Dieci anni di sogni e sognatori


È un giovane vicariato posto in una regione amazzonica tanto affascinante quanto difficile. In queste pagine, mons. Joaquín Humberto Pinzón Güiza, il vescovo che lo guida, ne ricorda il decennale (2013-2023) della nascita.

Puerto Leguízamo. Ricordare è qualcosa di essenziale nella vita umana. La memoria è alla base della nostra identità e del rapporto con il mondo in cui viviamo. È la mappa dei nostri ricordi che ci dice chi siamo e dove siamo. Basta, infatti, un blackout della memoria per perdere la nozione di noi stessi, del mondo e del nostro posto in esso, come succede a volte alle persone anziane.

Questo febbraio celebriamo i dieci anni (febbraio 2013 – febbraio 2023) di vita e storia del vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano. E, quando parliamo di celebrare, ci riferiamo a quel «ri-cordare» che, etimologicamente, significa riportare al cuore il sognato, il vissuto, ciò che abbiamo raccolto («cor-cordis», cuore, il muscolo che dagli antichi era ritenuto sede della memoria). Anche se pare ridondante ripassare attraverso il cuore ciò che dal cuore è uscito e ciò che è stato fatto mettendoci il cuore, è così che possiamo contemplare ciò che abbiamo vissuto in questi dieci anni di storia, sfide e opportunità.

Un buon punto di partenza per la commemorazione del nostro vicariato è il ricordo delle persone che hanno sognato questa Chiesa particolare: da chi non è più tra noi, come mons. Luis Augusto Castro e padre Bruno del Piero, fino a mons. Francisco Javier Múnera e padre Gaetano Mazzoleni, e a tutti i missionari della Consolata che, assumendo lo «ius comissionis», hanno generosamente sostenuto e continuano a sostenere questo progetto.

Mappa della regione del fiume Putumayo con Puerto Leguizamo e la triplice frontiera (Colombia, Ecuador e Perù).

Partendo dai nostri fiumi

Padre Angelo Casadei, parroco nella Parrocchia «Nuestra Señora de las Mercedes» e coordinatore della «Zona de las Mercedes» composta da quattro parrocchie e mons. Joaquin Humberto PInzón Güiza, vescovo del Vicariato Apostolico di Puerto Leguizamo-Solano dal 2013. Foto Angelo Casadei.

Questa commemorazione ci spinge, anzitutto, a ripercorrere attraverso la memoria il cammino fatto, guardando all’esperienza fondante, alle nostre origini, allo scopo di dare slancio al cammino futuro, rivitalizzando ciò che rischia di perdere il suo significato. È un’altra cosa da imparare dalle dinamiche dei nostri fiumi: nelle origini c’è sempre la freschezza dell’acqua: più si sale verso la sorgente, più se ne percepisce la purezza.

La storia ci porta al 2013, anno in cui il contesto sociale del territorio era carico di grandi aspettative per i negoziati di pace tra il governo centrale e le Farc-Ep. Tutti sognavamo tempi migliori per i nostri popoli. Tre anni dopo, nel 2016, abbiamo apprezzato l’armonia dell’accordo e le nuove dinamiche sociali che il post accordo ha generato, ma abbiamo anche assistito all’emergere di altri attori armati che, ancora una volta, hanno messo in ombra quella pace che tutti aspettavamo.

Un altro ingrediente che ha generato dinamiche di vita e morte è stata l’attività mineraria che ha letteralmente ferito e dissanguato i nostri fiumi, con l’illusione di migliori condizioni per le persone e le comunità. Senza dimenticare la pandemia di Covid 19 e le sue conseguenze.

