Costa d’Avorio. Una Chiesa inculturata. Bellezza che evangelizza


Sommario:

Costruire una chiesa per dire la bellezza della fede. La missione prende casa

Presenti dal 2002 nella diocesi di Odienné, Nord della Costa d’Avorio, in zona musulmana e animista, i Missionari della Consolata accompagnano la crescita della Chiesa locale. Annunciano il Vangelo con opere di promozione umana. Nel 2019 hanno inaugurato la nuova chiesa: umile, ma bella come una basilica. Una costruzione che parla della missione con la M maiuscola.

Dianra Village si trova nel Nord della Costa d’Avorio, nella regione del Béré, diocesi di Odienné. La parrocchia, dedicata a san Joseph Mukasa, catechista ugandese nato nel 1860, martirizzato nel 1885, proclamato santo nel 1964, è sorta nel 2012 ed è stata affidata ai Missionari della Consolata che sono presenti nell’area dal 2002. Il vescovo locale ha affidato loro l’intero dipartimento di Dianra che si estende su un territorio di tremila chilometri quadrati e conta attualmente duemila cattolici su una popolazione di circa centoventimila abitanti, prevalentemente musulmani e animisti.

In questo contesto la missione percorre i sentieri dell’annuncio, della consolazione e del dialogo attraverso un impegno di evangelizzazione dai molteplici volti, che incarnano il desiderio di manifestare a tutti la tenerezza di Dio.

Insieme alle persone con cui condividono questa meravigliosa avventura, i missionari visitano i villaggi per l’annuncio del Vangelo, si aprono alle ricchezze delle culture che li accolgono, realizzano progetti educativi (alfabetizzazione serale e scolarizzazione) e di appoggio all’economia domestica (microcredito per donne e apicoltura). Sperimentano lo stupore della fraternità interreligiosa di cui è intessuto il loro quotidiano e, inoltre, amministrano un centro sanitario che oggi fornisce diversi servizi: dispensario, maternità, studio dentistico, laboratorio analisi, centro trasfusioni, salute mentale, accompagnamento di persone sieropositive e affette da tubercolosi, centro nutrizionale e telemedicina in cardiologia.

Segno del Regno nel cuore del mondo

Qui, su un piccolo poggetto di pietra rossa, nel 2019 è stata inaugurata la nuova chiesa, costruita con la più umile delle architetture, ma capace di stupire chi arriva come fosse una basilica.

Il progetto della chiesa parrocchiale è nato e si è sviluppato innanzitutto nel cuore e nel desiderio dei fedeli della comunità.

Successivamente condiviso con i missionari della Consolata e da loro accolto, ha visto l’approvazione del vescovo diocesano e ha potuto realizzarsi grazie alla comunione di amicizia con tanti che lo hanno appoggiato spiritualmente, tecnicamente e finanziariamente.

Questa storia ci parla di un cammino lungo, bello e faticoso, fatto di piccoli passi e di sorprese, di incontri inaspettati e di provvidenza, di vita donata e gratuita offerta di sé… in una parola del mistero della Chiesa, segno vivente dell’inizio del Regno nel cuore del mondo.

Un segno di cui questa chiesa è un’ulteriore testimonianza fatta architettura e arte, capace di parlare della bellezza di Dio e della vita nuova in Cristo a chiunque la contempli.

«Voi siete tempio di Dio» (2 Cor 6,16)

Nel quinto anniversario della dedicazione della chiesa, abbiamo pensato di raccontare in un dossier la sfida missionaria del cantiere. La costruzione della Chiesa, infatti, va ben oltre i mattoni e gli affreschi: è occasione per rivelare a ogni uomo che egli stesso è tempio di Dio, a ogni comunità che è chiamata a essere popolo di Dio. La sfida di inculturazione che abbiamo raccolto in questo spazio liturgico crediamo possa raccontare la sfida della missione stessa nel mondo.

Matteo Pettinari


Dare forma visibile al mistero della salvezza.

Una chiesa per Dianra Village

Una consacrata di Senigallia, architetto, viene coinvolta nella progettazione di uno spazio liturgico in un territorio di prima evangelizzazione. Il suo racconto degli elementi architettonici della chiesa è lo spunto per una riflessione, quasi un canto di lode, sulla bellezza come strumento di annuncio.

La chiesa parrocchiale San Joseph Mukasa di Dianra Village nasce dalla fede grande del catechista Maxime Soro e della sua gente, dalla premura dei padri missionari, dalla generosità di molti, sia locali che italiani, e dalla follia del mio amico padre Matteo Pettinari, che nel 2012 mi ha chiesto di dar forma al loro sogno di celebrare le meraviglie di Dio in un edificio che potesse annunciare il suo amore per noi.

Quello di Dianra era il mio primo cantiere. Io abito nella diocesi di Senigallia (An), ed ero a 7.186 km da lì, ma fortunatamente padre Matteo mi ha accolta diverse volte nella missione e mi ha insegnato ad ascoltare e amare la terra e la gente, perché, se uno spazio deve parlare di Dio, allora deve parlare il suo linguaggio, che è la comunione.

La nuova chiesa di Dianra Village ha sostituito la piccola cappella costruita dai primi catechisti nel 1986 e ormai incapace di contenere la comunità.

