Abitare insieme, diversamente

testo di Daniele Biella |


Storicamente presente nel Nord Europa, è arrivato da anni anche nel nostro paese. Abitare in comune, condividere, supportarsi. È difficile definire il cohousing. La cosa migliore è conoscere e raccontare le esperienze vissute.

«La compagnia, la conversazione, la condivisione, il sapere che qualcuno c’è nel momento del bisogno: la vita risulta più facile se hai qualcuno che la percorre al tuo fianco». Quando Eric Klinenberg, sociologo e scrittore statunitense, pronuncia questa frase, sa bene che c’è in corso un cambiamento epocale e virtuoso del modo in cui l’uomo può «abitare» la comunità nella quale vive. C’è la persona, certo, magari con il proprio partner, la propria famiglia, con cui condivide gli spazi di una casa. Ma in molte zone del mondo, Italia compresa, si fa strada qualcosa di più ampio: «Al tuo fianco», infatti, possono percorrere il cammino quotidiano anche altre persone e famiglie con cui nel corso del tempo hai fatto una scelta importante e, per certi versi, rivoluzionaria: la coabitazione.

Abitare condiviso, cohousing, ecovillaggi, sono i nomi che possiamo avere sentito da qualcuno o in qualche media. Nomi che rappresentano un contenitore – di varie dimensioni – il cui contenuto è dato da chi ci abita e, quindi, ogni volta diverso, deciso in piena collaborazione, particolare. Ma di cosa stiamo parlando? Ecco un esempio da cui partire, preso nel mucchio (le esperienze attive e censite in Italia sfiorano il centinaio).

Porte aperte

Siamo a Velate, paesotto di tremila abitanti unito a Usmate, alle porte di Monza, Lombardia. Qui sei famiglie, 12 adulti più 16 bambini da 2 a 13 anni, conosciutesi per la maggior parte negli ultimi 6-7 anni, stanno per realizzare il loro sogno: vivere sotto un unico tetto, nel cohousing «Uno e sette» (www.unoesette.it).

Costruito – nel vero senso della parola, perché in questo caso si è partiti dall’acquisto del terreno – attraverso una miriade di incontri e decisioni comuni, Uno e sette prende forma in un edificio nel quale ogni nucleo avrà il proprio appartamento, i propri indispensabili spazi famigliari, a cui però si aggiungono una serie di spazi comuni concepiti come un tutt’uno con le abitazioni. Ovvero da vivere ogni giorno dalla singola famiglia come allargamento della propria casa: un salone comune in cui ritrovarsi e far ritrovare la comunità del paese promuovendo eventi, una zona di coworking (postazioni di lavoro condivise) e una lavanderia comune, un giardino collettivo, una postazione dove fare musica, e terrazze nelle quali la parola d’ordine è «assieme». «Uno stare assieme non forzato, che rispetta i tempi di tutti, basato sul mutuo aiuto e su relazioni di qualità, elementi che riteniamo importanti sempre, tanto più in un periodo delicato e drammatico come quello che stiamo vivendo durante la pandemia», spiega Sabrina Curzi, membro di Uno e sette. Lei è assistente sociale e lavora a Milano per la cooperativa Farsi prossimo. Nel gruppo ci sono anche due professori, un ingegnere, una musico terapista, una libraia e altre figure unite dalla volontà di un vicinato improntato all’altruismo: Il nome, Uno e sette, parte dall’omonima favola di Gianni Rodari («Ho conosciuto un bambino che era sette bambini»), e si riferisce al fatto che nel cohousing c’è un settimo appartamento dedicato ad accogliere, in collaborazione con enti pubblici e privato sociale, persone in temporaneo stato di necessità come anziani, persone disabili o non autosufficienti, famiglie monogenitoriali. «Ora siamo alla scelta dei pavimenti per gli spazi comuni, ma alla base ci sono confronti settimanali su ogni tema, sia pratico che valoriale», continua Curzi. I cohousers hanno fondato una cooperativa edilizia, ottenuto un finanziamento da Banca Etica, ed entro giugno 2021, a prescindere dal colore dell’emergenza sanitaria, inaugureranno la loro nuova dimora, passiva e solidale. Nel frattempo hanno lanciato sulla piattaforma GoFundme.org una raccolta fondi per chi volesse aiutarli nel sostenere il progetto di accoglienza.

