Attraverso il Niger, Africa «coast to coast»

Testo e foto di Marco Bello |


Il Niger è un paese di origine ma soprattutto di transito di migranti. Molti sono quelli che passano di qui per tentare la traversata del Sahara. Succede che non ci riescano, oppure che vengano respinti e riportati alla frontiera. Il flusso dei «ritornati» è in aumento. La chiesa cattolica del Niger si è organizzata per dare loro un’assistenza più «umana» possibile.

Niamey. La capitale sabbiosa del Niger sta cambiando volto. Nella sua zona centrale sono ben visibili alcuni grandi cantieri. Enormi edifici in costruzione, hotel e palazzi governativi di un’altezza mai vista qui, e poi il terzo ponte sul fiume Niger.

Guardando bene vediamo molti cinesi al lavoro sotto i caschetti gialli, e in alcuni cantieri sventolano bandiere turche. Sono questi i due sponsor ufficiali della speculazione edilizia a Niamey.

Ma in altre zone della capitale ci sono ancora quartieri con le case di mattoni in fango e paglia essiccati (banko), quasi «edifici storici», si direbbe da noi. Case da villaggio si dice in Niger.

Ci spingiamo nella periferia Est. In questa zona relativamente recente ci sono case basse e qualche edificio più alto, di banche o compagnie telefoniche. Noi cerchiamo i locali della parrocchia San Gabriel Garbado, della chiesa cattolica, minoritaria nel paese a grande maggioranza musulmana. A San Gabriel, l’arcidiocesi di Niamey – una delle due del paese, l’altra è la diocesi di Maradi – ha concentrato le attività di accoglienza e ascolto per i migranti.

Entriamo nella bassa costruzione in colore ocra, quasi mimetica, e nel cortile interno incontriamo Laurent Tindano, l’animatore principale della pastorale migranti. Laurent è un migrante lui stesso, perché burkinabè, ma vive qui da decenni e si sente nigerino a tutti gli effetti.

Un centro di ascolto

«Questo è un piccolo centro di accoglienza. Con pochi mezzi facciamo un accompagnamento dei migranti.

Ci occupiamo di coloro che stanno ritornando, dopo aver attraversato il deserto e tentato di passare il mare, senza successo, e ora vorrebbero rientrare nei loro paesi. Arrivano a Niamey sfiniti, privati di qualsiasi mezzo, smarriti e traumatizzati dell’esperienza durissima. Noi li accogliamo, ma non facciamo un lavoro amministrativo.

Parliamo con loro, li riceviamo come fratelli, non come stranieri, dando loro valore umano. Lasciamo tutto il tempo per parlare e cerchiamo di creare un rapporto di fiducia. Così ci raccontano il loro vissuto.

Li compatiamo nella loro sofferenza.

Quando un essere umano sente che lo capite, vi dà fiducia, e accetta di aprirvi il suo cuore e vi dirà molte cose. È diverso dal fargli delle domande per compilare un formulario».

Al centro di Garbado viene dato ai migranti anche un piccolo aiuto materiale «per facilitare il loro passaggio»: qualche soldo, una coperta, un kit igienico. Una volta la settimana un medico volontario visita le persone di passaggio. E, grazie alla convenzione con una farmacia e una clinica, si riescono a dare farmaci e far visitare i casi più gravi.

Un fenomeno nuovo

Laurent ci racconta che tutto è iniziato intorno all’anno 2011: «Con gli avvenimenti della Libia, del Mali e della Costa d’Avorio, alcuni sbandati arrivavano a Niamey e cercavano una parrocchia, perché è noto che dove c’è la chiesa è probabile ricevere un aiuto. Il fenomeno era nuovo e creammo dei comitati in ogni parrocchia. Ma poi ci rendemmo conto che c’erano migranti che facevano il giro. Si decise di concentrare l’attività a Garbado, che è in un luogo logisticamente vicino alle stazioni degli autobus di lunga percorrenza».

Gli chiediamo perché l’accoglienza è in prevalenza a chi torna dal tentativo di traversata. «Quelli che partono verso il deserto di solito sono in forma e hanno ancora il morale alto e mezzi economici. Hanno meno bisogno di noi. Inoltre noi siamo per la libertà di circolazione. Se ci chiedono informazioni sulla strada, diamo loro almeno qualche indicazione sui pericoli della traversata».

Seduto su una panca, poco più in là, sotto la tettoia di lamiera che ora ripara dal sole implacabile e per (soli) tre mesi all’anno dalla pioggia torrenziale, sta Micheal Johnson. Liberiano, di 37 anni, Michael è un vero globe trotter dell’Africa. Ma non per turismo.

Michael il «globe trotter»

Durante gli anni ‘90 in Liberia infuria una cruenta guerra civile (dall’89 al 2003 con una pausa nel ‘97-‘98). Come molti suoi connazionali Michael fugge e si ritrova in Costa d’Avorio, in un campo profughi. Nel paese lavora per dieci anni. Parla molto bene anche il francese. «Finita la guerra sono tornato nel mio paese, ma ho visto che la situazione era pessima. Volevo qualcosa di meglio dalla vita. Allora sono ripartito».

Michael passa da Guinea, Senegal, Mali, Burkina Faso e poi Niger. Da qui arriva in Ciad e si dirige verso il Sudan. «A questo punto è stato molto difficile. Ad Abéché ho trovato molti altri migranti che facevano il mio stesso viaggio. Siamo partiti insieme con un camion, ma passata la frontiera, verso le tre di notte, ci hanno assalito i ribelli Janjawid». Michael si trova nel Darfur. I ribelli sparano ai pneumatici del camion, fanno scendere tutti e puntano un’arma alla testa dell’autista. «Ci hanno fatti sdraiare nel deserto, hanno iniziato a torturarci e ci hanno preso tutto». Poi compare una pattuglia di caschi blu della missione di pace Onu, Unamid, che, sparando in aria, mette in fuga i Janjawid. Michael e gli altri sono salvi.

I caschi blu recuperano i malcapitati e li portano alla città di Al Fasher. «Hanno visto che non avevo nulla e mi hanno pagato il biglietto dell’autobus per Khartum. Il mio obiettivo era andare in Arabia Saudita».

A Khartum Michael non conosce nessuno, però da viaggiatore ormai esperto, si infiltra nel campus universitario, dove si riesce a vivere con poco e si trova sempre qualcuno che ti aiuta. «Sapevo dell’esistenza dell’università Jama Africa. Ci sono rimasto qualche tempo, intanto ho cercato un lavoro perché avevo finito i soldi». Appena ha abbastanza soldi Michael si rimette in viaggio e è arriva a Port Sudan, città sul Mar Rosso.

Ultimo passaggio

«C’erano delle barche che attraversavano il mare per andare in Arabia Saudita. Le barche erano sovraccariche. Ho visto gente di Etiopia, Eritrea, Nigeria, Camerun, Mali, Liberia. Ho pagato 1.500 dollari e mi hanno portato in un luogo nel deserto, dove molti altri erano in attesa. Ho così scoperto che c’erano molti migranti clandestini. Ci hanno detto di non farci vedere in città. Dovevamo aspettare di essere 150 per riempire una barca e i trafficanti sarebbero venuti a cercarci. Nel frattempo ci portavano cibo e acqua acquistata in città. Sono rimasto in quel luogo circa un mese».

Poi finalmente una mattina all’una, all’improvviso i trafficanti vanno a cercarli per partire. Ma Michael non ha fortuna. Una motovedetta della guardia costiera saudita blocca la sua nave. Non li fa attraccare e li rimanda in Sudan. Da allora Michael diventa come un pacchetto, espulso dai diversi paesi che ha attraversato. Lo portano a Nguigmi, in Niger al confine con il Ciad.

Ma lui non si arrende. «Allora mi sono detto, passerò dall’Algeria per andare in Francia». Dopo aver lavorato riesce ad attraversare il Sahara e arrivare a Oran, città algerina sulla costa. Qui trova un lavoro per mettere insieme un po’ di soldi ma «una sera, uscito dal lavoro, mi ferma una pattuglia della polizia. Io non avevo i documenti. Mi hanno portato all’ufficio immigrazione. Chiesi che cosa avevo fatto, ma mi dissero che dovevo partire. Volevo passare da casa a prendere le mie cose, ma non lo consentirono». Rinchiuso in un locale con altri clandestini, dopo alcuni giorni Michael viene messo su un camion «quelli che portano fino a 150 persone», e trasferito verso Sud. I migranti respinti sono quindi scaricati in Niger, nei pressi della frontiera. In qualche modo arriva poi a Niamey. «Qui la situazione è peggiorata, non riesco a trovare lavoro. Ho deciso di tornare in Liberia ma non posso arrivare senza un soldo. Nel mio paese la guerra ha rovinato tutto, ha ucciso i miei genitori. Anche per questo me ne sono andato».

Famiglia migrante

Nella parrocchia di Garbado, questa mattina ci sono una decina di persone. Tutti uomini o ragazzi. Unica eccezione è una famiglia, padre, madre e bimba piccola. Accettano di parlarci.

Biko (nome di fantasia) parla un ottimo francese. Lui e la famiglia vengono dal Ciad, in particolare da Ndjamena, anche se, ci tiene a precisare, sono originari del Sud, Doba, dove ci sono i pozzi di petrolio. Lui ha tentato più volte di studiare giurisprudenza all’università, nel vicino Camerun. Prima nel 2007, poi dieci anni dopo. In entrambi i casi ha dovuto lasciare a causa delle cattive condizioni di sicurezza.

Biko è molto critico con il suo paese: «Sono nato nella guerra, cresciuto nella guerra e le conseguenze sono nefaste, non mi hanno permesso di studiare». La famiglia è composta anche da altri tre figli, ci raccontano entrambi, di 10, 6 e 4 anni. L’ultima, qui con loro, ne ha 2. «Sappiamo che è un rischio lanciarsi in una migrazione con una grande famiglia. Ma ci ha spinto il fatto che il nostro paese non è stabile. La gente vive sempre in mezzo a conflitti armati, intercomunitari, c’è la repressione dei governi, la cattiva gestione. Le ricchezze del paese non sono condivise in modo che tutti ne beneficino per vivere in pace».

La moglie, Evelyn, in un francese più impacciato, aggiunge: «Abbiamo lasciato il Ciad per cercare una vita migliore per noi e i nostri figli. Il nostro obiettivo è cercare fortuna in Marocco». E continua raccontando il loro viaggio, iniziato quasi un anno fa: «Siamo partiti da Ndjamena con un camion e siamo arrivati in Nigeria. Poi da lì è stato complicato, anche a causa della polizia. Abbiamo spesso dovuto negoziare e alla fine abbiamo pure perso i documenti». Entrati in Niger si sono diretti a Nord, fino ad Agadez, la città nigerina alle porte del Sahara, nella quale tutti i flussi dei migranti s’incontrano: da Est, da Sud e da Ovest. E dalla quale si parte per l’Algeria o la Libia. Qui, qualcuno in «uniforme» ha avuto compassione della famiglia e ha sconsigliato loro di proseguire: «Con questi bambini farai la loro tomba nel deserto», hanno detto. E poi li ha aiutati a tornare a Niamey.

Tra l’incudine e il martello

«Siamo qui da quasi otto mesi – dice Biko -, i bambini non vanno a scuola, e non abbiamo neppure una casa. Viviamo all’aperto. Quando piove ci lasciano mettere sotto una tettoia adibita a moschea, poi però dobbiamo sloggiare. Non abbiamo provato a fare i visti per il Marocco, perché non so come fare e non ho soldi. Non abbiamo più nulla».

Chiediamo alla coppia se non pensano sia meglio tornare in Ciad. Risponde Biko: «Sì, ma abbiamo paura di quello che succede nel nostro paese, in particolare il terrorismo. Inoltre mi hanno detto che se sei stato all’estero più di tre mesi, quando ritorni ti sospettano di terrorismo. Devi giustificare cosa hai fatto, altrimenti ti sospettano di essere con Boko Haram. Siamo tra l’incudine e il martello».

Il Ciad fa parte della coalizione militare con Niger, Nigeria e Camerun, che combatte i terroristi di Boko Haram (Cfr. MC ottobre 2016). La capitale Ndjamena è molto vicina al Nord Est della Nigeria, zona storica di questo gruppo che ormai interviene nei quattro paesi nei pressi del lago Ciad.

L’amaro in bocca

Dopo aver parlato con diversi ragazzi, ascoltato le loro storie incredibili, di viaggi e di atrocità subite, prendiamo la nostra telecamera e li salutiamo. Sono contenti di aver condiviso la loro storia con noi, nonostante all’inizio ci fosse una certa diffidenza. Ce ne andiamo con l’amaro in bocca, per non potere far nulla di più che scambiare gli indirizzi mail. Biko ci scriverà una mail qualche tempo dopo. Alla fine sono rientrati in Ciad attraverso l’aiuto dell’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni). Ora stanno aspettando degli aiuti per la «reintegrazione».

Epilogo

Torino, due settimane dopo.

È sera. Sto rincasando, quando sul bordo della strada scorgo un ragazzo africano che fa l’autostop. Mi fermo e lo carico.

Mi ringrazia. Subito un odore dolciastro invade l’abitacolo. Deve essere qualche profumo che utilizza. È un ragazzo molto giovane, con lo smartphone e le cuffiette. Come tutti i giovani ascolta musica. Dopo i primi minuti di silenzio gli chiedo come si chiama e da dove viene. «Vengo dalla Sierra Leone e mi chiamo Jo».

«Freetown?», chiedo io. Il nome della capitale del suo paese lo fa sussultare: «Sì – risponde sorridente – la conosci?».

Ammetto: «Non ci sono mai stato, ma conosco dov’è. Io ho vissuto in West Africa, in Burkina Faso». Il giovane si scioglie, nel tempo di un istante si crea una sorta d’intesa. Mi racconta che è in Italia da due anni e due mesi, e lo dice con precisione. Ha fatto il viaggio del deserto e poi del Mediterraneo. Ce l’ha fatta, lui. «Mi trovo bene qui», garantisce in un italiano mediocre.

Le nostre strade si dividono e lo deposito sul marciapiede. È molto contento e non fa che ringraziare. Lo saluto e vado via veloce nella notte. Ma subito penso a Michael, Biko, Evelyn e gli altri. I suoi conterranei che meno di due settimane fa ho incontrato a Niamey. Infognati in una terra di mezzo, senza più soldi e senza speranza. Con il sogno di una vita migliore infranto e nessuna voglia di tornare a casa a mani vuote. Loro non ce l’hanno fatta.

Marco Bello
con la collaborazione di Sante Altizio


Incontro con l’arcivescovo di Niamey

Essere luce nella società

La piccola ma vivace chiesa cattolica del Niger ha due pastori: monsignor Laurent Lompo e mons. Ambroise Ouedraogo. Il rapporto con l’islam è vitale, così come la comunione con le chiese protestanti. L’insegnamento è un canale importante per diffondere i valori della pace e della tolleranza, mentre la Caritas interviene in aiuto di tutti.

Incontriamo monsignor Laurent Lompo nei suoi uffici dell’arcidiocesi di Niamey. Lo avevamo conosciuto nel 2015, fresco di nomina. Lui è il primo vescovo nigerino del Niger (MC dicembre 2015).

Da quando hanno rapito padre Pierluigi Maccalli nella sua parrocchia nei pressi del confine con il Burkina Faso, il 17 settembre scorso, le preoccupazioni sono aumentate. E le riunioni di coordinamento pure. Ha poco tempo, ma accetta di parlare con noi. Notizie del missionario non ce ne sono. O meglio, il silenzio stampa è d’obbligo, per non disturbare eventuali trattative per il rilascio.

Rispetto alla problematica migratoria, cosa fa la chiesa del Niger?

«Sia nella diocesi di Niamey che in quella di Maradi abbiamo creato delle “cellule di ascolto”, per i migranti che passano. Perché il Niger è un paese di passaggio. Molti sono rimandati indietro da Algeria e Libia, tornano qui in capitale ma vogliono ripartire. Noi facciamo la pastorale dell’ascolto. Perché sono persone ferite, e credevano che migrando qualcosa sarebbe cambiato. Ritornano e sono scoraggiati. Il primo aspetto è dunque ascoltarli e ridare loro il gusto della vita e la dignità di persone. Non è perché siamo migranti che non siamo persone. Siamo pellegrini sulla terra e ognuno è chiamato ad andare all’incontro dell’altro. Il fenomeno migratorio che aumenta nei nostri paesi è il segno che le difficoltà portano la gente a cercare qualcosa in più. Ma sarà la migrazione a dare questo di più? Dobbiamo mettere il focus sui nostri paesi e su come fare in modo tale che la vita delle persone sia decente. Affinché il viaggio sia deciso effettivamente perché vogliono partire e non perché non hanno nulla e sono costretti a spostarsi.