Nel terreno della parrocchia sorge un poggetto da cui si apre la vista sul villaggio. Qui vi sono la casa parrocchiale, con stanze per l’ospitalità e gli incontri, le aule per il catechismo e l’alfabetizzazione e il centro sanitario della missione. Ma il cuore spirituale della comunità è il boschetto accanto alla chiesa: sotto questi alberi secolari, padre Marcel Dussud, della Società delle missioni africane, celebrò la prima messa nel 1985. Qui, ancora oggi, c’è la grande pietra usata come altare.

La chiesa di Dianra è costruita attorno al fonte battesimale nel quale, durante la notte di Pasqua, scendono i catecumeni che si spogliano dell’abito vecchio per indossare quello di luce. Una volta battezzati, i nuovi cristiani «salgono» nella «stanza al piano superiore», nel corpo centrale della chiesa, nel quale tutto viene dato in dono dalla mano aperta del Padre che è rappresentata nel punto più alto sopra l’altare.

Tutta la vita è attratta dall’oro della Gerusalemme celeste dipinta nell’abside: lì tutto ciò che oggi è fatica e sudore diventa oro pieno di luce.

Ogni volta che lavoravo in cantiere, mi tornavano alla mente le parole di Gesù: «Perché abbiano la vita in abbondanza». Ecco, questo desidero e di questo credo parli la nostra piccola grande chiesa.

La stanza al piano superiore

Alla samaritana che gli chiede quale sia il luogo adatto per adorare Dio, il Signore risponde: «È giunto il tempo, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4).

La nostra non è la religione del tempio e, per capire come edificare un luogo per la liturgia, è stato necessario comprendere dove e come ogni liturgia si svolge, perché l’edificio di mattoni potesse essere vero ponte del mistero di salvezza.

Nell’Ascensione, Cristo sale in cielo portando la natura umana nella dimora dell’Altissimo. Nella Pentecoste lo Spirito scende sulla terra e si nasconde nell’uomo per renderlo simile a Dio.

La liturgia della Chiesa è un dare forma, voce, spazio, materia, a questa azione della Trinità: ovvero è un accogliere lo Spirito che scende in noi e che ci rende Corpo di Cristo; ed è un salire in cielo, alla Casa del Padre, in Cristo.

Il brano che narra la Pentecoste ci dice che gli apostoli si riuniscono in una stanza al piano superiore. Progettando uno spazio nel quale celebrare il mistero della divina liturgia, abbiamo scelto di approfondire la Parola proprio su questo: la stanza al piano superiore è, ad esempio, la stanza del Re (Gdc 3,20; 2 Sam 19,1; Ger 22,14), ed è anche una stanza nuziale (CdC 1,4).

I fedeli di tutti i tempi hanno voluto edificare chiese che cantassero con la loro bellezza le lodi di Dio. Le case dei re, quelle del capo villaggio o del prefetto, anche a Dianra, si distinguono dalle altre per i colori della facciata e alcuni semplici elementi decorativi. E così anche la chiesa. Però, mentre le case dei potenti sono private e inaccessibili, la casa del nostro Re è aperta a tutti, è una bellezza a cui possono prendere parte tutti.

La chiesa è anche luogo di intimità con lo Sposo. Può sembrare fuori luogo far riferimento all’intimità coniugale in un contesto culturale poligamo come quello del Nord della Costa d’Avorio. Ma proprio per questo il messaggio cristiano è salvifico: Cristo ti ama, ti chiama, ti cerca personalmente, non come uno tra tanti, ma come persona unica e speciale.

La stanza al piano superiore, poi, per la Scrittura è anche il luogo della vita eterna (1Re 17,19; 2Re 4,10; At 9,36-43) e dell’Eucarestia (Mc 14,15; Lc 22,12; At 1,13; At 20,8).

Ogni chiesa è luogo di resurrezione e di festa: questa pienezza di vita che ci attende in paradiso, già ora ci è donata mediante i sacramenti. L’asse principale dello spazio liturgico parte dal fonte battesimale, posto all’ingresso, e culmina nell’abside, nella piazza d’oro dell’Apocalisse.

La centralità dell’altare richiama il banchetto a cui il Signore ci invita. E questa comunione con Lui rende anche noi Corpo di Cristo, sue membra. La pianta a croce latina è dall’antichità simbolo della Chiesa-Corpo di Cristo.

La stanza al piano superiore, infine, è nei cieli (Ap 4,1), ed è, al tempo stesso, nel cuore della città (At 1,13; At 9,37; At 20,8): la liturgia per noi cristiani non è un rito, ma partecipazione alla festa che i santi celebrano in cielo. Lo spazio liturgico è luminoso, colorato, più bello possibile, nell’intento di accendere nei fedeli il desiderio del paradiso. Allo stesso tempo la chiesa è fontana del villaggio, luogo da cui sgorgano pace, mitezza, gioia, bellezza, amicizia, riconciliazione per tutti. Ecco perché lo spazio attorno alla chiesa diventa una piazza, il luogo della danza e della festa.

Via Crucis quaresimale

Venite a me voi tutti

Quando arrivi sul poggetto dove è costruita la chiesa, ti accoglie un portico.