Anche in pandemia

L’esempio di Uno e sette è solo una delle tante esperienze virtuose presenti in varie zone d’Italia. Che si tratti di recuperare un casolare abbandonato o di costruirne uno ex novo con forte attenzione alla sostenibilità ambientale, l’importante è impostare il proprio modello su una convivenza attiva e attenta a chi ti sta accanto. «Il lockdown, in questo senso, ci ha riportati a casa: conosciamo di più chi vive attorno a noi, andiamo più spesso al negozio specializzato del quartiere, ci interessiamo a forme di relazione più significative rispetto alla frenesia con cui siamo abituati a vivere», ragiona Nicholas Bawtree, nato nel 1978 nell’agriturismo toscano dei genitori e oggi direttore responsabile di «Terra Nuova» (www.terranuova.it), il mensile cartaceo con l’occhio attento ai temi del consumo critico, del biologico e delle scelte di vita sostenibili.

La curiosità verso i cohousing e gli ecovillaggi è in aumento da anni, la pandemia ha dato ulteriore spinta: «Spesso questi sono progetti con un’intenzionalità molto forte, in ogni caso sono sempre di più le esperienze di persone che aprono le proprie case verso l’esterno, anche in vie di mezzo come i Gas, Gruppi di acquisto solidale, o altre esperienze di cohousing diffusi e servizi condivisi», aggiunge Bawtree.

L’approccio comunitario ha una propria innegabile storia: basti pensare alle centinaia di case famiglia attive da decenni in tutta Italia, ma anche a diversi contesti religiosi nei quali si pratica vita comunitaria.

Nel caso delle recenti nuove forme dell’abitare, esse nascono anche dai mutamenti in atto nella società: il costo della vita in forte aumento e il consolidamento di un individualismo legato alla società dei consumi, per esempio, stanno motivando migliaia di persone a cercare modelli alternativi, dal ritorno alla natura, tipico degli ecovillaggi, alla condivisione di spazi abitativi nei cohousing, più diffusi nei centri a forte urbanizzazione.

Daniel Tarozzi, giornalista e videomaker, oltre a scegliere in prima persona uno stile di vita sobrio nell’entroterra ligure (progetto Altopia – La casa del cambiamento), ha fondato nel 2012 la testata web «Italia che cambia» (www.italiachecambia.it), e da allora viaggia appena può in camper in ogni regione italiana a scovare le esperienze di buone pratiche: «Sono anni che non mi fermo, e ancora mi sembra di avere visto poco, data la quantità di esempi virtuosi che ci sono», sottolinea.

Per quanto riguarda il cohousing, «di solito nasce da gruppi di coppie con o senza figli. Ma non sono poche le esperienze di condivisione nate da over 65 – efficace alternativa alla casa di riposo – e da giovanissimi che dopo avere vissuto insieme come studenti decidono di continuare a farlo cercando una struttura idonea», ragiona Tarozzi.

Anche la visione degli ecovillaggi sta mutando: «Si sta superando lo stereotipo che li vede come comunità stravaganti. Esse in realtà rappresentano modelli virtuosi di ripopolamento borghi e buon vicinato». Per capire nel dettaglio quanti sono e come stanno evolvendo sia cohousing che ecovillaggi, ecco due voci autorevoli: Housinglab, associazione di Milano che mappa da anni le coabitazioni in piccole e grandi cittadine, e la Rive, Rete italiana villaggi ecologici.

Anche in città

Dal 2014 HousingLab (www.housinglab.it) setaccia le città d’Italia alla ricerca dei nuovi gruppi che vivono l’abitare collaborativo, continuando a tenere stretti rapporti con le realtà già esistenti. «Nel 2018, quando abbiamo pubblicato il libro “Cohousing, l’arte di vivere insieme” (Altreconomia editore), abbiamo contato 40 esperienze attive. Da allora, il numero è in costante aumento e anche durante questi mesi della pandemia si stanno formando ulteriori gruppi», spiega Liat Rogel, ricercatrice di origini israeliane che oggi ha tre figli, vive in un condominio solidale a Milano e ha alle spalle tre anni di studi a Berlino e un dottorato in design di servizi e abitare collaborativo conseguito al Politecnico milanese. È lei che, assieme a Chiara Gambarana, ha fondato HousingLab, associazione che si occupa anche di facilitazione e accompagnamento di chi sceglie la strada del cohousing. «Di solito si parte da 2-3 persone, con le rispettive famiglie, che poi coinvolgono altri, creando quella relazione di fiducia necessaria per prepararsi a una vita di coabitazione fatta di decisioni prese in comune». Sul sito di HousingLab si può trovare una mappatura delle coabitazioni, completa di statistiche di ogni sorta, dall’età dei componenti – la fascia 36-65 anni è la più rappresentata, al 38%, seguita al 28% da quella dai 19 ai 35 – alla costituzione dei nuclei: per il 46,5% sono coppie con figli, per il 32,5% senza figli, il 21% single (a fronte di una media generale in Italia che vede i single al 38%, le coppie con figli al 28% e senza figli al 34%).

