolo della nostra aeronautica militare, erano legati e saldati con la cera lacca, mentre all’arrivo a Ciampino la corda che li imbrigliava era sparita.

Per caso due operatori diversi avevano diretto i loro obiettivi sul nastro di discesa delle valigie. Solo l’angoscia di una madre poteva cogliere quel dettaglio così importante e inquietante.

Sull’aereo, infatti, oltre ai militari dell’aeronautica c’erano: ufficiali del Corpo di spedizione in Somalia, agenti dei servizi segreti, funzionari del nostro ministero degli Esteri e dirigenti della Rai. Chi aveva avuto l’ardire, durante il volo, di aprire quelle borse, quei pacchi, e perché? Forse per far sparire i taccuini di Ilaria o alcune cassette di Miran? Quale era il segreto di Stato che dovevano coprire?

«Dove sono finiti i 1.400 miliardi della cooperazione italiana con l’Africa?». Aveva scritto Ilaria prima di partire per quello che sarebbe stato il suo ultimo viaggio.

Sono passati 23 anni aspettando la verità. Lo scorso 19 ottobre la Corte d’appello di Perugia ha riconosciuto che per 16 anni c’è stato un innocente in carcere, il somalo Hassan Omar Hashi (nella foto a sinistra), condannato per un doppio omicidio che non aveva commesso, e chiaramente usato come capro espiatorio per una testimonianza organizzata anche dall’apparato dei servizi segreti italiani. Un errore giudiziario dovuto all’esigenza politica di trovare a qualunque costo un colpevole di questo crimine che nascondeva gli oscuri traffici tra l’Italia e la Somalia dell’epoca. «Dopo 23 anni di depistaggi e bugie – ha commentato la mamma di Ilaria Alpi – che la Procura di Roma ha elargito alla mia famiglia, mi auguro che alla luce di questa sentenza, i magistrati romani ci diano verità e giustizia. Inoltre, sarei felice se il presidente della Repubblica leggesse le motivazioni della Corte di Perugia».

Anche il «Premio Ilaria Alpi», istituito nel 1995 per ricordare la giornalista, è stato chiuso nel 2014 su sollecitazione di Luciana Alpi, tradita dalle istituzioni italiane che, in 23 lunghissimi anni, non hanno voluto o saputo fare giustizia per la morte della figlia Ilaria.

Gianni Minà

 




Con le mani sporche come niente fosse


In Italia, più le indagini giudiziarie si moltiplicano, più politica e magistratura sono in conflitto. Il problema di fondo è il persistere e l’aggravarsi della «questione morale»: corruzione, partiti come lobby d’affari, clientelismo, conflitti d’interesse, collusioni mafiose. Nel nostro paese trascorrono gli anni, ma le mani sporche rimangono una consuetudine. In più, sullo sfondo, c’è il dibattito attorno alla riforma della Costituzione. Sulla quale i magistrati hanno il sacrosanto diritto di esprimere la propria opinione.

Politica e magistratura. Un tema che è più di un fiume carsico: sembra essere un’inesauribile ondata di piena. Negli ultimi mesi alimentata da alcune dichiarazioni del premier Matteo Renzi e di Pier Camillo Davigo (dall’aprile 2016 neo presidente della Anm, l’Associazione nazionale magistrati). Lo scenario di fondo è costituito dalle numerose indagini per fatti di corruzione e dintorni che vari uffici giudiziari stanno svolgendo.

Davigo ha il merito di aver riproposto all’attenzione di tutti una questione che troppi vorrebbero ridurre a fumisterie di parrucconi fuori del tempo. Ed è la «questione morale», cioè la trasformazione della politica in lobby d’affari, la contaminazione fra apparati dei partiti e mondo affaristico-economico. Con il corollario del clientelismo, del conflitto di interessi e di varie forme di illegalità, dalla corruzione alle collusioni con la mafia. Dunque una questione democratica e istituzionale di formidabile attualità. Con il suo stile (non felpato, mai in «giuridichese», ma chiaro e netto, perciò temuto da chi preferisce ripararsi dietro cortine fumogene: in sostanza, «pane al pane e vino al vino»), Davigo ha voluto ricordare che la questione morale non può essere considerata un reperto archeologico.

Eppure da noi, più che altrove, le dimissioni da parte di persone che hanno responsabilità nazionali o locali, anche a livello istituzionale (persone che abbiano avuto «incidenti di percorso», vale a dire vicende che – anche a prescindere dal loro esito giudiziario – comprendono comunque gravi e sicure responsabilità politiche e morali), non rientrano ancora nell’ordine della normalità. E comunque, se pure talvolta si verificano, restano rare.

Chi viene trovato con le mani sporche di marmellata – magari fino al gomito – riesce ancora ad essere commensale abituale e rispettato in banchetti esclusivi, dove può continuare a rimpinzarsi come se niente fosse. Non succede neppure al gioco del Monopoli, dove chi pesca un «imprevisto» sta almeno fermo un giro. Invece in Italia si continua a giocare con la stessa «pedina», le stesse «case» e gli stessi «alberghi». Tutto come prima, anzi: si direbbe che spesso gli imprevisti facciano… curriculum.