Come accadeva già nelle prime chiese cristiane, vi è uno spazio dedicato al catecumenato, all’iniziazione cristiana, esperienza e tempo di grazia in cui la persona che si sente attirata dalla testimonianza e dall’annuncio comincia a leggere la propria vita con lo sguardo della rivelazione cristiana.

Il portico mette in dialogo alcuni simboli cristiani con l’arte tradizionale senufo (etnia maggioritaria nella zona, ndr). Le persone che arrivano, infatti, non vedono come prima cosa una iconografia cristiana che non saprebbero decifrare, ma simboli che, da un lato richiamano la loro esperienza quotidiana e, dall’altro, attirano a qualcosa di nuovo (inframezzati ai simboli senufo vi sono, ad esempio, alcuni simboli paleocristiani come il pesce).

Sotto il portico si svolgono le catechesi e le settimane di formazione residenziale. È un luogo che prepara, quindi, all’ingresso in chiesa e all’ingresso nella Chiesa, ma è anche luogo e spazio di relazione. Concretamente, così come c’è stato bisogno che alcuni padri traducessero il Vangelo in lingua senari (una delle lingue parlate dai Senufo, ndr), così anche l’architettura dice la necessità di mettersi in dialogo con la cultura specifica del popolo che abita questo luogo.

Il portico è lo spazio del dialogo tra il Vangelo e la realtà, di incarnazione e di inculturazione. Non a caso è verde: perché ci ricorda che già tutta la creazione e tutte le culture, e i popoli, portano i semi del Verbo e gemono nell’attesa di poter celebrare il creatore (Rm 8,19-24).

Nel portico c’è tutto il verde della foresta, della savana, e la cultura di questo popolo che attende Cristo, così come ogni uomo. L’uomo in ricerca è simboleggiato dalle cerve che sono disegnate con l’arte senufo, perché la cerva ci ricorda l’anelito dell’uomo a Dio: la tradizione dice che la cerva che mangia il serpente nell’arsura cerca l’acqua come noi cerchiamo il Signore dopo il peccato.

Sotto il portico è raccontato questo incontro attraverso tre icone dipinte sopra le porte, raffiguranti i vangeli che la chiesa utilizza come testi di riferimento nel tempo quaresimale per il cammino dei catecumeni.

Io sono la porta, dice Gesù (Gv 10), e noi abbiamo costruito una porta enorme, da cui tutti posso entrare: nel portale è inciso il simbolo di Cristo (P) ed è raffigurato il Buon pastore che attira a sé le pecore: «Venite tutti a me», Ye myé yaa maa mì mà, in senari. È Cristo che ci attende, ci attira a sé, viene a chiamarci fuori dalle tenebre, per salvarci dalla morte.

Chi arriva in questo luogo santo non può che alzare lo sguardo e incontrare il suo.

Attorno al Cristo, sul portale c’è un arco dipinto con i simboli tradizionali senufo: il Cristo viene a chiamare tutte le culture e tutti i popoli, nessuno escluso. Non ci sono più persone o gruppi maledetti esclusi dalla grazia. Ogni cosa è chiamata a ricapitolarsi in Cristo, a ritornare a Lui.

Daniela Giuliani

La materia trasfigurata dall’amore

È il Natale del 2012 quando in tantissimi rimangono fuori dalla piccola cappella perché non c’è più posto. A sorpresa, padre Matteo mi presenta alla comunità: l’amica architetto che progetterà la nuova chiesa. Il mio stupore e timore sono grandi. Gli abbracci della gente dicono: «Dio si è ricordato di noi».

Seguono tre anni di ascolto dei missionari, della tradizione del popolo senoufo, di Maxime e dei catechisti, di amici artisti e tecnici. Poi tre anni di cantiere. È un lavoro che ci insegna tanto: sulla cultura locale, sulla fede della gente semplice, sui materiali del posto, sul cammino dei nuovi cristiani che a Pasqua ricevono il battesimo e danzano tutta la notte, sulle architetture copte e siriache che sono le più vicine alla terra ivoriana.

Procediamo spesso a tentoni, senza pretendere di capire tutto. Viviamo l’obbedienza alle ispirazioni che piano piano arrivano.

E con stupore i mattoni impastati uno a uno diventano muri, archi, volte. Cose mai viste a Dianra, realizzate da una piccola impresa locale. E poi le mattonelle, scarto di un magazzino di Abidjan, che i catecumeni dapprima frammentano, e poi ricompongono, con l’aiuto di giovani italiani arrivati a Dianra per un’esperienza di missione.

E poi c’è Soro, un uomo piccolo di statura che si arrampica su trabattelli di fortuna per affrescare le pareti usando tre barattoli di colori da carrozzeria con un’abilità degna dei migliori artisti.

In chiesa lavorano differenti abilità, lingue, etnie e religioni. Potrebbe essere una Babele, ma non lo è. Chi fa i mosaici a terra, chi dipinge le pareti, chi costruisce la volta a botte. Ciascuno è qui non per essere il primo, ma per servire nell’unità.

Lo spazio liturgico è abitato, è spazio di incontro. La Liturgia che vi si celebra mette in relazione la vita della terra (fatta dell’ocra delle case di terra cruda, del verde delle piantagioni di anacardo, del rosso delle strade) con quella del cielo (dove il rosso di Dio e il blu dell’umanità danzano insieme, i volti dei santi ci fanno compagnia e l’oro di Dio illumina tutto).