«Ogni cohousing è diverso dall’altro, ha le sue peculiarità. Di certo li accomuna il fatto che le persone condividono oggetti e spazi in una relazione che non è di condivisione forzata ma basata sul mutuo aiuto», continua Rogel. A volte, infatti, in chi si affaccia al tema, c’è la preoccupazione che vivere in cohousing sia troppo coinvolgente e che limiti gli spazi personali e famigliari, ma non è così: «Spesso è un antidoto all’isolamento che si vive nelle città, perché negli spazi in comune si riscopre la socialità».

Andare a vivere in cohousing non significa risparmiare sul costo della casa: «I prezzi delle abitazioni rimangono spesso quelle di mercato», conferma la fondatrice di HousingLab. Ma il guadagno è, appunto, nelle relazioni profonde che si instaurano fra i membri del gruppo.

I primi modelli di abitazioni condivise nascono nell’Europa del Nord e in quella centrale, dalla Danimarca fino a Vienna, e ancora oggi è là che ci sono le esperienze più solide. Ma anche in Italia, soprattutto sull’asse Milano e Torino ma anche in Emilia Romagna, Toscana e nella città di Trento, se ne trovano molte. Ecco qualche nome: attorno al capoluogo lombardo si trovano Base Gaia, Urban village Bovisa, Cenni di cambiamento, Cohousing Terracielo, mentre a Torino il Cohousing Numero Zero, Abitare la fabbrica, il Condominio solidale Casa di via Gessy e la rete di Coabitazioni giovanili solidali. Spesso, come accade nel caso di Uno e sette, la realtà solidale sceglie di riservare spazi per accogliere persone in situazione di disagio: in questi casi, se nel progetto di accoglienza è coinvolta la Pubblica amministrazione o una Fondazione di comunità, l’azione portata avanti dal cohousing rientra in quello che viene chiamato housing sociale (tra le fondazioni più attive a livello nazionale c’è proprio la Fondazione housing sociale).

Dentro gli ecovillaggi

Uscendo dai centri abitati si apre il mondo degli ecovillaggi, realtà dinamiche dalle mille sfaccettature spesso immerse nella natura o in piccoli borghi recuperati nei quali si mette in atto una «rialfabetizzazione» delle relazioni, una condivisione di potere, spazi e decisioni che affascinano anche molti giovani.

Da qualche tempo c’è una proposta di legge sulle «comunità intenzionali» che vorrebbe dare un riconoscimento più formale a tale modo di vivere.

A fare da collettore di esperienze in questo caso è la storica Rive (www.ecovillaggi.it), di cui Francesca Guidotti è stata per anni presidente, ancora oggi uno dei maggiori punti di riferimento a livello nazionale: «Per spiegare gli ecovillaggi parto sempre da una metafora: la vita comunitaria è come un vestito, i cui colori e forme vengono scelti da chi lo indossa, ovvero dalle persone che vivono la comunità. Quindi ogni ecovillaggio è unico, è come la vita di una persona: dall’infanzia in cui si inizia, alla gioventù in cui si esplora la nuova modalità di vita, alla fase adulta dove l’identità diventa ben radicata».

Guidotti ha 35 anni, è diventata madre da poco, ed è autrice del libro guida «Ecovillaggi e Cohousing», Terra Nuova edizioni). Ha iniziato a occuparsi di questi temi più di un decennio fa, durante la tesi in antropologia culturale, e oggi si occupa di formazione per team di realtà collaborative con l’ente Campus del cambiamento, oltre a essere portavoce della Rete di reti (www.retedireti.org), struttura leggera nella quale convergono gruppi informali e associazioni di ecologia ed economia solidale, e in cui rientra a pieno titolo il coabitare. «Confermo che il fenomeno del vivere assieme è in espansione, e il coronavirus ha dato ulteriore spinta a cercare forme di relazioni alternative, in cui si genera benessere sociale per una vita a minore impatto sull’ambiente con uno stile di vita solidale», continua Guidotti, che ha cofondato l’ecovillaggio La Torre di Mezzo, in Toscana. Nel caso dei villaggi ecologici l’asse portante si sposta dal Nord verso il Centro Italia: Torri Superiore vicino a Ventimiglia, Bagnaia nei pressi di Siena, Tempo di Vivere e Lumen a Piacenza, Alvador a Reggio Emilia, La città della Luce ad Ancona sono alcuni dei nomi da conoscere per capire.