Il contesto ecclesiale ispirava molta speranza. La proposta di papa Francesco per una Chiesa in uscita, una Chiesa in cammino missionario, è sorta come un flusso di vita. Nella gioia del Vangelo ci ha proposto:

«[…] Osiamo un po’ di più di prendere l’iniziativa! Come conseguenza, la Chiesa sa “coinvolgersi”. Gesù ha lavato i piedi ai suoi discepoli. Il Signore si coinvolge e coinvolge i suoi, mettendosi in ginocchio davanti agli altri per lavarli. Ma subito dopo dice ai discepoli: “Sarete beati se farete questo” […]» (Eg 24).

È in questo contesto che abbiamo intrapreso l’avventura: tre laici, sette religiose (due suore domenicane della Presentazione e cinque Missionarie della Consolata), un sacerdote diocesano (padre José María Córdoba Rip, mandato da mons. Francisco Múnera, vescovo dell’allora vicariato di San Vicente Puerto
Leguízamo poi diviso per costituire questo secondo vicariato), otto missionari della Consolata, un missionario di San Juan Eudes e il vescovo di questa nuova giurisdizione.

Con tanti sogni nello zaino, ci siamo dati il compito di assumere il progetto, di lanciare la nuova giurisdizione, e semplicemente sognare la strada, con la ferma convinzione di camminare e costruire insieme. Per fare questo, il 7 ottobre di quello stesso 2013 ci incontrammo per vivere la prima Assemblea pastorale che aveva come obiettivo: «Avvicinarsi al progetto del nuovo Vicariato», e lo abbiamo fatto con un sentimento di novità. Da quell’assemblea sono nati tanti sogni, accompagnati da creatività e impegno missionario. Da allora, altri evangelizzatori si sono uniti, mettendo il cuore nel dare il meglio di sé a questo progetto.

Comunità lungo il fiume Putumayo. Foto Fernando Florez.

Dalla Laudato Si’ al Sinodo amazzonico

Quasi non bastasse la sfida di una Chiesa in uscita, il pontefice ci ha rallegrati con un altro grande dono per noi come giovane Chiesa in Amazzonia: l’enciclica Laudato si’, con l’invito a una conversione integrale, che ci rende responsabili della cura della «casa comune». Per noi che, proprio in quel momento (era il novembre del 2017), stavamo preparando la prima Minga amazonica y fronteriza (incontro tra popolazioni dell’Amazzonia e della frontiera), è stato un balsamo che non solo ci ha fatto sentire di navigare nella giusta direzione con una causa risolutamente assunta dalla Chiesa, ma ci ha anche spinti a rispondere fedelmente all’impegno con il nostro contesto amazzonico.

La sintonia e l’impegno si sono ulteriormente rafforzati con la convocazione nell’ottobre 2017 del Sinodo sull’Amazzonia, con il quale Francesco ha inteso: «Metterci alla ricerca di nuovi cammini per la Chiesa in Amazzonia e per un’ecologia integrale». Negli anni, abbiamo camminato in questo flusso di ricerca, discernimento e costruzione collettiva.

In mezzo a tante sfide sociali e all’abbondante ricchezza ecclesiale, è nato il nostro primo progetto pastorale, ispirato dal Vangelo del buon Samaritano (Lc 10, 25-37). È lì che abbiamo sognato una Chiesa dal volto, dal pensiero e dal cuore amazzonici. Come, in seguito, verrà affermato nell’esortazione apostolica Querida Amazonía del sinodo per l’Amazzonia: «È la Chiesa dei seguaci di Gesù» che s’incarna in questo contesto e acquista un volto con le seguenti caratteristiche: è difensore della Casa comune; è senza confini; è fraterno, perché l’altro che cammina con me è mio fratello; è arricchito dalle spiritualità dei popoli che la abitano; è servo al servizio della comunità; è celebrante la vita e il cammino delle persone e delle comunità; è aperto all’universalità, in comunione con tutta la Chiesa.