Ciascuno si ripete: «Quando sono debole è allora che sono forte, perché Tu sei la mia forza!». Si è generativi solo se in relazione. E la relazione è concreta: ad esempio sta nel fatto di non poter usare i materiali che vorresti, di non poter decidere tu, di fidarti dell’altro. Allora ciò che edifichi non parla più solo di te e a te, ma partecipa della bellezza di Dio.

Se un tetto di lamiera, la vernice da carrozzeria, le mattonelle di scarto, possono divenire «la chiesa più bella della Costa d’Avorio», come amano definirla le persone del luogo, allora anche la loro vita di stenti, le loro case di terra cruda, il loro villaggio, possono essere i più belli della Costa d’Avorio!

D.G.

Catecumeni nella notte di Pasqua

Celebrare la vita nuova

Il racconto meditato di una veglia pasquale nella quale 27 catecumeni ricevono il battesimo. Ogni elemento architettonico e iconografico della chiesa di Dianra accompagna la celebrazione e il senso della vita cristiana che i battezzati vivranno.

Questa è la notte delle notti, la notte di Pasqua: i catecumeni della missione di Dianra Village sono ventisette e oggi, vestiti di bianco, celebrano la vita nuova che è data loro in dono. Nessuno può trattenere la gioia e la commozione, che si fanno danza, canto, rendimento di grazie.

Tutta la chiesa è costruita per celebrare questa notte, nella quale Cristo con la sua morte e resurrezione ci dona la Vita nuova, che non muore più.

Quando si entra in chiesa attraverso il portale si fa memoria della vita nuova che abbiamo ricevuto, o ci si prepara a riceverla. Sul portale è dipinto il Buon Pastore che chiama le pecore a uscire dalle tenebre, dalla morte, per trovare vita in lui.

Come nell’arte paleocristiana, anche qui il Pastore che prende la pecora sulle spalle è figura di Cristo che vuole donarci vita in abbondanza. Cristo nel battesimo ci innesta in sé. Lui è la Porta e, attraverso di lui, entriamo in una nuova vita, nella Chiesa, suo Corpo (Eb 9,24-28).

Entrando dal portale ci si ritrova sotto una volta a botte dipinta di azzurro che ci avvolge come un grembo materno, un grembo di cielo, al cui centro è collocato il fonte battesimale: è la Chiesa che genera i suoi figli portandoli a Cristo nel sacramento del battesimo. Lo Spirito santo è dipinto sul portale come una colomba, e a terra, nel mosaico, come una fiamma e come un uovo fecondo, perché è nello Spirito e da esso che riceviamo la Vita (Gen 1,2; Gv 3,1-8).

Al centro c’è il fonte battesimale a forma di croce, con tre gradini che scendono e tre che salgono: rinasciamo immersi nella morte di Cristo, nella sua Pasqua (Rm 6,1-14)

Ed eccoli i catecumeni di Dianra, che nella notte di Pasqua, al buio e vestiti di bianco, scendono i tre gradini del fonte, morendo alla vita vecchia con Cristo. Chinano il capo, i padrini tengono una mano sulla spalla, padre Matteo li battezza versando l’acqua sul capo che scende e bagna le vesti. Poi sollevano il capo e risalgono i gradini verso la comunità. Risorti con Cristo. Il volto è raggiante.

Le pareti interne del fonte sono rivestite di mattonelle azzurre che rimandano all’acqua viva del battesimo a cui sempre possiamo attingere: la porta e il fonte posti all’ingresso della chiesa permetteranno in futuro a questi nuovi cristiani di fare memoria del dono ricevuto questa notte.

E chi questo dono non può riceverlo o lo ha dimenticato? Di fronte agli uomini e alle donne di Dianra, in un contesto di primissima evangelizzazione, nel quale i cristiani sono minoranza, di forte presenza dell’islam e dell’animismo, le domande sulla salvezza diventano urgenti.

Per questo nella chiesa abbiamo aperto altre due porte ai lati del portale: quella del battesimo delle lacrime, per ricordare che Cristo accoglie tutti coloro che sono nel pianto, e quella del battesimo del sangue, per ricordare che la partecipazione al sacrificio di Cristo può avvenire anche «fuori» della Chiesa, come i piccoli santi della strage degli innocenti (Mt 2).

Nel pentimento e nel dono di sé tutti possono entrare nello spazio della salvezza che è Cristo.

Vivere da figli, imparando ad amare

I neofiti escono dal fonte, e si apre per loro la vita cristiana. Il primo passo poggia su una croce. E anche quello dopo e quello dopo ancora, su croci colore rosso che guidano il cammino fin sotto l’altare. Cantano percorrendo la navata. Sanno di non essere più soli nel cammino.

La forma della vita nuova, della vita cristiana, è la croce, è l’amore. Questa via crucis è in realtà una via amoris, un cammino di amore che ci fa diventare sempre più conformi a Cristo.

Il percorso della vita cristiana va dalla vita ricevuta alla vita donata, è un percorso che inizia dal battesimo che abbiamo ricevuto gratuitamente e termina sull’altare, laddove offriamo con Cristo, per Cristo, in Cristo, la vita al Padre.