Si può fare

Entrando nelle case e conoscendo chi vive realtà di coabitazione, una cosa risulta chiara: è una scelta che si può fare, alla portata di gran parte di noi. Bisogna volerlo, certo. «La base è accorgersi dell’altro. Ancora di più in tempi di costrizione come quelli attuali», riflette Nicholas Bawtree. «Ognuno di noi può essere una risposta a un bisogno altrui, dobbiamo andare in profondità nel “deep web” dell’essere umano per vedere l’altro non come entità minacciosa, ma come risorsa per stare meglio noi stessi». Con un consiglio finale. «Diciamo più spesso buongiorno e buonasera a chi incontriamo in strada, soprattutto ora che abbiamo le mascherine: sciogliamo la tensione salutandoci, è davvero un toccasana». Anche questo è un approccio comunitario alla vita.

Daniele Biella

  




Libri: Superare i Confini

Testp di Chiara Brivio |


Tre volumi scritti con tre stili, metodi, culture di provenienza differenti. Da una giornalista cattolica, un antropologo e un eclettico intellettuale. Tre testi che parlano di confini: quelli attraversabili dei missionari, quelli sempre in fase di assestamento delle comunità in cerca di identità, quelli che vengono di volta in volta aperti e poi ricostruiti dal tiremmolla tra il potere e la libertà.

Ci sono diversi modi di descrivere i «confini»: possono essere fisici, psicologici, emotivi, immaginari o reali. Abitualmente si tracciano per separare un fuori da un dentro, un di là da un di qua, per fermare dall’altra parte quello che non vogliamo con noi, ad esempio quelle persone che preferiamo non avere nella nostra comunità, nel nostro paese.

I tre libri di questo mese affrontano il tema dei «confini» da punti di vista diversi: da quello di una chiesa, quella missionaria, che aspira all’universalità, e per questo i confini li valica; da quello delle nuove «comunità», altrimenti dette community, che sembrano ignorare completamente i confini in un’epoca nella quale stanno rifiorendo le comunità chiuse; infine da quello di chi vede nei confini creati dal potere un ostacolo alla libertà umana e creativa.

Dove solo l’anima arriva

La giornalista Monica Mondo, conduttrice della fortunata trasmissione Soul su Tv2000, ha raccolto 15 interviste a missionari e missionarie che negli anni sono stati ospiti del suo programma. Le testimonianze sembrano convergere su una domanda chiave: «Che cosa vuol dire fare missione oggi, soprattutto in territori dove la chiesa va completamente rifondata?».

Tra essi c’è chi costruisce interi villaggi, come Pedro Paolo Opeka – vincenziano «carpentiere» che è stato visto a fianco di papa Francesco nella sua recente visita ad Antananarivo, capitale del Madagascar -; chi porta avanti una «intifada dei rosari» tra Israele e Cisgiordania, come suor Donatella Lessio; e c’è chi, come il missionario Fabio Mella, ha portato il cantautore Enzo Jannacci a visitare i boat people, persone senza diritti che vivono su imbarcazioni di fortuna nella baia infestata dai liquami di Hong Kong.

Ma ci sono anche intellettuali e teologi – dal domenicano inglese Timothy Radcliffe al neo cardinale e poeta portoghese José Tolentino Mendonça -, a testimonianza del fatto che la missione si può fare sia «stando là», anche a rischio della propria vita, sia stando «qua», cercando di instaurare un dialogo con laici, non credenti e coloro che si sono allontanati dalla chiesa.

Forse la cosa più curiosa che emerge da questi racconti, a tratti coloriti e divertenti, spesso tragici e commoventi, preceduti dalla prefazione di Paolo Ruffini, prefetto del dicastero vaticano per la Comunicazione, è il ruolo del film di Franco Zeffirelli sulla figura di Francesco d’Assisi, simbolo di povertà radicale. Molti degli intervistati hanno, infatti, dichiarato che fu proprio quella pellicola a confermare e rafforzare la loro vocazione.

Quelli raccontati da Monica Mondo sono uomini e donne che costruiscono ponti, superando ogni confine, come dice uno dei protagonisti: «Dobbiamo essere ponti e non muri. Ponti fra popoli, ponti fra chiese, ponti fra culture».

Comunità

Marco Aime è uno degli antropologi più famosi in Italia, nonché uno dei più prolifici. Questo suo breve e agile saggio, pubblicato dalla casa editrice bolognese Il Mulino, esplora il concetto di comunità dal punto di vista sociologico, antropologico e storico, spiegando come si sia passati dalle «antiche» comunità alle community online del nostro tempo.

