Un’India troppo solare


Nella regione nord occidentale del Rajasthan i progetti di enormi parchi di pannelli solari provocano gravi conseguenze sociali e ambientali. Il governo centrale, quelli locali e le grandi aziende dell’energia le ignorano nonostante le mobilitazioni delle popolazioni.

Chi l’avrebbe mai detto che l’energia solare avrebbe potuto provocare seri problemi ambientali, sociali ed economici laddove ci si aspettava invece solo benefici?

Eppure, è quello che sta succedendo negli ultimi anni in diverse parti del mondo, tra cui molte regioni dell’India.

Testimonianze di giornalisti e abitanti del Rajasthan, dove si stanno costruendo molti parchi solari, ad esempio, aiutano a comprendere le condizioni e i meccanismi per i quali i progetti di energie rinnovabili non sono esenti da criticità e possono causare notevoli impatti socio-ambientali.

Un problema che dovrebbe interessare anche l’Italia e l’Europa, perché tra i maggiori investitori tramite le loro aziende elettriche a partecipazione pubblica.

L’impatto del solare

Quella solare è considerata una fonte imprescindibile di energia rinnovabile per le sue basse emissioni di CO2. Quando si parla, però, dell’anidride carbonica prodotta dal solare, non si considerano le emissioni provocate dall’estrazione dei materiali necessari (cfr. Daniela Del Bene, Miniere green, MC agosto-settembre 2021, p. 56) e nemmeno la perdita dei terreni utilizzati per i parchi solari, o l’abbandono di pratiche agricole e pastorizie che mantengono la biodiversità del territorio.

Ben conoscono questa problematica gli abitanti dello stato indiano del Rajasthan, molto noto per la meravigliosa architettura dei principati precoloniali, il vivace artigianato, le colorate città, o le escursioni sui cammelli nel deserto.

Proprio questi deserti sono stati considerati il luogo ideale da convertire in una gigantesca batteria di energia solare a beneficio dell’intero Paese.

Parco solare del villaggio di Nedan

Un’India sempre più solare

L’espansione di questa tecnologia è stata dichiarata imprescindibile dal governo di Narendra Modi, in carica dal 2014.

Già nel 2010, l’allora governo in carica aveva lanciato un piano che, secondo molti scettici, sarebbe stato irraggiungibile: la National solar mission. Il suo obiettivo era effettivamente ambizioso: installare 20 gigawatt (GW) di capacità elettrica da tecnologia solare entro il 2022.

Il programma ha raggiunto l’obiettivo con quattro anni di anticipo.

Dati i buoni risultati, il governo Modi ha fissato altri obiettivi, facendo del solare un pilastro di quella che considera un’India moderna e sviluppata.

Già nel 2015, in occasione della Cop21 di Parigi, il primo ministro presentò l’International solar alliance (Isa) con l’impegno di sviluppare 100 GW di progetti solari entro il 2022.

Benché questa volta il progetto si sia dimostrato effettivamente troppo pretenzioso, tuttavia durante il 2023 il Paese sta già raggiungendo i 70 GW di capacità solare, circa il 16% dell’energia totale generata in India.

Il settore è oggi in crescita, con ulteriori obiettivi fissati ai 280 GW da installare entro il 2030 che andrebbero a sommarsi ad altre rinnovabili per un totale di 500 GW di «energia pulita».

Parchi solari nel Rajasthan

Nel 2016, il ministero per le Energie nuove e rinnovabili (Mnre) dichiarò di avere individuato «grandi porzioni di terreno» per sviluppare 34 parchi solari per 20 GW di capacità, molti dei quali nello stato nordoccidentale del Rajasthan.

Nel corso degli anni, questa cifra è aumentata fino all’attuale normativa, la Rajasthan renewable energy policy, nella quale il governo statale ha fissato l’obiettivo di 90 GW di progetti di energia rinnovabile da sviluppare entro il 2029-30. Dei 90 GW, 65 deriveranno dal solare, 15 da fonti eoliche e ibride e 10 da impianti idroelettrici e di pompaggio e da sistemi di batterie per l’accumulo dell’energia.

Il ministero sta dando priorità ai grandi parchi solari chiamati Ultra mega solar plants, con capacità superiori a 0,5 GW. Essi, rispetto ai parchi più piccoli, hanno il vantaggio di ridurre costi e perdite di trasmissione. Inoltre, rendono più semplice l’acquisizione dei terreni e delle autorizzazioni per il cambio di destinazione d’uso della terra.

Ma chi decide quali porzioni di terreno sono disponibili per questi megaprogetti? Chi dichiara il cambio d’uso di un terreno? E poi, chi beneficia di questa elettricità, e per farne cosa?

Il governo centrale e quello statale hanno un ruolo chiave. L’autorità pubblica attrae gli investimenti privati, fornisce assistenza e facilita l’assegnazione dei «terreni governativi». Si tratta di terreni di proprietà pubblica sui quali contadini e pastori locali esercitano diritti d’uso consuetudinari e dai quali dipende il loro sostentamento.

Se invece i terreni individuati appartengono a dei privati, le aziende li prendono in affitto per una quota che per loro risulta irrisoria ma per la gente locale rappresenta una cifra altissima.

Le concessioni alle imprese normalmente sono di 25 anni.

Analizzando la mappa degli attori presenti oggi in Rajasthan si trovano i nomi delle più grandi aziende indiane dell’energia: Adani, Tata e Reliance; ma anche di aziende straniere, tra cui la francese Edf e la nostra Enel.

Nel caso di queste ultime, i loro investimenti sono ancora in una fase iniziale, per cui ciò che succederà intorno ai loro megaprogetti si vedrà nei prossimi mesi e anni. Tuttavia, bene farebbero a prendere in considerazione quanto avviene in altri casi simili e valutare se davvero quella degli Ultra mega solar plants sia una strada da percorrere per una transizione energetica sostenibile e giusta.

Un villaggio in conflitto

Nel 2015 Adani green energy e il governo regionale del Rajasthan, all’epoca nelle mani del partito conservatore Bjp (Bharatiya Janata party), hanno firmato un memorandum d’intesa «per sviluppare il Rajasthan come polo mondiale dell’energia solare» attraverso la costruzione di centrali nel deserto per 10 GW in dieci anni.

I progetti sono stati affidati alla Adani renewable energy park Rajasthan ltd (Areprl), una joint venture tra Adani e l’impresa statale Renewable energy corporation ltd (Rrecl).

Il più grande parco solare costruito da Areprl, il Fatehgarh solar park, si trova oggi vicino al villaggio di Nedan, nella parte occidentale dello Stato e, come si temeva, ha generato un importante conflitto con la popolazione locale.

Nel 2017, infatti, il governo ha cambiato la destinazione d’uso del terreno scelto per il megaprogetto da «agricolo» a «sterile». Tuttavia, la terra in questione – in un territorio dove le zone fertili sono rare e per questo preservate da usi industriali o costruzioni – non era affatto sterile, ma veniva tradizionalmente usata per la coltivazione, il pascolo e la celebrazione di rituali comunitari. Un territorio nel quale la popolazione locale, tra cui i dalit (storicamente conosciuti anche come «intoccabili» o senza casta) e gli adivasis (indigeni), aveva costruito un serbatoio d’acqua, una scuola, un tempio, e si prendeva cura di un oran, un luogo considerato sacro e di grande importanza identitaria. Gli oran sono spazi ricchi di biodiversità che comprendono spesso un corpo idrico. I pastori, da secoli, vi portano il bestiame al pascolo e vi organizzano incontri comunitari, feste e altri eventi legati ai ritmi agricoli.

Cause legali e marce

La popolazione si è dunque rivolta alla magistratura per opporsi a quello che considerava un accaparramento di terra illecito e illegale. Tuttavia, i risultati delle azioni legali sono stati discordanti.

Nel 2018, l’Alta corte del Rajasthan ha parzialmente accolto le argomentazioni degli abitanti dei villaggi e ha stabilito che una parte dell’area assegnata ad Adani fosse riportata a uso comunale. Nel 2020, una volta avviata la costruzione del parco, gli agricoltori hanno intentato un’altra causa contro la ridefinizione dei terreni come sterili. Il caso tuttavia è stato respinto. Nel 2021, è stata presentata una nuova causa d’interesse pubblico per annullare l’assegnazione di un altro lotto per un ulteriore ampliamento del parco solare che si sovrapponeva stavolta a un bacino idrografico ecologicamente sensibile. La petizione è stata nuovamente respinta dall’Alta corte del Rajasthan, e ai firmatari è stato ordinato di pagare 50mila rupie (615 dollari) di spese legali.

Gli abitanti del villaggio hanno inoltre denunciato tentativi di cooptazione da parte di uomini che hanno offerto loro un lavoro nella centrale elettrica in cambio della rinuncia alla causa legale. Una volta persa la causa, le offerte di lavoro sono state immediatamente ritirate.

Nel dicembre 2022, è stata organizzata l’Oran bachao yatra, una marcia che ha percorso 300 km e 40 villaggi nella regione di Jaisalmer per chiedere al prefetto la protezione degli oran.

Sumer Singh, un pastore e uno dei leader della marcia, ha dichiarato ai microfoni del giornale indiano The Hindu: «Lo sviluppo dovrebbe andare avanti, ma non in questo modo. Gli alberi vengono tagliati da un giorno all’altro. Alcuni di questi alberi hanno centinaia di anni. Che ne sarà di noi? Questo è il nostro sostentamento».

La povertà è il problema

Abbiamo intervistato la giornalista locale Ankita Mathur che lavora sulla questione. «La gente non è consapevole dell’importanza di questi pascoli. A lungo termine ne vedrà gli impatti, ma per ora si accontenta dei soldi che riceve. La povertà è il grande problema qui».

Ankita ci spiega l’interdipendenza tra l’impatto ambientale e quello socio economico di tali progetti. «L’area è una zona bharani, una terra dove la gente non coltiva grandi quantità di prodotti, ma dove, quando piove, cresce della vegetazione molto nutriente. Con i progetti solari le persone perdono questo raccolto, per piccolo che sia. Anche i frutti secchi selvatici (chiamati ker, sangri, fog, keep, khejri, e roheda), importanti come riserva di cibo durante la siccità, scompaiono».

La biodiversità, resa invisibile dalla narrativa della «terra sterile», dipende dall’interazione della vegetazione con la fauna locale. I terreni da pascolo, quelli cioè che non vengono coltivati e che spesso si presentano con dune di sabbia, sono l’habitat di animali come la volpe del deserto, serpenti, conigli, camaleonti, gatti, lucertole. Per costruire i parchi solari le dune vengono spianate distruggendo l’ambiente degli animali presenti ed eliminando la funzione naturale di barriera per il vento che porta la sabbia sui pochi terreni coltivati e irrigati, compromettendone il raccolto.

Potere e proprietà della terra

Ankita ci spiega che l’impoverimento delle famiglie nel Rajasthan rurale e le difficili condizioni climatiche spingono le persone ad accettare le offerte di acquisto delle imprese per il loro terreno. «Quando le persone hanno i soldi, migrano verso le città. Altre volte no, ma trovandosi con una quantità di denaro che non avevano mai visto prima, non sanno come gestirlo, e diventano perfetti consumatori: comprano auto e si godono la vita, per qualche tempo. Dimenticano come coltivare la terra e, in un ambiente così difficile, si arrendono facilmente. Con la diminuzione della terra disponibile per l’allevamento, la gente finisce il foraggio per i propri animali e deve comprarlo al mercato. Ma tanto, dicono, ricevono soldi dalla cessione dei loro terreni, quindi chi se ne importa? Molti agricoltori rinunciano ai loro animali perché non ne hanno più bisogno. Ora possono comprarlo, il latte, non serve mungere la propria mucca. Gli animali vengono abbandonati, soprattutto bufali, mucche, pecore, capre.

L’agricoltura in India non è un’attività redditizia e la gente, se non viene supportata, se ne va non appena ne ha la possibilità. Intanto, nei villaggi le persone influenti stanno concentrando su di sé il potere politico e la proprietà della terra.

Non dimentichiamo che in India i grandi proprietari terrieri sono solitamente politici, o entrano presto in politica. Si crea così un circolo vizioso che toglie mezzi di sussistenza alle persone e accumula ricchezze nelle mani di pochi. Questi pochi poi garantiscono la presenza indisturbata delle grosse aziende».

Risorse scarse, violenza in aumento

L’arrivo di queste imprese porta importanti cambiamenti e, con essi, dei rischi per la popolazione locale. «Capita che persone estranee entrino nelle comunità con i loro grossi veicoli e si fermino per qualche giorno. Ma qui il cibo e l’acqua sono scarsi, quindi la gente dei villaggi finisce per non averne abbastanza.

Nelle famiglie, i membri che danno in affitto o cedono la terra, o svolgono una mansione per l’azienda, si ritrovano con un’improvvisa disponibilità di denaro che non sanno gestire. Si danno spesso all’alcol, a droghe, e questo porta un aumento della violenza, ad esempio la violenza domestica, e quindi la disintegrazione delle famiglie».

Anche sulla sostenibilità delle politiche aziendali e della visione del Rajasthan come «batteria solare» dell’India, Ankita esprime perplessità: «Alcune aziende hanno promesso di piantare alberi per compensare la perdita dell’habitat locale. E dove li pianteranno? In un altro territorio. Una compensazione senza senso. C’è poi un problema serio con l’acqua: i pannelli solari devono essere puliti, perché qui abbiamo venti sabbiosi. Le imprese prendono l’acqua dall’unico canale che abbiamo, l’Indhira Gandhi, che è l’unica acqua potabile in Rajasthan.

Ci sono mesi nei quali non riceviamo nemmeno una goccia d’acqua dal canale. Le aziende pensano alla terra solo in termini monetari, e non capiscono come funzionano le cose qui. E poi, per cosa useremo l’energia prodotta? Questa energia è destinata a qualcos’altro, non certamente a noi».

L’abbaglio di una soluzione facile

Questioni e conflitti fondiari simili si stanno scatenando in tutta l’India. In alcune località, manifestanti e oppositori dei progetti, sentendosi abbandonati da magistratura e governo di fronte alle grandi multinazionali, attuano sabotaggi e danneggiamenti delle centrali.

Per questo motivo i memorandum d’intesa tra aziende e governo prevedono per i cantieri personale di sicurezza 24 ore su 24, telecamere a circuito chiuso, muri e recinzioni.

I megaprogetti «verdi» del Rajasthan diventano così enormi enclave militarizzate. Oltre al forte impatto ambientale, determinano una perdita di sovranità e autonomia alimentare per le comunità locali e un aumento della concentrazione di ricchezza e potere nelle mani di vecchie e nuove élite.

Questo modello di transizione energetica presenta sfide forse inaspettate. Ignorarle a causa di un abbaglio e un’ostinata fede in una soluzione facile capace di risolvere l’avidità energetica dell’India moderna potrebbe portare a circoli viziosi di ulteriore povertà e marginalità.

Daniela Del Bene

• www.ejatlas.org
• www.envjustice.org




Miniere «green»

testo di Daniela del Bene |


La domanda di minerali per la produzione di pannelli solari aumenterà di più del 300% entro il 2050. L’estrazione di cobalto, litio e terre rare per pale eoliche, batterie e veicoli elettrici crescerà a tassi senza precedenti. Viaggio nelle nuove miniere.

In un contesto internazionale di grandi incertezze e sfide sociali ed economiche, la questione ambientale ed energetica si impone come un’asse centrale di possibile cambiamento. Non solo per l’evidenza dei cambiamenti climatici, ma anche perché le risorse energetiche su cui è basata la società industriale sono sempre più scarse e di difficile accesso.

Come risposta alle attuali sfide energetiche, da anni si stanno studiando alternative basate sulle fonti cosiddette rinnovabili: dal solare fotovoltaico all’eolico, passando per varie altre tecnologie e per l’efficienza energetica.

Queste alternative, per importanti e imprescindibili che siano, hanno alimentato un clima di generale (ed eccessivo) ottimismo che sta scoraggiando una riflessione critica. Pur essendo necessario continuare a far ricerca sulle fonti rinnovabili, dobbiamo affrontare alcuni temi di fondo.

Black Rock Solar’s first photovoltaic array was 90 kilowatts to power the school buildings in Gerlach, Nevada.

Tre temi ineludibili

La mole attuale di consumo mondiale di energia e di materie prime sta provocando un livello irreversibile d’inquinamento, di emissioni di gas serra e di degrado di ecosistemi. Questo mette a repentaglio le basi stesse della vita. La crescita economica infinita messa in relazione con i limiti biofisici «finiti» della Terra è dunque il primo tema di fondo da affrontare, come da anni sostiene il movimento per la decrescita e studiosi di tutto il mondo.

Il secondo tema è l’insufficienza delle fonti rinnovabili: anche se riempissimo di pannelli solari o pale eoliche tutti gli spazi disponibili, non potremmo comunque raggiungere l’attuale livello di energia generata dai combustibili fossili.

Il fisico spagnolo Antonio Turiel dell’Istituto de ciencias del mar di Barcellona, lo scrive nel suo libro Petrocalipsis: un sistema basato sulla crescita infinita non si può adattare alle rinnovabili. Esse producono energia in modo intermittente (solo quando c’è luce, o soffia il vento, etc); producono solo elettricità (che costituisce il 20% dell’energia totale che include il carburante per il trasporto o l’energia termica) e, infine, hanno un potenziale limitato: se tutti i governi del mondo si accordassero per consumare solo energia rinnovabile, questa coprirebbe appena il 30% del fabbisogno.

Il terzo tema da affrontare si riferisce alla quantità di energia e materiali necessari per la fabbricazione di pannelli solari e turbine. Da dove li prendiamo? Qual è il costo di estrazione? Quali sono gli impatti ambientali e sociali? Chi gestisce l’infrastruttura per la loro estrazione e lavorazione? I materiali sono solo in parte riciclabili e già sono sorti grandi cimiteri di pale eoliche. Cosa faremo di pannelli e pale dopo la loro vita utile?

Mutanda mining – RD Congo

Energia post Covid

I diversi piani di recupero promossi dall’Unione europea e da altre economie energivore come Stati Uniti, India, Cina, per affrontare la crisi economica post pandemia, stanno sostenendo con ingenti fondi progetti «green», tra cui le rinnovabili su grande scala e la conversione del trasporto verso mezzi elettrici.

Questi piani nascono dall’illusione di tornare alla famosa «normalità di prima», cioè ai livelli di consumo pre-pandemia, e omettono di considerare alcuni «dettagli» importanti, come il fatto, ad esempio, che il territorio occupato per il solare o l’eolico viene tolto ad altre funzioni, come la produzione agricola. Attualmente, infatti, è più remunerativo dare in affitto un campo a imprese di energia rinnovabile che coltivarlo.

La produzione energetica rischia, dunque, di mettere a repentaglio la già martoriata attività agricola e la nostra capacità di nutrire la popolazione. Quali saranno le conseguenze per le famiglie e le piccole imprese agricole? Quale sarà lo stato di salute del territorio tra vent’anni, quando la vita utile di questi mega progetti giungerà alla fine?

Secondo la rivista «Bloomberg new energy outlook», l’energia eolica e solare coprirà il 56% della produzione di elettricità entro il 2050. Secondo la Banca mondiale, la domanda di minerali per la produzione di pannelli solari aumenterà di più del 300% entro il 2050, mentre l’estrazione di cobalto, litio o terre rare per pale eoliche, batterie e veicoli elettrici aumenterà a tassi senza precedenti.

Questa tendenza già si registrava prima del Covid-19. Tuttavia, ora, le grandi imprese dell’energia si stanno accaparrando i fondi per la ripresa a un ritmo fuori controllo, e ciò impedisce una reale riflessione di fondo, cosa che sarebbe necessaria in ogni società democratica.