Dobbiamo prendere la migrazione in questo doppio senso: chiunque ha diritto di viaggiare, ma se partiamo perché siamo costretti, perché non abbiamo nulla per vivere, forse dovremmo restare, qualunque sia la condizione. La maggior parte della gente che parte non ha mezzi e non sa dove andare. Molti ritornano. È con loro che lavoriamo cercando, con i mezzi che abbiamo, di ascoltarli, aiutarli a ritornare ai loro paesi. Alcuni trovano del lavoro qui, ma in Niger c’è disoccupazione, è difficile. In ogni caso noi cerchiamo di accompagnarli, soprattutto per fare in modo che ritrovino il loro equilibrio come esseri umani».

Come Chiesa, in un paese islamico, cosa fate per il dialogo interreligioso?

«Facciamo molto per il dialogo, soprattutto a partire dalla base, non solo a livello dei grandi leader. Ovvero partiamo dalle persone comuni affinché la coabitazione tra cristiani e musulmani sia buona, si abbia conoscenza di se stessi e dell’altro e ci sia mutuo rispetto. E facciamo molto attraverso una Commissione per il dialogo interreligioso e intra religioso, che ha intensificato i lavori in questi ultimi anni. Nella commissione ci sono cristiani evangelici e cattolici, e lo facciamo in direzione dei fratelli musulmani, che sono più forti. Abbiamo bisogno di stare insieme, perché siamo tutti figli di questo paese e più ci rispettiamo, più la pace avviene nel cuore, più viene nella società nigerina.

Abbiamo fatto diversi seminari su questi temi, uno nel 2016 sul dialogo, e un altro a novembre scorso concentrandoci sulla gioventù, che è uno strato sociale fragile, e manipolabile a tutti i livelli. Diciamo che se i giovani sono integrati, capiscono la propria fede, se hanno un’apertura verso il dialogo, allora noi costruiamo la pace nel nostro paese».

Lavorate molto con i musulmani, e frequentano le vostre scuole?

«Nelle nostre scuole la maggioranza degli insegnanti è musulmana, e non abbiamo avuto mai difficoltà. Tramite l’insegnamento cerchiamo di educare a dei valori che ci permettono di rispettarci gli uni gli altri, e a valori della vita che permettano a questi bambini, finita la scuola, di avere questa apertura.

A livello della Caritas del Niger, lavoriamo molto con i musulmani e i nostri aiuti sono indirizzati a tutta la popolazione senza alcuna distinzione etnica e religiosa. Operiamo per il bene di tutti. E tutti apprezzano questo nostro lavoro ancora di più, perché non facciamo proselitismo».

C’è anche l’islam radicale che si diffonde nella regione. In Niger ci sono stati episodi di violenza anticristiana nel 2015, quando alcune chiese furono date alle fiamme. Cosa fare?

«Sentiamo che un certo islam si sta radicalizzando. La gran parte sono persone che vengono da fuori, legate a certe scuole coraniche. Ma sia da parte del governo che della chiesa, lottiamo affinché l’islam nella sua generalità non prenda la forma dell’islam radicale, per evitare che ci siano dei conflitti. Facciamo questo sforzo. Negli avvenimenti del 16 e 17 gennaio 2015, non abbiamo accusato la comunità musulmana. I responsabili erano persone manipolate. Noi lavoriamo affinché questo non accada, sia da parte dei cristiani, sia dei musulmani, perché il radicalismo si può vivere in tutte le religioni. È la comprensione estremista delle nostre religioni che chiude le porte all’apertura all’altro. La negazione dell’altro rispetto a noi: è questo che porta conflitto. Noi facciamo di tutto affinché questo non capiti, non raggiunga i diversi strati sociali. E vegliamo, nelle nostre due diocesi, che si mantenga tra i cristiani uno spirito aperto e non si generalizzi rispetto all’islam. Il radicalismo, qualsiasi sia il gruppo da cui nasce, diventa un qualcosa che interroga e inquieta».

Mons. Laurent, lei è il primo vescovo del Niger di nazionalità nigerina. Chi sono i cattolici in questo paese?

 

«I cattolici sono presenti in Niger dal 1932 e penso che essi abbiano contribuito molto all’educazione in questo paese. Attraverso l’insegnamento, attraverso il dialogo della vita, la vicinanza alla popolazione. E continuiamo, malgrado il nostro numero limitato, a essere luce in questa società attraverso il lavoro ben fatto, il rispetto e l’accoglienza dell’altro senza pretese di convertire. Proclamiamo la nostra fede in Gesù Cristo che è il centro della nostra vita. Noi cerchiamo di imitarlo vivendo come lui ha vissuto, stando vicini alla gente come faceva lui.

Collaboriamo molto con le altre chiese, le chiese protestanti evangeliche, da qualche anno sentiamo un certo ecumenismo. Questo è importante per noi, perché siamo minoranze in un periodo difficile, allora ci uniamo per proclamare la nostra fede, restando aperti al popolo nigerino. Facciamo questo sforzo e siamo molto contenti della collaborazione con gli evangelici.

Realizziamo diverse attività insieme. Vogliamo che la nostra unità interroghi, in modo da essere portatori della buona notizia in questo popolo».

Che rapporti avete con le chiese vicine?

«Siamo in Conferenza episcopale con il Burkina quindi collaboriamo molto con loro. Abbiamo rapporti con la chiesa della Nigeria. Ci hanno chiesto come fare per vivere ancora più vicini ai nostri fratelli musulmani. Siamo stati io e monsignor Ambroise Ouedraogo (vescovo di Maradi) nella diocesi di Jos e siamo stati meravigliati nel vedere il lavoro che fanno i vescovi. Continuiamo nella stessa linea per essere anche noi portatori di pace nel nostro paese. Collaboreremo, perché condividiamo le stesse esperienze. Abbiamo avuto contatti anche con la chiesa algerina per le questioni della migrazione. Perché loro lavorano sul tema, e il passaggio di migranti in Algeria è importante».

Marco Bello


Archivio MC – Niger

• Marco Bello, «Ci legavano con corde e catene», aprile 2018.
• Marco Bello, Niger, frontiera d’Europa, marzo 2018.
• Marco Bello, Chiesa, dialogo contro terrore, dicembre 2015.




Deserto, il test della finitezza

La prima coppia umana è lì, in quel giardino colmo di vita da gustare. Tutto è promessa di pienezza, predisposto per il bene dell’uomo e della donna. Dio plasma il creato e lo dona loro. E li istruisce per distinguere gli alberi commestibili dagli altri, l’albero della vita e quello della conoscenza del bene e del male, che coltiveranno senza cibarsene.

Si fonda lì la loro libertà: sulla distinzione tra ciò che è disponibile al loro appetito e ciò che non lo è, sull’esperienza del limite, sulla presenza nella sazietà di un buco che rimanda ad altro, che fa sorgere il desiderio, che è il luogo nel quale si manifesta la promessa. E sull’amicizia con Dio.

La prima coppia umana è lì. Anche il serpente è lì: il più astuto tra gli animali. Egli non genera il dubbio, che è parte del desiderio, ma insinua il sospetto, che è anzitutto un taglio di fiducia, un tarlo di relazione che trasforma il desiderio in brama. Basta un attimo, e la conoscenza del bene e del male è divorata. Il limite rimane tale, ma è rifiutato. La libertà è compromessa.

L’uomo e la donna si nascondono, ora. Si vergognano di ciò che sono, della loro nudità. E il Signore inizia lì la sua ricerca. Come uno sposo che cerca la sua innamorata nella notte per coprirla con una veste tessuta dalle sue mani e riportarla nel suo amore.

Gesù è nel deserto. Sta al di là del Giordano, come Israele sotto la guida di Mosè prima di entrare nella terra promessa per dare vita al suo regno. Regno di uomini costruito sul sangue, quello d’Israele, Regno di Dio sotto il segno della debolezza, quello che Gesù realizzerà.

Sta nel deserto quaranta giorni Gesù. Sospinto dallo Spirito santo, vi sperimenta il limite dell’uomo, ciò che gli è indisponibile, la sua finitezza. Prova fame, ma pur essendo figlio di Dio non trasforma la pietra in pane, prova rabbia per il sangue sparso dalle guerre e dalle ingiustizie, ma non trasforma il mondo in un paradiso terrestre, prova pena per gli uomini persi dietro chimere inconsistenti, ma rifiuta di attirarli a sé tramite uno spettacolo di potenza divina.

Gesù sta lì. Abita il limite, non lo divora. Lo ama. Ama la libertà giocata nella condizione umana. Ama l’uomo, la finitezza dell’uomo che è la dimora dell’infinita possibilità d’affidarsi.

Non di solo pane vive l’umanità, ma di una promessa già realizzata e non ancora, e rinnovata da Lui, il crocifisso risorto.

Buon cammino nel deserto, buona Quaresima,

da amico.

Luca Lorusso


Pennellate di Kenya

Padre Nicholas Muthoka ci manda dal suo Kenya una foto del paese e della Chiesa locale. Come in ogni foto, le ombre mettono in risalto le forme e i colori.

Sono in modalità vacanza, tranquillo, senza pensieri e, onestamente, alla ricerca di un po’ di svago.

È l’imbrunire ed esco dalla nostra tranquilla casa regionale dei missionari della Consolata a Westlands, Nairobi, per fare una passeggiata.

La capitale del Kenya è una città caotica, popolatissima e inquinata all’ennesima potenza. La gola si irrita quando esci di casa.

Cammino per strada. Ci sono macchine che corrono e gente che attraversa in modo disordinato e spesso pericoloso. Noto un ragazzino sui 13 anni che gioca, da solo, sul bordo della strada. Fa le capriole e altra ginnastica. Si diverte. È sporco e nessuno lo guarda, e neanche lui si lascia guardare.

Ragazzi di strada

È uno dei tanti ragazzi di Nairobi cresciuti in strada, duri e pericolosi, almeno all’apparenza. Ho paura, perché ho con me un nuovo cellulare che un parrocchiano mi ha regalato a Natale e non vorrei che questo qui me lo rubasse, ma mi si stringe il cuore. Che un bambino di quell’età viva in quelle condizioni mi sembra disumano. Poi mi viene in mente la parabola del buon samaritano, di quel malcapitato sulla strada verso Gerico, dei tre personaggi che gli passano accanto, e mi interrogo.

Ho paura, ma vorrei anche aiutarlo, e non so cosa decidere. «D’altronde – mi giustifico -, ci sono migliaia e migliaia di altri ragazzi di strada così per la città, posso mica aiutarli tutti». Alla fine, vado in un fast food lì vicino, compro delle patatine fritte e gliele porto.

Mi guarda incuriosito e le prende. Mentre mangia, facciamo due parole. Gli chiedo il nome: James.

Ricchi e poveri nella stessa chiesa

Mi sono riproposto di andarlo a trovare altre volte e mettermi in contatto con qualche organizzazione o casa di accoglienza per ragazzi di strada. Come missionari ne abbiamo una proprio qui a Nairobi, «Familia ya ufariji».

Accanto a questo ragazzo, passavano macchine grosse, attorno a lui grattacieli modernissimi, tanta gente, ogni persona con i suoi pensieri e la propria vita. Il Kenya è un paese in forte crescita economica e anagrafica. Sono molte le persone che fanno grande fortuna con il commercio, gli investimenti e la corruzione, mentre altri giacciono nella povertà, nelle malattie e nell’ignoranza. La classe media stenta a crescere mentre la forbice tra ricchi e poveri aumenta. La cosa assurda è che questi ricchi e poveri si trovano spesso negli stessi banchi della chiesa.

Comunità vive e accoglienti

Le comunità qui in Kenya sono spesso osannanti ed esuberanti. La domenica è bella, anzi bellissima. Trovi comunità vivaci che celebrano l’eucarestia in modo gioioso e convinto.

Non ho le statistiche sottomano, ma ho l’impressione che negli ultimi anni i numeri siano aumentati. Le chiese sono piene e si sono moltiplicate le realtà ecclesiali.

Ho l’occasione di partecipare alla messa nella parrocchia di Tassia, qui a Nairobi, dove lavorano due sacerdoti fidei donum di Torino, don Paolo Burdino e don Daniele Presicce.

La parrocchia è inserita in un quartiere davvero povero, popolazione numerosissima, ambiente maleodorante, ma, anche qui, ho incontrato una comunità viva e accogliente.

Si celebra la messa senza fretta. Mentre siamo all’altare, don Paolo, che è stato parroco nell’arcidiocesi di Torino per molto tempo, mi dice: «Per avere tanta gente così in Italia, bisogna mettere insieme un po’ di parrocchie! Qui ce n’è tutte le domeniche, per tre messe di fila». I due sacerdoti hanno infatti il progetto di allargare la chiesa.

Chiese sempre più grandi

A proposito di lavori: un po’ ovunque, qui, le parrocchie sembrano cantieri, stanno facendo opere per allargare le chiese e le strutture parrocchiali, o per farne di nuove, più grandi e spaziose, mentre in Europa non sappiamo che farne. Anzi, delle grandi strutture, si cerca a fatica di disfarsene.

Bene, in Africa, in Kenya in particolare, sembra essere un momento di gloria.

Volti stanchi e induriti

Nei villaggi e nelle campagne, la vita pian piano migliora, ma è ancora dura. Lo si capisce dai volti stanchi e induriti di uomini e donne.

Sono ancora molte le persone che non hanno acqua potabile e devono fare chilometri per andare nei fiumi o scavare buche nella sabbia. Molti i ragazzi che fanno fatica ad andare a scuola, anche se il governo cerca di agevolare il più possibile l’istruzione pubblica.

Una Chiesa chiamata alla santità

La Chiesa del Kenya, e dell’Africa in generale, rappresenta una bella pagina della storia universale dell’evangelizzazione. I missionari hanno seminato, il numeroso e giovane clero locale, gli istituti di vita consacrata e i laici locali, continuano ad arare, irrigare. Ma, come dice san Paolo, è il Signore che fa crescere. Davvero si prova, da una parte, una bella sensazione a vedere la comunità cattolica così piena di vita e propositiva, ma, allo stesso tempo, ci si affida al Signore, perché le sfide e i peccati non mancano e sono anche enormi.

Questa Chiesa sarà chiamata a coinvolgersi sempre di più nella lotta contro la povertà, la corruzione e le grandi disuguaglianze che rendono disumana la società.

Se vorrà continuare a essere significativa nel lungo corso della storia, ho la sensazione che dovrà produrre santi, ed essere autentica e trasparente, cioè, capace di quella santità che inietta nella società i valori eterni del Vangelo.

Nicholas Muthoka


Ciao padre Giordano

Padre Giordano Rigamonti, 80 anni, dopo una vita spesa per il Signore e per Maria Consolata, per l’Africa e per i giovani, è andato alla casa del Padre il 30 dicembre scorso. Ecco il ricordo, pronunciato al funerale, di uno dei suoi amici e compagni di cammino.

Non so se sono degno di parlare in questo momento. Ciascuno di noi avrebbe un milione di cose da dire oggi, molto meglio di me. Ciascuno di noi ha trascorso un pezzo della sua vita con lui, è stato coinvolto, trascinato, appassionato, ha fatto del bene con lui.

Conosco padre Giordano da 35 anni. Come molti qui presenti, sono andato in Africa la prima volta grazie a lui. Ho partecipato a convegni missionari giovanili, congressi, manifestazioni, mostre… tutto grazie a lui e ai missionari della Consolata.

Sono un figlio dei missionari della Consolata.

Sono un figlio di padre Allamano. Sono figlio di padre Giordano. Sì, perché se è vero che di mamma ne abbiamo una sola, sono convinto che i padri sono tutti coloro che nel corso della vita ci aiutano a crescere. Lui è mio papà come è padre per molti di noi qui presenti.

Padre Giordano è così: non riesce mai a tenere il suo entusiasmo, i suoi ideali, la sua fede, Dio, le sue sfide e il suo ardore missionario solo per sé.

Dal profondo del cuore deve raccontarlo a tutti, deve raccontarlo al mondo.

Da quando è arrivato a Torino nel 1982 si è lanciato, da vero innamorato di Dio e della missione, instancabile, in una miriade di iniziative, tutte volte a far conoscere l’amore di Dio per l’uomo e padre Allamano, fondatore dei missionari della Consolata.