Anche la riflessione ecclesiale e l’animazione vocazionale fanno parte dei raccolti ottenuti lungo il cammino. Tra i più recenti frutti raccolti in questo percorso, c’è senza dubbio la riflessione che si è sviluppata a partire dalle quattro opzioni missionarie (indigena, contadina, urbana e afrodiscendente) che oggi ci permette di fare chiarezza sul modo in cui dovremmo camminare con ognuno di quei quattro gruppi umani. Poi, come espressione di partecipazione al processo sinodale, abbiamo formato un’équipe interecclesiale in comunione con il fratello Vicariato di San José del Amazonas (Perù), per navigare sognando tra le due sponde. E ancora: l’équipe intercongregazionale, il gemellaggio missionario con la provincia ecclesiastica di Bucaramanga, la creazione delle nuove parrocchie (Nuestra Señora la Consolata, San Francisco de Asís e Nuestra Señora de la Asunción), per essere più vicini a paesi e comunità, e il «Centro amazzonico per il pensiero interculturale», che sta nascendo e si sta rafforzando.

Tutto questo raccolto è stato possibile grazie allo spirito di famiglia che abbiamo creato fin dall’inizio; una famiglia che si rafforza e cresce e che accoglie tutti coloro che entrano a far parte del progetto.

Alcuni partono e altri arrivano: le suore Serve dello Spirito Santo, le Missionarie della Speranza, l’Arcidiocesi di Bucaramanga, la Diocesi di Málaga-Soata, le
Carmelitane missionarie, le suore della Compagnia di Maria, le suore Missionarie dell’Immacolata Concezione, le suore Domenicane di Santa Caterina da Siena, le suore Missionarie del Buon Pastore, alcuni missionari laici, la diocesi di Ismina Tadó, i paesi, le comunità e le persone con cui camminiamo e, naturalmente, i benefattori.

Comunità indigena del fiume Putumayo. Foto Fernando Florez.

In attesa della seconda «Minga amazonica»

L’assemblea pastorale, svoltasi a Puerto Leguízamo dal 7 all’11 novembre dello scorso anno, ha fatto da cornice all’inizio dei festeggiamenti. Sotto il motto: «Dieci anni di cammino insieme perché in Cristo abbiamo la vita». Viviamo questa celebrazione nel contesto in un altro momento ecclesiale molto importante, un’altra proposta di papa Francesco, il sinodo della sinodalità, dove ci viene chiesto di tornare su tre aspetti importanti ed essenziali della Chiesa: comunione, partecipazione e missione. Indubbiamente, questo quadro o meglio questa spiritualità ci permetterà di leggere i primi dieci anni di storia e continuare il cammino.

Questo 2023 chiuderà i festeggiamenti per il decennale del Vicariato con l’esperienza della seconda «Minga amazonica», che avrà il titolo di: «Un modello di vita dal e per il contesto». Partendo dall’«ecologia della speranza», uno sguardo interdisciplinare e interistituzionale per sognare insieme un nuovo modello di vita.

Per una storia plurale

La celebrazione dei nostri primi dieci anni ci ha permesso di avere una visione retrospettiva del cammino fatto e una proiezione verso il futuro, verso nuovi tempi e nuove mete, avendo come obiettivo una buona vita per una buona convivenza. Tutti siamo incoraggiati a continuare a forgiare percorsi per i nuovi tempi, armonizzando metodi e strategie. In altre parole, la storia che sta scrivendo il Vicariato Apostolico di Puerto Leguízamo-Solano è una storia plurale, costruita a più mani, contemplando un ampio orizzonte, camminando insieme affinché i popoli e la gente di questo territorio abbiano la vita in Cristo.

Joaquín H. Pinzón Güiza

 

Durante l’assemblea del Vicariato, si svolge una dinamica per ubicare le missioni su una grande mappa stesa in mezzo al salone. Foto Angelo Casadei.


Il Vicariato e l’opzione indigena

Campesina di San Antonio, nel comune di Puerto Leguizamo. Foto Angelo Casadei.