Miniere in fermento

L’attività mineraria in tutta la sua storia ha sempre provocato impatti ambientali e sociali negativi, tuttavia, oggi, le esplorazioni avvengono su scala più grande, controllata da imprese transnazionali che ne ricavano un profitto molto più elevato dei costi che sostengono, e con un livello di impatto ambientale incomparabile con quello di decenni fa.

Sono tristemente famose le miniere di oro, rame, carbone, bauxite sparse in Sud America, India, Filippine, Sudafrica, e in molti altri paesi. Ma la corsa all’accaparramento di minerali strategici «per la transizione energetica» sta portando all’apertura di nuove miniere, come quelle in Congo Rd e in Spagna.

Il cobalto del Congo Rd

La miniera di Mutanda, in Congo Rd, è attualmente la più grande produttrice mondiale di cobalto.

Si trova nella provincia di Lualaba, nel mezzo dell’area protetta di Basse-Kando.

La legge del paese vieta ogni nuova attività economica nelle aree protette, ma in questo caso non è stata rispettata. La prima impresa a esplorarla fu la congolese Gécamines negli anni ‘80. Dal 2013, la maggior parte delle operazioni sono controllate dalla svizzera Glencore Plc.

Diversi episodi associano le operazioni di Glencore in Congo all’inquinamento del suolo e dell’aria. Uno di questi è avvenuto tra luglio 2013 e settembre 2014, quando alcune sostanze tossiche hanno contaminato circa ventiquattro ettari di terreni nelle vicinanze, proprietà di ventisei famiglie di Moloka.

Ancora oggi è possibile vedere l’inquinamento del suolo dalle immagini satellitari. La vegetazione è completamente scomparsa e non ricresce nulla.

Le uniche azioni intraprese da parte di Glencore, dopo quattro anni dalle prime denunce, sono state quelle di ripiantare alcuni alberi (che si sono ammalati) e risarcire le ventisei famiglie con un totale di 65.330 dollari, una cifra ridicola a fronte della perdita dei mezzi di sussistenza.

Vision of the area Paumo-Banda_ Sud Isiro in Alto Conso in RD Congo, dove si vedere la foresta progressivamente distrutta dalle miniere illegali di coltan (da Google Earth)

Contaminazioni

Il Congo Rd è il paese con la maggior riserva di cobalto conosciuta. Essa fornisce circa la metà della produzione mondiale, e questo a scapito delle comunità locali e degli ecosistemi del paese, in modo simile a quanto accade per il coltan nel Kivu.

L’African resources watch (Afrewatch) e l’Associazione per lo sviluppo delle comunità del Lago Kando (Adclk) hanno lavorato per diffondere la loro preoccupazione per le violazioni dei diritti umani e per l’inquinamento nell’area di Mutanda.

Un altro episodio di contaminazione è avvenuto nella notte tra il 16 e il 17 aprile 2017, un gasdotto è esploso rilasciando un acido tossico. Ancora una volta, gli agricoltori che vivevano vicino alla miniera sono stati colpiti e le loro terre distrutte. Da queste terre, le tossine sono entrate nel fiume Luakusha che sfocia nel lago Kando. Il disastro, quindi, non ha riguardato solo i terreni direttamente contaminati, ma anche l’attività di pesca, l’agricoltura della zona che dipende dalle acque del lago per l’irrigazione, e i cittadini in generale che non hanno più avuto accesso all’acqua potabile.

I residenti hanno iniziato ad avere anche problemi di salute.

La risposta della società mineraria è stata quella di spargere la calce nell’acqua per ridurne l’acidità, ma non è stata sufficiente. Inoltre, le comunità sono state escluse completamente dal processo decisionale.

Per quanto riguarda le condizioni dei lavoratori della miniera, molti lamentano orari troppo lunghi, scarsa retribuzione degli straordinari, discriminazione tra dipendenti congolesi e di altri paesi, e la mancanza di sindacati. I dipendenti hanno anche sollevato preoccupazioni riguardo ai materiali tossici con cui devono lavorare e alle poche misure di protezione adottate.

Mutanda non è l’unica miniera di cobalto nella provincia di Lualaba. Il deposito di Tenke Fungurume, ad esempio, è sfruttato da una compagnia cinese. Anche qui i problemi legati all’inquinamento, alla mancanza di trasparenza e comunicazione con la popolazione, la contaminazione di fonti d’acqua, l’abbandono di famiglie sfollate in tende per oltre due anni senza soluzioni abitative, e la precaria situazione dei lavoratori sfruttati, hanno portato a proteste che sono state represse con violenza, causando anche alcuni morti.

Il caso spagnolo

La domanda di metalli non spinge solo sulle frontiere estrattive dell’Africa o dell’America Latina, ma apre nuove aree di sfruttamento anche «a casa nostra».

Nella zona Sud Occidentale della Spagna, nella comunità autonoma dell’Estremadura, a 800 metri dal centro di Cáceres, città di 96mila abitanti, dichiarata patrimonio dell’umanità nel 1986 dall’Unesco, la società Tecnología extremeña del litio Sl, vuole realizzare una miniera di litio a cielo aperto.

La società è una filiale della joint venture promossa dalle società Valoriza Minería (una sussidiaria di Sacyr Sa) e Plymouth minerals Ltd (che ha cambiato nome in Infinity lithium corporation). Il suo progetto di 412 ettari (estendibile a 1.175) prevede una zona di estrazione di 1.100 metri di diametro e 500 di profondità, un impianto di arricchimento con forno per la tostatura acida, una vasca di evaporazione per il lavaggio dei minerali e 290 ettari di suolo per depositare i residui.

La miniera sorgerà nell’area naturale della Sierra de la Mosca, nella Valle di Valdeflores, un’area ad alta biodiversità di grande valore ecologico e sociale.

Dal punto di vista ambientale, questa catena montuosa collega spazi naturali protetti di grande importanza, è un corridoio ecologico fondamentale per gli ecosistemi della zona. Da un punto di vista sociale e culturale, essa ospita il santuario della Virgen de La Montaña (a 500 metri dalla prevista fossa della miniera), è una zona ricca di sentieri per l’escursionismo ideali per attività ambientali ed educative.

La zona ha un’economia tradizionale (frutteti, oliveti, mandorleti, bestiame, apicoltura e produzione di legna da ardere) e una massa forestale di boschi e prati mediterranei che costituiscono il polmone verde di Cáceres.

zona mineraria nel Sud della RD Congo tra le cittadine di Kiala, Kolwezi e Komoto (da Google Earth)

Batterie per l’Europa

Dietro il progetto della miniera di Valdeflores, si muovono interessi geopolitici per ridurre la dipendenza dell’Unione europea (Ue) dall’importazione di litio. L’Ue è il terzo consumatore mondiale dopo la Cina e gli Usa di questo minerale, per ora estratto principalmente in Australia e Sud America.

Per questo motivo, nel 2017 è stata creata la European battery alliance (Eba) per realizzare una catena strategica per le batterie in Europa che comporterà progetti di estrazione del litio anche in Portogallo, Svezia, Finlandia, Repubblica Ceca, e la costruzione di nuove fabbriche di batterie in diversi paesi, principalmente per gli impianti di assemblaggio di veicoli elettrici già esistenti o pianificati in Europa.

Un accordo firmato tra la società Infinty lithium e Eit inno energy, la piattaforma di investimento pubblico-privata promossa dalla Commissione europea per un finanziamento di 800mila euro destinati alla prima fase del progetto e all’assistenza tecnica per ottenere i 300 milioni necessari per il resto del progetto, testimoniano la grande pressione per l’apertura di questa miniera.

A sostegno degli interessi geopolitici, si fa sempre più forte la retorica ambientale che parla di «mineria verde» o di «climate smart». Un esempio ne sono le dichiarazioni del vicepresidente della Commissione europea Maroš Šefčovič che definiscono «ammirevole» il progetto minerario di Valdeflores.

«Salva la montagna»

I probabili impatti negativi del progetto hanno risvegliato un processo molto interessante di organizzazione cittadina nella popolazione di Cáceres preoccupata per la minaccia al territorio, alla salute e alla ricchezza bioculturale.

A partire dal 2017 si sono tenuti i primi incontri informativi della piattaforma cittadina «Salva la montagna di Cáceres». È iniziata una raccolta di firme e il primo percorso escursionistico a Valdeflores è stato realizzato per informare le persone e divulgare i valori del luogo. Nel corso dei tre anni successivi sono stati prodotti numerosi documenti sui rischi del progetto, video, mappe e manifesti.

Tutti questi materiali sono serviti come base per numerosi dibattiti, workshop, incontri di quartiere. Si è denunciata la vicinanza della miniera alla zona abitata, all’impianto di depurazione dell’acqua (solo 300 metri), all’ospedale e al campus universitario. Si è dato l’allarme circa il probabile impatto sulla salute delle polveri sottili e dei gas tossici prodotti dall’impianto di trasformazione, l’impatto sulle falde acquifere e sulle altre fonti d’acqua.

Grazie a questo lavoro, si sono scoperte molte irregolarità dell’impresa per ottenere permessi, insolvenze finanziarie e studi d’impatto ambientale molto carenti. Si sono così iniziate cause legali che hanno messo in luce una lista di illeciti e azioni compiute dall’impresa senza i dovuti permessi, come l’apertura di una via e l’abbattimento di alberi.

Il Comune di Cáceres, in un consiglio comunale del 2018, ha votato contro il progetto e contro le modifiche al piano generale municipale che erano state sollecitate dall’impresa.

Sono state inviate anche denunce alla Banca europea degli investimenti e alla Commissione europea.

Durante questi anni di mobilitazione, si sono stretti legami con altre realtà che affrontano problematiche simili in Spagna, come con il collettivo ContraMinAcción della Galizia.

Cambiare strada

Dall’Italia e dall’Europa, in molti guardiamo da lontano ciò che avviene lungo le frontiere dell’estrattivismo nel resto del mondo; ora è probabile che quegli scenari si faranno sempre più vicini.

Davvero vogliamo continuare a replicare lo stesso schema di sfruttamento, a scapito della base stessa della nostra vita?

Perché non cogliamo l’occasione per riprendere quei punti profondi di riflessione, a cominciare dal settore energetico, e non pensiamo a come ridurre i consumi, come risparmiare suolo dalla cementificazione, come rendere più resilienti i nostri territori, rigenerare i suoli, le acque, le foreste, come creare sinergie tra il settore agricolo ed energetico, e come rilocalizzare produzione e consumo energetico?

Non ci sono formule magiche, e non è neanche detto che questo basti a evitare scenari climatici molto difficili, ma ormai indietro non si può tornare. Possiamo solo cambiare direzione.

Daniela del Bene




Uniti in difesa dell’Amazzonia

testo di Paolo Moiola |


A novembre si è tenuta, a Mocoa (Colombia), la nona edizione del «Foro social  panamazónico» (Fospa). Un’occasione per fare il punto sull’Amazzonia e su una situazione complessiva aggravata dalle conseguenze della pandemia.

Il logo del Foro Social Panamazónico (Fospa, in sigla) è particolarmente indovinato. È composto di due profili sovrapposti che, al posto dei capelli, hanno la mappa della Panamazzonia. Il significato implicito è che popolazioni amazzoniche – indigene in primis, ma anche fluviali, contadine e afrodiscendenti – e ambiente naturale debbono essere in simbiosi per poter esistere. Una simbiosi ben descritta nella dichiarazione finale del Fospa del 2017: «Un senso di territorialità basato su rapporti di rispetto e integrazione con il tessuto amazzonico in tutte le sue dimensioni, non solo materiali, ma anche spirituali, culturali e d’uso».

Il cammino del Fospa

Del Foro Social Panamazónico fanno parte organizzazioni laiche e cattoliche (tra queste ultime, Repam, Cimi, Cpt, Fundación Jubileo, Caaap) dei nove paesi che compongono la regione della Panamazzonia. Dalla nascita nel 2001, il Fospa ha tenuto nove incontri: in Brasile (cinque), Venezuela, Bolivia, Perù e infine a Mocoa, nel Putumayo, Colombia. Quello colombiano è stato un incontro virtuale visto che la pandemia non ha risparmiato neppure la Panamazzonia.

Ognuno dei due ultimi incontri si è concluso con un manifesto d’intenti che riassume la filosofia e gli obiettivi dei popoli amazzonici: si tratta della Carta di Tarapoto (2017) e della Carta di Mocoa (2020).

Il volo di un uccello nell’Amazzonia boliviana. Foto Paolo Moiola.

La resistenza contro il modello imperante

Il logo del Fospa e il manifesto del convegno dello scorso novembre, organizzato a Mocoa, in Colombia, in modalità virtuale. Immagine di FOSPA, novembre 2020.

Gli aderenti al Foro si propongono di assicurare a tutti una vita degna rispettando la diversità di ogni soggetto nonché di agire congiuntamente per curare e difendere l’Amazzonia.

Cosa essa sia lo descrive bene il manifesto redatto a Mocoa. «L’ecosistema amazzonico – vi si legge – è una giungla di complesse interazioni e saggezza naturale con mega-biodiversità, espressioni naturali e culturali, dalle Ande all’Atlantico. La difesa della giungla implica imparare a conviverci, condividere in comunità le proprie forme abitative, cibo, economia, medicina e saggezza ancestrale; significa promuovere rapporti di rispetto e uguaglianza nelle nostre comunità, sradicare ogni forma di violenza».

In questi anni, l’avversario principe non è cambiato: è un modello di sviluppo definito «estrattivista, depredatore, patriarcale, colonialista e discriminatorio», portato avanti da governi e imprese (Fospa Perù, novembre 2020). Un modello che mette in serio pericolo la sostenibilità ambientale e la sovranità alimentare, aumentando la vulnerabilità agli impatti dei cambiamenti climatici.

In questo scenario, la sovranità e l’autodeterminazione sono sempre più limitate e i diritti sono meno riconosciuti e più violati. Come è successo con lo strumento della consultazione preventiva libera e informata.

«Nonostante ciò, i popoli amazzonico e andino resistono e sopravvivono con l’impegno incrollabile di difendere la vita nei nostri territori», scrive la Carta di Tarapoto (Fospa, 2017).

Neppure il Covid

Ambiente e popolazioni della  Panamazzonia non sono stati immuni dalle conseguenze della pandemia. Anzi, l’emergenza ha acuito le problematiche di sempre. Le attività estrattive, i megaprogetti, l’invasione e l’accaparramento delle terre non si sono fermati, moltiplicando il contagio tra le popolazioni amazzoniche.

Il logo del Fospa.

«In mezzo all’intensificarsi della crisi climatica e sanitaria che colpisce soprattutto le persone povere, le donne e le popolazioni indigene, i governi hanno colto l’opportunità per dettare politiche di “ripresa economica” che avvantaggiano apertamente gruppi finanziari e imprenditoriali. Il confinamento è servito a intensificare i megaprogetti minerari ed energetici, le infrastrutture e l’espansione dell’agrobusiness e dell’allevamento estensivo. Queste misure indicano un momento di massima spoliazione degli elementi vitali per la sostenibilità fisica e culturale di tutti i popoli dell’Amazzonia, rurali e urbani.

A tutto questo si aggiunge la presenza di attività illegali, con organizzazioni mafiose impegnate nel disboscamento, nell’estrazione mineraria, nel traffico di droga e altre che minacciano e assassinano i difensori di Madre Natura, dei diritti territoriali e ambientali.

Sia la Carta di Tarapoto che quella di Mocoa pongono un’attenzione particolare ai più deboli tra i deboli: i cosiddetti «popoli in isolamento volontario e contatto iniziale» (in sigla, Piaci). Si ribadisce la difesa della loro decisione di vivere distaccati dalla società e l’intangibilità dei territori da loro occupati.

«Natura sana, popolazioni sane»

La Carta di Mocoa, documento finale del Fospa del 2020, elenca una serie di obiettivi e proposte in tre macroaree d’interesse: popoli e culture con identità amazzonica, territori e cammini di vita, autonomia e autogoverno.

Nella prima, si legge ad esempio: «Sulla base del principio “natura sana – popolazioni sane”, proponiamo di rafforzare il nostro sistema sanitario basato sulla medicina ancestrale e il riconoscimento di aspetti culturalmente appropriati della salute occidentale».

Si chiede di riconoscere e proteggere gli anziani come garanti della saggezza ancestrale e della memoria culturale, di fronte alla commercializzazione delle conoscenze amazzoniche. E di sviluppare l’educazione comunitaria interculturale per la costruzione di una cittadinanza plurinazionale come popoli amazzonici.

Un’iguana. Foto Paolo Moiola.

Nell’area territori e cammini di vita, il manifesto del Fospa ricorda di promuovere l’agroforestazione ecologica, l’agricoltura familiare contadina e la gestione comunitaria della giungla e delle foreste, per assicurare la sicurezza e la sovranità alimentare.

Nel campo dell’autonomia, si chiede di valorizzare le iniziative di governo comunitario e le organizzazioni proprie; di valorizzare le unioni meticce (bianchi con indigeni) e mulatte (bianchi con neri) come parte integrante della costruzione sociale del territorio andino-amazzonico; di rafforzare le esperienze della guardia indigena, contadina e afro come protezione dell’Amazzonia e dei processi comunitari.

Tra gli obiettivi prioritari la Carta di Mocoa vede la promozione della «Dichiarazione universale sui diritti dei fiumi» e sull’intangibilità dei bacini, sorgenti d’acqua, fiumi e foreste nei territori dell’Amazzonia, per evitare gli impatti negativi delle attività estrattive, agroindustriali, idroelettriche e delle vie navigabili transnazionali.

Viene inoltre sottolineata l’esigenza che nessun territorio amazzonico sia dichiarato «distretto minerario», rispettando il suo status di soggetto di diritti come riconosciuto dalle normative nazionali e internazionali per la protezione e la cura dell’Amazzonia.

Il manifesto chiede di promuovere campagne e richieste internazionali per comminare sanzioni legali e sociali contro le imprese che violano i diritti umani. Domanda agli stati coinvolti di ratificare e attuare l’accordo di Escazú (firmato da 24 paesi latinoamericani nel 2018, ma ancora inapplicato) per la protezione della natura e dei suoi difensori. Chiede altresì di favorire azioni che promuovano la consapevolezza ambientale in seno alle varie società.

La Carta di Mocoa chiede, infine, agli stati di riconoscere i «diritti della natura».

Un ragazzo, probabilmente figlio di un ribeiriño, su una canoa nelle acque intorbidite del Rio delle Amazzoni, in Brasile. Foto Paolo Moiola.

Le direzioni della storia

Discorsi interessanti e spesso affascinanti, ma – volendo leggere con occhi critici – si tratta forse di un elenco eccessivamente lungo e ambizioso, con proposte a volte troppo generiche, a volte ripetitive.

La filosofia di fondo espressa nel manifesto è però totalmente condivisibile e riassunta nelle poche righe di quest’appello: «Tutto indica che abbiamo perso l’orizzonte della vita ed è necessario recuperarlo con urgenza. Ecco perché l’appello a tornare alle origini, alle nostre radici territoriali e culturali, a correggere in profondità le direzioni che la storia ha preso, in particolare in Amazzonia».

Correggere il cammino della storia è un programma impegnativo, ma dimostra che c’è ancora qualcuno che non si arrende ai vari Bolsonaro, alle imprese minerarie, agli sfruttatori, agli invasori. Qualcuno che ha ancora voglia di combattere per difendere l’Amazzonia e le proprie scelte di vita.

Paolo Moiola

Delfini di fiume in un affluente del Rio delle Amazzoni. Foto Paolo Moiola.