L’animazione missionaria al Cam (Centro di animazione missionaria) e nelle parrocchie, i convegni, l’impegno con Facciamo pace durante la guerra in Bosnia, l’Expo Missio durante il Giubileo del 2000 e, per ultimo, forse una delle sue più belle creature: Impegnarsi serve.

Caro Padre Giordano, ci ritroviamo oggi qui ad augurarti buon viaggio, come tu hai fatto con noi e con centinaia di giovani e adulti che hai inviato nel mondo per fare un’esperienza missionaria.

Attraverso l’associazione Impegnarsi serve, hai voluto formare tutti noi per renderci dei missionari, non solo in terre lontane, ma anche qui fra le vie delle nostre città.

Ci hai fatto conoscere e amare l’Allamano, per farci sentire parte della famiglia dei missionari e far sentire nostri i suoi comandamenti.

Di questi ho sempre pensato che tu li seguissi tutti, tranne uno: quello che dice: «Fate bene il bene e senza rumore». Tu di rumore ne hai fatto eccome, e ce ne fai fare ancora tanto, per attirare l’attenzione della gente e condurla alla visione della giusta prospettiva, nelle piazze, fra i banchi di scuola, con convegni, mostre, spettacoli, cene, messe. E tu eri sempre in prima fila, per condurci e seguirci allo stesso tempo.

Per citare una frase che dicevi spesso, ci hai lanciato tante «provocazioni» e tante «sfide», sfide che a volte avevamo timore di accettare, perché ci sembravano troppo grandi per le nostre forze. Ma tu ci hai sempre spronati a provarci e ad affidarci alla Divina Provvidenza e al supporto di Maria Consolata.

Sei stato per molti di noi un grande amico. Ci hai accompagnati nelle fasi belle della nostra vita e ci ha sostenuti nelle fasi più dure.

Resti per noi un esempio di instancabile servo di Dio, con un entusiasmo missionario che ha saputo contagiare tantissime persone.

Ora l’entusiasmo che ci hai trasmesso deve farci ripartire da qui, senza la tua presenza. Ma tu non lasciarci soli, continua a seguirci da lassù e a guidare i nostri passi perché possiamo ancora fare bene il bene e riusciamo a insegnarlo anche alle generazioni future.

Grazie Giordano! Ci mancherai tanto, ma ti promettiamo che il tuo ricordo continuerà a vivere forte in ognuno di noi e a essere di ispirazione per condurre una vita fatta di servizio e di aiuto verso gli altri.

Kwa heri Padre Giordano, Tutaonana!

I tuoi amici di Impegnarsi Serve
Testimonianza di Angelo D’Auria, letta durante il funerale di padre Giordano a Rivoli (To) il 02/01/2019




Cuori aperti


«Fratelli, vivete la vostra fede in Gesù Cristo, nostro Signore glorioso, senza ingiuste preferenze per nessuno», scrive Giacomo (Gc 2,1). «Facciamo un esempio»: con l’aereo arriva CR61, ricco, aitante e famoso, «voi vi mostrate pieni di premure e dite»: ecco qui un bel po’ di milioni per farci incantare dalla tua fama. «Viene anche uno che è povero e vestito male»; è scuro di pelle e arriva dal mare, tale Pacchia 18i. A lui, invece, dite: rimani sulla nave, che ti rimandiamo da dove sei venuto, ladro di lavoro, insidiatore di donne, mangiatore a ufo. «Se vi comportate così, non è forse chiaro che fate delle differenze tra l’uno e l’altro e che ormai giudicate con criteri malvagi?» (Giacomo 2,1-4).

Il testo di Giacomo non è proprio così, ma forse lo sarebbe stato se lo avesse scritto nell’Italia e nell’Europa di oggi contagiate da sovranismi, populismi, xenofobie, nostalgie vetero-cattoliche e rigurgiti antipapisti o, meglio, anti-Francesco. Avrebbe detto parole di fuoco in questa nostra Europa che sembra avvinta da un identitarismo cristiano di facciata («appartenere e credere senza praticare») cavalcato da tanti politici. Una pseudo identità cristiana che trova alleati in certi movimenti politici e religiosi che vedono nel Vaticano II, e soprattutto in Francesco, lo stravolgimento della Chiesa. E in nome di questa presunta identità cristiana si costruiscono muri, si difendono privilegi, si giustificano intolleranza, esclusioni, razzismi e violenze. «Non è forse chiaro che fate delle differenze tra l’uno e l’altro e che ormai giudicate con criteri malvagi?», dice Giacomo.

La logica del Vangelo è diversa, e ce lo ricorda Francesco: «[La] trasmissione della fede avviene dunque per il “contagio” dell’amore, [essa] esige cuori aperti, dilatati dall’amore. All’amore non è possibile porre limiti: forte come la morte è l’amore (cfr Ct 8,6). E tale espansione genera l’incontro, la testimonianza, l’annuncio; genera la condivisione nella carità con tutti coloro che, lontani dalla fede, si dimostrano ad essa indifferenti, a volte avversi e contrari. Ambienti umani, culturali e religiosi ancora estranei al Vangelo di Gesù e alla presenza sacramentale della Chiesa rappresentano le estreme periferie, gli “estremi confini della terra”, verso cui, fin dalla Pasqua di Gesù, i suoi discepoli missionari sono inviati, nella certezza di avere il loro Signore sempre con sé (cfr Mt 28,20; At 1,8). In questo consiste ciò che chiamiamo missio ad gentes» (Messaggio per la Giornata missionaria mondiale 2018).

Essere dalla parte del Vangelo è fare scelte concrete di Amore che contestano il modo farisaico di vivere una religione centrata sul sacro e sull’esteriorità e che non disturba né l’economia che sfrutta l’uomo e l’ambiente (a beneficio di pochi straricchi), né la politica autoritaria e populista che offre false sicurezze e utopie. Le scelte d’amore sono scelte che si pagano, a cominciare dagli insulti sui social, dalla violenza e intolleranza subite quotidianamente, legittimate dal vocabolario e dallo stile di chi dovrebbe essere al «servizio» del bene comune. E questo è vero non solo nel mondo della politica, ma anche all’interno della Chiesa stessa, dove – è triste scriverlo – si consumano gli attacchi più feroci proprio contro papa Francesco, autentico testimone della misericordia di Dio.

La Chiesa di Gesù è nel mondo senza accettare la logica del mondo, cosciente delle sue debolezze ma anche della forza della Parola di cui è custode e testimone. La Chiesa di cui siamo parte che non è il Vaticano, quel chilometro quadrato della città di Roma ricco di bellezza e, allo stesso tempo, segnato da contraddizioni e scandali. La Chiesa non è solo vescovi e preti, religiosi e suore. Troppo comodo pensarla così e denigrarla per gli eventuali scandali di chi dovrebbe essere esempio di santità, generalizzando, dimenticando le testimonianze meravigliose di chi senza rumore e pubblicità paga di persona, anche con la propria vita, ignorando le malefatte che anche i «laici» commettono quotidianamente.

La Chiesa è di ogni cristiano, di ogni battezzato: la mia Chiesa, la tua, la nostra Chiesa, di cui siamo pietre vive, nella quale siamo attori, non spettatori o giudici. La nostra «Madre» Chiesa, «santa e prostituta», come scrivevano i Padri, che impoveriamo con le nostre debolezze, ma rendiamo splendida se «con le nostre opere belle» facciamo sì che gli uomini «rendano gloria al Padre nostro che è nei cieli» (cfr Mt 5,16).

Gigi Anataloni

 

1.«CR6». Dicono sia CR7, ma il 7 nella Bibbia è il numero della perfezione, meglio il 6, un po’ imperfetto…




Diario dal V Congresso missionario americano (Cam)


Lo scorso luglio, a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia, si è tenuto il quinto «Congresso missionario americano» (Cam V) con migliaia di partecipanti provenienti da 24 paesi. Si è parlato delle sfide della Chiesa cattolica nel continente in un ambito sempre più secolarizzato e pluriculturale. Il diario di quelle giornate e qualche riflessione.

Il congresso precedente si era tenuto a Maracaibo, in Venezuela, dal 26 novembre al 1° dicembre 2013. In esso, i missionari che operano nel continente americano erano stati invitati a condividere la loro fede e a riflettere sulla missione dal punto di vista del discepolato in un mondo secolarizzato e pluriculturale. Alla sua conclusione venne annunciato che l’edizione successiva si sarebbe svolta in Bolivia. E così è stato.

Dal 10 al 14 luglio scorso, nella città di Santa Cruz de la Sierra, si è tenuto il quinto Congresso missionario americano (Cam V) sotto il titolo di «America in missione, il Vangelo è gioia».

Ha coinvolto circa 3.150 partecipanti provenienti da 24 paesi tra cui circa 90 vescovi, 2 cardinali, 450 sacerdoti e 2.600 delegati oltre a 1.500 famiglie boliviane offertesi per ricevere i pellegrini.

Come si ricorderà, i Cam nacquero grazie all’ispirazione e alla promozione delle Pontificie opere missionarie in collaborazione con le Conferenze episcopali americane e rappresentano un’evoluzione dei Comla (Congressi missionari latinoamericani), il primo dei quali si tenne in Messico nel 1977.

CAM 5, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, luglio 2018: davanti alla cattedrale di San Lorenzo. Foto: Jaime Patias.

La cattedrale di San Lorenzo

Lo scenario per la messa inaugurale del Congresso non avrebbe potuto essere più suggestivo: il sagrato della cattedrale di San Lorenzo. Dalla sua facciata pendeva un manifesto con l’immagine della Beata Nazaria Ignacia (1889-1943), fondatrice delle missionarie Crociate della Chiesa che sarà canonizzata il 14 ottobre a Roma (insieme a Paolo VI e Oscar Romero, ndr).

Per la celebrazione eucaristica si sono riuniti vescovi, preti e due cardinali: il rappresentante pontificio Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, e il boliviano Toribio Ticona, indigeno quechua, recentemente nominato da Papa Francesco.

Dopo la lettura della lettera inviata dal pontefice e il protocollo di saluto, tipico di queste occasioni, è iniziata la messa, presieduta dal cardinale Filoni.

Durante la sua omelia, l’inviato del papa ha invitato il Congresso a «non perdere di vista il vero scopo della missione della Chiesa, che è quello di mettere Gesù al centro, con il nome e il cuore, altrimenti si corre il rischio di fare qualcosa di diverso, una semplice filantropia, che alla fine si rivelerà vuota e priva di credibilità».

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Testimoni e profeti

Il convegno ha il suo inizio vero e proprio l’11 luglio. Ogni mattina verso le 8 le diverse delegazioni si riunivano nell’auditorium del collegio Don Bosco dei salesiani. Bandiere, mantelli, canzoni e slogan riempivano gli spazi fino al momento della preghiera. Poi l’atmosfera cambiava di tono per lasciare posto alla preghiera del mattino incentrata su alcuni temi: «Il Vangelo è gioia» (mercoledì), «Per la riconciliazione e la comunione tra i popoli» (giovedì) e «Essere missionari testimoni ci rende profeti» (venerdì).

Piatto forte dei tre giorni sono state cinque lezioni magistrali. La prima è stata pronunciata da mons. Guido Charbonnea, vescovo della diocesi di Choluteca, Honduras, sul tema: «La gioia appassionante del Vangelo». L’arcivescovo Charbonnea ha esortato i membri del Congresso a «scoprire le chiavi che il messaggio cristiano ci mostra per arrivare alla felicità».

La seconda, intitolata «Annuncia il Vangelo al mondo di oggi», è stata proposta da mons. Santiago Silva, vescovo castrense e presidente della Conferenza episcopale del Cile. Con uno stile molto particolare e diretto, in piedi sotto il tavolo d’onore, il vescovo ha invitato a imitare Gesù ed evangelizzare attraverso la nuova identità cristiana perché «nel mondo di oggi è essenziale assumere un ruolo di testimonianza che richiede di dare segnali come il perdono, la solidarietà e la misericordia».

Il direttore dell’agenzia giornalistica Fides – Bolivia, padre Sergio Montes, ha sviluppato il tema «Testimoni discepoli di comunione e di riconciliazione». In questa terza conferenza il sacerdote ha detto che un mondo lacerato, frammentato e diviso reclama riconciliazione e una comunione che «esige l’esodo da sé per vivere l’incontro con l’“altro”, o l’“altra”, per riconoscerlo come fratello e sorella con un destino comune».

Con il suo stile personale, da queste parti conosciuto e apprezzato, mons. Luis Augusto Castro, arcivescovo di Tunja, in Colombia, ha presentato la quarta conferenza dal tema: «Profeta e missione». In essa l’arcivescovo di Tunja, ha spiegato cos’è un profeta, ha fatto un viaggio attraverso la vita e il ministero di alcuni dei profeti biblici, la loro sensibilità per le esigenze della giustizia e della misericordia, la loro opposizione all’idolatria e ai rivali di Dio concludendo che «il profeta interpreta i segni dei tempi dal punto di vista di Dio e della sua alleanza. La sua vita e la sua esperienza incarnano un nuovo modo di vedere gli altri, il potere e il sacrificio. Egli disegna un sistema di valori basato sulla consegna e sulla solidarietà. Vede con occhi nuovi».

L’oratore, inoltre, ha offerto ai partecipanti degli spunti che un missionario può seguire per diventare profeta. In questo senso ha sottolineato che il profeta non rimane in silenzio, anticipa, parla chiaramente, è un discepolo ed è giusto.

La quinta conferenza è stata tenuta da Vittorino Girardi, vescovo emerito di Tilarán – Liberia, Costa Rica, sul tema: «La missione ad gentes in e dall’America». Il vescovo ha detto che i missionari non possono separare i contenuti della missione e l’essere di Dio: «Gesù è una sola cosa e tutto vive in funzione di ciò che Egli è. E Gesù si autopercepisce come l’inviato e il missionario».

Nel pomeriggio, il Congresso si divideva in sottogruppi per confrontarsi sugli argomenti delle conferenze. Si sono poi realizzati quattro incontri su tematiche molto interessanti: «Comunicazione e Missione», «Missione e pastorale universitaria», «Nuove prospettive della missiologia» e «L’infanzia e l’adolescenza missionaria». Per continuare con questa dinamica, si sono tenuti 12 laboratori in cui si sono condivise esperienze di vita con giovani, bambini, famiglie, sulla cura per il Creato, sulle migrazioni, sugli altri. Un momento molto importante ha avuto luogo la mattina di sabato 14. La maggior parte dei partecipanti sono stati convocati presso le rispettive parrocchie ospitanti e da lì sono usciti a due a due per visitare le famiglie e annunciare loro la Parola di Dio.

Molti di loro ci hanno poi raccontato, un po’ divertiti, che alcune famiglie avevano esitato ad aprire la porta di casa perché non potevano credere che c’erano cattolici che predicavano nelle strade.

Gli obiettivi per il futuro

La messa conclusiva del Congresso si è svolta nel pomeriggio di sabato 14 luglio, presso l’altare di Cristo Redentore, preparato in occasione della visita del Papa (del luglio 2015, ndr). È stata presieduta da mons. Sergio Gualberti, arcivescovo di Santa Cruz.

Prima dell’inizio della messa, le conclusioni proposte sono state lette come obiettivi su cui lavorare in futuro. Li presentiamo qui di seguito in punti riassuntivi:

  1. educare alla gioia del Risorto e delle Beatitudini;
  2. andare nelle periferie del mondo per incontrare gli «altri»;
  3. incoraggiare la conoscenza della Bibbia e dei Vangeli;
  4. promuovere le comunità di vita missionaria;
  5. promuovere la comunione dei beni nella Chiesa e con i poveri;
  6. promuovere la riconciliazione in tutti gli ambiti della vita;
  7. promuovere la consapevolezza della missione profetica e liberatrice in tutte le sfere sociali;
  8. l’evangelizzazione della famiglia come chiave cristiana della trasformazione sociale e culturale;
  9. promuovere una Chiesa missionaria più ministeriale e laicale;
  10. promuovere e prendersi cura delle vocazioni alla vita sacerdotale e religiosa e, infine,
  11. celebrare la fede e la religiosità popolare in chiave missionaria.

A chiusura, l’arcivescovo Gualberti ha pronunciato un’omelia in cui ha ringraziato tutti coloro che hanno reso possibile l’incontro. Successivamente ha sviluppato il tema «Scalare la montagna del Signore». Il monsignore ha parlato chiaramente e ad alta voce dei problemi che affliggono il nostro mondo (riquadro a pagina 27).

Alla fine dell’Eucaristia, mons. Gualberti ha imposto la croce missionaria a quattro persone, tra cui una coppia che lavorerà a Cuba. È stato anche annunciato che Puerto Rico ospiterà, nel 2023, il prossimo Congresso missionario americano.