Il «rostro indigeno»

Il Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano si trova in un territorio amazzonico bagnato dai fiumi Caquetá e Putumayo. Territorio e fiumi nascondono diversità di specie che, intrecciate, proteggono l’ecosistema e danno speranza al mondo. Questa zona racchiude una varietà di volti tra i quali molti popoli indigeni: Murui, Koreguaje, Inga, Kichwa, Siona, Kofane, Nasa.

Sono popoli originari che alla Chiesa chiedono un’evangelizzazione differenziata che, attraverso il dialogo interreligioso, rispetti le loro conoscenze ancestrali e la loro visione del mondo. Sono indigeni che chiedono l’accompagnamento della Chiesa per affrontare le nuove sfide dell’epoca attuale, segnata dall’ondata di violenza, dalla difesa dei propri territori e dal continuo esodo migratorio verso le aree urbane.

Eduardo Reye Prada (Imc)


Il Vicariato e l’opzione contadina

Il «rostro campesino»

In questa immensa, bella e sorprendente Amazzonia troviamo anche il volto contadino. La stragrande maggioranza proviene da altri luoghi della Colombia spinta da ragioni diverse: per occupare terre abbandonate, per cercare guadagno, per fuggire alla violenza che purtroppo affligge il nostro paese. Sono venuti qui con la loro cultura e le loro tradizioni cercando di ricostruire la loro vita.

La Chiesa rende visibili i bambini contadini, i giovani e gli anziani prematuramente invecchiati a causa delle difficili condizioni di vita. Hanno vissuto e vivono realtà molto dure: come possiamo aiutarli? Tra le difficoltà che incontriamo ci sono l’isolamento, la mancanza di opportunità in materia di istruzione, sanità, comunicazione, strade di accesso, pagamento equo per i loro prodotti, abusi da parte di diversi gruppi armati.

Le comunità campesine rivendicano e apprezzano la presenza della Chiesa. Noi rispondiamo con una pastorale di presenza incarnata nelle popolazioni rurali, con un essere con loro. Questo ci ha richiesto lo sforzo di conoscere la storia del mondo contadino, d’incarnarci come Gesù, di scendere nel profondo, ascoltarli, cercare di vedere il mondo, la realtà dal loro punto di vista, uscire, camminare con e verso di loro, cercandoli.

Consapevoli che la pastorale contadina deve abbracciare l’ecologia integrale mettendo in relazione tra loro Dio, i fratelli, il creato; consapevoli che Gesù ha parlato ai contadini della terra, del seme, del frutto, del raccolto, del- la zizzania; consapevoli che il cristianesimo è nato in ambiente contadino, nel nostro essere missionario noi coltiviamo una disposizione umile, semplice e vicina; una vita sobria, vivendo la spiritualità del presepe, del lievito, del piccolo. Impariamo da loro riconoscendo e rafforzando i loro valori: lavoro, pazienza, perseveranza, rispetto dei processi, accettazione, spirito di sacrificio, tenacia, capacità di ricominciare.

Nella nostra visita permanente alle famiglie e alle scuole contadine, promuoviamo iniziative che migliorino la loro qualità di vita (come la coltivazione di prodotti regionali) e contribuiamo a sensibilizzare alla cura della Casa comune. E, soprattutto, aiutiamo tutti a riscoprire valori, come la Parola di Dio, la preghiera, la celebrazione dei sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e maturazione nella fede. Cerchiamo leader e collaboriamo alla formazione dei nostri agenti di evangelizzazione al fine di fornire un catechista a ogni comunità contadina, perché in Cristo tutti abbiamo la vita.

Maria del Carmen López (Cm)

Il Vicariato e l’opzione afro

Il «rostro afroamazonico»

Il popolo afroamazzonico apprezza la vicinanza e il sostegno che, in questi dieci anni, ha trovato nel Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano. Vicinanza e sostegno nella ricerca per rafforzare la propria identità e soprattutto per cercare uno spazio in questa Amazzonia, dove gli afrodiscendenti sono arrivati in momenti diversi della storia recente e per circostanze diverse. Gli afrodiscendenti sono consepevoli che stanno crescendo in questo territorio di pari passo con la Chiesa e sono disposti a continuare a partecipare alle dinamiche pastorali che si stanno portando avanti.