Se la caduta del muro di Berlino nel 1989, era forse stato l’emblema della dissoluzione dei confini, oggi, con l’avvento dell’epoca dei Trump e dei Salvini con i loro «prima noi» (americani o italiani che siano), c’è stato un pericoloso ritorno alla paura del diverso, dell’altro, all’ansia generata dall’apparente disgregazione di antiche comunità, spesso puramente immaginarie (à la Benedict Anderson).

Aime fa notare che il paradosso odierno risiede proprio nel rafforzamento di quell’idea di «comunità chiuse» nell’era della globalizzazione e della rete, dove i confini sono stati virtualmente cancellati. L’antropologo ne rintraccia le cause nel passaggio dalla società contadina a quella industriale, con l’avvento del capitalismo che ha monetizzato e commodificato il tempo, fino all’arrivo delle società liquide della rete dove la tecnologia ha annullato questo concetto, rendendoci sempre reperibili e contattabili, nonché sempre più soli.

Il problema fondamentale è che non esiste più il luogo «fisico» dell’incontro, anima dell’essere umano come animale sociale, ma spesso solo quello virtuale. Quanto ha influito questo sulle relazioni sociali? Molto, secondo l’antropologo. Il quale teorizza una fine alquanto funesta per le comunità di oggi, se non saranno in grado di rimettere al centro le relazioni umane, a partire dalle famiglie stesse. «Forse sarà proprio dal nostro spirito di sopravvivenza che nasceranno nuove forme di convivenza, capaci di abbattere e superare certi confini», chiosa l’autore. Non abbiamo quindi che da sperare.

Smurare la libertà

Wole Soyinka è un intellettuale nigeriano, drammaturgo, scrittore, poeta e saggista premio Nobel per la letteratura nel 1986. Il suo volume L’uomo è morto? Smurare la libertà, edito da Jaca Book, raccoglie tre dei suoi testi scritti in diversi momenti sul tema della libertà. I primi due sono il discorso dello scrittore al Nobel del 1986 e un saggio del 1988 sul teatro nelle culture tradizionali africane. Entrambi già pubblicati negli anni ’80. Il terzo, invece, è un inedito intitolato Smurare la libertà, inizialmente scritto del 2004 e successivamente rimaneggiato.

Il filo rosso che lega le parti del libro è quello della libertà:

  • la libertà dal razzismo e dall’apartheid nel discorso di Stoccolma, dedicato a Nelson Mandela;
  • la libertà di espressione artistica scevra da ogni «colonizzazione della mente» nel secondo testo sul teatro;
  • la libertà contro il potere nel terzo testo che contiene una forte critica anche alle religioni cristiana e islamica.

In Smurare la libertà, fulcro della riflessione di Soyinka è il rapporto tra Potere e Libertà (entrambi maiuscoli nel testo): «Il Potere ama i confini. Il Potere si manifesta all’interno di confini, viene esercitato nell’ambito di territori in qualche modo delimitati». Un potere che lotta per la conquista di tutti i territori, spirituali, fisici e corporei, secondo una logica di assoggettamento e asservimento, in un chiaro richiamo all’epoca coloniale. Per il drammaturgo nigeriano ci sono state due cadute negli ultimi decenni che simboleggiano la lotta tra potere e libertà: quella del muro di Berlino nel 1989, che ha visto trionfare la libertà, e quella delle torri gemelle nel 2001, che ha visto prevalere il potere facendo ripiombare il mondo nella paura, dividendolo tra «credenti infedeli» e tra «alleati o terroristi», tra i Bin Laden e i Bush dell’epoca.

Come uscire dalla paura? Come liberarsi dal dominio del potere, esercitato con terrore e violenza? Soyinka non ha una risposta, se non quella di continuare a lottare contro il sistema che vuole «riabilitare questa mentalità fanatica […] dell’Altro violento, dell’Altro suprematista, intollerante, fascista, apocalittico».




I Ricostruttori: Un cammino per continuare a nascere

Testo di Amarilli Varesio !


A metà degli anni Settanta un gesuita inizia il suo apostolato per i «lontani», chi si è allontanato dalla chiesa ma anela a una vita spirituale. Crea un gruppo di preghiera nel quale insegna tecniche di meditazione orientale. Oggi i Ricostruttori contano 50 comunità di vita e centinaia di frequentatori. «L’esperienza spirituale è un’anticipazione di quello che puoi essere».