Acque e ladri

Testi di Emanuele Bompan e Marirosa Iannelli. A cura di Luca Lorusso |



L’acqua nel mondo si riduce, la sete aumenta

La corsa all’acqua

Per troppo tempo l’oro blu è stato considerato una  ricchezza illimitata, sempre disponibile. Oggi stiamo cambiando idea, spinti dalle crisi ambientali che hanno al centro l’acqua. Prima dell’opinione pubblica, l’hanno capito coloro che, con le leve del potere politico ed economico tra le mani, hanno dato il via a una corsa spietata: quella dell’accaparramento della risorsa  centrale per la vita umana.

Il 2019 ha visto un elevato numero di crisi ambientali, dagli incendi in Australia, Sud America, Centrafrica, alla crisi idrica in India, Etiopia, Somalia, la siccità in Sudafrica, le tempeste in Indonesia e Filippine.

In molti di questi casi, al centro del disastro c’era un elemento primario: l’acqua. La sua assenza, come la sua eccessiva presenza (nel caso di alluvioni) ha caratterizzato molti eventi catastrofici legati al cambiamento climatico. Con conseguenze spesso gravi sull’uomo.

In India la siccità prolungata ha lasciato milioni di persone senz’acqua per mesi, con impatto rilevante sulla salute. In Australia il caldo record ha seccato ogni cosa, rendendo possibile una serie infinita di incendi che hanno bruciato per settimane e sono costati decine di vite umane e la morte di oltre 500 milioni di animali.

© Fausto Podavini

 

Nuove geografie dell’acqua

Sempre di più il cambiamento climatico si manifesta attraverso l’acqua, in una correlazione che non è sempre compresa a livello politico né tantomeno giornalistico.

La geografia dell’acqua sta mutando con un’intensità e una velocità mai viste nella storia del-l’Homo sapiens, e ancora non ci siamo preoc- cupati di capire come affrontare il mutamento e come adattarci ai nuovi contesti che emergono.

In questa complessa equazione differenziale, le variabili sono il clima e l’inquinamento (che alterano la disponibilità idrica), e l’aumento della popolazione e dei consumi (che incrementano i prelievi).

Dunque ci troviamo in un mondo dove l’acqua è impiegata dall’uomo in quantità sempre maggiori, e dove, allo stesso tempo, non sono più disponibili le risorse idriche tradizionali su cui la nostra civiltà si è sempre sorretta, a causa, ad esempio, dell’inquinamento di falde e fiumi.

L’acqua facile è finita

Per molto tempo, a partire dalla fine degli anni Sessanta, il tema principale delle lotte ambientaliste relative all’acqua era quello della sua qualità. Per scienziati e cittadini, la questione della quantità non era ancora allarmante.

Oggi però, la sicurezza dell’acqua «facile» viene meno. Ci siamo finalmente resi conto che la fonte vitale data per scontata e inesauribile, in realtà è scarsa in numerose regioni del pianeta.

I volumi d’acqua disponibili per ogni abitante della Terra diminuiscono di anno in anno, mentre la richiesta pro capite aumenta.

Secondo le Nazioni Unite, entro il 2030 il 47% della popolazione mondiale vivrà in aree a elevato stress idrico.

Il cambiamento climatico, le frequenti siccità, lo scioglimento dei ghiacciai, erodono le preziose riserve d’acqua dolce. La crescita della popolazione, l’impennata dei consumi e della produzione alimentare, l’industria e il bisogno continuo di energia (da petrolio, gas, centrali idroelettriche), richiedono sempre più ingenti risorse idriche.

Gli attori politici ed economici più potenti, allora, si muovono per assicurarsele, anche a discapito della sopravvivenza di comunità o intere nazioni, ovviamente le più povere.

Ed è qua che ha inizio la corsa all’oro blu. Detta anche, in inglese, water grabbing.

Water grabbing

Con l’espressione water grabbing, o «accaparramento dell’acqua», ci si riferisce a situazioni nelle quali qualcuno prende il controllo di risorse idriche preziose a proprio vantaggio, sottraendole a qualcun altro, comunità locali o intere nazioni, la cui sussistenza si basa su quelle stesse risorse e quegli stessi ecosistemi.

La costruzione di mega dighe, la privatizzazione di fonti idriche, l’uso forzato di fiumi e laghi per progetti di agrobusiness su larga scala, l’inquinamento dell’acqua per ridurre i costi industriali, il controllo delle risorse idriche da parte di forze militari per limitare lo sviluppo di una popolazione nemica, una minoranza, un’etnia, sono esempi di water grabbing. Gli effetti di questo accaparramento sono sovente devastanti.

© Emanuele Bompan

Da bene comune a bene privato

Nel cosiddetto Sud del mondo, ma anche in alcuni paesi industrializzati, l’acqua si trasforma da bene comune liberamente accessibile a bene privato o controllato da chi detiene il potere.

La geografia del water grabbing interessa ampie fasce del pianeta, le zone equatoriali, i grandi bacini idrici dell’Asia, il Medio Oriente, l’America meridionale, l’area mediterranea, le zone desertiche dell’America settentrionale e dell’Australia.

Per questa ragione un gruppo di ricercatori, giornalisti (incluso l’autore di questo dossier, ndr), fotografi ed esperti, ha creato il Water grabbing observatory, guidato da Marirosa Iannelli, con l’obiettivo di rilevare, analizzare, comunicare fenomeni sociali, ambientali ed economici legati ad acqua e clima, in Italia e nel mondo, usando giornalismo e pubblicazioni come, ad esempio, il libro Water grabbing (edito dall’Emi nel 2018) e L’Atlante geopolitico dell’acqua (Hoepli, 2019), di cui proponiamo alcuni estratti in queste pagine.

Le mega dighe e i padroni del Mekong

Uno dei principali dispositivi di controllo delle risorse idriche nel mondo è l’impiego delle mega dighe: quella delle Tre Gole in Cina ha comportato il trasferimento forzato di 1,2 milioni di persone; la Gibe III in Etiopia sta colpendo gli equilibri geosociali della popolazione della regione dell’Oromia (400mila persone interessate); la Merowe in Sudan ha intaccato lo status di 50mila persone, senza alcun indennizzo economico.

Uno dei bacini idrici più importanti e anche più colpiti dal fenomeno del water grabbing al mondo è quello del fiume Mekong, in Indocina, dove la costruzione di decine di dighe sta modificando la vita di milioni di persone, in particolare nel delta.

Siamo andati a raccogliere informazioni su una di queste, la diga Xayaburi, la prima costruita in Laos sul Mekong nella zona Nord occidentale del paese, e l’accoglienza non è stata tra le più calorose: guardie armate ci hanno impedito di arrivarvi, sia in auto che a piedi. Abbiamo potuto intravedere dall’alto della montagna solo l’ansa del colosso completato a fine novembre 2019.

Pesca, agricoltura, turismo in secca

Costruita da un’azienda di Bangkok, la Ck Power Pcl, la diga Xayaburi venderà il 95% dell’energia prodotta a utenti thailandesi, fuori dai confini del Laos. Quello che le popolazioni di questi territori non si aspettavano, però, era che la mega diga potesse avere un impatto sul corso del fiume così forte come quello che osservano oggi. Duecento chilometri più a Sud, infatti, dove il Mekong scorre per un lungo tratto sul confine tra Laos e Thailandia, le ultime foto satellitari disponibili indicano una fortissima riduzione del regime fluviale.

Nei villaggi di pescatori thai, la secca arriva fino a 30-40 metri dalla riva. Le barche sono incagliate nel fango.

È una situazione che interessa tutto il fiume fino alla Cambogia e che ha fatto esplodere la rabbia dei pescatori thailandesi portandoli in piazza, mentre in Laos le manifestazioni sono state represse dal regime di Bounnhang Vorachith.

Oltre alla riduzione della portata del fiume, infatti, si starebbe verificando una diminuzione della quantità di pesce disponibile. «Sessanta milioni di persone traggono sostegno da questo bacino», spiega Pianporn Deetes, dell’organiz-zazione International Rivers. «Governi e imprese private hanno deciso di costruire dighe che impatteran­no su pesca, turismo, agricoltura. Dighe come la Xayaburi saranno fonte d’instabilità, una piaga, in particolare per i più poveri. Tantissimi villaggi, specie comunità indigene, perderanno i loro territori, abbandonando costumi e tradizioni. La sicurezza alimentare per milioni di persone è a rischio».

Dalla Cina al Vietnam: 124 dighe

I proprietari della diga Xayaburi, a loro volta, attribuiscono il prosciugamento del letto del fiume ai monsoni tardivi e all’impatto comples­sivo delle dighe cinesi, ben 11 nell’alto Mekong, già finite nel mirino del segretario di stato Usa, Mike Pompeo, che le ha definite un rischio per la stabilità idrica del paese, un accaparramento del fiume da parte di Pechino.

Ulteriori preoccupazioni interessano il Vietnam, ultimo paese attraversato dal Mekong: secondo Nguyen Thu Thien, un geografo esperto di aree umide della University of Wisconsin, «il Vietnam potrebbe perdere il delta e tutta la sua produzio­ne di riso entro il 2050. Milioni di impoveriti saranno costretti a fuggire, se le dighe andranno avanti». Dati allarmanti per Hanoi, che punta il dito contro Cina, Laos e anche Cambogia, per i progetti scellerati di sbarramento del Mekong.

Il problema, comunque, è la situazione globale dell’intero corso del fiume, non attribuibile a  una diga specifica, sia essa in Laos, Cina o Cambogia. A oggi, infatti, è prevista la realizza­zione di 124 dighe lungo l’intero bacino del Mekong – inclusi dunque i fiumi tributari -, con i quali si potrebbero generare 268 Gigawattora (GWh) di energia rinnovabile all’anno (l’equivalente dell’80% del fabbisogno lordo italiano). Di queste 124 dighe, 32 sono già funzionanti e 24 in costruzione, mentre la messa in opera delle restanti è prevista nei prossimi venticinque anni.

Trasferimenti forzati

Un altro sbarramento del Mekong che desta preoccupazione, è la mega diga di Pak Beng, sempre nell’alto Laos, a Est di Luang Prabang, in uno dei settori più belli del fiume: «Al momento non ci sono scavi, ma spesso ci sono ingegneri e geometri a fare misure e rilevamenti», spiega Vilang Mak, una guida del gruppo Shampoo Tours, specializzato in crociere sul Mekong. «La diga porterà allo stop del turismo in queste zone, le crociere qui diventeranno un ricordo», conti­nua Vilang. Secondo gli ambientalisti, 25 villaggi indigeni in Laos e due in Thailandia saranno spazzati via con la costruzione della diga, oltre 6.700 persone dovranno essere trasferite forzatamente. I trasferimenti sono già iniziati.

Nei pressi della diga Lower Sesan II in Cambogia, migliaia di persone hanno dovuto lasciare le proprie abitazioni per fare spazio al nuovo bacino. Anche in questo caso le compensazioni erogate sono state irrisorie e le new town costruite per ricollocare una parte degli sfollati sono sostanzialmente invivibili.

Una situazione destinata a ripetersi per ogni progetto che verrà completato. Contribuendo ad un deterioramento generale della sicurezza alimentare nell’intera regione.

© Thomas Cristofoletti / Ruom


Acqua in bottiglia

«Salve, cosa desidera da bere?», è la domanda che ci sentiamo rivolgere al bar in pausa pranzo, o la sera in pizzeria. La risposta più comune è «acqua», sia essa liscia o gassata. Un gesto semplice, ed ecco che la nostra sete viene placata grazie a una bottiglietta in plastica o vetro. Il nostro bisogno primario viene così soddisfatto.

Quando si chiede l’acqua del rubinetto, troppo spesso si riceve un rifiuto, oppure si viene trattati con sufficienza. Questo perché i bar hanno contratti quinquennali con i fornitori o perché le bevande sono un margine di guadagno importante.

Un mercato in crescita

Il valore dell’acqua in bottiglia a livello mondiale nel 2019 ha quasi raggiunto i 250 miliardi di euro. Cresce ogni anno di una percentuale a due cifre, con i mercati occidentali a farla da padroni.

Sono miliardi buttati dai consumatori, poiché la qualità dell’acqua del rubinetto è spesso più alta di quella imbottigliata.

In ogni caso è un fenomeno che sta prendendo piede in Asia e Sud America, dove bere acqua in bottiglia è cool, trendy, serve «a far dimagrire». Come la Fiji, «l’acqua delle modelle».

Il colosso di questo mercato è Nestlé waters (una divisione di Nestlé corp.), che da sola detiene 51 etichette di acqua in bottiglia, incluse Panna, San Pellegrino, Deer Park e Nestlé Pure Life. Acqua che proviene da fonti che dovrebbero appartenere a tutti, ma che, grazie all’acquisizione di permessi di imbottigliamento rilasciati a prezzi stracciati, divengono di fatto private. Una forma di accaparramento idrico.

I margini di profitto sono elevati: un litro di acqua in bottiglia purificata di bassa qualità costa al consumatore circa 560 volte più dell’acqua del rubinetto. Per imbottigliare, un’azienda paga allo stato canoni di uso della fonte che raggiungono al massimo i due millesimi di euro al litro. In alcuni casi il costo è inesistente.

Dal 1° gennaio 2019, Nestlé water Canada, la divisione acque nordamericana della multinazionale svizzera, ha iniziato a estrarre 1,6 milioni di litri di acqua al giorno dal pozzo di Middlebrook, il terzo mega pozzo in Ontario dopo quelli di Aberfolyle ed Erin. Costo? Poco più di 500 dollari canadesi l’anno. Con conseguenze però molto costose. Rob MacKay, sessantaquattro primavere alle spalle, vive con il fratello e i suoi cavalli in una bellissima casa rurale dal tetto ad angolo, non lontano dal pozzo di Middlebrook. Da qualche tempo i suoi pozzi sono prosciugati. Così come vari ruscelli della zona. «Siamo rimasti senz’acqua in una delle regioni più ricche d’acqua del pianeta», dichiara Rob.

Un milione di bottiglie al minuto

L’Italia ha il primato peggiore: siamo il secondo paese consumatore di acque in bottiglia al mondo: ognuno di noi, in media, ogni anno ne beve 208 litri. E per anni siamo stati il primo. Possiamo tranquillamente dire che il mercato dell’acqua in bottiglia è nato nel Belpaese.

Se per anni in Italia si è cercato di imporre canoni uniformi che prevedessero il pagamento sia in funzione degli ettari dati in concessione, sia dei volumi di acqua emunti o imbottigliati (indicando come cifre di riferimento almeno 30 euro per ettaro e tra 1 e 2,5 euro per metro cubo imbottigliato, cioè 1.000 litri), a oggi solo alcune regioni si sono adeguate.

In un’ottica di economia circolare, molte aree del nostro paese potrebbero fare a meno di consumare acqua in bottiglia. Se l’equivalente dei soldi spesi dalle famiglie con Nestlè, San Bernardo e Ferrarelle, fosse impiegato per migliorare la qualità dell’acqua che esce dai rubinetti, ne avremmo tutti giovamento. L’impatto sarebbe ingente. Basti pensare che nel 2018 si sono prodotte nel mondo un milione di bottigliette di plastica al minuto, di cui una buona fetta destinate a contenere acqua. Significa più di 16mila bottiglie al secondo che poi finiscono, se gestite in maniera virtuosa, nei pochi impianti di riciclo della plastica, o termovalorizzate, oppure, molto più probabilmente, nelle discariche o disperse nell’ambiente.


I negoziati internazionali per il clima a un bivio

Aspettando Glasgow

Il fenomeno della corsa  all’acqua è parte del più vasto problema dello sfruttamento dell’ambiente da parte dell’uomo. Una pratica secolare che sta rompendo l’equilibrio naturale della  nostra casa comune. Se i cambiamenti climatici sono la più grande sfida del nostro secolo, al momento pare che la comunità internazionale la stia perdendo. Dopo il fallimento del summit di Madrid, quello del 2020 a Glasgow sarà decisivo.

Il 2020 sarà l’anno chiave per il negoziato internazionale sui cambiamenti climatici. «Ma come?», dirà qualcuno, «non si era concluso nel 2015 con l’Accordo di Parigi?». E qualcun altro dirà anche: «Che diavolo è l’Accordo di Parigi?».

Una cosa è certa: i cambiamenti climatici sono la più grande sfida del nostro secolo.

Se fate parte delle schiere di coloro che credono che il climate change sia una bufala, non leggete queste pagine, tanto non cambierete idea.

Per i cittadini che, invece, sono preoccupati per la casa comune e per le generazioni che verranno, è bene capire come si può agire per cercare di arrestare le emissioni di gas serra, generate principalmente dal consumo di combustibili fossili, come gas, petrolio e carbone, e dalla deforestazione e degradazione degli ambienti naturali terrestri e marini.

Azioni individuali e collettive

Per comodità di trattazione diciamo che ci sono due livelli di azione: uno soggettivo personale che include tutte le azioni quotidiane (l’uso dell’automobile, l’energia impiegata, i consumi alimentari, i consumi in generale), e uno collettivo globale che riguarda il sistema di leggi, di trattati, di strategie internazionali per ridurre le emissioni. In mezzo naturalmente ci sono i singoli stati e i rispettivi sublivelli amministrativi.

Se rispetto all’ambito personale ognuno conosce i suoi peccati e sa cosa dovrebbe fare (e se non lo sa, ci sono migliaia di articoli online pieni di consigli intelligenti), a livello internazionale il cuore del sistema è la Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), approvata nel 1992 al Summit di Rio, il principale trattato internazionale in materia di lotta ai cambiamenti climatici. Il suo obiettivo è impedire pericolose interferenze di origine umana con il sistema climatico. L’Unione europea e tutti i suoi stati membri figurano tra le 197 parti contraenti della convenzione.

Da Kyoto a Glasgow

Il primo grande accordo fu il Protocollo di Kyoto, firmato nel 1997, in vigore fino al 2020. Ratificato da 192 parti della Unfccc, compresi l’Ue e i suoi paesi membri, non vede però tra i suoi aderenti alcuni dei grandi inquinatori mondiali. De facto regola solo il 12% circa delle emissioni globali. Questo fa capire come il Protocollo, sebbene sia stato fondamentale, specie in Europa, sia insufficiente per la sfida attuale.

Inoltre, allo scopo di includere Usa, Cina e altre grandi potenze dentro il quadro internazionale, si è lavorato per trovare un nuovo framework, con un diverso tipo di vincoli e basato su piani nazionali indicati dagli stessi paesi, nel rispetto della scienza e della sovranità di ogni paese.

Dopo un primo fallimento a Copenaghen nel 2009, nel 2015, a Parigi, grazie a un forte accordo politico tra Usa e Cina, le nazioni del mondo hanno approvato a larga maggioranza una nuova architettura internazionale, quella dell’Accordo di Parigi, che entrerà in vigore quest’anno, dopo cinque anni di regime provvisorio, con il negoziato di novembre 2020 a Glasgow.

Dal 2015 a oggi sono proseguiti i negoziati Onu per completare i meccanismi di attuazione dell’Accordo di Parigi e il «Libro delle regole» per evitare problemi.

© Riccardo Pravettoni

Il fallimento di Madrid 2019

A dicembre 2019, però, a Madrid non si è raggiunta l’intesa finale per chiudere sull’ultimo elemento dell’Accordo di Parigi rimasto aperto: quello della finanza climatica che avrebbe permesso ai singoli paesi di scambiare quote di emissioni, comprandole da progetti di mitigazione in altre parti del mondo e facendole contabilizzare a proprio nome.