Essi chiedono al Vicariato di continuare ad accompagnare i loro processi. Vogliono sentirsi parte delle dinamiche ecclesiali. Chiedono sostegno per poter acquisire uno spazio dove costruire la loro casa ancestrale: è essenziale avere uno spazio per rafforzare la cultura e la spiritualità. Vogliono continuare a partecipare e ad animare le celebrazioni della fede cattolica che li identificano come comunità afro: la festa di Nuestras Señora de la Candelaria (2 febbraio) e la festa di San Francesco d’Assisi («San Pacho», 4 ottobre).

Come Chiesa del Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano dal volto amazzonico, noi ci sentiamo felici di avere la ricchezza (anche) del volto afro e vogliamo diventare partecipi delle loro ricerche e dei loro processi affinché insieme possiamo avere la vita in Cristo.

Lelia Yaneth Márquez (Op)

Campesinos di San Antonio, nel comune di Puerto Leguizamo. Foto Angelo Casadei.

Il Vicariato e l’opzione urbana

Il «rostro urbano»

Nel contesto urbano, il Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano ha potuto conoscere una serie di realtà che, essendo particolarmente diverse, richiedono uno speciale programma di evangelizzazione.

Inizialmente, al loro arrivo in questa regione, i primi missionari e missionarie avevano una visione generica del modo di vivere degli abitanti nel settore urbano.

La realtà in cui vivono le famiglie in questo «giardino esotico» che è l’Amazzonia, si riassume sostanzialmente nelle poche opportunità di lavoro per la loro sussistenza. Si può osservare che vivono a malapena di pesca e di lavoro nei campi da cui ricavano prodotti come manioca, piantaggine, papaya, mais, tra gli altri frutti che questa buona terra permette loro di raccogliere.

Come Vicariato ci troviamo in contatto anche con il mondo giovanile, che diventa una grande sfida per svolgere la nostra opera di evangelizzazione. Ai giovani mancano le opportunità per realizzare il loro progetto di vita. E questo causa problemi come droga, alcolismo, prostituzione e alcuni stili di vita che possono addirittura spingere molti giovani a entrare nelle fila dei gruppi armati clandestini che fanno parte del tessuto sociale di questa regione.

La popolazione fluttuante, invece, include tutti quegli abitanti giunti sul territorio in cerca di nuove opportunità, di una nuova strada, e che, nella maggior parte dei casi, fuggono dalle incertezze del passato. È proprio qui, nella ricerca di una direzione inedita, che con il nostro lavoro essi possono trovare un modello per cristianizzare la loro vita, evitando con ciò che le realtà negative della loro nuova casa diventino troppo gravose.

In conclusione, guardare al settore urbano richiede una visione ampia attraverso un servizio vocazionale e di evangelizzazione per andare alla ricerca di uno sviluppo per ogni volto che questo contesto amazzonico ospita. Ci riferiamo ai volti urbano, afro, contadino e indigeno che compongono questo paradiso multiculturale.

Fernando Ramirez e Ricardo Bocanegra (Imc)

Archivio MC

Paolo Moiola, È l’Amazzonia, dossier, marzo 2018.
È il reportage sulla prima «Minga amazonica y fronteriza» del Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano. La seconda edizione si svolgerà quest’anno.

 

 

 




Perdenti 64.

Suor Dorothy Stang, difesa degli oppressi

testo di Don Mario Bandera |


Il 12 febbraio 2005 veniva uccisa in Brasile, in piena foresta amazzonica, una suora statunitense settantatreenne, Dorothy Mae Stang (nella cantilenante lingua portoghese-brasileira, amorevolmente chiamata Irmã Dorote) della congregazione delle Suore di Notre Dame di Namur.