Davigo ha semplicemente riproposto la questione del rapporto tra etica e politica. Ma, evidentemente, il vecchio rilievo machiavellico secondo cui gli stati non si governano con i pater noster gode ancora, da noi, di ampia considerazione. Mentre dovrebbe essere pacifico che la corruzione è priva di ogni giustificazione e che corrotti e collusi restano tali a prescindere dal loro status di uomini di successo e di potere.

La crociata antigiudiziaria e una giustizia «à la carte»

Circa 25 anni fa (era il 1992, ndr) la stagione di «Mani pulite» e delle inchieste sui rapporti fra mafia e politica segnò – per il nostro paese – un forte recupero di legalità. Per un po’ di tempo sembrò che potesse prevalere quell’Italia che le regole le vuole applicare in maniera eguale per tutti e non soltanto enunciarle. Le inchieste su Mani pulite e su Mafiopoli avevano innescato un sentimento di fiduciosa aspettativa nei confronti della giustizia e dei giudici (talora persino sopra le righe, come quando ci furono addirittura toni da tifo calcistico). Questa «luna di miele» è durata poco, perché la novità di una magistratura che – sia pure con tutti i suoi limiti – cercava finalmente di applicare la legge anche ai «potenti» non poteva lasciare questi ultimi indifferenti. E difatti i «potenti» hanno reagito con vigore, in tutti i modi possibili, senza risparmio di mezzi ed energie. Ecco dunque lo scatenarsi, ormai da circa 25 anni, di una crociata antigiudiziaria senza eguali nelle democrazie occidentali. Invero, non solo in Italia ci sono stati personaggi pubblici inquisiti, ma solo in Italia è accaduto che l’esercizio dell’azione penale nei confronti di imputati «eccellenti» abbia determinato la contestazione in radice del processo e la delegittimazione pregiudiziale dei giudici (spesso indicati «tout court» come avversari politici). Con il dilagare dell’idea, terribilmente italiana, di una giustizia «à la carte» valida per gli altri ma mai per sé. E con l’irresistibile tendenza a valutare gli interventi giudiziari non in base ai criteri della correttezza e del rigore, ma unicamente in base all’utilità per sé e per la propria cordata.

Oltretutto, la corruzione «sistemica» che Mani pulite aveva evidenziato avrebbe dovuto offrire materiale di conoscenza prezioso, utilissimo per produrre nuove forme di contrasto efficace (controlli preventivi e misure repressive). Invece, niente di tutto questo è accaduto. Sicché la corruzione inesorabilmente ha finito per riprendere vigore. Per impedirlo, occorrevano interventi che la rendessero non più conveniente: un obiettivo ancora da realizzare.

Col risultato che quel recupero di legalità in atto agli inizi degli anni Novanta è stato costretto a percorrere strade sempre più impervie. E la questione morale, che l’estendersi del controllo di legalità stava rilanciando, dalla politica è stata relegata in soffitta. Perché mettere sotto accusa i magistrati, invece dei corrotti e collusi, comporta per costoro un evidente vantaggio: una minore fatica per riproporre le pratiche di sempre, più spazio e più tempo per ricostruire le fortificazioni sbrecciate dalle inchieste.

Esemplare, in questo percorso, è stato l’uso cinico del termine «giustizialismo». Un tempo la parola era del tutto sconosciuta nel lessico giudiziario. Cominciò a fae parte quando, con una furbata, qualcuno pensò di escogitare (con precise finalità mediatiche) un qualche modo per suggerire l’idea di un uso scorretto della giustizia, costringendo il dibattito a partire da una sorta di verità rovesciata. Introducendo nel contempo concezioni perverse del «garantismo»: un neo-garantismo «strumentale», diretto a depotenziare la magistratura, che si vorrebbe disarmata di fronte al potere economico e politico; insieme ad un garantismo «selettivo», che gradua le regole in base allo «status» dell’imputato. E francamente dispiace constatare che l’attuale presidente del Consiglio abbia riesumato – addirittura intervenendo in Senato (il 19 aprile 2016) – proprio questa parola, parlando, con riferimento agli ultimi 25 anni, di pagine di autentica barbarie legate al giustizialismo.

Dalla falsa neutralità alla reale indipendenza

Altra parola usata spesso a sproposito è quella con cui si accusa la magistratura di «politicizzazione». È facile constatare (basta un buon libro di storia) che fino agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso la commistione tra magistratura e luoghi del potere politico era la regola. Ma veniva inabissata sotto il dogma della apoliticità di giudici e giurisdizione. Era l’epoca in cui, al riparo di tale dogma, il procuratore generale della Cassazione definiva gli infortuni sul lavoro «una fatalità», gran parte della magistratura siciliana era attestata sulla tesi che «la mafia non esiste», la Procura della Repubblica di Roma era allegramente (e non per caso) chiamata «porto delle nebbie», i vertici della magistratura partecipavano a cerimonie in cui imprenditori inquisiti e politici corrotti venivano insigniti delle massime onorificenze della Repubblica e poteva anche accadere che un Procuratore generale non disdegnasse di rilasciare affidavit per il suo amico Sindona.