Sebbene l’architettura dell’Accordo di Parigi sia rimasta in piedi e si sia registrata la volontà delle parti di aumentare l’ambizione per il 2020, quando a Glasgow i 196 stati porteranno nuovi piani nazionali di decarbonizzazione, il summit di Madrid ha segnalato la presenza di un grosso problema politico internazionale di difficile soluzione. Si sono messi di traverso Trump, che vuole l’America fuori dall’Accordo di Parigi e che ha già presentato la richiesta formale di uscita (effettiva dal 4 novembre 2020, un giorno dopo le prossime elezioni presidenziali Usa), e Jair Bolsonaro, deciso a devastare l’Amazzonia.

Questo ha messo in allarme Cina ed Europa, che però non hanno saputo trovare la quadra all’interno di un negoziato che già era iniziato con il piede sbagliato a causa dello spostamento della sede della Conferenza delle parti (Cop) dal Cile, che inizialmente avrebbe dovuto ospitare l’incontro ma che in quei giorni era scosso da forti tensioni politiche, alla capitale spagnola.

Ostaggi dei poteri fossili

La presidenza cilena del summit di Madrid, guidata da Carolina Schmidt, considerata da tutti inadatta nella gestione del processo negoziale della Cop25, ha dovuto prendere atto del fallimento: «Oggi, come nazioni, siamo rimasti in debito con il pianeta», ha lamentato la Schmidt, nel linguaggio onusiano. «Gli accordi raggiunti dalle parti non sono sufficienti per affrontare con urgenza la crisi dei cambiamenti climatici».

Il segnale che viene fuori è pessimo: «L’Unfccc è ostaggio dei poteri fossili», spiega Serena Giacomin, presidente di Italian climate network. «Non possiamo permettere che gli interessi di alcuni possano far naufragare il negoziato e mettere a repentaglio la vita di tante persone. Serve, oggi più che mai, pressione dal basso, non solo per rimettere al centro l’importanza dell’Accordo di Parigi, ma soprattutto per raggiungere l’obiettivo necessario seguendo ciò che dimostrano i dati scientifici. L’Italia nel 2020 dovrà giocare un ruolo centrale».

Già perché il nostro paese, insieme al Regno Unito, sarà copresidente del negoziato, e ospiterà a Milano i negoziati preparatori (pre Cop) insieme a un evento per i giovani di tutto il mondo (Youth for Cop).

Dimock, PE, USA. Craig Sautner, 58 anni, con dei campioni d’acqua rilevati dal rubinetto di casa. Le conseguenze sanitarie della fratturazione idraulica lo preoccupano: i vicini hanno già segnalato dei malesseri. (© Giada Connestari)

La sfida di Glasgow 2020

Quella di Glasgow 2020 sarà una sfida complessa, poiché i 197 paesi dovranno chiudere tutti i punti lasciati irrisolti a Madrid, e presentare gli impegni per ridurre le emissioni per il quinquen­nio 2020-2025, oltre a impostare il negoziato per aumentare l’ambizione. L’obiettivo di lungo periodo dell’Accordo di Parigi è quello di contenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto della soglia di 2° C oltre i livelli preindustriali, e di limitare tale incremento a 1,5° C. Per fare questo bisognerebbe raggiungere la neutralità delle emissioni di anidride carbonica entro il 2050, e aumentare ogni cinque anni gli impegni di riduzione delle emissioni in ogni paese. Al momento l’Europa punta a una riduzione del 50-55% delle emissioni rispetto al 2005. Secondo l’Accordo, in base alle conoscenze scientifiche, gli stati dovranno rendere più ambiziosi i loro obiettivi (l’Ue, ad esempio, dovrebbe puntare alla riduzione del 60% di emissioni), e sono tenuti a riferire agli altri stati membri e all’opinione pubblica cosa stanno facendo per raggiungerli e segnalare i progressi compiuti verso l’obiettivo a lungo termine attraverso un solido sistema basato sulla trasparenza e la responsabilità.

Di fatto ci sono dei meccanismi vincolanti non sanzionatori, che dovranno quindi essere sostenuti dai cittadini tramite pressioni (ad esempio con proteste, o il voto all’opposizione) sui governi che non fanno abbastanza.

Il ruolo di Europa e Italia

Per arrivare preparata all’appuntamento, l’Europa, che ha avuto un ruolo centrale nel salvare il negoziato di Madrid, deve subito avviare il processo di revisione degli attuali impegni di riduzione al 2030, cercando un accordo non oltre il Consiglio europeo di giugno 2020. Poi c’è il ruolo del nostro paese: «L’Italia, copresidente dei negoziati preparatori a Milano, e della Cop26 di Glasgow, avrà una grande responsabilità», ci ha dichiarato il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa. «È importante che si mobiliti anche la Farnesina, con Luigi Di Maio, per cercare accordi diplomatici al fine di chiudere i temi rimasti aperti, come l’art. 6 e spingere per l’ambizione post 2020. È una chiamata alle armi di tutti». Serve aprire canali bilaterali con Cina, India e Giappone, in comune accordo con gli altri paesi europei.

Facendo bene i compiti a Bruxelles e tramite la diplomazia, l’Europa potrà arrivare al Vertice di alto livello Ue-Cina, in programma il prossimo settembre a Lipsia, con una proposta congiunta per un accordo ambizioso in vista della Cop26 di Glasgow. E l’Italia potrebbe incassare un risultato diplomatico importante.

Si tratta infatti, dicono numerosi delegati, di ritrovare l’equilibrio multilaterale nell’Accordo di Parigi alterato dall’annuncio di uscita degli Usa.

Nel caso vincesse un democratico alle elezioni presidenziali del 3 novembre prossimo, gli Usa formalmente potrebbero cambiare rotta entro il giorno successivo, data in cui diventa effettivo l’abbandono americano dall’Accordo. Ma il tutto sarebbe così vicino al negoziato di Glasgow, il quale aprirà i battenti il 9 novembre, che sarebbe comunque difficile avere la sicurezza di un consenso tra Usa, paesi Basic (Brasile, Sudafrica, India, Cina), Cina su tutti, e Ue.

Una partita diplomatica al cardiopalma.

© Gianluca Cecere


L’oro blu al centro dei conflitti e del dibattito giuridico internazionale

Le nuove guerre  per l’acqua

La guerra in Siria è stata narrata ampiamente in questi anni. Un elemento che non è mai stato sottolineato abbastanza, però, è il peso in essa della questione idrica. Ecco un estratto dal libro Water Grabbing di Emanuele Bompan e Marirosa Iannelli.

In lontananza gli spari riverberano sulla valle della Beka’a. Dalla terrazza dell’edificio più alto del campo profughi di Wavel, nei pressi di Baalbeck si vede la frontiera della vicina Siria. Qua nel 1948 arrivarono i palestinesi in fuga dai territori occupati dagli israeliani durante la guerra d’indipendenza. Dal 2011 l’esodo è riniziato e le strade si sono riempite di migliaia di siriani in fuga dalla guerra civile, tanti direttamente dai campi profughi palestinesi in Siria. Nel Libano, secondo l’Unhcr, l’Alto Commissariato per i rifugiati, a fine 2017 trovavano rifugio oltre un milione di profughi dalla Siria, circa un quinto della popolazione del piccolo paese mediorientale. Una situazione che ha portato rapidamente al collasso di Beirut e dei tanti campi profughi esistenti e, ben presto, anche di quelli nuovi creati dall’Unhcr al confine.

«I profughi siriani hanno alterato gli equilibri del campo», racconta Intisar Hassan sul terrazzo della casa in cui è nata nel 1961 e oggi vive con il marito tassista e quattro figli. […] stiamo ad ascoltare, distratti di tanto in tanto dai colpi di fucile. «La popolazione è praticamente raddoppiata. I prezzi sono schizzati alle stelle, l’affitto di due camere è passato da 100 a 250 dollari al mese, le uova costano tre volte tanto, l’acqua è sempre più scarsa. All’inizio eravamo ben disposti, volevamo dare una mano, ma ora questa situazione ci sta strangolando». Muna, trent’anni, abita con cinque figli e altre sei persone in uno stanzone senza bagno né vetri alle finestre in un edificio nelle adiacenze. Le pareti sono ricoperte dai poster dei «martiri», tanti quelli di Hamas e Hezbollah. Nel campo di Yarmuk a Damasco aveva studiato business, suo marito era un funzionario statale, possedevano una casa a due piani con il terrazzo. La sua esistenza, dice, è cambiata dal giorno alla notte. La storia della più grave guerra civile degli ultimi anni è nota. Quello che si conosce di meno sono le ragioni che hanno portato a questa crisi umanitaria, con oltre mezzo milione di morti. Tra i motivi che avrebbero favorito lo scoppio del conflitto, ci sarebbe anche la situazione idrica del paese.

Tra il 2007 e il 2010 il paese è stato colpito da una grave siccità, la peggiore registrata in Siria nell’ultimo secolo, che ha lasciato senza lavoro un milione di piccoli agricoltori e causato la migrazione della popolazione rurale verso le città. Una ricerca pubblicata nel 2015 su Proceedings of the National Academy of Sciences ha determinato che la siccità che ha afflitto la Siria ha acuito i disordini sociali aggravando la preesistente instabilità politica. Non la causa, ma uno degli elementi chiave delle proteste contro il governo di Bashar al-Assad […]. A peggiorare la situazione, le temperature elevate, superiori alla media, dovute agli effetti del cambiamento climatico e una gestione insostenibile delle falde, sfruttate oltre misura fino all’esaurimento dei pozzi di irrigazione.

Quando raccogliemmo un’intervista a Mohammed Saha, ventisette anni, venditore di bibite nel quartiere di Hamra, […] Beirut, […], era il 2013 e ancora non si era confermato scientificamente il legame tra acqua e conflitto siriano. Oggi […] emerge come per anni si sia trascurato il ruolo dell’oro blu in questo grave conflitto: «Non c’era più acqua e così abbiamo iniziato a spostarci dalle zone agricole verso la città», racconta Mohammed. «La mia odissea è iniziata prima della guerra, con la prima siccità del 2006-2007. Vivevo in un piccolo villaggio vicino all’Eufrate, riconvertito dalle riforme di Assad sull’estensione delle aree agricole e la conversione da aree pastorali. Nel 2007 l’acqua era talmente poca che nemmeno spingendo le pompe al massimo si riusciva a tirare fuori qualcosa. Dovevamo portarla con le cisterne dal fiume, dilapidando tutti i nostri averi, mentre il sole divorava il raccolto. Così, con la famiglia, ci siamo spostati ad Aleppo e poi con l’inizio della guerra qua a Beirut».

© Giada Connestari

Con l’aggravarsi della situazione, l’acqua in Siria è passata a essere da una delle varie cause concatenate del conflitto a una delle principali armi per indebolire le fazioni ribelli. Nella lotta per il controllo del territorio tra le milizie antigovernative, gruppi terroristici come Isis e al-Nusra e l’esercito di Bashar al-Assad, l’acqua è diventata il primo obiettivo infrastrutturale militare. Pesano le parole di Noosheen Mogadam, analista del Norwegian refugee council, secondo cui «la distruzione delle infrastrutture idriche e i frequenti black out hanno ridotto del 50% l’accesso ad acqua non contaminata». Decine di pozzi, dighe, depuratori sono diventati target, sia per ribelli che per forze governative. La città più colpita è stata Aleppo, dove la quasi totalità della popolazione a fine 2017 faticava ancora ad accedere all’acqua, dovendo contare sulle organizzazioni non governative per ristabilire una rete idrica affidabile. A ottobre 2017 nell’area metropolitana del secondo centro urbano della Siria vivevano oltre 686mila persone con accesso limitato all’acqua per igiene e sostentamento di base. La conseguenza di questa carenza di servizi? Decine di morti per la diarrea dilagante. Allo stesso tempo la scarsità d’acqua ha messo in ginocchio anche l’allevamento di bestiame (ovini, bovini e pollame), con un conseguente indebolimento della sicurezza alimentare. Per le Ong […], l’assalto alle infrastrutture idriche come obbiettivo militare è stato un atto di violazione deliberata del diritto internazionale, un crimine di guerra […].

Ma non è stata certo la prima volta che l’acqua ha giocato un ruolo centrale in un conflitto, e non sarà l’ultima. Un bene sempre più scarso e conteso, che sarà uno degli elementi strategici dei conflitti del XXI secolo e una delle cause principali delle migrazioni dai paesi più esposti all’instabilità politica ed economica causata dal cambiamento climatico. Comunemente si definiscono «water wars», guerre e conflitti combattuti per l’acqua […]. Dalla siccità in Siria, fino alla siccità globale del 2016 che ha alimentato gli scontri in Sud Sudan di inizio 2017, fino alle proteste in Bolivia e Cile per le privatizzazioni. Passando per uno dei punti più caldi dal punto di vista geopolitico, l’Indo, che alimenta il settore agricolo ed energetico di due nemici di lunga data, India e Pakistan. […].

Anche le grandi opere idrogeologiche possono costituire un grave contenzioso politico. Come la diga Grand Renassaince, costruita in Etiopia, che ha spinto il governo egiziano a minacciare ritorsioni nel caso si fosse verificata una forte diminuzione del regime idrico del Nilo […]. «Il commercio globale di derrate alimentari, i consumi iperbolici, il cambiamento climatico, la lenta trasformazione energetica: questi sono gli elementi dei conflitti di domani», raccontava Lester Brown, uno dei più grandi esperti di problemi globali, in una delle ultime interviste nel suo ufficio del Worldwatch Institute di Washington, prima di ritirarsi. «Con l’aumento della popolazione abbiamo raggiunto un “picco dell’acqua”. Paesi come Siria, Iraq, Pakistan, Messico, hanno già raggiunto o superato questo picco, prosciugando i bacini acquiferi, con conseguenze catastrofiche sulla stabilità di quei paesi».

Per capire il crescente emergere di conflitti legati all’acqua bisogna andare a New York. È un giorno freddo, il primo ottobre 2010. I reporter escono dal Palazzo di vetro delle Nazioni unite per andare a scrivere svogliatamente una notizia, che passa quasi inosservata sulla stampa italiana. L’Assemblea generale delle Nazioni unite ha adottato la Risoluzione 64/292 riconoscendo l’acqua come diritto umano. Ma lo scarso interesse di media e politica fa comprendere fin da subito come l’importanza di questa Risoluzione sia sottovalutata. O addirittura si voglia tenerla sotto il tappeto. L’acqua come diritto è una questione che scotta, per governi e multinazionali in primis. […] Nel 2010 l’approvazione della Risoluzione per la prima volta dà dignità a un diritto primario, dichiarando che «il diritto all’acqua potabile e sicura e ai servizi igienici è un diritto umano essenziale al pieno godimento della vita e di tutti i diritti umani». Parole bellissime, cui non è seguito alcun reale riconoscimento nelle costituzioni dei singoli paesi né nei tanti ambiti del diritto e delle organizzazioni internazionali.

©  Gianluca Cecere

La questione […] giuridica rimane molto controversa. Differenti orientamenti di legge non hanno ancora permesso di affermare una normativa chiara e cogente […]. Mancando quindi un sistema globale di regolamentazione giuridica dell’acqua, le possibilità di conflitti per il suo accaparramento sono in aumento […].

Dagli abusi sulle popolazioni indigene ai conflitti legati ai bacini transfrontalieri, l’assenza di un quadro de jure impiegato per favorire una cooperazione su basi legali tra soggetti politici offre una lacuna particolarmente grave […].

La risoluzione delle Nazioni unite del 2010 appartiene a tutti gli effetti alla sfera della cosiddetta soft law, cioè a quel sistema di norme prive di carattere vincolante e sanzionatorio capace di obbligare gli stati ad adempiere a quanto prescritto. In sostanza, a oggi, il riconoscimento del diritto umano all’acqua passa attraverso «un invito ai governi all’impegno sia sul proprio territorio, sia in contesto internazionale, a rendere effettivo l’esercizio di tale diritto».

Durante la votazione della risoluzione 64/292, in quel freddo giorno dell’ottobre 2010, furono 122 i paesi a favore, 41 gli astenuti. Nessun contrario. L’astensione tuttavia pesava come un macigno. Nella lista figuravano molti paesi industrializzati come Stati Uniti, Canada, Svezia, Regno Unito, Austria, Israele, Corea del Sud, Nuova Zelanda, Giappone. Le motivazioni? L’assenza di basi legali sufficienti a livello internazionale e la scarsa chiarezza sulle responsabilità e gli obblighi dei governi firmatari. Una posizione ritenuta dagli stati sostenitori – come Germania, Italia, Spagna e Belgio – sintomo dell’impossibilità di un impegno comune e di mancanza di visione.

[…] Dopo il riconoscimento dell’Assemblea generale delle Nazioni unite, il quadro giuridico è stato integrato da risoluzioni del Consiglio dei diritti umani che hanno esplicitato formalmente il legame tra «il diritto umano all’acqua» e il livello di vita adeguato per tutti, così come la diretta relazione tra la risorsa idrica e il diritto alla vita e alla dignità. Gli stati avrebbero dunque la responsabilità primaria di assicurare la piena realizzazione di tutti i diritti umani, e la concessione della gestione dell’acqua potabile e/o dei servizi igienico sanitari a terzi non esime lo stato dai suoi obblighi sui diritti umani.

Nel 2013 però l’Assemblea generale ha declinato le modalità con cui gli stati dovrebbero garantire tale diritto, che prevedono un processo consultivo con i cittadini, il monitoraggio della diffusione dell’accesso all’acqua potabile, e la garanzia di un’accessibilità ai servizi idrici, anche se gestiti da enti terzi come i privati. Unica nota positiva: nello stesso anno viene estesa al diritto all’acqua l’opzione della giustiziabilità, secondo cui tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi, tramite il Patto internazionale relativo ai Diritti economici, sociali e culturali, un trattato delle Nazioni unite nato dall’esperienza della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e sottoscritto e ratificato da tutti i membri dell’Onu.

Pur avendo fatto dei passi avanti nello scenario giuridico con risoluzioni esplicite e strumenti interpretativi che hanno definito il diritto all’acqua come diritto umano, quindi universale, autonomo e specifico, questo riconoscimento resta a tutt’oggi sancito solo in termini «declaratori» […].

Da qualche anno il dibattito internazionale della dottrina sta cercando di superare i limiti burocratici e politici che non consentono un impegno più stringente da parte degli stati per garantire efficacemente l’accesso all’acqua potabile in ogni area del mondo, tutelando quindi la vita, la salute e il benessere di intere comunità. Secondo buona parte degli studiosi di diritto internazionale, il diritto all’acqua dovrebbe essere riconosciuto tra le cosiddette norme consuetudinarie, che presuppongono due elementi: la ripetizione costante nel tempo di un dato comportamento da parte dei soggetti e il convincimento che quel comportamento sia conforme a diritto o a necessità. A differenza dei trattati inoltre, validi solo nei rapporti tra le parti, le norme consuetudinarie obbligano in via sanzionabile tutti i soggetti internazionali al comportamento a cui si fa riferimento. Sarebbe dunque un decisivo passo avanti per poter successivamente declinare nei vari paesi vincoli precisi per gli stati.


Ha firmato questo dossier:

  • Emanuele Bompan
    Giornalista ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, ambiente, energia. È direttore della rivista Materia Rinnovabile, collabora con testate come La Stampa, Nuova Ecologia, Oltremare. Ha vinto per quattro volte l’European Journalism Center IDR Grant, una volta la Middlebury Environmental Journalism Fellowship ed è stato nominato Giornalista per la Terra 2015. Ha svolto reportage in 76 paesi, sia come giornalista che come analista. www.emanuelebompan.it/
  • A cura di Luca Lorusso giornalista redazione MC.