Subito balzò agli occhi che non si era trattato di un atto violento di intolleranza religiosa, ma di qualcosa di ben più efferato che scosse, oltre che la sensibilità della grande famiglia missionaria, anche la sonnolenta coscienza collettiva dell’opinione pubblica internazionale. Ma chi era suor Dorothy? In Brasile, soprattutto in quelle regioni remote e inaccessibili del Nord Est del paese, ella rappresentava una presenza umile e solidale a fianco dei poveri contadini «sem terra» in cerca di terra incolta da coltivare.

Era, suor Dorothy, una presenza viva e scomoda di Chiesa in un luogo dove nessun missionario aveva ancora messo piede, e punto di riferimento per tante famiglie di contadini costantemente in balìa dei grandi interessi economici che con tracotanza, e anche violenza, si contendevano ogni metro quadrato della foresta amazzonica.

Suor Dorothy, col tempo, era diventata una voce profetica in quanto ricordava a tutti che la persona va sempre difesa, in modo particolare gli esclusi della società e i più poveri fra i poveri, e che la terra e la foresta non vanno aggredite e devastate per ricavare più profitti economici a beneficio dei pochi ricchi fazendeiros (proprietari di enormi aziende agricole, latifondisti, ndr) e delle insaziabili multinazionali, ma rispettate, protette e amate perché sono patrimonio di tutti.

Parlaci un po’ di te, chi sei, da dove vieni, perché sei diventata suora e missionaria.

Sono nata il 7 giugno 1931 in Dayton, Ohio, Usa, nella fattoria del tenente colonnello Henry Stang, trasformato in contadino, padre di ben nove figli e figlie. Ex militare, mi ha insegnato un forte senso della disciplina e del dovere. Da lui ho preso anche una grande passione per la natura e la vita contadina. Da mia madre Edna, invece, ho preso l’allegria e la spensieratezza. A sedici anni sono entrata con la mia amica Joan nella congregazione delle Suore di Nostra Signora di Namur. Questo è successo per due ragioni: la mia partecipazione al gruppo dei Giovani studenti cristiani, dove avevo imparato il metodo del «vedere, giudicare e agire», e il fatto che avevo studiato nella Julienne, una scuola proprio delle suore di Namur, dove si respirava un forte spirito missionario.

Perché sei andata in Brasile?

Dopo gli anni di preparazione, ho fatto i primi voti nel 1951 e ho preso il nome di suor Mary Joachim. Ho passato i miei primi anni come insegnante nelle nostre scuole negli Usa, ma il desiderio della missione è andato crescendo in me, anche sotto la spinta del Concilio Vaticano II. Quando papa Giovanni XXIII ha lanciato un appello alle suore del Nord America affinché mandassero almeno il 10% del loro personale in America Latina, mi sono resa subito disponibile, incoraggiata anche dal fatto che due dei miei fratelli erano diventati missionari. È stato con immensa gioia che nel 1966 ho ricevuto la notizia di essere parte del secondo gruppo di suore di Namur destinate al Brasile.

Sei finita di nuovo nella scuola?

Sembrava la cosa più naturale visto il tipo di attività che la nostra congregazione faceva, ma le cose sono andate diversamente. Appena arrivate in Brasile, nell’agosto del 1966, siamo andate a Rio de Janeiro, nel Centro di formazione interculturale, per imparare la lingua e per l’inserimento nel paese. Là, tra le nostre guide, c’erano Gustavo Gutierrez e Jon Sobrino. Già da subito, l’impatto con la gente delle favelas di Rio ci ha messo in discussione, a cominciare dal nostro modo di vestire, per cui abbiamo lasciato l’abito «da suore» e abbiamo cominciato a vestirci con abiti semplici.

Dopo il corso di inserimento dove siete andate?