Questo percorso non si fa da soli, ma dentro un popolo: la navata, infatti, ricorda una barca, simbolo della Chiesa, e alle sue pareti ritroviamo volti e storie di questo popolo che cammina, da un lato quello di Israele nell’Antico testamento, dall’altro quello di Cristo nel Nuovo testamento.

I neobattezzati arrivano così davanti all’altare. Lì, a terra, un mosaico pieno di colori con una croce al centro segna il punto in cui per la prima volta si ciberanno del Corpo di Cristo.

Si inchinano. Qui la terra tocca il cielo. La loro umile vita tocca l’infinito di Dio.

Questo luogo, nelle chiese antiche si chiama onphalos (ombelico in lingua greca), ed è collocato spesso sotto la cupola, il punto in cui la costruzione dell’uomo arriva a toccare il cielo, e si apre facendo entrare un raggio della luce di Dio che ci raggiunge. L’ombelico è il baricentro dell’uomo ed è il punto tramite il quale, quando si trova nel gremo materno, riceve il nutrimento. Nell’onphalos noi riceviamo il nutrimento per il cammino, il corpo e il sangue di Cristo.

Attorno all’onphalos, quattro pilastri ricordano i pinnacoli che reggono la cupola: in essi sono raffigurati gli evangelisti, perché è l’ascolto della Parola che sorregge il nostro cammino e ci rende amici di Dio.

Dopo l’inchino, ora i nuovi cristiani alzano il capo e il loro sguardo si fa raggiante: dopo essere morti e risorti nel fonte, dopo aver percorso nella navata il cammino in una via crucis d’amore, dopo aver ricevuto il nutrimento del Pane di vita e della Parola, ora non sono più schiavi, ma figli amati e amici del Signore e, alzando lo sguardo, incrociano lo sguardo del Cristo Risorto, in Gloria.

Chi entra in chiesa nota subito l’assenza del crocifisso al centro dell’abside, tipico di molte chiese degli ultimi secoli. Qui a Dianra abbiamo ripreso la tradizione del primo millennio nella quale al centro dell’abside vi era sempre il Risorto, il Veniente, il Pantocrator, a ricordarci che la croce non è punto di arrivo, il compimento della vita cristiana, ma il cammino, la forma pasquale della vita cristiana e dell’amore che si dona, che trova pienezza e compimento nella gloria, nella Gerusalemme celeste.

Il culmine della vita nuova ricevuta nel Battesimo e del cammino cristiano è la Vita Eterna, il Paradiso.

Ora non è più notte. La luce ha vinto le tenebre. Non dobbiamo più temere la morte. Esplode tra i neofiti il canto dell’Alleluja.

Daniela Giuliani

Rappresentare un Dio accessibile

La parola si fa carne e volto

In questa terra a maggioranza islamica, dove è proibito raffigurare Allah, e dove nella religione tradizionale è causa di morte vedere il volto delle maschere sacre, il volto di Cristo è dirompente.

La fede nasce dall’ascolto. Mi commuovo ogni volta che sento annunciare il Vangelo in senari, la lingua locale del popolo senufo. Perché Dio Padre non potrebbe parlare a questa gente se alcuni missionari innamorati di Dio e degli uomini non avessero fatto la fatica di imparare questo idioma e di tradurre la Buona Novella.

Allo stesso modo, a questa Parola urge un volto. Perché la nostra non è la fede del libro, ma è la fede in Cristo Gesù che si è fatto uomo ed è venuto a rivelarci il volto di Dio.

In questa terra a maggioranza islamica, dove è proibito raffigurare Allah, e dove nella religione tradizionale animista è causa di morte vedere il volto delle maschere sacre, il volto di Cristo è dirompente. È il volto di un Dio che non è inaccessibile e ci vuole incontrare, è il volto dell’amore. È il nostro volto, di noi che siamo creati a sua immagine e somiglianza.

Gli affreschi della chiesa mostrano volti, rendono presenti coloro che sono raffigurati, chiedono un incontro. E sono accessibili a tutti, non occorre saper leggere o conoscere chissà quali dottrine: basta lasciarsi incontrare dal suo sguardo.

Si è incarnato

Nella navata che rappresenta il cammino del popolo di Dio, le pareti sono affrescate con la storia della salvezza. Avendo l’altare di fronte, sulla sinistra sono rappresentati episodi dell’antico testamento, sulla destra del nuovo.

Una storia della salvezza che comincia dal principio, con Adamo ed Eva, e trova compimento nell’incarnazione, fino alla morte e resurrezione di Cristo. Il Risorto spalanca le porte degli inferi e libera Adamo ed Eva dalla morte. E con loro ciascuno di noi, raggiunti dall’annuncio.

A chiunque entra nella chiesa, missionario o neofita che sia, illetterato o teologo, le scene della salvezza pongono una domanda: la luce viene nel mondo, sei pronto ad accoglierla e a riconoscerti figlio di Dio? O sceglierai di restare nelle tenebre?

I quattro pannelli dell’Antico testamento riprendono le grandi tappe della liturgia della Parola della notte di Pasqua.

Adamo ed Eva nel giardino (Gen 3,1-13): qui contempliamo l’origine di ogni peccato. Eva si mette in ascolto del serpente, anziché dialogare con Dio, e sceglie di disobbedire, di dar credito alle menzogne della tentazione, di non fidarsi del Signore che ha dato loro la vita. L’uomo sceglie qui di rompere la sua relazione con Dio.