Quando avevo otto anni, la mia famiglia è migrata verso Sud. Dalle colline del Monferrato ci siamo trasferiti sui pendii dell’Etna per vivere in una cascina dei «Ricostruttori nella preghiera». La casa era stata un antico palmento (luogo adibito a pigiatura e torchiatura dell’uva) ed era immersa in uno sterminato agrumeto con alberi di limoni, aranci e numerosi ulivi, in cui io scorrazzavo con la maglia di Ferrante, l’ex giocatore del Toro, e scrivevo lettere nostalgiche alle mie amiche lontane.

Ricordo che, a circa dodici anni, quando suonava la campanella di scuola per la fine delle lezioni, uscivo dal portone principale facendo finta di non vedere la Peugeot scassata e il signore con la barba e i capelli lunghi al volante che mi attendeva di fronte alla scuola media. Lanciavo un’occhiata feroce a mio padre per fargli capire che doveva venire a prendermi dietro l’angolo, perché mi vergognavo del suo aspetto così scompigliato e diverso da quello dei padri dei miei amici.

Fierezza e imbarazzo

Alternavo fierezza e imbarazzo per il fatto di appartenere a una famiglia così fuori dall’ordinario e, verso i miei genitori, avevo un atteggiamento ambivalente, che oscillava tra ammirazione e divergenza.

Casa nostra era sempre piena di ospiti, amici, «comunitari» (membri di altre comunità dei Ricostruttori, ndr), viaggiatori, curiosi, e per questo era difficile trovare dei momenti in cui andare in vacanza da soli. Adoravo addormentarmi ai piedi di mamma e papà mentre meditavano alla luce delle candele, ma quando lo facevano prima dei pasti, a noi figli toccava aspettarli con i gorgoglii alla pancia.

Mi piaceva moltissimo l’idea che i miei utilizzassero tecniche di rilassamento e medicina naturale per curarci, ma odiavo quando mi dicevano che dovevo imparare a respirare col diaframma per farmi passare i crampi allo stomaco.

Crescendo, ho cominciato a chiedermi in maniera critica e curiosa che significato avesse la danza che i miei genitori facevano per prepararsi alla «doccia mattutina», lo strumento che utilizzavano per infilarsi l’acqua nel naso da una narice e poi soffiare sonoramente il catarro dall’altra, perché non bevessero caffè né fumassero, rifiutassero la televisione, perché facessero yoga al mattino e alla sera, perché ci fosse un’enorme rilievo in cemento della Sindone nel luogo nel quale meditavano.

Superati i rifiuti adolescenziali, a diciassette anni, prima di partire per un viaggio che sarebbe durato un anno, ho deciso di fare il corso di meditazione per darmi coraggio. I miei mi avevano insegnato che la meditazione è il principale strumento di crescita e supporto. Da quel momento, ho cominciato a comprendere sempre meglio il senso di una vita semplice, aperta agli altri, capace di liberarsi da forme di attaccamento materiale, e quindi, di quella migrazione al contrario, da Torino alla Sicilia, che era stata, pensandoci adesso, una sana dolorosa partenza.

La nascita del gruppo

I Ricostruttori nella preghiera sono nati nel 1978 per iniziativa di padre Gian Vittorio Cappelletto, sacerdote gesuita veneto, che, all’epoca della fondazione del movimento, risiedeva a Torino. Padre Cappelletto aveva cominciato a praticare la meditazione a 45 anni, mentre si occupava, oltre agli incarichi da religioso, di cultura e arte, anche come assistente all’università.

Il suo intento era quello di fare un apostolato per i «lontani», coloro che si erano allontanati dalla Chiesa ma mantenevano una aspirazione spirituale cercando risposte altrove. Infatti verso la metà degli anni ‘70, in Europa si cominciavano a diffondere metodi di meditazione orientale, sia induista che buddhista.

I primi anni

Con la barba folta quasi tutta imbiancata e un tono di voce dolce e meditativo, Roberto Rondanina, sacerdote e responsabile generale dei Ricostruttori dopo la morte di padre Cappelletto, avvenuta nel 2009, ricorda: «Eravamo nel post ‘68, con la crisi delle ideologie e della speranza di cambiare il mondo. Con una rivoluzione mancata, c’è stato un ritorno alla religione, ma in forma alternativa, diversa da quella confessionale o istituzionale. Tra queste forme, c’era anche la meditazione, che, in quell’epoca, era una novità assoluta. Il ripiegamento verso forme più intime di preghiera veniva dalla consapevolezza che se non cambio me, il mondo non cambia. E anche se cambia, non mi cambio io. Il gruppo ha usufruito dello spirito del post ‘68 nel quale viveva un sentimento molto forte di aggregazione, rispetto a una condizione odierna di maggiore individualismo.