Tigri, uomini e riserve in India:

La vita non vale un parco

Testi e foto di Eleonora Fanari


Sommario

Reportage dall’area protetta del Bengala occidentale: Attenti alla tigre

Popolazioni Indigene in India
I parchi in India

Rischi e contraddizioni delle politiche ambientali:  Più ambiente per tutti, meno diritti per alcuni

Conservazionisti versus Ambientalisti
Campa

Resort lussuosi per l’«eco turismo» sulle terre degli sfollati: Largo al turismo

Questo dossier è stato firmato da:

Reportage dall’area protetta del Bengala occidentale: Attenti alla tigre

Essere pescatori residenti nei dintorni della riserva delle tigri di Sundarbans e vedere rispettati i propri diritti è sempre più difficile. Le politiche ambientaliste del governo producono norme e divieti che portano molti alla fame, diversi a rischiare l’illegalità e, a volte, la morte per sbranamento, e molti altri all’emigrazione.

La riserva delle tigri del Sundarbans – il cui nome in bengalese significa «la bella foresta» -, patrimonio dell’Unesco dal 1987, è il parco naturale nel quale si consuma uno dei più discussi e complessi conflitti tra conservazione ambientale e diritti umani nel territorio indiano. La riserva, che si trova nell’India Nord orientale, è situata nel golfo del Bengala, sul delta del Gange, estremo Sud dello stato del Bengala occidentale, nella più grande foresta di mangrovie del mondo.

Il grosso arcipelago sul quale si estende è formato da 102 isole, 54 delle quali ospitano una popolazione di 4,5 milioni di persone, per la gran parte dalit e indigeni che lottano per la propria sopravvivenza spartendosi il territorio con la famosa tigre del Bengala, una specie in via d’estinzione e protetta dal 1973.

Remi in barca, ma senza smettere di lottare

Sohankharo Arhi, abile pescatore del villaggio di Mathurakhanda, raccoglie i remi della sua piccola barca per sistemarla sulla sponda del fiume.

Ci troviamo qui, sull’isola di Bali (non quella famosa), una delle isole dell’arcipelago, per svolgere delle ricerche sul conflitto che da anni produce vittime tra i più poveri, e lo osserviamo. In questo villaggio, secondo il censimento del 2011, vivono 3.826 persone, delle quali l’80,4 per cento sono dalit, la casta più bassa degli intoccabili, e il 2,2 per cento indigeni1.

Oggi Sohankharo torna a casa a mani vuote. La sua famiglia e le famiglie dei suoi colleghi pescatori in questa giornata mangeranno, forse, solo riso bianco. Le guardie forestali li hanno avvistati mentre navigavano all’interno della riserva, in zona proibita, e li hanno sanzionati con una multa di 2mila rupie (25 euro) a testa e la confisca delle reti e dell’intero pescato. Da quando le normative sulla conservazione ambientale hanno iniziato a inasprirsi, influenzando le sorti di questi piccoli pescatori, un nuovo conflitto socio ambientale emerge in questa «bella foresta» di mangrovie.

Mentre la tigre del Bengala diventa sempre più visibile, soprattutto agli occhi stranieri, attraendo milioni di turisti ogni anno da tutto il mondo, le comunità che abitano questo territorio sono, al contrario, sempre più invisibili. Le loro necessità, i loro bisogni e i loro diritti sembrano affondare in quel terreno fangoso sul quale abitano che non lascia tregua nemmeno nei momenti di secca.

Nuove regole contro la pesca

Il rischio continuo di maree e alluvioni tipico del territorio e la salinità della terra, che impedisce una florida attività agricola, creano una costante incertezza. Gli uomini come Sohankharo non hanno facoltà di scelta, e l’attività di pesca rimane una delle più importanti fonti di reddito per la maggior parte delle famiglie, sfamando circa l’ottanta per cento della popolazione.

Il «Progetto tigri», nato nel 1973, è stato rinforzato dal governo tra il 2005 e il 2006 con nuove norme che hanno creato, tra le altre cose, zone protette inviolabili nelle quali l’accesso è proibito. La popolazione si è ritrovata, così, senza un’alternativa valida, se non quella di infrangere la legge.

«La zona accessibile non è abbastanza pescosa per poter sfamare tutti e, spesso, non siamo al corrente dei confini imposti dalle guardie. Nessuno ci avvisa, se non a bastonate e con multe salate quando ci sorprendono pescare nelle acque del fiume», si sfoga Sohankharo, mentre ci racconta delle difficoltà poste da un territorio già di per sé difficile, e si lamenta del fatto di aver dovuto pagare ingenti somme di denaro semplicemente per svolgere il proprio lavoro.

L’isola si affaccia direttamente sulla zona inviolabile del parco al di là del fiume, e navigare quelle acque rappresenta un rischio.

923 licenze di pesca per 52mila pescatori

Le ultime norme emanate sulla protezione ambientale si assommano ad altre e macchinose regolamentazioni del passato. Una di queste è quella riguardante il certificato di licenza di navigazione, un documento rilasciato nel 1973 dal dipartimento forestale per regolare l’attività di pesca in un’area di 892 km2. Da allora queste licenze, pari a un numero di 923, non sono mai state incrementate e, a oggi, quelle attive per i 52.917 pescatori dell’intero arcipelago, sono di circa 713, un numero irrisorio che lascia quasi tutti i pescatori in una situazione di illegalità permanente.

Alcuni titolari di queste licenze le adoperano dandole in affitto a prezzi inaccessibili ai piccoli pescatori che spesso si indebitano pur di proseguire la loro attività.

Sohankharo commenta: «Non essendo in possesso della licenza, per pescare ho bisogno di prenderne una in concessione a un costo di 30/32mila rupie l’anno (circa 400 euro). Ma negli ultimi anni questo certificato non mi ha permesso ugualmente di pescare, e molti di noi si sono ritrovati a pagare il certificato e anche le sanzioni e le confische da parte delle guardie, lasciandoci in un perenne stato di debito».

Pescatori sbranati e tigri in aumento

Mentre, da un lato, i pescatori lottano con le norme proibizioniste imposte dal dipartimento forestale e con il sistema burocratico e corrotto che ne consegue, dall’altro si ritrovano a dover fare i conti con le «norme naturali» imposte da un territorio ostile nel quale anche l’aggressività delle stesse tigri protette ha la sua parte.

Il timore di essere intercettati dalle guardie forestali spinge la maggior parte dei pescatori a recarsi in luoghi meno visibili, esponendosi di fatto ai possibili attacchi dei felini.

Per il dipartimento forestale del Bengala gli attacchi mortali delle tigri sono dieci all’anno, ma per le comunità locali e le organizzazioni che operano nel territorio, i morti sono almeno dieci al mese2.

Mentre visitiamo il villaggio di Muthurakhanda, abbiamo l’onore di conoscere il capo del villaggio, Ankul Das, che ci racconta: «Nel corso degli anni la popolazione di granchi, gamberetti e pesci è diminuita nelle zone cuscinetto (zone attigue alla riserva, accessibili alla popolazione, ndr). Gli abitanti dei villaggi entrano illegalmente nella zona centrale alla ricerca di una buona pesca, e alcuni vengono uccisi. Poiché queste morti non vengono denunciate, il governo ne rimane all’oscuro».

Le numerose vedove del Sundarbans spesso non ricevono alcun compenso per la loro perdita: un eventuale rimborso è stabilito solo se il pescatore viene aggredito dalle tigri in acque legali.

Da quando il «progetto tigri» è stato inaugurato, il numero dei felini è in crescita. Nilanjan Mallick, il direttore della riserva del Sundarbans, lo conferma al quotidiano «The Tribune»3: le videocamere installate nella riserva hanno registrato nell’anno 2016/17 un numero di circa 83 tigri.

Questo risultato rispecchia gli sforzi del progetto del governo indiano. Il paese è oggi sede della maggior parte delle tigri nel mondo: 2.226 secondo la stima ufficiale del 2014. Un aumento del 30 per cento rispetto alle 1.706 del 2010.

Il mondo conservazionista esulta a questi numeri, mentre le vedove come Aparna Singh, 30 anni e tre figli, dell’isola di Koltali, gemono in silenzio e a stento mandano avanti le loro famiglie.

Incontriamo Aparna nella nostra seconda visita alle Sundarbans nel marzo 2017. Timida, ci invita a entrare nella sua piccola casa. Appesa alla parete di bambù vi è la foto del marito, Pradhan Singh. Con gli occhi rivolti verso il basso Aparna ricorda il giorno in cui il marito fu catturato dalla tigre: «Erano in tre nella barca. Come ogni giorno, erano andati per la raccolta dei granchi. Da quel giorno Pradhan non è mai ritornato».

Il padre di Pradhan, che vive insieme alla nuora, ci spiega che gli attacchi sono aumentati, sia per l’aumento delle tigri che per la necessità dei pescatori di spingersi in acque pericolose: «I pescatori, per paura dei guardiaparco, si avventurano nelle zone forestali più interne, ed è lì che si trovano le tigri». Poiché la tigre attacca sempre una persona alla volta, i pescatori vanno in gruppetti di almeno tre persone. Se uno di loro dovesse morire per un attacco, gli altri si assumerebbero l’onere di prendersi cura della sua famiglia.

L’alternativa di emigrare

Mentre le guardie forestali ingrassano con le confische di pesce fresco, i piccoli pescatori si indebitano per rischiare la vita ogni giorno.

Per capire meglio le condizioni di vita dei pescatori, ci rechiamo nell’isola Satjelia, una delle più povere e popolose. «Non abbiamo altra scelta, se non quella di morire di fame», commenta Utpal Mishra, un pescatore che ci spiega come le norme vigenti non propongono alcuna alternativa alle comunità locali, se non quella di emigrare. Utpal Mishra ci racconta che alterna il lavoro di pescatore a quello di migrante: «Per sei mesi all’anno vivo a Delhi, per fare il bracciante nell’edilizia. Altre volte vado a Mumbai, Bangalore, Calcutta, o Tamil Nadu. Siamo in molti a spostarci, ma la famiglia e il legame con la nostra terra non ci permettono di abbandonare le acque del fiume».

Un altro pescatore sui 50 anni, anche lui da mesi senza licenza in quanto confiscata dalle guardie, ci dice che suo figlio vive lontano, in Italia. Ce lo dice con fierezza. Anche alcuni suoi amici che vivono nella Sundarbans del Bangladesh, al di là del confine nazionale, hanno famiglia in Italia.

Senza possibilità di sopravvivenza in India, si recano in terre lontane: potremmo forse chiamarli rifugiati della conservazione ambientale?

Quelli che invece rimangono qui, rischiano ogni giorno sanzioni, estorsioni o abusi da parte del corpo forestale, e a volte la vita, com’è successo il 16 marzo 2017, quando un peschereccio con 28 persone a bordo è stato avvistato dalla forestale e capovolto. Gli uomini, le donne e i bambini, subito soccorsi e trasportati in ospedale, hanno poi dovuto sostenere i costi per le cure mediche, negate dal dipartimento forestale4.

Pescatori no, turisti sì

Il Sundarbans, ecosistema ricchissimo di biodiversità, è oggi un territorio a rischio. Le problematiche legate al suo degrado non sono certo da attribuirsi solo ai suoi abitanti, ma a decadi di sfruttamento delle risorse. Nonostante questo, i pescatori continuano a essere incriminati per danni contro l’ambiente, mentre il turismo continua a proliferare in maniera incontrollata. Vengono proibite le imbarcazioni a remi dei residenti, ma le numerose barche turistiche a motore attraversano ogni giorno la zona protetta del parco senza problemi.

Gli abitanti della zona si domandano se queste misure di protezione ambientale, che ledono i loro diritti fondamentali, stiano effettivamente contribuendo alla protezione dell’ecosistema. Alcuni denunciano, ad esempio, la presenza di uomini, probabilmente legati alla mafia del legname, che tagliano alberi nella foresta senza curarsi di farlo anche quando sono in fiore, ostacolandone la riproduzione. È una pratica teoricamente illegale che però pare non essere ostacolata dalla forestale. Molti altri denunciano poi i grossi pescherecci che attraversano le acque protette rilasciando materiale inquinante.

Tutto ciò senza menzionare i diversi disastri ambientali che non vengono risolti dalle autorità, come quello causato nel 2014 da una petroliera che, collidendo con un’altra imbarcazione nelle acque al confine tra Bangladesh e India, ha rilasciato nel mare migliaia di litri di petrolio5.

Le popolazioni locali esistono

Secondo l’ambientalista Santanu Chacraverti, autore del report The Sundarbans fishers pubblicato nel 2014 dal Collettivo internazionale a sostegno dei pescatori (International collective in support of fishworkers), la problematica in Sundarbans è legata all’incapacità dell’amministrazione locale di analizzare il problema in termini olistici e di cercare soluzioni che prendano in considerazione tutte le questioni: dal degrado ambientale al sovraffollamento, dalla protezione forestale ai diritti delle popolazioni, dal turismo alla gestione comunitaria delle risorse. Quest’ultimo elemento è tra i più importanti, perché riguarda l’inclusione delle comunità locali nella gestione del territorio.

Nonostante l’assoluta importanza della protezione della biodiversità, le norme legate alla conservazione ambientale non possono dimenticarsi dell’esistenza dell’uomo che vive dentro o ai margini di questi territori.

Alcuni studiosi, come Paul J. Ferraro (del dipartimento di economia alla Georgia state university di  Atlanta, Usa), osservano che la creazione di zone protette con misure restrittive, come nel caso del Sundarbans, non sempre crea vantaggio all’ambiente, in quanto i conflitti che sorgono in risposta al malessere della popolazione impediscono la giusta gestione del territorio.

Gli abitanti delle Sundarban, come Utpal Mishra o Sohankharo, sono i primi a voler proteggere la natura. La loro vita dipende da essa, ma per loro non è solo fonte di reddito, rappresenta la loro casa e la loro identità.

È proprio Utpal Mishra che, un giorno, esplorando le Sundarbans in barca, ci dice: «Scendiamo, camminiamo nella foresta. Come potete studiare il nostro territorio se non capite cosa significa camminare su questo terreno?».

Mentre una guerra globale sulle risorse naturali è alla ricerca di ipocrite soluzioni omogenee per tutti, i pescatori delle Sundarbans ci dicono che non si possono trovare soluzioni se non si sa cosa vuol dire sporcarsi i piedi nel terreno fangoso e buio della foresta.

Eleonora Fanari

Note:

1   www.census2011.co.i
2  Shreya Das, The tiger widows of Sunderbans: caught between the tiger and apathy, «The Indian Express», 27/12/2017.
3  Pritha Lahiri, Sujoy Dhar, Tigers burn bright in the Sundarbans, «The Tribune», 07/10/2017.
4  Informazione condivisa con l’autrice dall’organizzazione Dakshinbanga Matsyajibi Forum (Dmf).
5  Un sends team to clean up Sunderbans oil spill in Bangladesh, «The Guardian», 18/12/2014.

 

Popolazioni Indigene in India

I popoli originari dell’India, o adivasi, rappresentano l’8,6 per cento del totale della popolazione indiana, circa 104 milioni di persone (secondo il censimento del 2011). L’uso del termine adivasi risale al periodo coloniale e si parla di comunità tribali già nel primo censimento del 1901.

A livello istituzionale le comunità tribali in India vengono riconosciute con la locuzione scheduled tribes (St) che appare per la prima volta nella costituzione indiana del 1950, nell’articolo 366 (25). In essa si attribuiscono agli adivasi diritti legati al loro stato di marginalità storica e alla loro diversità culturale, considerata una ricchezza per il paese.

Secondo l’Iwga (International work group for indigenous affairs) «in India, ci sono 705 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti come scheduled tribes. Ci sono poi diversi gruppi indigeni non riconosciuti. La maggiore concentrazione di queste popolazioni si trova nei sette stati Nord orientali dell’India e nella cosiddetta “cintura tribale centrale” che si estende dal Rajasthan al Bengala occidentale». Gli adivasi vivono in tutta l’India, ma principalmente nelle zone montuose e collinari, lontano dalle pianure fertili. Tra le comunità più conosciute vi sono i Santhal e i Gond nello stato di Orissa, i Baiga in Chattisgarh, i Gujjar e i Tharu in Uttar Pradesh e Uttarakhand.

La lotta indigena per il bene comune

Gli adivasi considerano la terra come una risorsa comune, e tradizionalmente hanno sempre controllato e gestito le risorse naturali disponibili attraverso istituzioni comunitarie consolidate.

La maggior parte di queste comunità vive in aree fortemente boscose, la loro economia si basa principalmente su un’agricoltura di sussistenza, sulla caccia o la raccolta.

Le politiche Indiane da decenni sfruttano le risorse naturali delle terre ancestrali indigene danneggiando l’ambiente e minando lo stile di vita delle popolazioni native. I numerosi conflitti, a volte armati (come in Bhastar, Chattisgarh), tra lo stato e le comunità indigene, continuano a perpetuarsi in tutto il territorio indiano, incidendo sul loro stato di povertà e di salute. Per questo motivo, un gran numero di membri di queste comunità si ritrova a dover migrare nelle grandi città come New Delhi, Mumbai e Calcutta, nelle quali vengono spesso sottopagati e posti alla mercé di grandi impresari e latifondisti (Karnika Bahuguna, Madhu Ramnath et al., Indigenous people in India and the web of indifference, DownToEarth, 10/08/2016).

E.F.

I parchi in India

L’idea di istituire delle aree protette nasce negli Stati Uniti nel 1872 con la creazione dello Yellowstone nel territorio di Montana e Wyoming. In India, i parchi naturali nascono nel 1935, quando viene fondato il primo, l’Haley national park, oggi conosciuto come il Corbett national park, nello stato di Uttarakhand.

Fino al 1970 i parchi istituiti sono cinque. Ma a inizio anni ‘70 esplode l’interesse per la protezione ambientale, ed entra in vigore la Wildlife protection act (Wlpa) 1972, una legge molto restrittiva per la gestione e la protezione di flora e fauna. La Wlpa 1972 proibisce la caccia all’interno delle zone protette e stabilisce una serie di reati classificati sotto la fattispecie di crimini ambientali.

Da questo momento in poi le restrizioni aumentano e iniziano i conflitti tra le comunità indigene e il corpo forestale.

 

Mezza Italia di aree protette

Fino al 2002 le aree protette erano divise in due categorie: National park (Np), dove non sono permesse numerose attività umane, e Wildlife sanctuary (Wls) dove le attività umane sono maggiormente tollerate. Con la modifica della Wlpa nel 2002 vengono introdotte due nuove categorie di aree protette: Conservation reserves e Community reserves, aree protette che fungono da zone cuscinetto o connettori e corridoi di migrazione tra parchi nazionali, riserve naturali e foreste protette. Le aree di conservazione sono quelle disabitate e di proprietà del governo indiano, ma utilizzate per sussistenza da comunità umane, le aree comunitarie sono quelle nelle quali parte delle terre è di proprietà privata.

Secondo i dati ufficiali del Gennaio 2019, in India oggi vi sono un totale di 868 aree protette (104 parchi nazionali, 550 santuari della fauna selvatica, 87 riserve di conservazione, 127 riserve comunitarie), che coprono circa il 5 per cento del territorio indiano, 165.088 km2, equivalente a mezza Italia.

Alcuni parchi nazionali e santuari della fauna selvatica che ospitano una considerevole popolazione di tigri, sono stati definiti Tiger reserves, riserve delle tigri, e godono di uno status speciale e di politiche di maggiori restrizioni. A oggi nel paese le riserve delle tigri sono 51.

E.F.


Rischi e contraddizioni delle politiche ambientali:

Più ambiente per tutti, meno diritti per alcuni

Nella corsa mondiale alla conservazione ambientale, l’India si difende bene. Le sue foreste coprono una superficie maggiore di due volte l’Italia, le aree protette aumentano a vista d’occhio, e tra queste, fiore all’occhiello, le riserve delle tigri sono quasi raddoppiate in 15 anni. Peccato che le sue politiche sempre più restrittive per conservare l’ambiente producano migliaia di sfollati, soprattutto tra le popolazioni più povere di indigeni e dalit, territori militarizzati, violenze impunite e appetiti economici che tutto sono fuorché rispettosi della natura.