Lavori di gruppo al Cam V

Gli aspetti negativi e quelli positivi del Cam V

Fin qui la cronaca. Anche questa volta – però – a parere dello scrivente si è ripetuto il copione dei congressi precedenti: slogan assordanti, simboli logori per la loro ripetitività, celebrazioni eucaristiche da una parte rigide e «romane» e dall’altra cariche di simboli più folkloristici che liturgici, processioni di doni che dovrebbero essere spiegati stante l’impossibilità di parlare da sé, i tentativi (per lo più infruttuosi) di sottolineare il tema della «missio ad gentes» per molti – tra cui molti pastori – passata di moda. E la lista potrebbe continuare.

Inoltre, anche se in questa occasione si è cercato d’introdurre in maniera più consistente il tema del ruolo delle donne nella Chiesa, a nessuna è stata affidata una lezione magistrale. E sì che ci sono donne preparate a livello teologico e pastorale.

Evidenziati questi punti negativi, va però detto che, fortunatamente, sono state di più le cose positive. La scelta della Bolivia come paese ospitante, nonostante tutte le sue difficoltà; la lunga preparazione; l’impegno delle Chiese locali nello scegliere e mandare persone che garantissero la continuità del cammino aperto dal Cam V; l’accoglienza di parrocchie, cappellanie, rettorie e comunità religiose, tutti soggetti che si sono anche incaricati di trovare le famiglie ospitanti.

Proprio queste si sono trasformate in un’estensione dell’abitazione di ogni partecipante dove tutti si sentivano come a casa: tutti benvenuti, anche oltre le possibilità. A causa della ristrettezza degli spazi disponibili molte famiglie hanno ceduto la migliore camera, il letto migliore e anche il migliore cibo. In molti hanno fatto in modo di essere (a volte a tarda notte) in aeroporto in attesa dei propri missionari.

Bello, caldo ed efficiente è stato il servizio fornito da centinaia di volontari (medici, paramedici, infermieri, polizia stradale, funzionari di migrazione…), per lo più giovani.

Contagiosa la testimonianza dei missionari e missionarie laici, tra cui alcune intere famiglie con esperienze di missione fino a 30 anni in situazioni difficili e di povertà.

Sono stati molti i partecipanti che, per raggiungere la destinazione, hanno dovuto fare giorni e giorni di strada e voli estenuanti a causa di itinerari con soste infinite. Per alcuni un volo che, in condizioni normali, poteva durare un massimo di 8 ore è durato fino a 24.

Abbondano dunque le ragioni per affermare che valeva la pena di essere a Santa Cruz, in Bolivia, al Congresso missionario americano dove abbiamo trovato una buona parte di quella chiesa pasquale e missionaria che sta prendendo sul serio l’invito di Papa Francesco a uscire e andare nelle periferie esistenziali per comunicare la gioia del Vangelo.

Jorge García Castillo
(traduzione e adattamento di Paolo Moiola)


L’intervento finale

Scalare la montagna

La sintesi del discorso di chiusura di mons. Sergio Gualberti, arcivescovo di Santa Cruz de la Sierra e presidente del Cam V.

Mons. Sergio Gualberti, CAM 5, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, luglio 2018. Foto: Jaime Patias.

Come cattolici siamo chiamati a scalare la montagna della solidarietà, della giustizia e della vita, una vita degna per tutti i figli di Dio per superare la povertà, che ancora mantiene in condizioni disumane troppi fratelli e sorelle nel nostro continente. La povertà è il risultato di un sistema ingiusto e mercantilista in cui l’economia è al di sopra dell’uomo e arricchisce i ricchi a spese dei poveri, una moltitudine di poveri sempre più poveri. Un sistema che scarta gli anziani, i bambini, gli orfani e gli abbandonati come tanti fratelli indifesi; un sistema che discrimina le donne, in particolare le madri single e sole.

Scalare la montagna della fraternità e dell’uguaglianza camminando insieme a tante e grandi persone che lasciano i nostri paesi e cercano una patria che garantisca condizioni di vita dignitose per loro e le loro famiglie e che invece si scontrano contro i muri della xenofobia e della vergogna. Muri che separano i bambini dai loro genitori e che discriminano a causa delle loro origini e condizioni personali e sociali. Muri da demolire per costruire ponti di umanità, fraternità e solidarietà.

Scalare la montagna della pace per contrastare nei nostri paesi la corsa alle spese militari e coloro che credono nella logica del più forte, che promuovono l’odio e la paura e la diffidenza tra i nostri popoli, tagliando le risorse che servirebbero per creare posti di lavoro, per superare la povertà e attuare politiche sociali al servizio di tutti, specialmente degli ultimi e degli emarginati. «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (Isaia 2,4).

Scalare la montagna dell’amore e del matrimonio accompagnando le famiglie a stabilirsi nella casa del Signore, in cui esse si ritrovano come chiese domestiche, come luoghi fondati sulla fede, l’amore, la comunione, la riconciliazione e il perdono, e come sacrari di vita e scuole di umanizzazione. Le nostre famiglie che spesso camminano senza meta, colpite nella loro integrità a causa della povertà, delle migrazioni, delle separazioni e dei divorzi e costantemente molestate da correnti ideologiche colonizzatrici che mettono in discussione l’identità stessa della famiglia basata sull’amore esclusivo e fedele fino alla morte tra un uomo e una donna aperti alla vita e all’educazione dei bambini secondo i valori del Vangelo e delle nostre culture indigene.

Scalare la montagna della luce e della verità come cristiani consacrati alla verità del Signore smascherando le menzogne e gli errori della cultura individualista e relativista che è alla base della società dei consumi. Società in cui il consumo di beni superflui e lo sfruttamento irrazionale e indiscriminato delle risorse naturali hanno causato ferite mortali alla nostra sorella la madre terra, e le cui prime vittime sono i nostri fratelli indigeni privati del loro habitat vitale.

Scalare la montagna della comunione della nostra Chiesa dove tutti mettiamo i nostri carismi al servizio della comunità e del Regno di Dio. Dove i ministeri laici, in particolare delle donne, siano riconosciuti e trovino lo spazio che compete loro dal battesimo.

Scalare la montagna della riconciliazione e del perdono per percorrere i sentieri della conversione sincera della nostra Chiesa davanti alle infedeltà, le divisioni, le gelosie e contro testimonianze di tanti dei suoi figli che scandalizzano il mondo.

Uniti e riconciliati, dobbiamo camminare insieme come un unico popolo di Dio, testimoniando una comunione sincera e profonda che è il primo servizio alla missione in modo che il mondo sappia chi ci ha mandato.

[…] «Come mi hai mandato nel mondo, anch’io ti mando nel mondo in modo che la tua voce e le tue parole si diffondano in tutta la terra fino ai confini del mondo». Accogliamo con entusiasmo e gioia la sfida che il Signore lancia a tutti e a ognuno di essere profeti della Sua Parola, il Verbo della vita, della giustizia e dell’amore senza essere intimiditi dalle nostre debolezze, difficoltà e incomprensioni, e così sperimentare quanto belli sono i piedi di coloro che annunciano il Vangelo nella nostra America e oltre il nostro continente. […]

mons. Sergio Gualberti
(trascrizione di Lourdes González,
(traduzione e adattamento di Paolo Moiola)

CAM 5, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, luglio 2018. Foto: Jaime Patias.


La testimonianza

È finito il tempo dei navigatori solitari

Le riflessioni del superiore generale dei missionari della Consolata, al suo primo Cam.

Prima di tutto mi piace sottolineare che il quinto Congresso missionario americano (Cam V) – il primo a cui io ho partecipato – è stato un’esperienza ricchissima di Chiesa. Al Congresso hanno partecipato giovani e meno giovani, sacerdoti, vescovi, religiosi, religiose, seminaristi e laici di tutto il Continente e anche da altri paesi. Qui ho sentito davvero che la Chiesa è universale ed è madre perché raccoglie tutti i suoi figli e figlie provenienti da ogni parte e dà ad ognuno la possibilità di sentirsi famiglia e poter sviluppare tutti i propri doni e qualità. In quelle giornate abbiamo respirato la missione e capito – sia dalle parole che dai segni – che senza missione non c’è Chiesa, non c’è Vangelo.

In secondo luogo, mi piace sottolineare la dimensione della gioia, della festa. Lo slogan del Congresso era: «Annuncia la gioia del Vangelo». L’America è viva, piena di giovani e di voglia di ballare, di vivere di stare assieme. La gioia è una caratteristica di questi popoli e culture e al Congresso essa si è manifestata in tutte le sue forme. Davvero la Chiesa deve recuperare questa dimensione gioiosa della fede. Credo che per troppo tempo abbiamo predicato una fede di rinuncia e sacrificio: è giunta l’ora di predicare la gioia di essere cristiani e di annunciarla con tutta la nostra forza cantando e celebrando la vita.

Il nostro Fondatore, il Beato Guseppe Allamano, diceva che un missionario deve essere gioioso e che questa gioia nasce dalla fede, dal sentirsi vicini al Signore. È questo che a Santa Cruz de la Sierra è stato ripetuto affinché ognuno di noi lo custodisse nel proprio cuore come tesoro prezioso per portarlo nel proprio ambiente dove annunciare la gioia del Vangelo. Infine, mi piace condividere alcuni punti che possono essere importanti anche per il nostro percorso di missionari della Consolata.

Al Congresso, in diverse forme, è stato ripetuto che oggi la missione non si può più fare da soli, che dobbiamo aprirci e collaborare con tutte le forze che vogliono viverla, primi fra tutti i laici. Come ci ha insegnato la Redemptoris Missio, la missione non è opera di navigatori solitari, ma di discepoli missionari aperti, sensibili e solidali.

In secondo luogo, in diverse maniere è stato ripetuto che la missione è il paradigma della Chiesa, ma che essa è anche più grande della Chiesa perché va oltre, grazie a tutte le sue persone che cercano e lavorano per il bene dell’umanità. Siamo umili servitori, insieme a tanti altri conosciuti e sconosciuti, della presenza del Regno e questa è la nostra gioia e la nostra forza.

Per ultimo, credo che il Congresso missionario di Santa Cruz de la Sierra ci abbia ricordato che il cammino di rivitalizzazione e ristrutturazione in una visione di missione continentale, che come Istituto abbiamo iniziato, sia in sintonia con quanto sta vivendo la Chiesa: che se, da una parte, essa deve lanciarci in una missione contestualizzata, dall’altra non deve farci dimenticare la sua dimensione universale. Perché siamo persone appartenenti a tutta l’umanità, nonché fratelli di tutti i popoli e di tutte le culture.

Stefano Camerlengo

Padre Camerlengo tra i concelebranti


Missionarie, missionari e laici della Consolata presenti al Cam V:

  • Sr. Maria Conceição Nascimento da Silva
  • Sr. Emma Eganda
  • Sr. Hannah Wambui Ndung’u
  • Sr. Marisa Soy
  • P. Stefano Camerlengo
  • P. Jaime C. Patias
  • P. Micarnel Mutinda Munywoki
  • P. Robério Crisóstomo da Silva
  • P. Stephen Gichohi Ngari
  • P. Stanslaus Joseph Mnyawami
  • Mons. Luis Augusto Castro
  • Mons. Francisco Munera
  • Ugo Gomes
  • Mariana Gomes
  • Jose Luis Andrade
  • Danmary Mujica

CAM 5, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, luglio 2018. Foto: Jaime Patias.




Cari missionari


Pensieri serali

È da molto tempo che nel silenzio della sera mi arrovello su problemi teologici, esistenziali, sociali. Ultimamente mi sono concentrato sulla Chiesa come istituzione. Duemila anni di storia ci hanno consegnato una struttura a piramide molto carente.

La struttura piramidale di cui inconsapevolmente facciamo parte come cristiani cattolici ci obbliga a rileggere la nostra fedeltà per non diventare come un gregge belante servito non da uomini di Dio ma da cattivi maestri. Maestri che per i media diventano specchio per ingigantire la negatività della chiesa rendendola a tutti gli effetti matrigna, rovesciandone i valori ed i contenuti.

Il servizio dei nostri maestri non dovrebbe essere quello di sfoare proseliti o vendere prodotti ma quello di formare e far crescere un fedele che non sia orbo, sordo, supino e obbediente al volere di pochi benedetti e intoccabili, ma che abbia la capacità di essere libero nei giudizi e nelle critiche, senza scomunicare chi pensa e osserva con metro di giustizia proporzionalmente diverso (vedi preti del dissenso).

Un fedele attento osservatore di un’involuzione e di atteggiamenti che nulla hanno a che fare con scelte di vita e di fratellanza di una comunità pensante e che crede a ciò che sta scritto nelle Sacre Scritture e nei Vangeli, non può che ribellarsi davanti a chi predica bene e razzola male. È la vergogna che faceva dire a tanti teologi che la preghiera senza comportamento adeguato non serve a nulla.

Che serve a Dio avere dei credenti che disconoscono le regole della frateità? Che serve a Dio avere ministri che pensano alla loro vanagloria e non vivono con coerenza la povertà? Che serve a Dio avere fedeli che uniti dalla chiesa predicante sono in sintonia con l’egoismo più becero verso fratelli che fuggono da guerre, carestie, fame, malattie e morte?

La mia rabbia da credente è che quasi tutto il clero è schierato nel chiedere, mai nel dare con una confusione totale sui compiti di loro competenza. Vedi, per esempio, quel che succede nella verde Brianza nella grande diocesi di Milano dove, grazie alle autorizzazioni della Fabbriceria del Duomo, tanti nostri maestri di fede hanno cambiato mansione diventando specialisti in architettura, paramenti, organi, arte, costruzioni e quant’altro.

Chiediamoci se questa chiesa fa parte della grande famiglia che noi amiamo e frequentiamo se poi ci dimentichiamo che la pomposità non fa parte di nessun testo teologico e ignoriamo le poverissime comunità delle diocesi africane dove i Vescovi non hanno i soldi per la benzina, ritardano le visite pastorali in diocesi estese quanto Lombardia e Piemonte e vivono come i vecchi curati di montagna senza risorse.

Non ultimo per importanza è la presa di posizione dei Vescovi italiani sulla questione dei diritti civili con una polemica che sembra implicare il non riconoscere ai fedeli la capacità di fare scelte coerenti col Vangelo. Sembra quasi che i ministri di Dio non ci ritengano un gregge consapevole. Così noi fedeli, pur non favorevoli a questa legge, siamo considerati fuori, quasi dei non credenti, nonostante don Sturzo abbia sempre sostenuto la laicità dello stato nei confronti della chiesa «Libera chiesa, in libero stato» e «date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel è che di Dio».

Giovanni Besana
28/07/2016

Caro Giovanni,
nella tua lettera sollevi molte questioni: dai sacerdoti che danno scandalo alla struttura piramidale della Chiesa, dura a morire nonostante il Concilio Vaticano II (e il Vangelo), dai preti, molto amministratori e poco pastori, ai laici considerati sempre in stato di minorità… Sono temi scottanti, resi ancora più evidenti dai tempi difficili che la nostra Chiesa sta vivendo in Italia. Essa si scopre più fragile e indebolita (invecchiamento e diminuzione del clero a causa della crisi vocazionale); abbandonata da chi pur battezzato vive solo un cristianesimo nominale; contestata nel suo insegnamento da mode, tendenze e ideologie di vario tipo; derubata dei suoi spazi e tempi (feste e domeniche occupate da mille altre iniziative); ridicolizzata e moralmente esautorata per la vita scandalosa di alcuni suoi membri; giudicata dai suoi stessi fedeli che, pur reclamando per sé più partecipazione e responsabilità, continuano a pensare la Chiesa non come un «noi», ma un «loro» (la gerarchia); oberata dal peso di mille strutture (spesso giornielli di arte) di cui non si può disfare e che mangiano tempo e denaro…

Il Concilio Vaticano II, nonostante tutte le resistenze messe in atto, ha piazzato una bomba sotto la concezione piramidale della Chiesa, riscoprendo la bellissima immagine biblica del popolo di Dio in cammino attorno al pastore che è il Signore Gesù, il Cristo crocifisso, che dà la sua vita per i suoi, si fa servo per la salvezza di tutti. Credo che non siano solo i preti e i vescovi che debbano liberarsi una volta per tutte della vecchia mentalità piramidale, ma anche i «laici», i semplici battezzati, imparando a guardare alla nostra Chiesa come alla propria famiglia, al proprio corpo, con un atteggiamento critico e responsabile ma anche misericordioso.