Appena prima di Natale siamo partite per la nostra prima destinazione, Coroatá, nel Maranhāo, accolte con calore da due missionari italiani e sistemate in una casa crollata a metà, quindi tutta da sistemare. Pensavamo di insegnare nella scuola, invece ci hanno mandato subito a visitare la gente del posto e ad animare le nascenti comunità ecclesiali di base. Era una pastorale nuova, attenta ai poveri e quindi, quasi da subito, ci siamo trovate in contrasto con i fazendeiros, che erano abituati a dominare tutta la vita dei loro contadini, anche quella religiosa (con messe celebrate solo nelle loro fazendas e feste patronali organizzate in tutto e per tutto da loro).

Un contesto carico di problemi e di tensioni sociali.

Indubbiamente. I latifondisti trattavano i contadini come gli schiavi di un tempo e impedivano qualsiasi azione di riscatto sociale. Anche costruire una scuola era visto male perché avrebbe reso i poveri più coscienti della loro situazione. Inoltre, c’era un meccanismo di sfruttamento ben oleato. Il governo prometteva lotti di terra a chiunque era disposto a entrare nella foresta e disboscare. Così molti poveri contadini senza terra si buttavano all’avventura. Disboscavano, preparavano la terra, la rendevano pronta per la coltivazione. Passati cinque anni, arrivavano i fazendeiros o le grandi multinazionali, che intanto si erano assicurati i titoli di proprietà di quelle terre, e, forti dei loro «diritti», cacciavano via tutti per impiantare le loro grandi fazendas. Nessun compenso era pagato ai contadini, anzi veniva usata la forza della polizia o di sgherri privati per costringere la gente ad andarsene, il tutto accompagnato da case bruciate, pestaggi, imprigionamenti di chi resisteva e anche uccisioni.

E voi closa facevate per aiutare la gente?

La priorità era il sostegno alle comunità di base, poi abbiamo cominciato a celebrare le messe, gli incontri e le feste nei villaggi dei contadini invece che nelle case dei possidenti.

Questo è stato vero a Coroatá, la prima missione. Ma lo stesso abbiamo fatto quando ci siamo spinte ancor più nell’interno, dal Maranhāo al Pará, e ci siamo stabilite prima ad Abel Figueredo (nel 1974) e poi ad Anapu (nell’82), una zona ancora più «calda» nella diocesi di Altamira.

Con una certa audacia fondaste anche il sindacato locale dei contadini.

È stata una scelta ovvia quella di aiutarli a organizzarsi. Era importante che diventassero loro soggetti del loro riscatto. E poi c’era l’istruzione. Immagina che con loro abbiamo costruito (e ricostruito, perché spesso ci venivano bruciate) ben ventitré scuole primarie in un’area dove l’istruzione di base era completamente assente.

Insegnaste anche le tecniche di agricoltura sostenibile.

Certamente. Abbiamo cercato inoltre anche l’incontro e la collaborazione con i popoli indigeni, per renderli coscienti della situazione e far loro comprendere l’importanza di battersi per i loro diritti. Dimostrando a tutti che cosa può fare chi ha fede, coraggio e determinazione per cambiare una parte del mondo disperatamente bisognosa di giustizia.

Ma allora eravate più attiviste sociali che missionarie.

No, proprio perché facevamo ogni giorno una scelta di vita e impegno secondo il Vangelo, avevamo la forza e la lucidità per affrontare quelle situazioni. Era il confronto giornaliero con la Parola di Dio che ispirava non solo me, ma i preti con cui lavoravamo e i leader delle comunità di base.

Inutile dire che la vostra azione sociale e pastorale non era ben vista dai potenti della zona.

Fin dal mio arrivo in Brasile sono stati diversi gli avvertimenti che questi individui ci facevano giungere, mettendoci in guardia per la nostra azione in difesa degli indigeni e dei contadini più poveri. La prima minaccia risale addirittura al 5 agosto 1970. In quel tempo lavoravo a Coroatà, quando un commando di uomini armati ha fatto irruzione nel centro parrocchiale minacciando le suore che in quella sede riunivano la gente per educarla ai propri diritti.