Negli ultimi decenni siamo stati testimoni dello sviluppo internazionale di nuove politiche ambientali per espandere zone verdi, creare aree protette, ridurre il bracconaggio, preservare specie animali a rischio, conservare la biodiversità.

Il tema è all’ordine del giorno di numerosi paesi che vedono nella biodiversità anche un contributo alla sicurezza alimentare e alla salute dell’intera società, e un fattore di diminuzione della vulnerabilità del territorio di fronte ai disastri ambientali e ai cambiamenti climatici.

La Convenzione sulla diversità biologica

Il principale strumento che la comunità internazionale si è data per la tutela della biodiversità a livello planetario è la Convenzione delle Nazioni unite sulla diversità biologica (Cbd), oggi sottoscritta da 193 paesi. Adottata a Rio de Janeiro nel 1992 al primo Summit della terra, la Conferenza sull’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni unite (Unced), la Cbd è un trattato giuridicamente vincolante che si pone come obiettivi principali «la conservazione della diversità biologica, l’uso durevole dei suoi componenti e la ripartizione giusta ed equa dei benefici derivanti dall’utilizzazione delle risorse genetiche».

L’organo di governo della Cbd è la Conferenza delle parti (Cop) che si riunisce ogni due anni per analizzare i progressi compiuti, verificare le priorità e pianificare nuovi ambiti di lavoro. Tra i venti obiettivi stabiliti nella Cop10 tenutasi nell’ottobre 2010 in Giappone, nella prefettura di Aichi, l’undicesimo prevede che, entro il 2020, le aree di conservazione coprano almeno il 17 per cento delle zone terrestri del pianeta e il 10 per cento delle aree marine e costiere.

Questo obiettivo, secondo il rapporto Protected planet 2019 del Programma delle Nazioni unite per l’ambiente (Unep), si sta raggiungendo efficacemente: «Vi sono buoni progressi nell’ampliamento delle aree protette. La copertura terrestre è in aumento dal 14,7 per cento nel 2016 al 14,9 nel 2019, e la copertura marina è passata dal 10,2 per cento al 17,3 delle acque nazionali. Se gli sforzi da parte dei governi per attuare gli impegni proseguiranno, è probabile che gli obiettivi di copertura terrestre e marina saranno raggiunti entro il 2020. […] Attualmente le aree protette nel mondo sono 245.449. La maggior parte di esse sono terrestri e coprono oltre 20 milioni di km2. Le aree marine protette coprono 26 milioni di km2, rappresentando il 7,47 per cento degli oceani»1.

L’India, le aree protette e gli sfollati

In linea con gli obiettivi della Cbd, anche l’India sta compiendo il suo percorso di espansione forestale e di creazione di aree protette: le foreste, a inizio 2019, sono arrivate a coprire il 21,34 per cento del territorio, cioè 701.673 km2, più di due volte l’Italia, e le aree protette sono passate da 604 nel 2006 a 868 nel 20192, un’area pari a 165.088 km2, il 5 per cento della superficie complessiva del paese.

Si direbbe un successo per tutti, se non fosse che queste politiche, che vogliono rispondere alla crisi ambientale planetaria, sono talvolta strumento di violazione dei diritti dei popoli che abitano da sempre le terre che si vogliono preservare.

In India, si stima che vivano nelle zone forestali protette circa 4,3 milioni3 di persone, e la loro presenza, per la maggior parte dei casi, è indesiderata e bersaglio di violenze e sfratti.

Il governo, nel salvaguardare le foreste, ha «dimenticato» di tutelare i diritti delle popolazioni che vi abitano: spesso le zone protette sono state create senza tener conto delle esigenze delle comunità locali, le quali, in maniera inaspettata, si sono ritrovate a vivere dentro nuovi confini.

Se prendiamo il caso particolare delle riserve delle tigri, dal 2005 a oggi il loro numero è raddoppiato, da 28 a 51, provocando lo sfollamento di migliaia di famiglie. Secondo uno studio di Lasgorceix e Kothari4, già nel 2009 il numero delle famiglie sfrattate dalle proprie terre era di circa 20mila, cioè più o meno 100mila persone.

Secondo la nostra ricerca sul campo, condotta per conto dell’organizzazione Kalpavriksh e finanziata da Rights and resources inititiaves (Rri)5, sarebbero da aggiungere negli ultimi dieci anni altri 60mila6 sfollati ai 100mila rilevati nel 2009.

In nome delle tigri

«Le tigri sono sempre state venerate da noi come animali sacri, noi le rispettiamo e loro rispettano noi […]. Non abbiamo paura delle tigri, il nostro peggiore nemico sono ora le guardie forestali», ci dice Sukharo Arhi, pescatore del Sundarbans.

In questo territorio le vittime delle tigri del Bengala sono molte, ma per i locali la vera minaccia sono le guardie forestali. Le restrizioni legate alla pesca, le minacce e, a volte, le torture inflitte ai pescatori per vietarne l’attività, hanno lasciato l’intera comunità senza un’alternativa, facendola sprofondare in una situazione di miseria.

Stiamo parlando di violazioni di diritti umani tollerati dalle istituzioni. Esse di solito non vengono denunciate e, quando lo sono, non vengono perseguite dalle autorità perché a denunciare sono persone di casta bassa, indigeni o dalit, che non vengono prese in considerazione.

Secondo le popolazioni locali e numerose organizzazioni, tra le quali Kalpavriksh, negli ultimi dieci anni i casi di torture e minacce da parte dello stato sono aumentati7. Questo dato è confermato anche dal recente rapporto delle Nazioni unite (Report of the special rapporteur on indigenous people 2018), nel quale si afferma che il numero di crimini, violenze, conflitti e sfratti dalle zone protette è in continua crescita.

L’aumento di restrizioni all’interno di queste aree coincide con l’aumento di attenzione internazionale per la difesa della tigre, considerata specie a rischio e inserita dal 2008 nella lista rossa dell’Iucn (Unione mondiale per la conservazione della natura). L’allarme sull’estinzione delle tigri, ha condotto le numerose organizzazioni conservazioniste e lo stesso ministro indiano dell’Ambiente e delle foreste a prendere dei provvedimenti.

Senza scienza né consenso

In India il primo documento che parla esplicitamente della necessità di aumentare le restrizioni per preservare le tigri, è un rapporto del 2005 redatto dalla «Task force della tigre» istituita nel 2003 dal ministero indiano dell’Ambiente e delle foreste, intitolato Joining the dots, nel quale si evidenzia come l’estinzione della tigre sia un effetto della crisi ambientale8.

Nello stesso 2005 l’India ha creato un nuovo corpo per la protezione della tigre, la National tiger conservation authority (Ntca), con lo scopo di assicurare la riproduzione della specie e la protezione del suo habitat. L’anno dopo, nel 2006, è stata modificata la Wildlife protection act del 1972 per stabilire nuove regole e delimitazioni all’interno delle riserve delle tigri istituendo un’area inviolabile chiamata Critical tiger habitat (Cth) nella quale è vietata qualsiasi attività umana e, attorno a essa, una cintura di territorio protetto, la buffer area (zona cuscinetto), che prevede la coesistenza tra fauna e attività umana. La buffer area dovrebbe garantire i diritti forestali delle popolazioni locali, come l’uso sostenibile delle risorse naturali, e i diritti sociali e culturali.

Il 16 Novembre 2007 il ministro indiano dell’Ambiente e delle foreste e la Ntca hanno dato ordine ai singoli stati del paese di creare le Critical tiger habitat entro il 2008. Sono state così create 31 zone inviolabili in tempi brevi, violando le misure che si sarebbero dovute adottare, cioè fare degli studi scientifici preventivi e approfonditi, informare le comunità locali e raccoglierne il consenso.

Queste nuove disposizioni, oltre a negare alle comunità l’uso delle risorse naturali, hanno istituito un meccanismo che legalizza gli sfratti prevedendo una semplice ricompensa economica. Ne è conseguito che dal 2008 gli sfratti dalle aree protette sono aumentati senza peraltro che siano state elargite le ricompense alle comunità colpite.

Sradicati, su terre sterili e senza diritti

Uno dei tanti casi è quello della riserva di Achanakmar, nello stato del Chattisgarh: nel 2009 sono stati sfollati dal Critical tiger habitat sei villaggi che corrispondevano a circa 600 famiglie, tutto ciò senza alcun consenso da parte delle comunità.

Abbiamo visitato la zona di recente, e constatato che oggi quelle famiglie, ricollocate all’esterno dell’area inviolabile, si trovano a vivere in case di cemento decadente, su un lembo di terra sterile, e prive del diritto di accedere alle risorse naturali.

Secondo il nostro studio sul campo, lo stesso è accaduto nella riserva delle tigri di Melghat, in Maharastra, dove sono state sfrattate 1.360 persone. Altre 20mila sfrattate dal parco delle tigri del Kanha nel Madhya Pradesh; 597 famiglie dal parco di Sariska in Rajasthan e più di 3.814 famiglie dal parco di Nagarhole in Karnataka9. La lista continua, e si allunga sempre di più.

Le riserve delle tigri sono le zone più colpite, ma gli sfratti riguardano tutte le zone di conservazione, perfino i corridoi ecologici, cioè quelle «corsie» create per far muovere liberamente gli animali da una zona protetta all’altra, e altre zone attigue ai parchi. Com’è successo, ad esempio, al villaggio di Tummadhia Katha che si trova ai margini del parco naturale del Corbett, nello stato dell’Uttarakhand, dove le dimore abitate dalla comunità indigena dei Van Gujjar, una comunità pastorizia di origini musulmane, sono state demolite per due volte negli ultimi tre anni.

Proteggere la natura con le forze armate

Com’è chiaro dai casi riportati, le politiche di conservazione non si limitano a salvaguardare la biodiversità, ma a controllare i territori utilizzando spesso modalità militari, come l’uso di forze armate e di network informativi.

Le armi da fuoco vengono utilizzate contro le comunità locali accusate di bracconaggio o di altri crimini contro l’ambiente. Di fatto queste comunità sono considerate dai conservazionisti, come ad esempio il Wwf, nemiche dell’ambiente e usurpatrici dell’ecosistema. Un giudizio che si riflette nelle politiche ambientaliste del governo indiano.

Un recente rapporto del Wwf Italia, pubblicato nel maggio 2018, intitolato Bracconaggio connection, descrive il bracconaggio come una delle cause principali dell’estinzione animale, considerando queste azioni «pervasive e devastanti». Questo nonostante alcuni studi dell’Iucn, pubblicati nella rivista online «Natura» e nel Iucn red-list report10, mostrino come tra gli undici maggiori rischi per l’estinzione delle specie animali non vi sia il bracconaggio, ma altre attività umane come lo sfruttamento delle terre per le attività agricole e lo sviluppo urbano. È interessante notare come il report del Wwf colleghi la rete di criminali che fa bracconaggio alla povertà e al bisogno di «facili guadagni»: sono collegamenti pericolosi che si ritorcono sulla pelle dei piccoli contadini locali, doppiamente vittime delle politiche conservazioniste e delle grosse organizzazioni illegali di bracconaggio.

Con la licenza di sparare a vista

Uno dei casi più discussi ed emblematici dell’India è quello del parco nazionale di Kaziranga, in Assam, dove una squadra armata di 430 uomini, tra guardie forestali, paramilitari11 e forze speciali per la protezione della tigre e del rinoceronte, pattugliano la zona con fucili calibro 200 e 303.

Il parco, famoso per i rinoceronti a un corno in via d’estinzione, è altrettanto famoso per il numero delle vittime uccise in nome della lotta al bracconaggio. I guardaparco, per assicurare la massima protezione agli animali, godono di immunità legale e, in accordo con quanto dichiarato nel Piano di conservazione dei rinoceronti nel parco nazionale di Kaziranga, hanno il dovere di «sparare a vista»12 a chiunque sia sospettato di bracconaggio, senza prove, senza arresto né processo.

Come denunciano diversi attivisti locali, questa condizione d’immunità conferita alle guardie, le ha deresponsabilizzate spingendole a sparare anche senza una ragione. Ne è un esempio il caso di Akash Orang, un bambino di 7 anni che nel settembre 2016 è stato ferito alla gamba da un guardaparco con dei colpi di pistola che gli hanno procurato un’invalidità a vita. Secondo gli attivisti, molte vittime della lotta al bracconaggio sono innocenti cittadini che vengono utilizzati dalle guardie per esibire dei risultati visibili. Secondo i dati della Bbc13, dal 2009 a oggi sono state circa 65 le persone uccise ai margini del parco. Numerose quelle accusate di crimini contro l’ambiente, arrestate o torturate impunemente.

Diritti forestali: sanciti e poi violati

La legge indiana sui diritti forestali delle popolazioni indigene e degli altri abitanti tradizionali della foresta (il Fra, Forest rights act), emanata nel 2006, riconosce la diversità dell’uso, dell’accesso e delle pratiche di conservazione della foresta e della biodiversità da parte delle popolazioni native, e garantisce alle comunità il diritto alla terra ancestrale. Il Fra riconosce l’ingiustizia sociale ed economica inflitta alle popolazioni forestali sin dal periodo coloniale, conferendo ampio potere di gestione del territorio al gram sabha (il consiglio degli anziani), e aprendo nuovi spazi democratici e meccanismi d’inclusione a favore di un nuovo modello di conservazione.

Queste disposizioni legislative che concepiscono la conservazione come basata sulla coesistenza piuttosto che sul conflitto, sono in linea con gli impegni internazionali sottoscritti dall’India firmando la Convenzione sulla diversità biologica (Cbd). Nella Cbd, infatti, si afferma la necessità di «promuovere la piena ed effettiva partecipazione delle comunità indigene e locali, e anche il loro previo e informato consenso e coinvolgimento nella creazione, espansione e gestione delle aree protette».

Le atrocità raccontate sopra allora non violano solo i diritti umani e costituzionali fondamentali, ma anche le stesse disposizioni nazionali e gli impegni internazionali in materia di conservazione ambientale presi dal paese. Lo afferma anche il già citato rapporto delle Nazioni unite sui diritti degli indigeni14 che denuncia: «In India i popoli tribali sono stati sfrattati dalle riserve delle tigri per decenni, spesso senza alcuna forma di riparazione. Ciò continua a verificarsi nonostante il Forest rights act del 2006».

Interessi ambientali o economici?

Nonostante quello che dicono l’Onu e altri osservatori internazionali, il governo indiano continua a essere appoggiato da una rete di organizzazioni protezioniste come il Wwf, la Wcs (Wildlife conservation society), l’Ifaw (International fund for animal welfare), e altre (anche chiamate Business international organizations, Bingo), che difendono un modello di conservazione basato su esclusione e controllo. Sembra non interessare loro che dietro la pretesa governativa della difesa ambientale ci siano anche corposi interessi economici.

Secondo un rapporto del 2015 dell’Istituto indiano per la gestione delle foreste di Bhopal15 che ha stimato i dati economici relativi a 25 servizi ecosistemici offerti al paese da sei riserve delle tigri (quelle di Corbett, Kanha, Kaziranga, Periyar, Ranthambore e Sundarbans), il loro valore economico ammonta a circa 1 miliardo di euro l’anno. Di questo, solo il 9 per cento (90 milioni) va a favore dalla popolazione locale. Il 47 per cento (470 milioni) a favore del paese, mentre ben il 43 per cento (430 milioni) è il valore in qualche modo utilizzato a livello mondiale.

Tra i valori economici stimati, quello che riguarda l’industria del turismo è facilmente quantificabile. Ogni anno i parchi delle tigri, infatti, mentre tengono fuori le popolazioni locali, attirano migliaia di persone dall’India e dal resto del mondo. L’introito derivato dai biglietti per l’ingresso al parco di Corbett ammonta a 1 milione di euro annui.

Un altro elemento di contraddizione delle politiche restrittive per la salvaguardia dell’ambiente è il giro d’affari legale e illegale legato al taglio degli alberi16. Capita che il corpo forestale favorisca gruppi criminali organizzati nel taglio e commercio illegale della legna. Nella riserva delle tigri di Buxa, nello stato del Bengala occidentale, alcuni agenti forestali e alti ufficiali di polizia sono stati colti in flagrante17.

Nel parco di Buxa e di Jaldapara le comunità locali avevano già più volte denunciato il taglio illegale degli alberi ma non avevano ottenuto alcuna risposta dalle autorità, in quanto queste erano direttamente coinvolte. Altri introiti provengono da attività come la pesca, il foraggio, la vendita di miele, frutti e altri prodotti che tradizionalmente vengono utilizzati dalle comunità per la loro sussistenza, ma che sempre di più vengono controllate dai governi locali degli stati indiani.

Per esempio, dal 2017 lo stato del Chattisgarh ha proibito la vendita diretta del mahua, un frutto da cui si ricava un liquore che rappresenta un’importante fonte di sussistenza per la comunità indigena dei Baiga. Questa proibizione ha influenzato negativamente l’economia locale18.

Inoltre è molto importante lo sfruttamento da parte dello stato dei bacini idrici utilizzati anche per la produzione di energia elettrica. Molte sono le dighe presenti all’interno di zone protette, come ad esempio la diga di Kalagarh nella riserva di Corbett, nello stato dell’Uttarakhand, costruita nel 1974 per contribuire alla distribuzione idrica in tutto lo stato e nella città di New Delhi.

La diga ha lasciato gli abitanti di queste zone quasi a secco.

Inoltre, bisogna menzionare il mercato legato allo scambio di emissioni di gas serra – ossia le quote di emissioni fissate dai rispettivi governi locali alle imprese – che gioca un ruolo fondamentale nell’interesse sulla protezione delle foreste. In India, uno dei meccanismi per ridurre le emissioni inquinanti e riforestare le zone degradate è il Campa, o Compensatory Afforestation Act, un meccanismo di compensazione in base al quale il valore delle imposte versate dai privati è calcolato in rapporto alla perdita forestale in termini di biodiversità e servizi ecosistemici. Questi fondi poi dovrebbero essere utilizzati per riforestare aree degradate, peccato che spesso anche questo meccanismo si basi su giochi di corruzione e interesse. Infatti in molte zone, le aree prese in considerazione per riforestare non sono aree degradate ma aree utilizzate a livello comunitario dalle popolazioni indigene che vengono quindi sgomberate. Come è avvenuto nel caso del parco delle tigri del Tadoba, nel Maharastra, dove a Sitarampeth, in quella che era una zona usata dalla popolazione locale per il pascolo, è stata eretta una staccionata per creare un sito di «riforestazione» con circa 100 alberi in un terreno che ha una superficie di 608 ettari, 6 milioni di metri quadrati.

Un paese in lotta

«Se la comunità internazionale continua a nascondersi dietro false promesse di conservazione, non ci resta altro che lottare, e mostrare che un nuovo modello di conservazione non è solo possibile ma necessario», commenta Neema Pathak dell’organizzazione indiana Kalpavriksh. Numerose sono le realtà, sia in India che in altre parti del mondo, che hanno tramutato la loro lotta in atti fruttuosi, riuscendo a sviluppare dei progetti di conservazione e di gestione comunitaria del territorio.