Caino e Abele (Gen 4,1-16): nella seconda icona contempliamo le conseguenze della rottura con Dio, che porta alla rottura della relazione con il fratello. Dall’albero da cui Eva coglie il frutto della disobbedienza, simbolicamente è presa anche la pietra con cui Caino uccide Abele. Il non ascolto di Dio ci rende sordi al fratello.

Abramo e il sacrificio di Isacco (Gen 22,1-19): nella terza immagine troviamo Abramo, padre nella fede, primo dei credenti. In lui, che torna a dialogare con Dio e a fidarsi della sua Parola, si compie la prima alleanza. Qui è raffigurato nell’atto di sacrificare Isacco (figura di Cristo, il quale si offrirà allargando le braccia sulla croce).

Mosè e il passaggio del Mar Rosso (Es 15,1-21): l’ultima scena dall’Antico testamento raffigura Mosè che, nella notte della Pasqua ebraica, apre le acque del Mar Rosso, e porta in salvo gli israeliti. Vittoria di Dio sul faraone d’Egitto, notte di liberazione dalla schiavitù, che accende anche in noi la speranza di una salvezza possibile, di una vita nuova in cui non essere più schiavi, che troverà compimento nel battesimo.

Specularmente, le icone raffigurate sulla parete di destra narrano il mistero di Cristo instaurando un dialogo di rimandi tra antico e nuovo testamento.

L’annunciazione (Lc 1,26-38): nella prima scena contempliamo il sì di Maria, la nuova Eva, che rivolge l’orecchio e il cuore alla Parola. Si mette in ascolto di Dio che in Lei compie le sue promesse. E il rotolo della Parola, che Maria abbraccia, diventa il cammino verso l’altro, verso Elisabetta.

La visitazione, l’incontro con Elisabetta (Lc 1,39-56): se in Caino abbiamo visto che la disobbedienza rompe la relazione con Dio e con il fratello, in Maria vediamo invece che l’obbedienza e l’ascolto ci rendono capaci di andare verso l’altro, di portare la novità che è Cristo nelle relazioni.

La natività (Lc 2,1-20; Mt 2,1-12): la terza scena raffigura la natività del Signore, ed è posta in dialogo con il sacrificio di Abramo. Lì Abramo è pronto a offrire il figlio per non rompere l’alleanza con Dio, qui è Dio Padre che offre il Figlio per l’umanità. Nessun sacrificio è più necessario, Cristo si fa uomo, Dio-con-noi, e viene a salvarci.

Il battesimo di Cristo nel Giordano (Lc 3,21-22): l’ultima scena, di fronte a quella di Mosè che apre il Mar Rosso, raffigura il battesimo di Cristo. Gesù scende nel Giordano come dentro una tomba, si immerge nella morte dei nostri peccati, per darci vita. Il suo battesimo santifica le acque del Giordano e quelle di ogni fonte battesimale: immersi in Lui, anche noi possiamo partecipare alla liberazione dalla schiavitù della morte e del peccato, come gli israeliti che attraversano il Mar Rosso.

Il compimento della storia dell’alleanza

Completa il ciclo del Nuovo testamento, ormai giunti dinanzi all’abside, l’icona della passione e morte di Cristo: è Cristo che dà la vita per noi, in una kenosis (svuotamento) che comincia con l’incarnazione, trova prefigurazione nel battesimo, e arriva fino alla morte in croce (Gv 19,16-30). È lui il Figlio mandato dal Padre per salvarci. È lui che ci mostra l’Amore del Padre, che avevamo perduto.

E dalla parte opposta, il compimento della storia dell’umanità, la resurrezione di Cristo raffigurato nella discesa agli inferi (At 2,22-31; Ap 1,17-18). Qui ritroviamo Adamo ed Eva, quindi tutta la storia, tutta l’umanità, ogni popolo che sta nello sheol (il regno dei morti). Cristo vi entra e dona vita nuova all’umanità, aprendo per sempre le porte degli inferi. Cristo è davvero risorto!

Per la salvezza del mondo

Tra lo spazio della navata, che è quello del popolo in cammino, dell’ascolto e della catechesi, e lo spazio dell’abside, è collocato un arco. Questo introduce all’altare e al mistero eucaristico, come per l’iconostasi delle chiese ortodosse.

Nella sommità dell’arco troviamo la mano del Padre aperta che ci ricorda che Dio è amore che dona tutto, dona se stesso nel sacrificio del Figlio per la salvezza e la vita del mondo. Tutta la liturgia ha origine in questa mano sempre aperta.

Accanto alla mano del Creatore, fonte e sorgente della liturgia che si celebra sulla Terra, troviamo due angeli che ci ricordano la liturgia che si celebra nei cieli, speculari a due altri pannelli in stile batik tradizionale che si trovano in basso e riproducono alcune donne che portano doni danzando, e due ballafonisti che suonano.

La liturgia terrena, che vede il popolo lodare il Signore con la danza e l’offerta dei doni, è speculare a quella celeste nella quale gli angeli portano anch’essi doni all’Altissimo e suonano cimbali e sistri: segno della comunione tra cielo e terra.