Mentre i media se la prendono con una Chiesa come realtà anonima, ricca, autoritaria, antiquata, corrotta, tentacolare… il cristiano nella sua quotidianità ha a che fare con quel prete, con quella suora, con quel religioso: persona concreta, umana, vicina, con i suoi lati belli e le sue fragilità. Un po’ più di amore, di con-passione, di umiltà,  di sano umorismo e autornironia, aiuterebbero tutti a costruire relazioni più vere, fratee, umane, applicando alla vita della propria comunità cristiana lo spirito della famiglia e non quello della fabbrica, dell’ufficio pubblico o del centro commerciale.

Una bella iniezione di vera «misericordia» farebbe bene a tutti.




Storia del giubileo 12: dal mercato delle indulgenze

Nel 1510, appena dieci anni dopo il giubileo del ‘500, un monaco tedesco di nome Martin Luther, un uomo religioso senza alcuna velleità rivoluzionaria, fece un pellegrinaggio a Roma, desideroso di arrivare per la prima volta nella città santa, il cuore della cristianità, la sede del successore di Pietro. Entrando in città, non fu particolarmente scandalizzato dall’immoralità del clero romano, né dalla vitalità espressa da una città trasformata in un immenso cantiere. Al contrario rimase colpito dallo splendore e dall’arte, lo stesso stupore che coglie, anche oggi, chiunque ammiri la bellezza di Roma, di San Pietro e delle grandi basiliche, costruite nei secoli con grande magnificenza e dovizia, anche se, quasi nessuno si ferma a considerae i costi umani in corruzione, versamento di sangue dei poveri, sfruttamento.

Luther in quei giorni celebrò la messa in San Pietro e non poté fare a meno di riflettere sul fatto che, mentre lui celebrava la sua, nella cappella accanto non meno di dieci preti si erano avvicendati per altrettante messe, unicamente perché ogni celebrazione veniva «retribuita».

Ritornando in Germania, si dedicò all’insegnamento, maturando sul piano teologico la sua coscienza di cristianesimo. Ridurre Luther a esempi esteriori o motivare la sua predicazione con fatti episodici, significherebbe sminuie la portata. La questione delle indulgenze è occasionale, ma la sua teologia va ben oltre il mercato che pure ci fu e fu indegno, corrotto, simoniaco e peccaminoso.

Le indulgenze

Il sistema delle indulgenze si era consolidato nel corso degli otto giubilei celebrati fino al 1500 e costituiva una fonte economica di grande portata perché il popolo vi ricorreva con l’ansia e il desiderio di commutare le pene post mortem per sé e per i propri defunti. L’amministrazione vaticana e anche locale se ne serviva come uno scrigno sempre aperto per finanziare opere pubbliche, guerre e interessi privati. Giulio II (1503-1513) nel 1507 e Leone X (1513-1521) nel 1514 avevano concesso l’indulgenza plenaria a chi, confessato e comunicato, avesse donato una somma di denaro per la costruzione della nuova basilica di San Pietro. In Germania, il commissario papale, Alberto di Brandeburgo, usò la metà del denaro raccolto con le indulgenze per sanare un debito personale con i banchieri Fugger di Augusta. Gli aneddoti potrebbero moltiplicarsi all’infinito, ma resterebbero comunque solo una piccola parte delle conseguenze che si potrebbero elencare dell’idea di salvezza presente nella teologia del tempo. Le indulgenze non possono trasformarsi in una trattativa a buon mercato per «comprare» la gratuità con cui Dio dona se stesso all’umanità. Con la «scoperta» del nuovo mondo, non può non nascere anche una «nuova Chiesa» che transita dal Medio Evo monolitico alla modeità pluralista.

Le famose tesi di Wittemberg (31 ottobre 1517) formulate da Luther altro non sono che la formalizzazione di questi interrogativi. Se Roma avesse avuto papi che, invece di dedicarsi alla caccia al cinghiale, avessero ascoltato il grido di dolore che saliva da tutta la Chiesa per una purificazione e riforma generali, lo scisma d’Occidente, forse, non si sarebbe consumato. Lo prova la stessa convocazione del concilio di Trento da parte di papa Paolo III (1534-1549) nel 1545. Il concilio, proprio con la condanna di Luther, di fatto gli dà ragione, perché risponde con la riforma della dottrina delle indulgenze e, sul piano strettamente teologico, s’interroga sulla «giustificazione», contrapponendosi a Luther più per motivi circostanziali ed estei che per contenuto dottrinale, come dimostreranno gli eventi di quattro secoli dopo, quando, rasserenati gli spiriti e fatto discernimento con intelligenza e sapienza storica, il 31 ottobre 1999 ad Augsburg in Germania, dalla Federazione Luterana Mondiale e dalla Chiesa cattolica romana sarà firmata una «Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della Giustificazione1».

Dal concilio di Trento una lenta ripresa

Cinque anni dopo l’inizio del concilio di Trento, che durò diciotto anni fra altee vicende, nel 1550 ci fu il decimo giubileo della storia della Chiesa indetto da Paolo III. Papa rinascimentale, padre di molti figli naturali e nepotista non meno osceno di Alessandro VI, egli aveva capito la necessità di una riforma della Chiesa, ormai slabbrata da ogni parte, e a questo scopo nel 1542 aveva riorganizzato l’Inquisizione a difesa della purezza della fede che invece sarebbe riuscita solo a macchiarla ancora di più con le sue nefandezze e i suoi soprusi. Contemporaneamente aveva sostenuto i nuovi ordini religiosi: Teatini, Cappuccini, Baabiti, Somaschi, Orsoline e approvato l’ordine di Ignazio di Loyola, la Compagnia di Gesù, che avrebbe assunto il compito non facile di traghettare la religiosità dal livello della devozione emotiva a quello dell’intelligenza e del «discernimento spirituale». Durante questo giubileo, Filippo Neri inaugurò a Roma l’Ospizio di Trinità dei pellegrini. Intanto in Spagna, Teresa d’Avila fondava monasteri di clausura, femminili e maschili per riformare il monachesimo, ormai moralmente degenerato. Lei e Giovanni della Croce sarebbero stati vittime dell’Inquisizione che non avrebbe più distinto il grano dal loglio perché, accecata dall’ossessione dell’eresia e dal fatto di essere diventata strumento di epurazione nelle mani del potere politico di re e regine, vedeva fantasmi ed eretici in ogni dove.

Il fiammifero acceso da Luther dilagò in incendio in tutta Europa, dalla Germania, alla Svizzera, all’Inghilterra, ai paesi Scandinavi e fino al cuore del Regno pontificio, in città come Lucca, Viterbo, Modena e Ferrara, dove i libri dei «Riformati» circolavano ampiamente, nonostante l’ordine papale di consegnarli pena la morte. Nell’anno del giubileo del 1550, il 3 giugno, Roma visse per la prima volta il rogo di opere considerate eretiche. Se si arriva a bruciare un libro, pensando di eliminare un’idea o estirpare un sentimento, si può arrivare senza problemi di coscienza a bruciare le persone che quelle idee e quei sentimenti custodiscono nel loro cuore. Fece così l’Inquisizione. Faranno allo stesso modo tutti i totalitarismi seguenti fino al comunismo, al nazismo e al fascismo recenti. In questo giubileo, il papa Giulio III (1550-1555) si diede anche a manifestazioni goderecce, che amava particolarmente, come combattimenti di tori, carnevale sguaiato, banchetti, giochi, compreso quello d’azzardo. Nel mese di novembre del 1550, quasi alla chiusura del giubileo, il papa volle assistere a Castel Sant’Angelo alla rappresentazione di «Cassaria» di Ludovico Ariosto. Michelangelo Buonarroti, ormai ultrasettantenne, partecipò al giubileo, insieme al Vasari, con un’intensa spiritualità, visitando le basiliche prescritte con grande raccoglimento e devozione.

Gregorio XIII: il nuovo calendario

Il primo giubileo che possiamo definire, in qualche modo, «moderno», fu quello del 1575, aperto e chiuso dal papa bolognese e riformatore Gregorio XIII (1572-1585), il papa che introdusse il calendario «gregoriano» in sostituzione di quello «giuliano» in uso fino ad allora. A questo giubileo prese parte anche Carlo Borromeo, vescovo di Milano, forse il più grande fautore ed esecutore della riforma del concilio di Trento. Papa Gregorio diede una svolta al giubileo e alla vita della curia. Fu esempio non solo di austerità, ma specialmente di coerenza, cornordinando di persona il giubileo che volle «spirituale», senza distrazioni: proibì carnevale, feste e giochi pagani, volle che anche cardinali e preti fossero modello di vita per i fedeli, si curò dell’accoglienza dei pellegrini, preoccupandosi che avessero cibo e alloggio, vietando speculazione e aumento di prezzi.

La fine del concilio di Trento dodici anni prima (1563) e la nascita del Protestantesimo costrinsero la gerarchia cattolica più avveduta a mettere in atto una profonda riforma, ormai non più dilazionabile, che portasse i cuori e le strutture dal paganesimo cristianeggiante alla spiritualità evangelica. Avvenimenti come quelli accaduti nella notte tra il 23 e 24 agosto del 1572 – passata alla storia come la notte o il macello di San Bartolomeo -, quando a Parigi i cattolici, in nome di Dio e a sua gloria, macellarono gli Ugonotti protestanti, non sarebbero dovuti mai più accadere. Dal macello si salvò solo chi aveva al collo o sulla berretta una piccola croce d’argento, usata in passato dai pellegrini romei. Ciò dimostra come i simboli giubilari fossero diventati di uso comune nella vita quotidiana.

Se iniziava la riforma, questa non poteva che essere restaurazione sistematica del cattolicesimo latino che in quel momento storico si contrapponeva al Protestantesimo. Si misero in atto i decreti e la volontà del concilio di Trento, con strumenti pratici ed efficaci come l’obbligo del Breviario e del Messale per il clero, il Catechismo come testo di catechesi per sacerdoti diffusamente impreparati e incolti, l’istituzione dei seminari per la formazione dei futuri preti. Nel 1600 Clemente VIII (1592-1605), protagonista della pace di Versailles fra il re di Spagna, Filippo II, ed Enrico IV, re di Francia, indisse il giubileo senza arretrare minimamente nell’azione repressiva di cui fu prova la condanna di Giordano Bruno il 17 febbraio del 1600, quasi una inaugurazione dell’apertura della porta santa. Con il sec. XVII si entrò in una visione e cultura nuove, segnate dallo spirito del barocco con il senso del solenne, del maestoso e delle manifestazioni pompose come processioni e rappresentazioni teatrali tratte da esperienze di vita. Contro il Protestantesimo «comunitario», Roma diventò il centro sempre più «accentrato» della cristianità, esaltando la figura del papa fino a una sorta di culto della personalità. Se nel secolo dell’umanesimo, il XV, il papa era stato prevalentemente l’«Uomo Nuovo», attorniato da cortigiani e cortigiane di ogni specie, nel secolo della modeità egli diventò il successore di Pietro, il Vicario di Cristo, il «fondamento» dell’unità della Chiesa cattolica. S’intensificarono le «opere» anche per contrastare il «quietismo» che si era diffuso specialmente in Spagna come disposizione passiva dell’anima davanti a Dio, disposta a lasciarsi possedere dallo Spirito; s’incentivò la preghiera vocale per la «conquista» della grazia, e si contrastò l’orazione mentale e la mistica per paura di non poterle controllare. Miguel Molinos, esponente di una spiritualità in cui la grazia è vista come dono gratuito, dopo essere stato messo all’indice, sarebbe morto nelle carceri dell’Inquisizione nel 1696.

Una lenta e ordinaria decadenza

I successivi otto giubilei, dal 1625 (Urbano VIII, 1623-1644) al 1825 (Leone XII, 1823-1829), rientrarono in una routine ormai consolidata che vide l’affinarsi dell’aspetto spirituale e la diminuzione di quello politico, anche perché il papato entrò in una fase di lunga transizione che si sarebbe perfezionato con la perdita del potere temporale pontificio nel 1870, regnante Pio IX (1846-1878). La breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870 segnò la data ideale e ufficiale di annessione di Roma al Regno di Sardegna e di Piemonte, realizzando il sogno dell’unità d’Italia del Risorgimento. L’ultimo giubileo regolamentare fu quello del 1775 convocato da Clemente XIV (1769-1774) ma celebrato da Pio VI (1775-1799) con grande spreco di giochi pirotecnici e «macchine abbruciate davanti immenso pubblico», un carnevale più che un anno santo. Nel 1800, in pieno impero napoleonico, il giubileo non fu celebrato, a causa della sede vacante: il conclave riunito a Venezia, infatti, fu lungo e faticoso. Una volta eletto, Pio VII (1800-1823) rientrò in una Roma deserta di prelati e, per il 1801, concesse l’indulgenza giubilare senza l’obbligo di recarsi a Roma. Il 9 aprile del 1802 la concesse ai Francesi per commemorare il concordato tra Francia e Santa Sede, siglato dall’imperatore Bonaparte e dal cardinale Consalvi.

Leone XII (1823-1829) convocò il giubileo del 1825, iniziando una lotta impari contro «l’indifferentismo» religioso e le nuove idee, socialiste e liberali, che si assestavano in tutta Europa e ponevano il papa tra gli ultimi epigoni reazionari della storia, incapaci di leggere i «segni dei tempi» e di interpretarli alla luce del Vangelo. Nel corso dell’anno furono giustiziati Angelo Targhini e Leonida Montanari accusati di «carboneria». Di fronte al volgere della storia che travolgeva qualsiasi resistenza, i papi furono in grado solo di frenare il cammino della Chiesa per paura di perdere autorità e controllo sulle masse. Pio IX proseguì l’opera miope e oscurantista del suo predecessore, Gregorio XVI (1831-1846), che nell’enciclica Mirari Vos del 15 agosto 1832 aveva scritto:

«Da questa corrottissima sorgente dell’indifferentismo scaturisce quell’assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza: errore velenosissimo, a cui apre il sentirnero quella piena e smodata libertà di opinione che va sempre aumentando a danno della Chiesa e dello Stato, non mancando chi osa vantare con impudenza sfrontata provenire da siffatta licenza qualche vantaggio alla Religione».

Povero papa, come poteva immaginare che appena 133 dopo, addirittura un concilio, il Vaticano II, lo avrebbe solennemente smentito, elogiando la libertà di coscienza dichiarata «incoercibile» da parte di qualsiasi potere? Il Vaticano II, con le firme dell’episcopato di tutto il mondo insieme al Papa, Paolo VI (1963-1976), il 7 dicembre 1965, con 2308 voti favorevoli e 70 contrari, approvando il decreto Dignitatis Humanae, solennemente avrebbe proclamato:

«Il Concilio Vaticano II dichiara che la persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Questa libertà comporta che tutti gli uomini devono essere immuni da ogni costrizione da parte di individui, o gruppi sociali o di qualsiasi altro potere umano, di modo che nessuno sia costretto ad agire contro la propria coscienza» (Dignitatis Humanae, 2).

Pio IX, l’ultimo papa re

Ne è passata di acqua sotto i ponti del Tevere dal giorno che vide anche Pio IX fuggire da Roma verso Gaeta, nel 1850, anno in cui avrebbe dovuto indire il giubileo regolare. Il Papa aveva altro cui pensare e ripiegò concedendo l’indulgenza all’Italia e alla cattolicità, rinnovate in vari modi e tempi fino al 1869, quando con una solenne celebrazione, corredata da indulgenza plenaria, avrebbe voluto concludere il concilio Vaticano I che, su sua imposizione, doveva dichiarare il dogma dell’infallibilità pontificia. La scelta di non celebrare un giubileo specifico fu motivata dal fatto che Roma era occupata e non voleva ratificare, attraverso l’afflusso di eventuali pellegrini, l’atto di «usurpazione» da parte di Vittorio Emanuele e Cavour che egli scomunicò.

Nel 1875, Pio IX indisse il giubileo alla scadenza dei 25 anni, ma non aprì la porta santa in segno di lutto per la presa di Roma. Si limitò a concedere indulgenze e concessioni varie, espressioni più del terrore di sentirsi prigioniero in Vaticano che dell’evento giubilare. Impotente, dovette assistere alla demolizione della cappella del Colosseo da parte degli anticlericali risorgimentali. Se papa Lambertini (Benedetto XIV, 1740-1758) aveva incluso il Colosseo nel circuito giubilare come luogo dei martiri, ora lo stesso luogo era diventato il simbolo dell’insignificanza del papato che aveva intorno a sé solo nemici. Sarebbe stato un papa non italiano, il polacco Giovanni Paolo II (1978-2005), che nell’anno giubilare millenario del 2000, avrebbe preso di nuovo possesso del Colosseo, per fae il luogo della richiesta di perdono da parte della Chiesa davanti alla Storia per tutte le ingiustizie che nel corso dei secoli ella, per mezzo dei suoi figli e figlie, aveva compiuto. Questo però è un altro millennio e un’altra storia.