È necessario riesaminare e rivedere criticamente le pratiche di conservazione e di sviluppo, e utilizzare le disposizioni della legge sui diritti forestali e sulla protezione della biodiversità per costruire dei progetti di convivenza non solo nelle aree protette, ma anche nelle aree limitrofe. Bisogna inoltre fare in modo che le istituzioni internazionali prendano coscienza delle situazioni locali e che si preoccupino di usare maggiori provvedimenti per far rispettare gli accordi internazionali sul rispetto dei diritti umani. Solo allora lo stato indiano, e gli stati tutti, riusciranno a prendere dei provvedimenti per garantire la conservazione della biodiversità in maniera adeguata, garantendo anche diritti e opportunità uguali per tutti.

Eleonora Fanari

Note:

Conservazionisti versus Ambientalisti

Organizzazioni come la World wide fund for nature (Wwf), la Wildlife conservation society (Wcs) e l’International conservations (Ic), sono considerate estremiste da molti attivisti e ambientalisti, a causa delle loro politiche di conservazione, identificate sotto il nome di Fortress conservation. Infatti nonostante il Wwf riconosca apertamente la necessità di integrare le comunità locali nella conservazione dell’ambiente, spesso finanzia operazioni militari come nel citato parco di Kaziranga in Assam.

Questo comportamento è da un lato frutto della cecità di molti conservazionisti nel considerare la protezione ambientale una priorità a qualsiasi costo, anche quello della vita delle persone. Dall’altro queste organizzazioni internazionali risentono di idee coloniali ed eurocentriche e non considerano le popolazioni tribali capaci di governare in maniera appropriata le zone forestali.

L’importanza di includere le comunità indigene nella conservazione ambientale è stata riconosciuta solo recentemente, nel 2007, dalle Nazioni unite.

Questa mentalità coloniale, in un paese come l’India è rappresentata dalle classi dominanti che spesso siedono ai vertici di queste organizzazioni e che ostacolano il riconoscimento di leggi come la Forest Rights Act.

Dall’altro lato, come dimostrato dalle ricerche di Rosaleen Duffy (Rosaleen Duffy, We need to Talk about the militarisation of conservation, 20/07/2012)., sono numerose le organizzazioni transnazionali che finanziano training militari e altre misure anti bracconaggio, attività che risultano lucrative per il settore privato. Inoltre numerosi sono gli articoli che accusano il Wwf di scandali e di partnership con grosse multinazionali. In un articolo di Jonatham Latham (Jonathan Latham, Way Beyond Greenwashing: Have Corporations Captured Big Conservation?, 07/02/2012). si legge che l’organizzazione del panda ha stipulato delle partnership con aziende come la Monsanto, legata agli Ogm, e la Wilmer, una delle più grandi compagnie mondiali di olio di palma, primo responsabile della distruzione forestale del Borneo indonesiano.

Survival International ha inoltre più volte condannato le attività del Wwf, considerato direttamente coinvolto in Africa in attività lucrative come concessioni per la caccia e per il taglio di legname.

Il dibattito tra nuovi e vecchi conservazionisti è oggi grosso oggetto di discussione, e un campo di ricerca ancora in esplorazione.

E.F.

Campa

Il Campa (Compensatory and afforestation fund management and planning authority bill), approvato nel luglio 2016, rappresenta una delle strategie del governo Indiano per ridurre le emissioni inquinanti senza rinunciare all’obiettivo della crescita economica, considerata prioritaria.

Attraverso il meccanismo del Campa il governo ha dichiarato l’investimento di 6,2 miliardi di dollari per le politiche di riforestazione, fondi che provengono dai tributi pagati dai privati negli ultimi 12 anni per impiantare le proprie aziende in zone forestali.

Il Campa, come affermato dal ministro dell’Ambiente, Prakash Javadekar «potrà assicurare la crescita economica senza rinunciare alla salvaguardia degli ecosistemi».

La legge è stata fortemente criticata e considerata come «anti tribale», «anti forestale» e, infine, contraria ai princìpi etici. Le politiche di riforestazione, infatti, consentono l’approvazione dei progetti ancor prima che vengano individuate le stesse aree forestali interessate dai piani di riforestazione. Un sistema che rischia di compromettere abitabilità, diritti ed economie rurali.

Uno studio condotto dal Community forest rights – learning and advocacy ha analizzato un campione di 2.548 piantagioni, approfondendo 63 casi attuali di riforestazione coperti con i fondi del Campa. Esso rivela che nel 60 per cento dei casi i progetti sono consistiti nella installazione di monocolture, per lo più di alberi teak piantati in zone precedentemente utilizzate dalle comunità locali. Inoltre molti piani di riforestazione hanno trasformato zone precedentemente considerate come aree di massima biodiversità in monocolture. Ciò significa che questi fondi non solo vengono utilizzati nella violazione più totale del diritto alla terra delle comunità locali, ma che stanno anche contribuendo alla distruzione degli ecosistemi, là dove erano nati per uno scopo esattamente opposto, ovvero quello di preservare e proteggere l’ambiente.

E.F.

Resort lussuosi per l’«eco turismo» sulle terre degli sfollati:

Largo al turismo

Mentre le comunità locali sono cacciate dalle loro terre perché considerate nemiche dell’ambiente, numerosi resort turistici sorgono dentro e attorno le riserve.

Il 14 febbraio 2017 il villaggio di Tumadhia Katta è assalito dalle guardie forestali che hanno distruggono le case degli abitanti, accusati di invasione illegale in territorio protetto. Il villaggio si trova all’esterno dei limiti del parco naturale di Jim Corbett, ed è abitato da 46 famiglie della comunità indigena dei Van Guajjar, una comunità nomade che da sempre si dedica alla pastorizia.

La riserva delle tigri di Jim Corbett, situata nella prospera foresta occidentale del Tarai, nello stato dell’Uttarakhand, è il più vecchio parco naturale del continente asiatico istituito nell’anno 1936. È la riserva con la maggiore densità di tigri, circa 215, e rappresenta un importante polmone verde e uno dei parchi più preziosi del paese. È distante 200 km dalla caotica capitale New Delhi, e offre un facile accesso per i 200mila turisti che lo visitano ogni anno.

Nel report The value of wildlife tourism for conservation and communities pubblicato nell’ottobre 2017 da TofTigers, si legge che il turismo è un’importante fonte di reddito per le comunità locali, le quali possono giovarsi di tale risorsa come beneficio positivo per il loro sviluppo economico. Purtroppo però, al contrario di quanto sostenuto dallo studio, i Van Gujjar non sembrano godere di una situazione particolarmente favorevole. Spesso, anzi, il loro stile di vita nomade e pastorizio, è considerato ostile per la conservazione e la protezione del territorio e quindi osteggiato.

I Van Gujjar, pastori discriminati

Gli abitanti del villaggio di Tumadhia lottano dal 2013 contro l’ordine di sfratto emanato dal tribunale dell’Uttarakhand, ordine fortemente contestato sia per la sua infondatezza che per il suo carattere discriminatorio.

I Van Gujjar sono una comunità proveniente tradizionalmente dagli altopiani del Jammu e del Kashmir. Secondo la loro mitologia discesero dalle alte cime dell’Himalaya su richiesta del Re, perché gli portassero in dono il loro pregiato latte di bufala, principale prodotto dei pastori Van Gujjar. Nel corso del tempo si insediarono nelle ricche praterie dell’Uttarakhand, preziose per il pascolo del bestiame.

Intorno alla foresta protetta di Corbett vi sono oggi circa 37 insediamenti abitati da una popolazione di 340 famiglie. La maggior parte di esse si trova nel distretto di Nainital, dove sorge il villaggio di Tumadhia Katta.

In balia degli umori delle guardie

Nel nostro viaggio verso il parco naturale di Corbett incontriamo Safi Bhai, 42 anni, membro dell’Aiufwp (All indian union of forest working people), un sindacato nazionale che supporta i diritti delle comunità forestali. Ci accompagna nel villaggio di Tumadhia Katta, dove risiede.

Saphi è il pastore della casa, si sveglia ogni mattina alle 5 per mungere i bufali e inizia la sua giornata con un denso chai (té) lattiginoso. Nella sua dimora, che si trova al centro di un’immensa prateria, ognuno ha un ruolo ben definito. Il figlio di 15 anni raccoglie il fieno per il bestiame, la figlia prepara la colazione e la madre ripulisce l’esterno della casa dalle erbacce.

I Van Gujjar del villaggio di Tumadhia, come molti altri nella zona, sono sempre stati discriminati dalle istituzioni dell’Uttarakhand, stato che non ha mai riconosciuto la comunità nomade come gruppo indigeno.

Considerati estranei nella loro terra, sono maltrattati dal dipartimento forestale che ha sempre esercitato un potere di tipo feudale sulla comunità. Sempre in balia degli umori delle guardie, i Van Gujjar trascorrono la vita pagando imposte e sanzioni ingiustificate al dipartimento che, in cambio di permessi, come quello per il pascolo, richiede tangenti sotto forma di latte, burro, yogurt e altri prodotti.

Proteggere zone eco fragili con espulsioni

Le problematiche nel villaggio sono aumentate dopo la revisione del 2011 delle linee guida per l’istituzione di una zona eco fragile (Esz, eco sensitive zone) intorno all’area protetta: una fascia di 10 km lungo il suo perimetro. Nonostante l’Esz abbia la potenzialità di regolare le attività commerciali e di sviluppo, alcune organizzazioni ambientaliste e sociali la considerano problematica perché non dice niente sulle necessità degli abitanti.

Nel 2015 il ministro indiano dell’Ambiente e delle foreste ha iniziato a fare pressione sul processo di istituzione dell’Esz perché venisse accelerato, tanto che il 19 dicembre 2016, la corte suprema dell’Uttarakhand ne ha disposto la creazione. Nella stessa ordinanza, il tribunale ha ordinato anche l’immediata espulsione della comunità dei Van Gujjar dalla zona, poiché considerati «responsabili di incendi e altre attività illecite all’interno e ai margini dell’area protetta».

Ashok Chaudhary, il presidente dell’Aiufwp, ha dichiarato al Times of India che «oltre ad essere un’affermazione infondata, non dobbiamo dimenticare che i diritti dei Van Gujjar sono protetti dal Forest rights act del 2006, che deve essere ancora riconosciuto sia nei fatti che nello spirito».

In seguito al pronunciamento della corte, Saphi Bhai, già nel mirino delle autorità locali per il suo attivismo, nel febbraio 2017 è stato sfrattato con la sua famiglia dalle forze di polizia e dalle guardie forestali. Il loro villaggio è stato assalito con violenza, gli abitanti umiliati e le case distrutte.

La moglie di Saphi Bhai è stata vittima di abusi sessuali, i suoi figli sono stati brutalmente molestati e lui pestato e poi arrestato.

Resort turistici vs nativi

Mentre da un lato le comunità locali soffrono lo stigma di stranieri nella propria terra e sono vittime di violenze, dall’altro investitori e turisti sembrano essere accolti nelle aree protette a braccia aperte. Il parco, infatti, ospita 77 resort sorti per la maggior parte lungo i corsi dei due fiumi principali che attraversano la zona cuscinetto della riserva, il Ramganga e il Kosi. Questi resort, che possono accogliere fino a 3.200 persone, sono tutti privati e, secondo un reportage prodotto nel 2012 dalla testata locale Tehelka, intitolato Corbett: now on sale, gli appezzamenti di terra che si trovano lungo i 17 km che vanno dal fiume Dumunda fino a Marcha sono tutti in vendita. Inoltre quasi tutte le località turistiche sono recintate e il 70 per cento di esse sono state costruite in terre che originariamente erano coltivate dalle comunità locali. Ma chi vende queste terre che dovrebbero essere protette dal dipartimento forestale?

 

Crimine organizzato e forestali corrotti

Nel corso delle nostre ricerche sulle violazioni del Forest rights act intorno all’area protetta di Corbett, incontriamo Nainital P. C. Joshi, un attivista che abita nella città di Ramnagar, ai margini del parco. Secondo Joshi queste terre erano precedentemente di proprietà delle numerose comunità che abitavano in questi territori. «Col tempo la maggior parte dei villaggi sono stati evacuati per la creazione della riserva delle tigri; altri sono stati minacciati dalla mafia edilizia, e la maggior parte dei villaggi oggi presenti nella zona cuscinetto sono quasi disabitati».

Joshi mi racconta che un’organizzazione criminale sta inducendo i contadini, tramite minacce, a vendere le loro terre per un prezzo irrisorio di 125 euro per ettaro. Lo scopo è quello di rivendere in seguito quelle stesse terre a prezzi commerciali per lo sviluppo di attività turistiche.

Le stesse notizie vengono riportate da Tehelka che documenta il coinvolgimento del dipartimento forestale nella vendita privata di terreni teoricamente protetti e nel rilascio di permessi per lo svolgimento di attività lucrative all’interno del parco. Rajiv Bhartari, direttore del parco dal 2005 al 2008, racconta a Tehelka che durante il suo mandato aveva sollevato diverse obiezioni sugli accordi presi dal suo predecessore con alcuni privati, in particolare con il Leisure Hotel che utilizzava parte della riserva delle tigri come sua proprietà privata con libero accesso al fiume e alle strade forestali anche durante la notte. Bhartari, in seguito alle sue denunce, è stato trasferito.

L’ipocrisia del turismo sostenibile

Mentre si vietano attività commerciali alle comunità locali, il turismo, sotto la forma di «eco turismo», viene giustificato come attività sostenibile in grado di migliorare le condizioni di vita delle comunità locali.

Di fatto, però, i grossi interessi legati al turismo così come ad altre attività lucrative all’interno della foresta, non fanno altro che ledere sia i diritti delle comunità indigene dei Van Gujjar, sia quelli della natura stessa.

Molti resort stanno estraendo pietre e sabbia dal letto dei fiumi, incidendo sull’intero equilibrio idrico. Mentre, la pesca nel fiume Ramnagar, autorizzata dal 2004 con il pretesto di generare profitto per le comunità locali, è diventata un’attività eco sostenibile promossa dai vari resort per i loro ospiti appassionati di quello sport.

Tutto questo va a discapito degli animali da proteggere che non sono liberi di accedere a quei luoghi recintati da alti muri. Motociclette, musica ad alto volume e matrimoni sontuosi si svolgono nelle località alla periferia della riserva, in violazione delle disposizioni conservazioniste che sono invece perentorie per quanto riguarda lo sfratto della comunità dei Van Gujjar dalla loro terra.

In definitiva, i Van Gujjar, che vengono considerati invasori delle aree protette e nemici della conservazione ambientale, vivono in case fatte di mattoni di terra cruda, consumano solo cibo vegetariano e conducono una vita semplice senza fuoristrada, macchine, strade asfaltate o altre fonti di inquinamento. Al contrario, i promotori del turismo sostenibile sono stanziati all’interno della zona protetta del parco con numerosi resort di lusso, strade asfaltate e attività che minacciano la zona eco fragile della riserva delle tigri.

Il richiamo sordo della notte

I Van Gujjar, il cui nome significa «Gujjars che vivono all’interno della foresta», non vengono riconosciuti come abitanti nativi di queste zone e, ancor meno, come loro protettori, nonostante la foresta rappresenti il loro rifugio, il loro tempio e il loro dio. «Noi ci prendiamo cura degli alberi e dei nostri bufali, e loro si prendono cura di noi», commenta ad alta voce Safi Bhai. Durante la nostra visita al villaggio di Tumadhia, i suoi abitanti si riuniscono nel patio della casa di Saphi per discutere sulle strategie e i nuovi sviluppi politici da intraprendere. «Siamo stanchi di queste accuse di intrusione nella zona protetta. Vorremmo solo vivere una vita sicura e il governo dovrebbe darci l’opportunità di farlo». Mentre ci appisoliamo su una piccola branda postaci sulla terrazza della casa, respiriamo il silenzio scandito dai dolci mormorii della notte: la brezza smuove le erbacce da togliere al mattino; sentiamo il muggito del bufalo in attesa di esser munto; l’acqua del fiume si rinfresca nella notte per essere riposta nelle ampolle dalle donne. C’è anche il leggero ronfo di Saphi Bhai che riposa i suoi sensi per potersi prendere cura della foresta al sorgere del sole. «Siamo come animali», dicono i Van Gujjars, «noi eseguiamo il richiamo della natura e la natura ci restituisce i suoi frutti». Se il governo indiano rispondesse al grido di queste popolazioni, se ascoltasse i rumori della notte e il richiamo della foresta, forse potrebbe creare delle alternative valide e nuovi modelli di protezione ambientale nel rispetto della natura e della vita dei suoi abitanti.

Ma questo non cambierà, finché verranno salvaguardate le sole tigri per farne un’attrazione turistica.

Eleonora Fanari

Bibliografia

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  5. A. Lasgorceix, A. Kothari, Displacement and Relocation of Protected Areas: A Synthesis and Analysis of Case Studies. Economic and Political Weekly, 44 (49), 2009.
  6. E. Fanari, Relocation from protected areas as a violent process in the recent history of biodiversity conservation in India. Ecology, Economy and Society – the Insee Journal, 2 (1): 43–76, January 2019.
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  10. Amrtya Sen, Community-based natural resource management in the Sundarbans, The Economic and Political Weekly, July 22, 2017 vol liI no 29.
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  12. Paul J. Ferraro et al., More strictly protected areas are not necessarily more protective: evidence from Bolivia, Costa Rica, Indonesia, and Thailand, Environ. Res. Lett., 8, 025011, 2013.
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  14. Jay Mazoomdaar, Corbett. Now on Sale, Tehelka, 12/05/2012.
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  16. N. Pathak, E. Fanari, To Protect Human Rights, the government should strategies to coexist first, No to Evict, The Wire, 12/03/2018.
  17. Soumitra Ghosh, Legal and illegal logging behind deforestation in India, World Rainforest Movement, Bulletin 98, 13/09/2005.
  18. Soumitra Ghosh, Compensatory Afforestation: Compensating loss of forest or disguising Forest Offsets?, Economic and Political Weekly, 23/09/2017 vol liI no 38.

 


Questo dossier è stato firmato da:

  • Eleonora Fanari – ricercatrice indipendente, attivista ambientale. Laureata in Lingua e letteratura hindi all’Università orientale di Napoli. Dopo un master in Sociologia alla Jawaharlal Nehru University, New Delhi, ha iniziato a collaborare con varie organizzazioni indiane no profit, in particolare Kalpavriksh, interessandosi principalmente dei problemi legati all’esclusione sociale e al diritto alla terra.
    Negli ultimi anni si è interessata dei conflitti socio ambientali derivanti dalla contraddittorietà di molti processi di sviluppo nel sub continente indiano, con particolare riferimento alla complessità dei cosiddetti forest rights. Ora lavora come ricercatrice presso l’Universita autonoma di Barcellona, Spagna, nel progetto di ricerca dell’EjAtlas/EnvJustice, una piattaforma interattiva che cataloga migliaia di storie di resistenza locale. Per l’EjAtlas continua ad affrontare le tematiche relative alla conservazione ambientale e ai conflitti derivanti da essa.
  • A cura di – Luca Lorusso, giornalista redazione MC.
  • Archivio MC: Survival International, La loro terra, il nostro futuro, dossier MC agosto-settembre 2017.

 




Perú, mons. Baretto, la storia del vescovo ambientalista

Testo dell’incontro col vescovo cardinal Pedro Baretto e Mauricio López Oropeza di Paolo Moiola |


In Perú sono in corso centinaia di conflitti ambientali. Sia in Amazzonia (la selva) che nelle Ande (la sierra). La salvaguardia dell’ambiente e la salute delle persone costituiscono elemento centrale della missione pastorale di mons. Pedro Barreto?Jimeno, arcivescovo di Huancayo (Junín), vicepresidente della Conferenza episcopale peruviana e neocardinale (dal 29 giugno). Da pochi mesi, in qualità di socio fondatore della «Red Eclesial Panamazónica» (Repam), il prelato è stato anche nominato membro della commissione vaticana che sta preparando il Sinodo amazzonico del 2019. Lo abbiamo incontrato nella sua Lima poco prima della sua nomina a cardinale.