La magistratura – per usare parole di Luigi Ferrajoli – era «un corpo burocratico chiuso, cementato da una rigida ideologia di ceto: un “corpo separato” dello stato, come allora si diceva, collocato culturalmente, ideologicamente e socialmente nell’orbita del potere, che veniva avvertito come ostile dalle classi sociali subaltee ed avvertiva esso stesso queste medesime classi come ostili». Questa, pur con molte eccezioni (di giudici e pubblici ministeri capaci di essere indipendenti e imparziali) era la linea di tendenza prevalente in magistratura, ed era una linea di politicizzazione di fatto.

La vulgata di un bel tempo antico in cui i magistrati erano apolitici è dunque una favola. Utile per delegittimare i cambiamenti intervenuti successivamente, quando gran parte della magistratura cominciò una lunga marcia verso una reale indipendenza, sostitutiva della tradizionale falsa neutralità. Cambiamenti che innescarono un processo che è un po’ come la storia di quando le donne portavano il velo. A quel tempo le donne erano tutte belle, ma quando il velo cadde si cominciarono a constatare delle differenze. Più o meno la stessa cosa è successa per la magistratura. Quando i giudici non davano «fastidio», quando cioè non erano scomodi, per il potere erano tutti bravi e belli. Ma quando hanno cominciato ad assumere un ruolo preciso, a dare segni di vitalità, a pretendere di esercitare il controllo di legalità anche verso obiettivi prima impensati, ecco che è cominciata l’accusa di politicizzazione (intrecciata con quella di protagonismo).

I magistrati e la Costituzione: in silenzio no

Da ultimo, la polemica fra politica e magistratura ha assunto toni vieppiù incandescenti in vista del referendum sulla riforma della Costituzione (previsto per ottobre 2016, ndr). Si sostiene che i magistrati non dovrebbero occuparsene. Assurdo. Le ripercussioni della riforma sul settore giustizia potrebbero essere importanti (ad esempio sulle modalità di elezione di componenti della Corte costituzionale e del Csm). E in un paese in cui tutti parlano di giustizia – e spesso con toni da bar – sarebbe ben strano se gli unici a doversene astenere fossero i magistrati. Come se i medici non potessero parlare di sanità o i giornalisti di informazione. In ogni caso non si tratta di una questione di schieramenti politici cui i magistrati dovrebbero restare estranei. Si tratta, invece, di una questione istituzionale decisiva per la democrazia, che interpella tutti. Proprio tutti.

Il vero problema è infatti la qualità della democrazia. La Costituzione repubblicana vigente disegna una democrazia basata sul primato dei diritti e sulla separazione dei poteri, senza supremazia dell’uno sugli altri, ma con reciproci bilanciamenti e controlli. C’è il rischio che a questa concezione di democrazia se ne sostituisca una basata non più sul primato dei diritti, ma sul primato della politica (meglio, della maggioranza politica del momento), per di più con un’inedita concentrazione di poteri. Mentre, se è vero che in democrazia la sovranità appartiene al popolo (per cui chi ha più consensi ha il diritto-dovere di operare le scelte politiche che vuole), è altrettanto vero che ogni potere democratico incontra – non può non incontrare – dei limiti prestabiliti. Tali limiti presidiano una sfera non decidibile, quella della dignità e dei diritti di tutti: sottratta al potere della maggioranza e tutelata da custodi (una stampa libera e una magistratura indipendente) estranei al processo elettorale ma non alla democrazia. Se invece la maggioranza, forte del fatto di aver avuto più consensi, si prende tutto e non lascia spazi effettivi alle minoranze, allora l’alternanza – che è il Dna della democrazia – viene ridotta a simulacro e la democrazia cambia qualità. L’effettività di tali spazi dipende in particolare dal controllo sociale, che presuppone un’informazione pluralista. E dal controllo di legalità, che presuppone una magistratura autonoma ed indipendente.

Dunque, la domanda di fondo è questa: quale tipo di democrazia conviene di più? La prima o la seconda? Ed ecco perché anche i magistrati hanno pieno titolo (come ogni altro cittadino, se non più) per occuparsi di Riforma della Costituzione. Partecipando al dibattito nelle forme più opportune.

Per concludere, ricordiamo – parafrasandolo – un celebre passaggio di Piero Calamandrei: Sotto questa Costituzione (la Costituzione del ‘48, ndr) ci sono tre firme che sono un simbolo, De Nicola, Terracini, De Gasperi. Tre nomi, tre idee, tre concezioni che costituiscono le correnti più importanti del nostro paese. Cosa vuol dire? Vuol dire che intorno a questo Statuto si è formato il consenso dell’intero popolo italiano, di tutti. Questo è il valore della nostra Costituzione. Non è l’imposizione di qualcuno sugli altri a colpi di maggioranza. È il consenso dell’intero popolo italiano che si è formato intorno a questo documento. Il consenso di tutti.

Gian Carlo Caselli