Paolo Farinella, prete
12, continua.

Note:

1- Per una informativa esauriente, cf. A. Maffeis, Dossier sulla giustificazione. La dichiarazione congiunta cattolicoluterana, commento e dibattito teologico, Queriniana, Brescia 2000; A. Birmelé, Uniti sulla giustificazione, in Regno–Documenti 45 [2000] 127-136.




Cari missionari 77

Padre Pietro (Parcelli)

Spett/le Redazione,

ricevo il vostro mensile da tempo, […] grazie a padre Pietro Parcelli, di cui ho letto la splendida lettera sul vostro numero di giugno. Pur essendoci pochi km di distanza fra la mia residenza e la sua, confesso che non sapevo che aveva lasciato l’Amazzonia nel 2014. Ora farò in modo di mettermi in contatto con lui. Volevo solo aggiungere che a parte le sue doti di missionario e religioso, ritengo il degno padre Parcelli uno dei pochi rimasti, per la sua missione, ad avere «passione, amore, altruismo» per il prossimo ed in particolare per i più bisognosi.

Vi ringrazio per l’ospitalità che mi concederete e mi è gradita l’occasione per distintamente e cordialmente salutarvi.

Massimo Finaldi
Trecase (Na), 13/06/2016

Fatti, non parole

Egregio Padre,
leggo nel numero di maggio della rivista Missioni Consolata dei tempi difficili dovuti alla crisi, molto diversa, dice lei giustamente, da quelle passate e della quale non siamo solo spettatori ma che sta sconvolgendo il nostro modo di vivere stravolgendo valori e relazioni minando le nostre sicurezze. Appunto perché è molto diversa da quelle del passato, è necessario debba essere trattata con maggior risolutezza.

La crisi che stiamo vivendo ha ormai assunto dimensione planetaria e come tale i singoli stati non hanno né la capacità politica né quella morale di risolverla. Solo l’Onu avrebbe la possibilità di fare qualcosa per la straordinaria emergenza. L’Onu dovrebbe dire chiaro e forte quali sono gli stati dove esiste un reale stato di «guerra» e non semplici sollevazioni e diatribe politiche tra concorrenti al potere dove coloro che si sentono perseguitati vogliono cambiare semplicemente patria, da qui moltissimi migranti con tutti i problemi relativi.

Una volta individuati questi stati, le ambasciate di paesi che intendono accogliere, con scopi umanitari coloro che vogliono da questi fuggire, potrebbero essere autorizzate a farli espatriare mediante viaggi organizzati e quindi sicuri. La grande maggioranza dei migranti invece, dopo gli onerosi costi per il «passaggio», sono spesso vittime di soprusi e violenze nei luoghi di raccolta e infine il rischio di perdere la vita durante il trasporto.

Il tutto, spiace dirlo, con la complicità di coloro che zitti zitti, (tranne qualche «bisbiglio» su alcuni organi di stampa), dovrebbero invece muoversi con decisione per evitare tale oscena barbarie. Non ci si mette dalla parte della ragione dicendo semplicemente: «accoglienza accoglienza» sapendo per certo, (le statistiche sono lì a dimostrarlo oltre ogni ragionevole dubbio) che molti di questi poveretti periranno durante il viaggio (mentre scrivo potrebbero essere in procinto di annegare parecchie persone, bambini compresi).

Pertanto tutti quei poveri cadaveri (migliaia, dicono le statistiche), che stanno marcendo in fondo al Mediterraneo sono vittime sacrificali di stupidità, sciocco buonismo, altruismo interessato, spesso a fini elettorali. Questo a causa del vergognoso «menefreghismo» di coloro che dovrebbero denunciare con decisione la condizione di abbrutimento di quei poveretti trattati come immondizia anziché come esseri umani.

Mi riferisco non solo a tutti i capi di stato e di governo, interessati al problema migratorio, ma anche a intellettuali, giornalisti, esponenti religiosi d’ogni fede, ossia gente che «conta» che dovrebbero sollecitare l’Onu per interventi miranti a fermare una volta per sempre tutte quelle organizzazioni, quasi sempre criminali, che favoriscono l’indegno commercio umano.

Il silenzio dei potenti allora diventa criminale. Papa Francesco, oltre che a Lampedusa, dovrebbe andare all’Onu, anche se non invitato, e urlare forte, (magari togliendosi anche una scarpa, come ha fatto Kruscev picchiandola sul leggio) a tutti quegli altezzosi rappresentanti del pianeta, che qualcuno definisce «maestri di imbecillismo burocratico», di impegnarsi concretamente per far cessare il ributtante mercato. Mentre l’ignavia fin qui dimostrata non fa che renderli complici di inaudite violenze su vittime innocenti.

Per concludere è forse esagerato dire di coloro che potendo parlare forte invece tacciono che sono anime sporche?

Grazie per l’attenzione. Un cordiale saluto.

Angelo Brugnoni
Daverio (VA), 28/05/2016

Vendi tutto

Caro direttore,

dopo aver letto «vendi tutto», lettera pubblicata sul numero di giugno u.s., non ho potuto fare a meno di porre mano alla penna (come si suole dire) e scriverti. L’argomento affrontato è di certo assai attuale e non fa altro che riproporre argomenti spesso utilizzati negli incontri televisivi e sulle pagine dei giornali a proposito del «tesoro della chiesa» che fa scandalo e andrebbe venduto o donato a beneficio dei poveri. Spesso anch’io confesso di trovarmi a riflettere su questi argomenti e sinceramente non so trovare risposte adeguate e convincenti. Quanto tu esponi nella risposta aiuta a capire o almeno a farsi un’idea della complessità del problema e comunque lascia aperte molte porte per ulteriori dibattiti e ricerca di nuove e rivoluzionarie soluzioni. Ti espongo qui ad alta voce una mia riflessione. La Chiesa è nata povera e ci si augurerebbe fosse ancora così, ma la storia è riuscita a sconvolgere e spesso a stravolgere il messaggio evangelico che sembra trovi molta difficoltà a penetrare nei cuori e a tradursi poi in comportamenti coerenti che applichino in concreto quanto detto dal Maestro. Ma una cosa credo sia importante da capire e che spesso, a cominciare dal sottoscritto, ci fa comodo pensare che non ci riguardi, e cioè che la Chiesa siamo anche noi, che il messaggio evangelico è anche rivolto a ciascuno di noi e che prima di pensare alla pagliuzza nell’occhio del vicino, ci si dovrebbe guardare allo specchio per controllare se magari sia opportuno che anche noi facessimo ogni tanto un po’ di pulizia e togliessimo le famose «fette di salame» che ci coprono non solo gli occhi ma anche la coscienza. Certo questo non esclude che anche la Chiesa in tutti i suoi apparati faccia un esame di coscienza per vedere se qualche cosa può essere migliorato. Aggiungo anche che è perché esiste la struttura secolare della Chiesa se molte missioni ricevono aiuti e possono continuare nell’annuncio della Buona Novella. Dimentichiamo a volte che se certe missioni sperdute nelle lande deserte o nelle foreste del mondo dove non giunge la televisione, ignorate dalla stampa scandalistica o dal politico contestatore tout court, riescono a portare silenziosamente il messaggio di speranza di Cristo con ospedali, scuole, dispensari o anche solo un sorriso, spesso lo possono perché la Chiesa tanto vituperata lo consente con il suo aiuto concreto. Anche se non spetterebbe a me citare il messaggio evangelico, ma ad altri ben più autorevoli, tuttavia ricordo quanto detto 2000 anni fa: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Messaggio stringato, ma preciso: nel «chi…» ci siamo tutti nessuno escluso. Prima di pretendere la coerenza dagli altri, cerchiamo di esigerla da noi.

Auguro a te e a tutta la tua magnifica squadra «buon lavoro» e dato il mese anche «buone ferie» delle quali anche tu avrai di sicuro bisogno e, a tutti i missionari e missionarie della Consolata, auguro un proficuo «Buon lavoro».

Giacomo Fanetti
11/06/2016

Accoglienza e solidarietà

Ci sono parole che inducono a larghe riflessioni, come, ad esempio, quelle che ha pronunciato papa Francesco, ricevendo il Premio Carlo Magno 2016, conferitogli dalla città di Acquisgrana. Egli ha rivolto un accorato appello all’Europa affinché, attingendo nuova linfa dagli ideali dei Padri Fondatori, affronti con rinvigorito spirito le sfide presenti; si renda creatrice e generatrice di nuovi processi sui quali costruire un futuro di libertà e di pace; sia culla di un nuovo umanesimo fondato sulla capacità di integrare, sulla capacità di dialogare, sulla capacità di generare.

L’Europa alla quale si rivolge il papa non è però solo quella dei capi di stato e di governo; è la «famiglia dei popoli»; sono dunque gli individui, singoli e associati, le formazioni intermedie, le istituzioni private e pubbliche, gli enti di governo fino al livello massimo rappresentato dallo Stato.

Allora, l’appello e l’auspicio del superamento dell’attuale fase di stanchezza – che esclude e sottrae dignità e libertà non solo a chi in, cerca di asilo o anche solo di cibo, preme ai confini d’Europa, ma anche a chi in essa rinviene le proprie origini e vorrebbe trovare il proprio futuro – passa necessariamente attraverso un processo che coinvolge la comunità dei popoli, oggi chiamati a dare nuovo vigore ad un concetto di unità europea fondata – usando le parole di Karl Lowith – «su un comune modo di sentire, di volere, di pensare …, a una determinata modalità di concepire e di dare forma a se stessi e al mondo».

In questa prospettiva i concetti di accoglienza e solidarietà assumono significati che trascendono la dimensione strettamente fisico–spaziale o materiale; non si tratta tanto – o solo – di trovare una sistemazione alloggiativa a chi cerca ospitalità o di somministrare mezzi di sussistenza agli indigenti; l’accoglienza e la solidarietà debbono tendere ad innescare processi di sviluppo dotati di una forza autorigenerante, capaci di generare altro sviluppo; che riservino ai beneficiari il ruolo di protagonisti e nei quali l’apporto di risorse economiche – pure indispensabile – non si risolva in sterile assistenzialismo ma costituisca mezzo per il raggiungimento di un’autonomia personale ed economica.

Oltre il territorio e l’elemosina

Il concetto di accoglienza non può e non deve dunque essere costretto in una dimensione territoriale e il concetto di solidarietà non può e non deve essere inteso come «elemosina»; una società che creda nella dignità umana deve saper trovare, proporre e realizzare modelli di vita e di sviluppo che – a prescindere dalla dimensione geografica di intervento – reintegrino l’individuo nelle condizioni indispensabili per l’esplicazione delle proprie facoltà e capacità, e lo rendano nel contempo consapevole che tutto quanto gli viene offerto costituisce un mezzo di sviluppo e di crescita di cui egli stesso diviene il principale artefice e responsabile.

Questo concetto – ne siamo convinte – è un punto chiave cui dovrebbero essere improntate le relazioni individuali e sociali tra chi offre e chi riceve accoglienza e solidarietà; è infatti il rispetto dell’uomo il fondamento dell’accoglienza e della solidarietà ed è sempre il rispetto dell’uomo – e, quindi, il rispetto innanzi tutto di se stesso e la coscienza della propria dignità – il fondamento dell’accettazione dei benefici offerti e il buon uso di essi.

La convinzione nasce dall’esperienza della cooperazione internazionale ove è stato constatato che, qualora gli interventi e gli aiuti posti in essere non si accompagnino alla formazione, nei beneficiari, della coscienza di dover essere responsabili del proprio auto-sviluppo, le iniziative intraprese sono destinate a concludersi non appena cessa la presenza degli organismi sostenitori e del flusso di denaro (vedi MC n. 7/2015, pag. 65); al contrario, laddove tale coscienza sia acquisita e presente, i processi di auto-sviluppo proseguono indefinitamente.

L’Assefa Ngo

Questa metodologia è stata, ad esempio, praticata con successo da Assefa Ngo indiana che, partendo da un piccolo gruppo formato da venticinque contadini ha raggiunto un milione di famiglie (circa cinque milioni di persone pari a più di tre volte la popolazione della Liguria) con progetti di sviluppo, e ben potrebbe essere adottata nella gestione dell’emergenza determinata dai flussi migratori verso il nostro paese e verso l’Europa; ciò al fine di evitare che le risorse messe in campo – anziché innescare processi di sviluppo e di integrazione – si esauriscano in meri interventi di somministrazione di mezzi di sussistenza (alloggio, vitto, eventuali altri interventi economici variamente denominati) e inducano ad una pretesa di essere mantenuti, senza porsi il problema del fatto che i costi vengono a gravare sui cittadini che lavorano e inducono in questi ultimi l’ostilità verso i nuovi venuti.

Responsabili del proprio autosviluppo

Crediamo, perciò, che sia fondamentale associare allo spirito di solidarietà ogni azione utile alla formazione, in capo ai beneficiari, della consapevolezza che essi stessi sono responsabili del proprio autosviluppo e che su questo principio debba basarsi la «relazione sociale» con la comunità di accoglienza. Ciò a partire dall’auto–organizzazione delle attività necessarie a provvedere agli elementari bisogni della vita quotidiana (approvvigionamento delle materie prime; preparazione dei pasti; pulizia ed igiene dei locali occupati; manutenzione ed eventuali migliorie degli stessi) fino all’offerta, a favore della comunità ospitante, di servizi e attività che costituirebbero un segno tangibile di non voler diventare un peso per la società, ma di volee divenire una componente attiva attraverso l’esercizio e lo sviluppo delle proprie capacità e abilità. Si è tentato di proporre agli immigrati un impegno volontario e gratuito, ma questo non sempre ha funzionato, come riconosceva amaramente Patrizia Calza, sindaco di Gragnano, dove i pochi immigrati che avevano accettato di fare volontariato, ad uno ad uno si sono poi ritirati: «Preferiscono fare i mantenuti» commentava in un recente convegno a Piacenza. Invece, se si trovasse modo di coinvolgere queste persone ad iniziare dalla individuazione dei progetti e inventando un qualche ritorno economico, il processo di autosviluppo potrebbe avere successo. Così è avvenuto per esempio nei comuni di Riace, Caulonia ed altri della costa jonica. E intanto si incomincia a parlare di «borse lavoro».

Questo modello di accoglienza potrebbe probabilmente attenuare le tensioni e i conflitti; favorirebbe perciò il dialogo e il processo di integrazione nei paesi ospitanti.

Si tratta di un modello che richiede di essere coltivato giorno dopo giorno; non è scevro da difficoltà ed ostacoli e forse potrà dare un ritorno immediato modesto; crediamo però che esso possa costituire un grande stimolo per riscoprire i valori della solidarietà e del rispetto della dignità umana e per restituire, a chi è disperato, un orizzonte di speranza.

Graziella De Nitto
e Itala Ricaldone
Assefa Genova Onlus
24/06/2016

 




Le lettere

«Vendi tutto…»

Gentile direttore, le scrivo in merito alla risposta che lei ha dato al sig. Cesare Verdi (Mc 04/2016, pag. 7). Secondo il mio parere se coloro che dovrebbero essere «luce» non riescono a capire il senso delle parole «vendi tutto… e seguimi», vuol dire che non hanno seguito Cristo.

Lei scrive: «Ci sono centinaia di case religiose vuote… ma non hanno i requisiti… e sono invendibili». Vendetele sottocosto queste proprietà e il ricavato datelo ai poveri. Aggiungo che ci sono pure i «tesori» delle basiliche e dei santuari che si potrebbero «smaltire» per l’aiuto dei poveri.

Alla Caritas arrivano i doni/pacchi del popolo e distribuire quello donato dagli altri è facile. Se non vado errando la chiesa è proprietaria di una banca.

Non si fermi a queste piccolissime considerazioni, ma vada a pensare a quante donazioni riceve la chiesa e quanto è ricca la chiesa. Se il «sale» perde il sapore…

R. S. – 12/04/2016

Ho già risposto privatamente al nostro lettore. Riprendo e aggiungo qui alcuni punti per approfondire insieme il dibattito, cominciato dalla «proposta» di mandare navi da crociera a raccogliere i profughi in mare (Mc 1-2/2016).

• Immobili religiosi.