I segni dei tempi che padre Cappelletto ha colto sono stati due: il ritorno a una spiritualità meno inquadrata e, dall’altra, il bisogno di appartenenza».

Il gruppo dei Ricostruttori ha attirato coloro che si sentivano cristiani ma cercavano esperienze diverse perché quelle tradizionali non le percepivano come trasformanti. Continua Roberto: «La meditazione diventa una grande speranza di trasformazione individuale e, quindi, trasformando se stessi, anche il proprio ambiente relazionale migliora».

Padre Cappelletto ha voluto andare in India per conoscere le forme di meditazione orientali praticate dai maestri indiani, non per aderire all’apparato dottrinale e filosofico dell’Oriente, ma solo per trarne alcuni elementi, quali la valorizzazione del respiro, la preghiera in formule brevi, ripetitive, mantriche, cioè forme di raccoglimento, interiorizzazione e concentrazione.

Attraverso questi incontri, padre Cappelletto ha riscoperto un filone che era già presente nella tradizione cristiana di tipo mistico o monastico: quello dell’esicasmo (dal greco exichia, pace spirituale, silenzio interiore). Una meditazione mantrica legata alla respirazione, cioè la preghiera contemplativa, chiamata «preghiera del cuore». La tradizione esicastica era praticata prima dai monaci del deserto, poi si diffuse in tutto il mondo cristiano, in Giordania, in Egitto tra i copti, nella Chiesa orientale ortodossa. In Europa era conosciuta da personaggi isolati, all’interno di ambienti monastici, non era applicata a livello collettivo.

Ricostruire dentro e fuori

Il gruppo si è formato attorno alla pratica della meditazione, dello yoga e di varie tecniche di rilassamento. Senza che padre Cappelletto lo abbia previsto, è nata una convivenza religiosa composta da uomini e donne e alcuni sacerdoti. Nella sede dei Ricostruttori di Torino, Roberto racconta: «Le esigenze principali erano due. Da una parte creare dei luoghi in città dove incontrarsi per fare meditazione. All’inizio siamo sempre stati ospiti di ambienti religiosi gesuiti, salesiani. Il padre si appoggiava alle case che gli prestavano. Dall’altra, trovare posti fuori città dove fare i ritiri spirituali per dedicare spazio alla preghiera e al silenzio.

Abbiamo cominciato a ricostruire cascinali abbandonati, ad abitare vecchie abbazie, e il lavoro è stato una potentissima forza aggregativa.

Eravamo giovani e pieni di energie. Il nome “Ricostruttori” è nato dall’intento di ricostruire ambienti come parabola e simbolo della ricostruzione interiore».

Questo intenso percorso di condivisione ha portato, in seguito, alla ricerca di un riconoscimento ecclesiastico. Nel 1988, i «Ricostruttori nella preghiera» sono diventati un’associazione pubblica di fedeli retta dal vescovo di La Spezia; una forma giuridica della chiesa che tiene assieme varie scelte di vita.

Attualmente, le sedi dei Ricostruttori sono più di 50, sparse in tutta Italia, e sono luoghi di incontro, nei quali la meditazione unisce e accoglie umanità differenti, simpatizzanti occasionali e frequentatori abituali che possono essere di diverse provenienze culturali. Inoltre, si organizzano corsi di meditazione, training estivi, conferenze, concerti, si predispongono ambulatori che fanno un grosso servizio sociale perché, oltre a considerare il malato come un’unità di corpo e spirito, hanno prezzi molto bassi, e sono gratuiti per chi non può pagare.

I centri di meditazione sono abbelliti da restauri e opere artistiche create dagli stessi comunitari e dai volontari, «espressione di potenzialità inaspettate che si esprimono una volta riacquistata la serenità e l’armonia interiore», abbozza con un sorriso Roberto. Chi vive in comunità non conduce una vita religiosa intesa in senso strettamente tradizionale, cioè vissuta solo all’interno della struttura. «La nostra forma è mista. Ci sono persone che vivono all’interno della comunità che si occupano più dell’organizzazione delle attività: laboratori artistici, musicali, aikido, riflessologia, e persone che invece stanno molto all’esterno, studiano, lavorano, si impegnano in un ambito sociale, come Silvana che da anni lavora al carcere delle Vallette a Torino».

I Ricostruttori professi

La comunità finora si è sempre sostenuta con le proprie forze, grazie agli stipendi dei membri della comunità e a offerte occasionali.