Nelle liturgie di Dianra, le offerte, in monete o in natura, non sono raccolte tra i banchi, ma vengono deposte ai piedi dell’altare dai fedeli che, danzando in processione, compiono un percorso di offerta di sé all’altare di Cristo, un’offerta importante per la vita della Chiesa.

L’altare

L’altare è il cuore dell’azione liturgica dell’eucarestia, la mensa nella quale Cristo ci ha resi partecipi del suo dono d’amore.

L’altare della chiesa è di forma quadrata: ricorda i quattro punti cardinali, e quindi l’universalità della salvezza. È un’offerta per la vita del mondo, per tutti, per ogni continente, ogni popolo.

L’altare è costruito su delle pietre prelevate dalla comunità dal poggio sul quale sorge la chiesa.

Qui, sotto gli alberi, ci sono delle grandi pietre usate come altare dai primi missionari arrivati negli anni 80: l’altare di oggi si fonda sulla fede di chi ci ha preceduti e ha dato la vita perché giungesse a noi il Vangelo. Incastonata nell’altare si trova anche la reliquia di santa Maria Goretti, dono della diocesi di Senigallia, a significare anche il legame di fede tra la Chiesa locale italiana e quella di Dianra.

L’abside

Il compimento dell’azione liturgica che parte dalla mano aperta del Padre e ci invita a offrire la nostra vita, è rappresentato nell’Apocalisse, ai capitoli 21 e 22, e raffigurato nell’abside della chiesa.

Il Cristo seduto sul trono, la piazza d’oro, la Gerusalemme celeste adorna come una sposa, la comunione dei santi.

Fiumi d’acqua viva sgorgano dal trono di Cristo, e non avremo più sete, e anche le nostre capanne diventeranno d’oro, perché ciò che noi costruiamo nell’amore è partecipazione del regno e lo ritroveremo trasfigurato ed eterno in paradiso.

Accanto ai fiumi di acqua viva che danno vita e agli alberi i cui frutti guariscono le nazioni, troviamo il popolo di Dio in cammino: una famiglia che raccoglie il cotone, altri che raccolgono il riso, accanto a un operatore sanitario, un maestro, un catechista.

L’abside rivela l’orizzonte e il compimento della vita cristiana: alla sera della vita torneremo al Padre, con i suoi doni e il frutto del nostro lavoro, e celebreremo insieme a tutti i santi la misericordia e la bontà del Signore.

Nella liturgia che celebriamo tra noi e con tutti i santi e i defunti che ci hanno preceduto nella fede e, allo stesso tempo, nella «liturgia» quotidiana del lavoro, dell’attività pastorale, ciascuno è parte della trasformazione del mondo dove ogni cosa partecipa dell’amore e loda il Creatore.

La liturgia domenicale diventa sorgente e maestra dell’arte della vita.

Il granaio

La cappella feriale, luogo della custodia del Santissimo, è realizzata come un grande granaio: un volume rotondo, alto, che riprende le architetture rurali dei villaggi nei quali ogni nucleo ha uno spazio per custodire il riso o il cotone, ciò che dà sostentamento alla famiglia.

Chi vede un granaio sa che lì si custodisce ciò che dà nutrimento ed è fonte di vita.

Il granaio è la cappella dove ci si ritrova in fraternità attorno alla mensa della Parola e del Pane.

Il granaio è luogo di intimità, di adorazione silenziosa, ma ricorda anche che la liturgia è per la salvezza del mondo che attende quel pane di vita, e che noi discepoli siamo chiamati a farci pane per il villaggio, a farci missionari.

A indicare questa missione è il mosaico composto sul pavimento del granaio: raffigura un pane nel quale riconosciamo Cristo con il costato trafitto da cui sgorga la grazia dei sacramenti. Questo pane genera altri dodici pani che ricordano che anche noi siamo chiamati a farci pane. «Noi diventiamo ciò che riceviamo», diceva san Gregorio Magno: nutrendoci di Cristo diveniamo pane di vita per chi ha fame, cibo per la salvezza del mondo.

Dietro l’altare abbiamo posto una croce in legno composta da una pala verticale che raffigura Cristo mentre offre il pane e il vino, e da due pale orizzontali che presentano i dodici apostoli chiamati a nutrirsi di quel pane per portarlo al mondo.

È significativo farci Corpo di Cristo proprio qui, dove si riuniscono in special modo i catechisti e i responsabili della comunità. Da qui attingono la grazia di divenire uno, un solo corpo e un solo spirito, per poi tornare al villaggio tra la gente.

Sotto il tuo manto

Nell’incrocio del transetto, andando verso il granaio, troviamo uno spazio dedicato alla statua della Consolata e alla devozione a Maria.

Maria è cammino della Chiesa. È lei che indica la via: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5).

Maria è la via dell’incarnazione. Grazie a lei, Dio ha posto la sua tenda tra gli uomini: per questo abbiamo decorato questo spazio come una tenda.

La preghiera dell’angelus, che i Missionari della Consolata recitano prima di ogni azione liturgica, ci ricorda il mistero dell’incarnazione: senza Maria il Verbo non avrebbe preso carne.

Maria ci insegna a confidare in Dio. La preghiera del Magnificat, che i fedeli recitano ogni mattino qui in chiesa, è anch’essa una chiave di lettura per la liturgia: la nostra piccolezza può aprirsi alle grandi opere di Dio se gli affidiamo ogni cosa.