È certamente una questione che si presta a un dibattito senza fine e potenzialmente populista. Senza tener conto che sta creando un sacco di sofferenze e disagi all’interno delle congregazioni religiose stesse. Ricordo un vecchio religioso che un giorno mi ha fatto l’elenco di ben dieci case da oltre cento posti l’una nel raggio di venti chilometri in una valle del Piemonte: vuote da anni e invendute perché nessuno le vuole, neppure regalate. Neppure i comuni le vogliono, visti i tagli alle spese cui sono costretti.

Diversi istituti sono stati fortunati riuscendo a riciclare tali edifici al servizio di onlus, associazioni di volontariato, gruppi culturali. Ma l’invecchiamento delle comunità religiose e la mancanza di vocazioni italiane farà ancora aumentare l’offerta di tali edifici. Ogni tanto questo fa notizia, soprattutto quando si tratta della chiusura di questo o di quel convento storico tra l’amarezza della popolazione locale.

• Smaltire i tesori.

Niente di nuovo in questo. Quanti santuari e chiese hanno venduto ori e pietre preziose subito dopo la seconda guerra mondiale per aiutare i poveri! Non tutto è oro quello che luccica, neppure nei santuari. Inoltre spesso questi tesori non sono neanche più di vera proprietà della Chiesa (intesa come «vescovi, preti e religiosi», almeno da come capisco la sua accezione). Questi «tesori», quando veri, sono di proprietà della comunità (Chiesa fatta di tutti i credenti) locale e normalmente registrati e controllati dal Ministero dei Beni culturali, per cui diventano inalienabili.

Non rischiamo poi di cadere in slogan populisti, tipo quello di chi proponeva la vendita del Vaticano per finanziare la lotta alla fame nel mondo. Di tutt’altro stile era Raul Follereau (chi lo ricorda ancora?) che negli anni Sessanta chiedeva a Russia e America l’equivalente del costo di due cacciabombardieri per risolvere il problema della lebbra nel mondo. E non li ha ottenuti.

• Distribuire è facile.

Forse sì. Se lo si fa ogni tanto. Ma le garantisco che chi, laico o religioso, ha la responsabilità della continuità in un progetto caritativo non può dormire sonni tranquilli, anche se si fida della Divina Provvidenza. Lo sa bene chi è dentro una onlus per aiutare i poveri, nella San Vincenzo o nella Caritas, o chi si cura di orfani, studenti, affamati e «scarti» di ogni tipo nelle periferie del mondo. Per distribuire bisogna avere, e per avere bisogna chiedere, mendicare, supplicare, tener fresca la memoria e quanto altro per creare un flusso continuo di «carità». E poi non basta «dare», occorre un dare con intelligenza, che coinvolga chi riceve, che faccia crescere, responsabilizzi, faccia uscire dall’ignoranza, dalla dipendenza. Tutto questo è un impegno grande, che non fa notizia.

• Dar l’esempio.

È vero che chi dovrebbe essere «luce» dovrebbe dare l’esempio. Ma le assicuro che l’esempio lo danno in tantissimi, anche se nei media fa notizia solo chi fa scandalo. E non lo scrivo solo per difendere la categoria. È una questione di giustizia verso un numero incredibile di cristiani, religiosi e laici, che si sono spesi e si spendono ogni giorno. Quanti missionari/e ho conosciuto che hanno canalizzato/canalizzano milioni (se non miliardi) di aiuti per i poveri, per rientrare poi a morire in Italia con una valigia da 20 chili e montagne di ricordi.

• Giustizia.

La questione di tanti immobili «ecclesiastici» sottoutilizzati o vuoti non è facile da risolvere. E non è solo una questione economica. Tali edifici sono stati costruiti con i soldi della gente ed è giusto che tornino alla gente per essere riutilizzati per il bene comune. Per chi oggi li possiede sono solo un peso di tasse e manutenzione. Basterà l’uscita dalla presente crisi economica per risolvere il problema e far sì che questi edifici siano usati per il bene comune e non svenduti a speculatori? Non sono un buon profeta a proposito, ma credo che la soluzione non stia nei soldi ma in persone nuove disposte a dare la vita per gli «scarti» del mondo e quindi capaci anche di ridare nuovo spirito a edifici che un tempo sono stati pieni di vita, gioia, generosità e sogni.

 

Europa

Egregio Direttore,
grazie per la sua risposta a commento del mio intervento pubblicato sul numero di aprile della sua rivista, risposta che giudico tuttavia debole e insoddisfacente. Anche nel mio intervento mettevo in rilievo gli errori e l’inadeguatezza della politica europea in sede di Unione e degli stati membri indistintamente, ma con l’aria che tira in Europa (Brexit, immigrazione, governi polacco e ungherese, crisi greca, movimenti populisti e xenofobi in espansione…) mi chiedo e le chiedo se si senta veramente la necessità e l’utilità di «provocazioni» quali quelle del prof. Amoroso. Con i miei migliori saluti.

Walter Cavallini – 18/04/2016

Di Afrikaneer e di Cristeros

Note su due articoli della vostra bella rivista di aprile.

1) Africaneer. Quando si parla di loro è il caso di ricordare che quelli di origine olandese erano in buona parte valdesi del Piemonte, fuggiti in Olanda nel 1686 (altri in Prussia e in Inghilterra) per sottrarsi alle feroci persecuzioni volute da Luigi XIV, succube della «compagnia del SS. Sacramento» protetta dalla moglie morganatica M.me de Maintenon. Ancora alla fine dell’egemonia afrikaneer, i nomi dei leader erano piemontesi: Malan, Botha (Botta) , Vigloner (Viglione). In Piazza Castello, a Torino, è segnato in bronzo il punto in cui, su richiesta dell’Inquisizione, fu bruciato un pastore valdese.

2) Cristeros. La persecuzione dei Cristeros nasce in seguito all’atteggiamento della Chiesa (che possedeva quasi la metà delle terre e degli immobili del Messico) ai tempi dell’occupazione franco-inglese con l’imperatore Massimiliano, dovuta al mancato pagamento degli interessi sul debito estero. Il partito conservatore e la Chiesa approvarono l’occupazione, che evitava loro confische e tasse, ma che suscitò una guerra civile finita quando gli Usa, terminata la loro guerra civile, mandarono un esercito ai confini per ripristinare la dottrina Monroe (gli Usa non tollerano presenze straniere nel continente). Dopo di che furono venduti all’asta molti beni della Chiesa e i compratori divennero massoni, anche per autodifesa.

Dalla lotta dei Cristeros contro le persecuzioni (di cui parla anche Hemingway in uno dei 49 racconti) discendono anche le basi ideali e sociali su cui un ignobile personaggio, troppo protetto in Vaticano fino a papa Benedetto, costruì il movimento dei «legionari di Cristo».

Claudio Bellavista – 02/04/2016

Grazie per l’interessante nota sugli Afrikaneer. Ma mi permetto di non concordare sull’analisi riguardo ai Cristeros. La storia del Messico, fin dalla sua indipendenza nel 1821, non è stata facile, segnata come fu da ingerenze straniere (vedi l’imperatore Massimiliano sostenuto dalla Francia) e da violenze e guerre civili. Ma chi ha interferito di più in quel paese, sono stati gli Usa che non hanno esitato a fargli guerra (1830) per poi strappargli alcuni stati importanti come la Califoia, il Texas e il New Mexico, e hanno poi sostenuto in tutti i modi un’oligarchia locale favorevole ai loro interessi. Non contenti di questo hanno promosso un’aggresiva attività missionaria protestante allo scopo di scalzare l’influenza cattolica. Hanno inoltre spalleggiato i governanti a loro favorevoli grazie alla massoneria, che nei primi decenni del Novecento era ben decisa non solo a dividere politica e religione, ma a cancellare ogni influenza della Chiesa cattolica, e non solo in Messico. Che chi ha incamerato i beni della Chiesa si sia fatto poi massone «per autodifesa» o per convenienza, non discuto e non entro neppure nel merito della discutibile dottrina Monroe del 2 dicembre 1823, che ha giustificato tutte le pesanti interferenze degli Usa nella vita dei paesi latinoamericani.

La lotta dei Cristeros fu una lotta autenticamente popolare e spontanea, pagata con migliaia di morti. La repressione, armata con le armi foite dai nordamericani, fu invece gestita da un’oligarchia strettamente collegata a interessi stranieri e spietata con il proprio popolo.

C’è poi una differenza fondamentale tra le proprietà della Chiesa e quelle delle oligarchie. Le proprietà e i beni della Chiesa in fondo rimangono sempre del popolo, perché figli del popolo erano i sacerdoti, religiosi e religiose che li gestivano, persone strettamente legate alla loro terra, alla loro gente, alle loro famiglie. Le oligarchie gestiscono le proprietà per il loro potere e per l’arricchimento, spesso ottenuto con lo sfruttamento sfacciato dei lavoratori mantenuti sistematicamente in situazioni di dipendenza e miseria.

Ne abbiamo un esempio anche oggi, con le multinazionali che, focalizzate sul massimo profitto, operano fuori di ogni controllo nazionale, spostano i loro centri di produzione dove gli operai sono meno pagati e meno sindacalmente organizzati e cercano tutti i modi di evadere le tasse.

Quanto al fondatore dei Legionari di Cristo (ordine religioso e non movimento) non credo sia legittimo usare la sua vita schizofrenica per denigrare i Cristeros, che hanno pagato con la vita la loro fedeltà a Gesù Cristo e alla Chiesa, contro un regime che, nel nome della libertà, non tollerava diversità e opposizione e, una volta raggiunto un accordo di pace, non ha mantenuto i patti, continuando a massacrare chi aveva osato pensare diverso.

Copie non recapitate

Buongiorno,
sono una vostra abbonata e leggo con molto piacere e attenzione la rivista. Non mi è arrivato il numero di marzo 2016 e pur avendo visto che è sfogliabile in internet preferisco il cartaceo perché li colleziono ed anche perché avendo una certa età riesco poco e male a leggere sul monitor. Vi sarei grata se – quando volete e potete – mi inviaste la copia.
Sempre complimenti ed un cordiale saluto.

M. C. – 23/04/2016

Prendo spunto da questa email per precisare che mandiamo sempre e a tutti con regolarità la nostra rivista perché arrivi all’inizio di ogni mese. Se non vi arriva la vostra copia (dieci all’anno con calendario a novembre e numerazione doppia a gennaio / febbraio e agosto / settembre), fatecelo sapere e ve ne mandiamo un’altra. Ma, se possibile, protestate un po’ con il vostro ufficio postale locale.

Gianni Minà

Caro Direttore,
un grazie di vero cuore, per la rivista Missioni Consolata, che puntualmente mi arriva a casa ogni mese.
I vari articoli sono sempre molto interessanti; veritieri e non di parte.
Il mensile si chiude poi con l’articolo di Gianni Minà, giornalista di alto livello, che presenta il personaggio di tuo più con il cuore che non con gli occhi, che, a mio modesto avviso, è il finale perfetto per una giusta diffusione di notizie mondiali, importanti e talvolta tragiche, esposte sempre in modo umano e sentito, mai in modo morboso e apocalittico, come purtroppo sovente capita.
Ancora un grazie, veramente sincero e buon proseguimento. Con simpatia.

Concé Canova – Corio (To), 04/04/2016

I primi in Mozambico

Carissimo Direttore,
ho letto su MC di gennaio-febbraio 2016 del novantesimo anniversario dell’arrivo dei primi cinque missionari della Consolata in Mozambico. Ma in realtà erano più di cinque. Infatti nel 1925 ne sono arrivati cinque da Torino, e quattro dal Kenya, inviati dal nostro padre Fondatore. Uno era mio cugino padre Giulio Peyrani, figlio di una sorella di mia nonna. Nel 1960 in Casa Madre mi ha raccontato tutta la sua vita, aveva ancora la lettera che aveva ricevuto dal Fondatore. Lui lavorava da diversi anni in Kenya e il Fondatore gli chiedeva per favore se era disposto a partecipare alla prima spedizione per il Mozambico e studiare la nuova lingua. Lui e altri tre accettarono e partirono. Si incontrarono con quelli arrivati da Torino e insieme partirono a piedi, passando le foreste per arrivare nella diocesi di Tete, dove fondarono la prima missione.
Grazie per l’attenzione e cari saluti.

Fratel Torta Francesco –  Cavi di Lavagna (GE)

Grazie della preziosa precisazione e per il bel ricordo che hai del tuo zio, che poi hai seguito diventando tu stesso missionario in Mozambico.

Questi sono i primi otto missionari che il 30 ottobre 1925 sbarcarono nel porto di Beira in Mozambico: i padri Vittorio Sandrone (superiore del gruppo), Giulio Peyrani, Pietro Calandri, Giovanni Chiomio e fratel Giuseppe Benedetto che avevano già fatto esperienza missionaria in Kenya, e i padri Lorenzo Sperta e Paolo Borello con lo studente Secondo Ghiglia provenienti da Torino dopo aver ricevuto il crocefisso dalle mani del beato Allamano. Il nono, padre Giuseppe Amiotti, si sarebbe aggiunto più avanti per sostituire Sperta che si ammalò subito e dovette essere accompagnato in Kenya da padre Calandri per curarsi. Da Beira risalirono il fiume Zambesi con un vaporetto e dopo una lunga e penosa navigazione sul fiume quasi in secca arrivarono a Tete il 10 gennaio 1926. Mentre padre Peyrani si fermava a Tete, gli altri proseguirono fino alla missione di Miruru, fondata tanti anni prima dai Gesuiti, ma poi abbandonata dopo la loro espulsione dal Portogallo (1759). Padre Calandri rientrò dal Kenya a giugno accompagnato da padre Giuseppe Amiotti, buon fotografo, a cui si devono alcune delle più belle foto di quegli anni. Egli lasciò poi l’Istituto per rientrare in diocesi. Alla sua morte lasciò il suo album di foto del Mozambico ai nipoti, l’ultimo dei quali lo ha recentemente donato alla rivista perché fosse conservato.

 




Custodi della creazione

«Noi siamo i custodi della creazione»: sono parole pronunciate da papa Francesco il 19 marzo 2013, riprese e approfondite in modo mirabile nella sua nuova enciclica sulla salvaguardia e custodia dell’ambiente e del creato. L’enciclica dal titolo Laudato si’ è stata pubblicata il 18 giugno scorso.

Da molto tempo esistono libri di teologia della creazione, gli scaffali delle biblioteche e delle librerie ne sono pieni. Da molto tempo esistono gli ambientalisti, ma pochi sono i cristiani e le Chiese che ne condividono il messaggio. Manca una «pastorale del creato» nelle nostre Chiese locali e nelle nostre parrocchie. La domanda che nasce spontanea è «come mai»?

Eppure, dei gravi problemi connessi con l’ecologia si parla da tempo su tutti i mass media, talora in maniera molto tragica. Sono drammi ai quali abbiamo assistito e continuiamo ad assistere, sbigottiti ma in fondo disinteressati: inquinamento atmosferico, scioglimento dei ghiacciai, tempeste e uragani sempre più violenti, scomparsa massiccia di specie animali e vegetali, scarsità di acqua potabile, siccità e carestie e anche – ma in questo caso molti cristiani sono sordi – le crescenti migrazioni di intere popolazioni in cerca di condizioni ambientali e di vita favorevoli. La crescita dell’ecologismo inquieta molti cristiani, perché a loro parere certi valori diffusi dagli ambientalisti sembrano in diretto contrasto con gli insegnamenti tradizionali della Chiesa sulla creazione. Secondo loro gli ecologisti sosterrebbero la necessità di bilanciare il dislivello tra popoli affamati e popoli ricchi attraverso la promozione della contraccezione e il diritto all’aborto; mentre, al contrario la Chiesa invita continuamente a proteggere la famiglia e la natalità.

Vero è che alcuni ambientalisti arrivano a ritenere che sarebbe meglio se l’umanità scomparisse dal nostro pianeta, perché l’essere umano è un parassita della terra, la quale, con lui, si è man mano degradata fino a temere la sua fine e, prima ancora, la fine dell’uomo. Questa visione dell’ecologismo farebbe della terra una specie di divinità – la «Madre Terra» dei pagani – alla quale si deve rendere omaggio e alla quale bisogna chiedere perdono per tutte le ferite inferte. Di qui la necessità di una Chiesa che abbia il compito di allontanare i fedeli da un nuovo paganesimo, che adora la terra e che è in netto contrasto con la dottrina del monoteismo, di un unico Dio creatore, Signore del cielo e della terra.

Non la pensa così papa Francesco. La sua enciclica, dedicata all’ambiente e alla custodia del creato, ne è una prova, e con lui concordano anche molti credenti, cattolici e protestanti, convinti che degradando il creato, si trasgredisca il comandamento di Dio, che ha fatto ogni cosa bene, buona e bella. Una teologia della creazione a esclusivo vantaggio dell’uomo può portare a non lasciare lo spazio dovuto al tema della custodia del creato.