@ Paiolo Moiola

Miraflores (Lima). Nelle giornate di sole da Miraflores, noto distretto di Lima, si può ammirare un magnifico panorama sull’Oceano Pacifico. Arriviamo al centro ignaziano della locale parrocchia di Fátima per approfittare della presenza di mons. Pedro Barreto Jimeno, gesuita e arcivescovo di Huancayo, capoluogo del dipartimento di Junín, regione andina nel centro Ovest del paese. In Perú il prelato è molto conosciuto per le sue battaglie in favore dell’ambiente (el obis­po eco­ló­gi­co).

Dal 2004 presta servizio tra le Ande, ma ci confessa quasi subito che il suo cuore «è amazzonico». Un sentimento nato durante i tre anni da vicario apostolico a Jaén, capoluogo dell’omonima provincia amazzonica (selva alta) del dipartimento di Cajamarca.

In quello stesso periodo entra nel consiglio permanente della «Conferenza episcopale peruviana» e nella «Conferenza episcopale latinoamericana» (Celam).

Jaén è la porta d’ingresso dell’Amazzonia Nord orientale del Perú. «L’Amazzonia – spiega mons. Barreto – comprende quasi otto milioni di chilometri quadrati e nove paesi, con il Brasile in testa (65% della superficie totale) seguito dal Perú. Come uomini di chiesa ci rendevamo conto che il lavoro da fare era tanto e disperso su un territorio immenso. Nell’aprile del 2013, a un mese dall’elezione del papa Francesco, il Celam si riunì in Ecuador per dibattere la questione. Nel settembre 2014 ci ritrovammo – vescovi, religiosi e religiose – a Brasilia e decidemmo di creare la “Rete ecclesiale panamazzonica”, la Repam. Che non è una vera istituzione, né una struttura, ma – come dice il suo nome – una rete che cerca di unire con il dialogo e l’aiuto reciproco popoli indigeni e non indigeni che vivono in Amazzonia. Ciò che ci sorprese fu l’immediato messaggio di felicitazioni del papa. Questo ci spinse a considerarne lui il fondatore».

A partire da quel momento la crescita della Rete panamazzonica è molto rapida.

«Il papa ci chiese di presentare al mondo la Repam. Lo facemmo il 4 marzo del 2015 a Roma, nell’aula Giovanni Paolo II. Poco dopo, il 19 marzo, tenemmo un’udienza tematica sulle attività minerarie in Amazzonia davanti alla Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) a Washington».

Il ruolo e la visibilità della Repam prendono in seguito grande impulso da due eventi importanti: l’uscita, nel maggio 2015, dell’enciclica Laudato si’, interamente dedicata all’ambiente e, nell’ottobre 2017, l’annuncio del papa di un Sinodo panamazzonico per l’ottobre 2019.

© Malcom K.

Dall’Amazzonia alle Ande

Dopo l’esperienza a Jaén, mons. Barreto deve lasciare l’Amazzonia per le Ande: regione di Junín, nella cosiddetta sierra. «Fui nominato – racconta – arcivescovo di Huancayo, una città posta in una valle dentro alle Ande, la valle del rio Mantaro. È la valle interandina più grande del Perú: 77 chilometri di lunghezza e una media di 22 di larghezza».

Luoghi molto diversi dall’Amazzonia, ma afflitti da problematiche identiche: il difficile rapporto tra l’ambiente naturale e le attività umane e tra il diritto al lavoro e quello alla salute.

Nel dipartimento di Junín, le concessioni minerarie riguardano circa il 20% del territorio totale. Si estraggono rame, piombo, zinco, molibdeno, argento. Vi operano diverse imprese tra cui la cinese Chinalco, la canadese Pan American Silver, la peruviana Volcan, la brasiliana Milpo. La più famosa, per i disastri provocati, è la statunitense Doe Run, da anni in liquidazione. Queste attività minerarie danno un po’ di lavoro (sottopagato) alla popolazione locale, ma portano soprattutto tanti danni, all’ambiente e alla salute delle persone.

«Da secoli – racconta il vescovo (cardinale dal 29 giugno, ndr) – è una zona eminentemente mineraria. C’è una città che si chiama La Oroya, a 3.700 metri d’altezza, che è considerata una delle cinque città più inquinate al mondo. Da alcuni anni non vengono più emessi gas tossici perché il complesso metallurgico della Doe Run è fermo, ma se si vedono le foto dall’alto – su internet è possibile – si nota una massa bianca. Non è neve, sono particelle di piombo, rame, zinco, tutti metalli pesanti che in questi 90 anni di produzione (l’attività iniziò nel 1922, ndr) si sono accumulati sulle montagne». E nel sangue degli abitanti, soprattutto bambini e anziani. Acqua, aria e suolo presentano livelli di contaminazione decine di volte superiori ai limiti consentiti.

Venuto a conoscenza dei gravi problemi ambientali, mons. Barreto si dà subito da fare. Nel marzo 2005, a pochi mesi dal suo insediamento come arcivescovo, istituisce un tavolo di dialogo (Mesa de diálogo) con l’ambizioso obiettivo di trovare una «soluzione integrale e sostenibile al problema ambientale e lavorativo a La Oroya e il recupero della conca del fiume Mantaro».

Il dialogo è però lungo e complicato. In gioco ci sono gli interessi della multinazionale statunitense e il lavoro di ben 2.000 persone. A mons. Barreto arrivano minacce di morte e intimidazioni.

Il complesso metallurgico di La Oroya passa attraverso fasi di insolvenza economica (2009), contenziosi con lo stato per i mancati investimenti di adeguamento ambientale (Programa de Adecuación Medio Ambiental, Pama) e, infine, nel 2017-2018 alcuni tentativi di vendita, finora falliti.

Il Cardinal Pedro Baretto © Paolo Moiola

I cinesi di Morococha

Il problema – ancora irrisolto – di La Oroya non è il solo. A circa 40 chilometri di distanza sorge Morococha, cittadina cresciuta sopra un enorme giacimento di rame a cielo aperto. Dal 2008 il giacimento – noto come progetto Toromocho – è di proprietà della Chinalco, impresa appartenente al governo cinese. «Il primo problema da affrontare – racconta mons. Barreto – fu quello di spostare la popolazione. La Chinalco costruì una nuova città: Nueva Morococha. Il trasferimento delle 1.200 famiglie iniziò nel 2012 e ancora non si è concluso».

Nel frattempo, tra gennaio e luglio 2017, l’impresa ha estratto 106mila tonnellate di rame. «Anche nel caso di Toromocho – precisa mons. Barreto -, c’è un danno ambientale perché un’attività mineraria, per quanto si possa essere attenti, contamina sempre. Il problema è che nella regione non ci sono molte alternative lavorative. Anche se, come chiesa, abbiamo iniziato un piccolo progetto di produzione tessile che impiega soprattutto donne ma che comunque non basta».

Secondo l’Istituto peruviano di economia, l’attività mineraria genera circa l’11% del Prodotto interno lordo (Pil) del paese, la metà della valuta straniera che entra in Perú, il 20% delle entrate fiscali, oltre a migliaia di posti di lavoro diretti e indiretti.

«Il Perú – racconta mons. Barreto – è sempre stato un paese minerario. Però è anche un paese agricolo. Nella valle del Mantaro le miniere inquinano e, allo stesso tempo, in agricoltura si stanno utilizzando fertilizzanti che nel resto del mondo sono proibiti. Dovrebbe essere trovato un equilibrio tra un’attività mineraria responsabile e un’agricoltura egualmente responsabile».

Mons. Barreto, il vescovo (cardinale) ambientalista, non è a priori contro le miniere. «Io – precisa – direi che l’attività mineraria è necessaria. Non possiamo cioè dire “no” alle miniere. Quello che dobbiamo dire è: in questa riserva, in questo biotopo, in questo parco non può esserci attività mineraria. Un esempio: in questo momento un’impresa mineraria sta esplorando la laguna di Marcapomacocha. Qui occorre rispondere con un secco “no”».

Di certo, guardando al territorio peruviano, sembrerebbe che tutto il paese sia stato dato in concessione. «È vero – conferma il prelato -. Si parla della stessa piazza d’Armi di Cuzco. Un’assurdità. L’attività mineraria dovrebbe essere responsabile e con chiare restrizioni. Non possiamo opporci, ma dobbiamo dire: prima delle miniere sta la responsabilità per la vita e la salute delle persone».

Amazzonia, bioma universale

Dall’Amazzonia alle Ande l’impegno di mons. Barreto in difesa dell’ambiente non è mai cambiato. «A volte mi chiedono come mai un arcivescovo che vive in mezzo alle Ande sia entusiasta dell’Amazzonia. Il fatto è che qui si parla di un bioma che dà vita non solamente a noi ma a tutta l’umanità. Nella Laudato si’ – al numero 38 – il papa descrive l’Amazzonia come uno dei polmoni del mondo assieme alla conca fluviale del Congo».

In generale, però, la consapevolezza della sua importanza vitale è molto scarsa. Anche per questo gli attacchi alla sua integrità si fanno ogni giorno più numerosi. Come ammette anche mons. Barreto:?«Se si chiede a un peruviano della costa se il suo paese è amazzonico, questi risponderà che abbiamo la selva. In realtà, il 63 per cento del territorio peruviano è amazzonico. Abbiamo ancora zone intatte ma abbiamo anche zone infernali come a Puerto Maldonado (visitata dal papa a gennaio 2018, ndr), dove le attività minerarie illegali e informali hanno prodotto disastri. Quando si arriva in aereo si vedono nella foresta grandi fette di territorio dove ormai non cresce un solo filo di vegetazione, distrutta da mercenari che utilizzano il mercurio per cercare l’oro».

Da pochi mesi mons. Barreto, vicepresidente della Repam, è stato nominato membro della commissione (riquadro) istituita per preparare un’assemblea straordinaria sulla Panamazzonia.

«Quella di convocare un sinodo sulla regione amazzonica – chiosa il prelato – è stata una decisione sorprendente di papa Francesco. La prima volta nella storia della Chiesa. In precedenza e in più occasioni, il papa aveva detto che la Chiesa deve avere un volto amazzonico e indigeno (un rostro amazónico y indígena). Come va interpretata questa affermazione? Significa spingere per una conversione ecologica, un nuovo stile di vita, basato non su un paradigma tecnocratico ma su un nuovo paradigma che porti a soluzione il problema socioambientale e offra a tutti una vita degna e solidale».

Paolo Moiola

© Graham Styles


Il segretario esecutivo della Repam

«Vogliamo “amazzonizzare” il mondo»

In tanti parlano di Amazzonia, ma in pochi agiscono per contrastare la sua distruzione. Nata meno di quattro anni fa, la «Rete ecclesiale panamazzonica» (Repam) sta operando nei nove paesi amazzonici e tentando di coscientizzare il resto del mondo sul problema. Ne abbiamo parlato con Mauricio López Oropeza, segretario della Repam.

@ Paolo Moiola

Puerto Leguízamo (Colombia). «Da quando sono entrato in questo territorio, mi è stato rubato il cuore». Mauricio López Oropeza, 40 anni, è messicano e l’Amazzonia l’ha conosciuta in Ecuador dove arrivò dieci anni fa per completare gli studi. Oggi è sposato con Ana Lucía, cittadina ecuadoriana, lavora con la Caritas nazionale ed è segretario esecutivo della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam) dalla sua fondazione.

Mauricio, come si può descrivere l’Amazzonia in poche parole?

«L’Amazzonia non è soltanto un territorio. È un bioma unico. Un sistema vivo in cui i fiumi rappresentano il sangue e le vene. Un sistema diverso e complesso di cui ancora oggi conosciamo pochissimo. I popoli originari che vi vivono rappresentano un modello distinto da quello occidentale».

Negli ultimi cinquant’anni è cambiato il modo di guardare all’Amazzonia.

«È vero. Prima l’Amazzonia era il patio trasero (cortile di casa) del pianeta. Era vista come una terra praticamente disabitata che occorreva dominare, controllare, colonizzare. Le sue popolazioni erano considerate composte da indios selvaggi da civilizzare. Oggi l’Amazzonia si è trasformata in plaza central (piazza centrale) su cui tutti si riversano a causa degli enormi interessi che su di essa si sono scatenati».

Quali sono le minacce principali che gravano sull’Amazzonia?

«La prima minaccia è il modello di sviluppo seguito. È un modello neoliberista che ha nell’estrattivismo la propria manifestazione più devastante. Essendo ricca di petrolio e di risorse minerarie, l’Amazzonia è colpita dalla “maledizione dell’abbondanza”. Ciò produce una pressione enorme a favore dell’estrazione. In questo modo è come bruciare un archivio naturale: non sappiamo quanta ricchezza genetica potrebbe perdersi.

La seconda minaccia è l’espansione della frontiera agricola (con la soia in prima fila) e dell’allevamento bovino in un territorio inadatto a queste attività. La capacità organica dell’Amazzonia è molto più bassa rispetto ad altri territori. Tuttavia, essendo considerata uno spazio disponibile (a dispetto di eventuali territori indigeni), il disboscamento è incessante (siamo ormai al 25% del totale) e questo sta mettendo a rischio tutto il sistema, in primis quello del ciclo dell’acqua».

Distruggere l’ambiente amazzonico significa implicitamente distruggere coloro che lo abitano.

«La terza minaccia riguarda infatti la sopravvivenza stessa dei popoli amazzonici. I più minacciati sono quelli in isolamento volontario (popoli non contattati). Sarebbero 140 nel mondo, 130 di essi nella Panamazzonia e 110-120 nella sola Amazzonia del Brasile. È una sfida enorme. Come salvare queste sorelle e fratelli che vivono in modo completamente distinto da quello occidentale? I popoli indigeni hanno tutto il diritto di entrare, qualora lo vogliano, nelle dinamiche del nostro mondo, ma debbono anche avere la possibilità di preservare il proprio territorio e la propria cultura.

In questo hanno fallito i governi – di destra e di sinistra – che sono andati contro le proprie costituzioni e accordi internazionali sottoscritti».

Qual è la situazione attuale nei paesi amazzonici?

«In tutti i nove paesi abbiamo situazioni problematiche. Il Brasile – sia con Temer che con Dilma – certamente ha fatto passi indietro rispetto al passato. Per esempio, rispetto alla demarcazione delle terre indigene. Il modello neoliberale e accaparratore sta dominando le decisioni politiche brasiliane. Anche in Bolivia, dove si parlava dei diritti della madre terra, si è fatta marcia indietro come nel caso del Tipnis. Qui si è tolta la intangibilità e una strada taglierà in due la riserva. Pare per favorire gli interessi dei produttori di coca con i quali il governo ha una relazione molto diretta. Infatti, il tracciato della strada non favorisce le comunità, ma segue proprio il percorso della coca.

Anche in Ecuador abbiamo fatto tanti bei discorsi, ma oggi – con il paese dipendente dal petrolio – si sta parlando sempre e soltanto di permettere l’esplorazione petrolifera in zone intangibili, naturali, ancestrali. Quando è uscito il primo barile di petrolio dal parco Yasuní hanno festeggiato. Dicono che ci siano standard elevatissimi per la sicurezza, ma sappiamo tutti che non esiste un impatto ambientale nullo.

Nel Perú ci sono continue perdite di petrolio nei territori delle comunità indigene. I popoli Awajún e Wampis sono stati criminalizzati per avere richiesto la consultazione preventiva, anche se essa è un diritto riconosciuto come costituzionale. E poi c’è la terribile situazione di Madre de Dios (vedere MC, giugno 2012).

In Colombia, come in Perú e in Brasile, c’è molta attività mineraria illegale che usa metalli pesanti che contaminano i fiumi. Già ci sono casi di popolazioni indigene malate a causa del pesce contaminato da mercurio. La condizione di postconflitto ha inoltre determinato dinamiche nuove e una situazione paradossale. Riserve naturali che ricadevano nei territori in mano alla guerriglia erano rimaste integre, ora sono esplorate e date in concessione anche per finanziare il processo di pace e dare alternative agli ex guerriglieri.

In Venezuela, c’è la questione legata al cosiddetto arco minero del fiume Orinoco (negli stati Bolivar, Amazonas e Delta Amacuro, ndr). Qui c’è il più grande progetto di estrazione mineraria del paese, proprio in un luogo di alta biodiversità e di presenza indigena. L’impatto sarà molto grave, come dimostrano varie ricerche. Infine, anche nei paesi amazzonici più piccoli – Guyana, Suriname e Guyana francese – ci sono gravi problemi a causa delle miniere. Insomma, il modello estrattivista si sta approfondendo praticamente ovunque».

I governi dei paesi amazzonici sostengono che non ci sia un’alternativa all’estrattivismo.

«Ma neppure si sforzano di trovare strade alternative. Questo modello ha generato un grande debito con le popolazioni originarie e soprattutto il costo della distruzione dell’Amazzonia è assai maggiore dei benefici e mette a rischio il futuro delle prossime generazioni».

Cos’è la «Red eclesial panamazónica»?

«La Repam è uno sforzo di articolazione di distinte istanze della Chiesa cattolica nel gran territorio amazzonico. Anche se è stata fondata soltanto tre anni fa, essa è il risultato di decenni, per non dire secoli, di presenza sul territorio. Una presenza che ha avuto matrici positive ma anche negative. Come dice papa Francesco, dobbiamo iniziare chiedendo perdono per gli errori storici, i peccati e i crimini commessi nel processo di colonizzazione. Oggi però esiste anche una Chiesa profetica con uomini che hanno dato la propria vita per l’Amazzonia. Approfittando della sua presenza capillare su tutto il territorio, la Repam si è posta al servizio della realtà amazzonica e dei suoi problemi».

In quanto «rete», quali modalità di comunicazione privilegiate?

«Come Repam abbiamo relazioni con varie istituzioni del territorio, tra cui anche quelle che si occupano di comunicazione. O meglio di comunicazione per la trasformazione. Come l’Asociación Latinoamericana de Educación Radiofónica (Aler) o Radialistas Apasionadas y Apasionados».

Con Radialistas (vedere MC, aprile 2016) avete collaborato per un lavoro sulla Laudato Si’.

«Vero. Con José Ignacio López Vigil e i suoi collaboratori abbiamo pensato come far arrivare la Laudato Si’, una delle encicliche più potenti in tema ambientale, al cuore della gente e delle comunità. L’enciclica è scritta in un linguaggio diverso, ma rimane anche un’impronta teologica, scientifica e politica. Il nostro obiettivo era di abbassare il tono per renderla comprensibile alle persone semplici. Per questo abbiamo creato una serie radiofonica di 20 puntate in cui San Francesco d’Assisi ritorna sulla terra e scopre i disastri prodotti dall’uomo. Sfruttando la sua abilità nel parlare con tutti, lo facciamo dialogare con il fratello petrolio, con la sorella soia transgenica, con il fratello mais e via dicendo, percorrendo tutta l’America Latina per far intendere l’impatto del cambio climatico e la gravità della situazione».

Mauricio, come avete accolto l’annuncio del Sinodo panamazzonico dell’ottobre 2019?

«Come una grande opportunità. Il nostro slogan è “amazonizar el mundo” (amazzonizzare il mondo). Che significa rendere cosciente il mondo intero dell’importanza vitale di questo territorio unico. Bellissimo, fragile e profondamente minacciato».

Paolo Moiola


Siti

• il sito della diocesi di Huancayo: www.arzobispadodehuancayo.org
• il sito dell’«Observatorio de Conflictos Mineros en el Perú»: http://conflictosmineros.org.pe/
• il sito della «Rede eclesial panamazónica» (Repam): http://redamazonica.org/