E non solo noi eravamo malviste, ma anche i sacerdoti con cui lavoravamo e i leader della comunità di base, gli insegnati delle scuole. Molti di loro, e non solo noi suore, hanno pagato con minacce, arresti abusivi, imprigionamenti, torture e anche la morte il loro impegno per la giustizia e i poveri.

In ogni caso la vostra situazione peggiorava di giorno in giorno.

I ricchi moltiplicano i loro piani per sterminare i poveri, riducendoli alla fame. Uno di essi, il sindaco di Anapu, mia ultima destinazione missionaria, se n’era uscito con una frase terribile e lapidaria indirizzata alla mia persona: «Dobbiamo sbarazzarci di questa donna se vogliamo vivere in pace».

Tu però non ne avevi nessuna intenzione di lasciare la tua gente.

So che volevano togliermi di mezzo a qualunque costo, ma io di andarmene non ci pensavo proprio. Il mio posto restava con la gente continuamente umiliata, sfruttata e calpestata».

La mattina del 12 febbraio 2005, «mentre cammina da sola nella foresta, la sua via viene sbarrata da due uomini armati. Dal borsello di plastica, che porta sempre con sé, estrae mappe e documenti per dimostrare che l’area contesa è stata dichiarata riserva per i poveri senza terra. Uno dei due uomini le chiede se ha un’arma. Lei sorride e tira fuori la Bibbia. “Questa è l’unica arma che ho”, dice, e comincia a leggere dalle Beatitudini: “Beati i poveri in spirito. Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia. Beati gli operatori di pace; saranno chiamati figli di Dio”.

Quando si volta per ripartire, uno degli uomini la chiama. L’altro impugna l’arma, e mentre la suora si gira, le spara a bruciapelo mentre ha ancora la Bibbia in mano. Continua a sparare, sei volte. Poi i due corrono verso i cespugli e fuggono verso la tenuta di uno dei mandanti». (Da Roseanne Murphy, Martire dell’Amazzonia, la vita di suor Dorothy Stang, Emi 2009).

Dorothy Stang, per il suo sacrificio come «testimone della fede», rappresenta uno dei più luminosi esempi ai nostri giorni di devozione al Vangelo applicata sul campo, accanto ai più umili e poveri, ai così detti «senza voce». Nella sua azione sociale e pastorale, contrastò interessi importanti; per questo venne messa a tacere in una triste, piovigginosa mattina del febbraio 2005. Ma la sua testimonianza è tutt’ora viva e la sua memoria, ripropone temi, problemi e impegni attuali più vivi che mai. Ecco perché «la sua storia è tutt’altro che terminata».

Ad ogni anniversario della sua morte, centinaia di persone si radunano attorno alla sua tomba nella foresta amazzonica. Fra esse i rappresentanti delle tante comunità di base sorte soprattutto dopo il sacrificio di Dorothy Stang, per condividere il Vangelo e viverlo sul campo, come lei aveva insegnato. La recente Esortazione apostolica Querida Amazonia di papa Francesco è un doveroso omaggio a questa piccola donna, paladina della giustizia sociale, e a tutti quelli che hanno donato la vita per difendere la loro fede. 

Ultimo, profetico segnale: nel 2004 – l’anno prima di venir uccisa – suor Dorothy viene insignita con la «Medaglia di Chico Mendes» da parte dell’Organizzazione brasiliana degli avvocati per i diritti umani. Quasi a riconoscerla erede – e tragicamente fu proprio così – del sindacalista, difensore degli ultimi, assassinato nel 1988.

Don Mario Bandera

Da leggere:

Roseanne Murphy, Martire dell’Amazzonia, la vita di suor Dorothy Stang, EMI, 2009