Tutti ricordiamo la frase del primo capitolo del Libro della Genesi che dice: «Riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gen 1, 28). Di qui deriva l’accusa fatta alla Chiesa, e al cristianesimo in genere, di essere stata la causa della crisi ambientale del nostro tempo. Per gli ecologisti la bella e poetica pagina del primo capitolo della Genesi viene deturpata da questo versetto, in netto contrasto con la stessa dignità dell’uomo, di cui parla il capitolo: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò». La dignità dell’uomo è grande, come è grande quella di Dio creatore. Può allora accadere che la volontà dell’uomo sia in contrasto con la volontà di Dio?

 

La risposta a questo interrogativo è venuta innanzitutto dal Concilio Vaticano II, durante il quale ha avuto inizio il confronto della Chiesa con i problemi ecologici. Ciò ha richiesto una reinterpretazione dei testi della Genesi. È stato per esempio riscoperto il versetto 2,15 che parla di «custodia del creato». E si è affermato che la creazione va custodita perché è la casa dell’uomo. Se infatti la dignità dell’uomo è grande, anche la sua responsabilità è grande. Noi però non siamo Dio, dunque non siamo proprietari della terra (Sal 24,1) e non possiamo controllare tutto (Gen 38-40). L’universo – afferma la Bibbia – non è il risultato del caso, ma è il frutto dell’amore di Dio. Perciò gli equilibri degli ecosistemi sono stati creati con sapienza e attraverso di essi Dio provvede a tutte le creature (Sal 104, 24). Anzi il Signore gioisce delle sue creature e delle sue opere (Sal 104, 29-31). Ogni vita viene da Dio (Gen 2, 19), a tutti è quindi dovuto rispetto.
Da questa teologia biblica, riassunta in poche parole, deriva la responsabilità dell’uomo di custodire il creato, tutto il creato. L’uomo ne ha la capacità. Dio gliel’ha donata, da usare però non in modo egoistico, bensì per promuovere la vita, coltivarla e conservarla (Gen 2,15).
Le basi bibliche di una ecologia cristiana sono perciò sufficientemente solide. La Scrittura afferma che Dio ha creato tutto con sapienza e che provvede alle creature che egli ama. Invita per questo a meravigliarsi della creazione e a lodare il creatore. Nel Nuovo Testamento Gesù trae sovente ispirazione per le sue parabole dalla natura e lo fa in modo poetico: «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure, il Padre vostro celeste li nutre» (Mt 6,26). Paolo a sua volta scrive un inno cosmico, nel quale confessa che attraverso Cristo e per Cristo tutto è stato creato e tutto è conservato in lui (Col 1, 15-20). Ecco perché Gesù chiede di proteggere la creazione. Non mancano quindi passi biblici sia dell’Antico che del Nuovo Testamento che possano alimentare una ricca teologia del creato. Ciò che manca è una pastorale ecologica semplice e accessibile a tutti, a tutti i fedeli di ogni Chiesa e di ogni comunità.

 

L’enciclica di papa Francesco affronta proprio questo tema, quello pastorale. Il senso biblico di «pastorale» è la custodia del gregge. Ce lo suggerisce il salmo 23: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla, su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce». Tutto il salmo è impregnato di amore di Dio per il creato e il gregge che lo abita. Egli è il pastore che si preoccupa delle sue pecore.
Questo spiega perché molte conferenze episcopali fino agli ultimi pontefici, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e papa Francesco, siano intervenute sull’urgenza di una ecologia cristiana. Alcune chiese particolari già lo hanno fatto, riservando tre o più domeniche all’anno al tema della creazione; altre propongono degli incontri sulla custodia del creato e sull’ecologia; altre infine sono attente alla manutenzione ecologica degli stabili che compongono la parrocchia od organizzano marce per il clima e la protezione della natura. O ancora propongono serate di preghiera in occasione di particolari disastri naturali.
La Chiesa canadese, per esempio, promuove con tutte le confessioni cristiane un programma dal titolo «La Chiesa verde». Ne ha parlato recentemente un teologo ambientalista canadese, Norman Lévesque, sul numero di “Concilium” di marzo-aprile 2015 (pp. 165-172), in un articolo dal titolo provocatorio: «Farla finita con l’ecologia… oppure costruire delle “chiese verdi”?». Norman Lévesque è autore, tra l’altro, di «Una Guida pastorale ecologica per passare all’azione», edita a Toronto nel 2014. Dalle esperienze di piccole comunità, da quella canadese in particolare, possiamo perciò partire per leggere e meditare l’ultima enciclica di papa Francesco sulla custodia e la conservazione del creato.
Non si può più ignorare infatti una teologia ecologica della creazione. Bisogna anzi ringraziare i movimenti degli ecologisti, con i loro eccessi, che hanno avuto il coraggio e il merito di ricordarci, anche se talvolta un po’ brutalmente, l’esistenza della teologia del creato e della necessità di custodirlo. L’ecologia e gli ecologisti hanno certamente avuto una funzione critica provvidenziale per la teologia e i problemi ecologici del nostro tempo. Essi ci hanno permesso di rivedere il nostro posto all’interno della creazione, la nostra relazione con tutti gli esseri viventi e le altre creature, e di avere al tempo stesso una visione nuova e più ampia della stessa redenzione. Alcuni teologi sono giunti a dire che la creazione non esiste per l’uomo, ma per la gloria di Dio. Noi allora, come ha detto papa Francesco, «siamo i custodi di questa creazione».

Giampietro Casiraghi

Tags: Chiesa, papa, ambiente, Laudato si’, ecologia, enciclica

Giampietro Casiraghi




LA «IGLESIA CHICA»

C come Chiesa

Nell’Ottocento, la diffusione in Uruguay del pensiero illuminista e massonico favorì l’affermazione del laicismo. Nel 1915, la separazione tra stato e chiesa venne formalizzata da José Batlle y Ordóñez, presidente tra i più apprezzati della storia uruguayana. In questo contesto, la chiesa…

Misi piede in Uruguay per la prima volta nel lontano gennaio del 1977, dopo un viaggio in nave di un paio di settimane: a quel tempo l’epoca dei viaggi transoceanici via mare stava concludendo il suo onorato servizio dopo quasi cinque secoli di spola tra le due sponde dell’Atlantico. Da allora il mio legame con il «paysito» (come affettuosamente gli uruguayani chiamano la loro terra) è cresciuto di anno in anno condividendo in gran parte dolori e sofferenze, giornie e speranze della sua gente: i primi legati al triste e buio periodo della  dittatura militare, le seconde intrecciate con il faticoso cammino intrapreso per riacquistare la libertà. Avendo vissuto un’esperienza credo unica ed irripetibile, quella cioè di completare i miei studi di teologia presso l’«Istituto teologico uruguayano “Mariano Soler”» ho avuto modo di passare diversi anni accanto ad una generazione di sacerdoti formatori e giovani seminaristi del luogo, partecipi fino in fondo ai drammi del loro paese, ma dotati di una fede incrollabile nella speranza di un futuro migliore. Alcuni di loro avevano sperimentato sulla propria pelle il carcere, altri avevano qualche familiare detenuto per motivi politici nelle orribili prigioni della dittatura militare, una delle più ottuse di quel periodo. Conservo nitido nella mia mente tutto quanto ho vissuto in quegli anni, anche se dopo tanto tempo, forse è più facile rielaborare con distacco quanto successe nel piccolo paese situato sul lato orientale del Rio de la Plata.

Consolidatosi sul piano culturale grazie all’influsso dell’illuminismo – imperante a quel tempo negli ambienti rivoluzionari del Sud America – ed influenzato da correnti di pensiero della massoneria europea (notoriamente anticlericale), l’Uruguay sin dall’inizio si caratterizzò come una repubblica laica che teneva a una certa distanza la chiesa cattolica. A sua volta la Santa sede, lontana ed avulsa agli avvenimenti del tempo e non percependo i cambiamenti che si andavano operando, mantenne i territori legati a Montevideo soggetti all’arcidiocesi di Buenos Aires, creando molte difficoltà tra i cattolici che, dal punto di vista politico obbedivano alle leggi della nuova nazione repubblicana, mentre dal punto di vista religioso dovevano obbedienza ad un vescovo «straniero». Solo dopo quasi quarant’anni dall’indipendenza, venne costituita, il 13 luglio del 1878, la diocesi di Montevideo, che comprendeva allora tutto il territorio nazionale e che fu affidata alle cure pastorali di mons. Jacinto Vera, primo vescovo nativo dell’Uruguay, uno zelante pastore ricordato ancora oggi come «el Obispo gaucho».
Nel 1915, il presidente José Batlle y Ordóñez separò la chiesa dallo stato e cambiò i nomi delle feste religiose del calendario. Ancora oggi in Uruguay la Settimana santa è denominata «Semana del turismo», così come l’8 dicembre, festa dell’Immacolata, è definito «El dia de la playa» (il giorno della spiaggia) e il Natale «El dia de la familia» e via dicendo. La chiesa uruguayana, la «iglesia chica» (la chiesa piccola), come viene definita, è stata sempre una chiesa povera ma dignitosa, con un suo originale pensiero teologico e una ancora più originale prassi pastorale, dovuti al fatto di confrontarsi con una realtà politica e sociale tanto diversa rispetto al resto dei paesi sudamericani.
Pur connotandosi sin dal suo inizio come uno stato molto secolarizzato, l’influenza di una visione religiosa nella vita sociale e comunitaria, si colse già durante il processo di indipendenza, basti pensare che il segretario dell’eroe nazionale José Artigas, ispiratore di gran parte dei suoi scritti, era un frate francescano, mentre uno degli estensori della prima Costituzione fu il presbitero Antonio Damaso Larrañaga, straordinaria figura di scienziato e letterato, fondatore tra l’altro dell’Università e della Biblioteca nazionale, a tutt’oggi onore e vanto del piccolo Uruguay in campo accademico. Artigas stesso si era formato nei collegi francescani del paese, conservando per tutta la sua esistenza uno spirito di servizio improntato agli ideali di vita del Santo di Assisi. Non a caso tutti i suoi scritti sono molto diversi dal linguaggio retorico e roboante dei grandi Libertadores del suo tempo.

Creata la gerarchia cattolica con la nomina di mons. Jacinto Vera a vescovo di Montevideo, nel paese ben presto si formò una generazione di pastori, che si qualificarono come le menti più acute e brillanti in campo ecclesiale, capaci di opporsi e contrastare l’anticlericalismo e il laicismo che contagiava la classe dominante, sia a livello culturale che politico.
Non a caso quando Leone XIII, nel 1899, convocò a Roma il primo Concilio latinoamericano, la relazione di apertura fu affidata a mons. Mariano Soler, arcivescovo di Montevideo. Inoltre con l’arrivo di schiere di emigranti europei, approdarono in Uruguay, diverse congregazioni religiose maschili e femminili che affiancandosi agli ordini «storici» presenti (gesuiti e francescani) diedero il meglio del loro carisma, lasciando un’impronta notevole nella vita del paese, soprattutto nel campo dell’educazione dei giovani. Va detto inoltre che fin dall’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, precorrendo di molto l’enciclica «Fidei donum» di Pio XII, diversi sacerdoti diocesani, soprattutto italiani e spagnoli, arrivarono in Uruguay e iniziarono «ante litteram» un’originale cooperazione tra le chiese, tra Europa ed America Latina. Questi Fidei donum hanno scritto pagine importanti nel libro delle missioni e dell’Uruguay. Ma forse la pagina più bella fu quella scritta durante la dittatura militare quando questa chiesa, «piccola», povera di mezzi ma ricca di dignità, divenne la voce di chi non aveva voce, trasformandosi nella coscienza critica di un’intera nazione vilipesa e calpestata.
Le figure carismatiche di mons. Carlos Parteli, arcivescovo di Montevideo, che negli anni ’70 non indietreggiò di un millimetro di fronte alla protervia dei militari, e di mons. Marcelo Mendiharat, vescovo di Salto, esiliato per lunghi anni dalla Giunta militare, influenzarono enormemente la chiesa uruguayana. La loro azione pastorale, unita alla testimonianza cristallina, forse più anonima, di militanti laici, suore, comunità di base e sacerdoti permise di aprire cammini di giustizia e pace che portarono alla ricomposizione ed al recupero della vita democratica.
A tutt’oggi, la realtà uruguayana, pur essendo segnata da una profonda (ma sana) laicità, guarda con ammirazione e simpatia a questa «iglesia chica», più che mai sale e lievito della sua storia.
di Mario Bandera

Don MURGIONI, «TUPAMARO» PER FORZA

Storia di un sacerdote italiano ingiustamente incarcerato (e torturato) per 5 anni dai militari golpisti uruguayani (addestrati dall’onnipresente Cia). 

Il 2 novembre del 1993 stroncato da un male incurabile, concludeva a soli 51anni d’età la sua vita mortale don Pierluigi Murgioni, sacerdote Fidei donum della Diocesi di Brescia.
Don Pierluigi era arrivato in Uruguay nel 1968 nel contesto della cooperazione tra le chiese che, sotto il poderoso impulso datogli dal Concilio, aveva incrementato notevolmente il numero dei sacerdoti diocesani italiani impegnati nei vari paesi latinoamericani. In Uruguay, in particolare, approdarono Fidei donum delle diocesi di Novara, Bergamo, Brescia e Verona. Una perfetta miscela piemontese-lombardo-veneta che, se pur dispersa negli angoli più reconditi del piccolo paese del Rio della Plata, si ricompattava periodicamente attraverso degli incontri memorabili, capaci di risollevare lo spirito ed il morale ad ogni missionario italiano anche nei momenti più duri, tale era l’amicizia, l’affetto e l’unione reciproca che stava alla base di questo legame. Di questi incontri, don Pierluigi era un po’ l’anima, purtroppo un amaro destino aveva riservato per lui un’esperienza missionaria del tutto particolare.

Durante un’incursione nottua nella sua parrocchia (compiuta dai militari che avevano preso il potere tramite un golpe in cui avevano sospeso ogni garanzia costituzionale), venne arrestato nel maggio del ‘72, con l’accusa di appartenere al «Movimento di liberazioe nazionale tupamaros» e senza nessuna spiegazione, tradotto ed incarcerato in un luogo sconosciuto. A suo carico non fu mai esibito lo straccio di una prova per aver infranto la legge uruguayana, però era tale l’astio dei golpisti nei confronti della chiesa schierata apertamente e decisamente dalla parte degli oppressi, che si volle, attraverso lui, dare un esempio a tutti gli altri sacerdoti, al fine di raffreddae lo slancio evangelico e solidaristico con chi era coinvolto nei cammini di liberazione sociali, civili e politici.
Fu torturato sistematicamente con il solo piacere sadico di infierire su un ministro del culto cattolico che aveva manifestato solamente carità e solidarietà cristiana nei confronti degli appartenenti ai «tupamaros» (cosa ben diversa dal condividere ideali e strategie di lotta), fu privato della possibilità di celebrare l’eucarestia in carcere e gli vennero tolti sia la bibbia come il breviario. Rapato a zero, con la casacca color kaki di tela grezza sulla quale era cucito il numero che era diventato per imposizione un suo secondo nome; venne fatto scendere nel «calabozo» (prigione sotterranea) dove, insieme ad altri ragazzi appartenenti alla miglior gioventù uruguayana, passò 5 lunghissimi anni della sua vita. Gli cambiarono cella e compagni diverse volte e sistematicamente, ogni 2-3 mesi. Veniva fatto vestire con abiti civili, facendogli balenare la possibilità che «di lì a poco sarebbe stato spedito in Italia»: una tragica farsa studiata dagli specialisti della Cia, che stavano dietro le quinte dei golpisti uruguayani, per fiaccarne l’animo e lo spirito. Ma don Pierluigi fu forte, resistette ad ogni tortura e condizionamento; i suoi compagni di sventura lo ricordano come colui che sosteneva la speranza di tutti, era un riferimento preciso nella disgrazia collettiva del carcere.
Quando fu rilasciato, il 12 ottobre 1978, all’aeroporto di Montevideo, diversi furono i missionari italiani venuti a salutarlo e a ringraziarlo per la sua incrollabile testimonianza di fede offerta nei lunghi anni di detenzione. Il lungo abbraccio che ci scambiammo prima che lui salisse sull’aereo resta uno dei ricordi indelebili che tutt’ora mi porto nel cuore.
di Mario Bandera

Mario Bandera