Nell’ambito dell’associazione si distinguono i professi volontari e i professi comunitari. I primi sono coloro che, in senso strettamente giuridico, sono pubblicamente associati (diversamente dai frequentatori) e, dopo un periodo di dieci anni di un percorso all’interno dei Ricostruttori, riconoscendosi in quel carisma, fanno la professione. Cioè, di fronte alla comunità si prendono l’impegno di dedicare il proprio tempo e le proprie energie extra alla causa dei Ricostruttori, «è una sorta di promessa che uno fa di fronte allo Spirito Santo». Essi spesso vivono in comunità. I secondi, invece, sono quelli che hanno accolto le tre promesse monastiche di povertà, castità, obbedienza e conducono una vita religiosa comunitaria.

La meditazione

Per come è intesa dai Ricostruttori, la meditazione si può accompagnare a uno stile di vita sobrio e ad alcune scelte finalizzate a prendere consapevolezza del proprio corpo, dei propri limiti e delle proprie possibilità. Per esempio dormire a terra, sul duro, lavarsi con l’acqua fredda, effettuare le asana (posture yoga, ndr) per mantenere desto e ben massaggiato il sistema ghiandolare, fare un giorno di digiuno al mese, essere vegetariani, evitare fumo e alcolici, compiere quattro meditazioni al giorno di mezz’ora ciascuna. Questi non sono aspetti ascetici obbligatori, ma consigli da applicare in libertà di coscienza alla propria vita.

Roberto racconta la sua singolare esperienza riguardo la meditazione: «All’inizio, per me la meditazione ha rappresentato una grande novità perché era un’esperienza di interiorità, una ricerca di contatto con Dio che non passasse solamente attraverso una preghiera vocale. Io ero un semi-lontano, avevo un sacco di dubbi su tutto, ma desideravo credere. La meditazione mi ha permesso di fare un’esperienza non puramente intellettuale».

Nel gruppo si riflette molto sulla presa di distanza dai condizionamenti culturali e sociali (non dai compiti e dalle responsabilità), spesso radicati in zone profonde di noi. Una presa di distanza necessaria per iniziare a scoprire l’unicità della propria persona e rendere così possibili nuove forme di relazione umana. Inoltre, il dominio delle passioni può essere facilitato dalla disciplina psico-fisica della meditazione, perché, se non integrate, le passioni separano l’uomo. La tentazione lo frammenta. Mentre la meditazione vuole essere un processo di unificazione volto a riconoscere il centro, il desiderio profondo che ogni uomo porta dentro.

Roberto mi rivela un dettaglio prezioso: «L’esperienza spirituale è stata molto diversa dalle aspettative iniziali. Man mano, mi si è chiarito dentro che, al di là di quello che uno può percepire, l’importante è scoprire la dinamica della crescita interiore, cioè la possibilità che noi abbiamo di generare amore. L’amore e la presenza di Dio sono un dono gratuito dentro di noi, ma questa presenza non cresce da sola, devo coglierla, aderirvi, lasciarmi attrarre ed esprimerne la bellezza. I doni spirituali, le piccole esperienze meditative profonde, dove uno sperimenta un’apertura di cuore maggiore di ciò che uno vive normalmente, sono una cosa bella e gratificante. L’esperienza spirituale è un’anticipazione di quello che puoi essere, ma per essere devi poi scegliere di vivere quell’apertura. Una volta percepivo la meditazione come qualcosa che automaticamente mi avrebbe cambiato, ma purtroppo non è così. Attorno alla meditazione ci sono tanti tipi di letture. È vero che fa bene, che rilassa, ma quello che non avevo colto è come uno si possa generare come persona. Ora per me questa è la cosa più importante di tutte. L’esperienza mistica, quando si rivela, ci fa cogliere una realtà d’amore, ma se questa non la faccio mia, non mi serve a nulla».

Ricordo un ritiro spirituale nel quale ho ascoltato parole di Roberto mi sono poi rimaste appiccicate addosso come un mantra quotidiano: «Con la nascita iniziamo un cammino nel quale ogni uomo deve finire di nascere, in un incessante partorire se stessi. Dobbiamo completare, riempire di significato, dare qualità al dono della vita; pensare alla vita come mistero da generare piuttosto che da scoprire.

Siamo costituiti dal desiderio, ma non sappiamo bene cosa desideriamo. Tra le tante cose che la vita ci propone, come riconoscere un idolo da ciò che ci dà vita? Il mercato dei consumi ci distrae, ci stordisce e sostituisce gli oggetti alla qualità della relazione. Il percorso spirituale ci aiuta a riconoscere le fughe da noi stessi e a trovare cosa ci corrisponde in profondità».

Amarilli Varesio