Maria Consolata, dona a noi il Consolatore. Questo spazio, questo angolo mariano, è visibile e accessibile anche dall’esterno, e chi passa può fermarsi a pregare. È a lei che per prima chiediamo conforto e consolazione e spesso è proprio con Maria che avviene il primo incontro del fedele.

Maria è raffigurata con il manto aperto, è il manto di misericordia, di accoglienza, di protezione, di intercessione. Nel suo grembo è dipinto il volto di Cristo, perché in lei Dio si incarna e si dona a noi.

E Maria, raffigurata con le mani alzate nell’atto di imitare il Cristo, è anche la «somigliantissima», colei che, primizia tra i credenti, si fa simile al figlio, la tutta santa, ci insegna la via della santità.

Daniela Giuliani

Il giorno della dedicazione

Dianra Village, 3 marzo 2019. Dal centro sanitario parte la processione composta dal vescovo di Senigallia, monsignor Franco Manenti, con l’emerito monsignor Giuseppe Orlandoni, dal vicario di monsignor Antoine Koné, il vescovo di Odienné, dai padri missionari giunti da tutta la Costa d’Avorio, e dalla comunità di Dianra. Arriva davanti alla porta della chiesa dove il rito di dedicazione prevede che l’architetto, i muratori, gli artisti e i donatori consegnino simbolicamente la nuova chiesa al vescovo.

In un istante rivivo tutti i sei anni di lavoro.

Ricordo la notte di Natale del 2012, i dubbi, i racconti di Maxime, le visite ai villaggi per trovare terracotte e ispirazioni. E poi Konaté e i suoi tecnici e muratori
Silue, Noel, Fofana. Ricordo Gioele, Martina, Francesco, e i tanti catecumeni. Il paziente Abou chino sui mosaici, Riccardo e Carla.

E poi i siti copti e l’aiuto di Stella che aprono al lavoro sui dipinti. E Soro: grazie al lavoro di questo giovane, piccolo di statura e silenzioso, e ai suoi tre barattoli di colori da carrozzeria, ogni uomo e ogni donna oggi possono incontrare il tuo sguardo d’Amore, Signore.

Ecco, la processione è arrivata a noi, padre Matteo illustra l’impostazione della chiesa, come già tante volte gli è capitato di fare perché la comunità crescesse insieme al cantiere in questi anni, e noi consegniamo le chiavi. Per la Gloria di Dio e la Salvezza del Mondo, ci ricorda la liturgia.

Il vescovo bussa tre volte e si spalanca la porta. E in uno sguardo pieno di stupore ci appare la chiesa adorna come una sposa pronta per il suo sposo.

È gioia grande. Percorriamo la navata: dal fonte battesimale, grembo di vita nuova, alla Gerusalemme celeste, dove un giorno ci ritroveremo tutti nell’Amore che non ha fine.

Tutti gli occhi ora sono rivolti verso Te, Signore.

Noi artigiani e artisti ci facciamo piccoli da una parte: sappiamo bene che il vero Architetto sei tu. Che tutto hai disposto per avere una dimora in cui lasciarti incontrare dagli uomini e dalle donne di Dianra.

Magnificat anima mea!

D.G.

Hanno firmato il dossier:

  • Daniela Giuliani
    Consacrata dell’Ordo Virginum della diocesi di Senigallia, architetto.
  • Matteo Pettinari
    Missionario della Consolata, in Costa d’Avorio dal 17 gennaio 2007. Dal 17 dicembre 2011 vive e lavora nella missione di Dianra. Da luglio 2022 è il superiore della delegazione dei Missionari della Consolata nel Paese. È parroco a Dianra Village.

Per ulteriori immagini e video: Canale youtube «Consolataivoire».

 

 




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


Chi è al top

«Eat the rich» è la scritta posta su una scatoletta di cibo con il disegno di un ricco che viene «cotto» sopra un fuoco. È questa l’immagine provocatoria che fa da copertina alla 13ª edizione di «Top200», il report annuale (basato sui dati relativi al 2022) sulle principali multinazionali curato dal «Centro nuovo modello di sviluppo» (www.cnms.it), curato da Francesco Gesualdi. Il motto provocatorio richiama una celebre frase di Jean-Jacques Rousseau: «Quando il popolo non avrà più da mangiare, allora mangerà i ricchi». Così si capisce chiaramente da che parte stia chi ha predisposto il dossier.

Nel merito si tratta – come nelle precedenti edizioni – di uno studio puntuale, sia perché i dati riportati forniscono un quadro preciso della ricchezza delle imprese multinazionali, sia per l’attualità della problematica in un mondo che presenta enormi disuguaglianze.

Il sottotitolo – «la crescita del potere delle multinazionali» – sintetizza il risultato che emerge dal report. Anzitutto i profitti delle prime 200 imprese internazionali sono raddoppiati in dieci anni, passando da 1.089 a 2.054 miliardi di dollari. Nella classifica delle «top 200» società troviamo 62 multinazionali con sede principale negli Usa e 61 in Cina, che insieme rappresentano il 64,1% del fatturato: 17.770 miliardi su un totale di 27.722 miliardi di dollari. Al terzo posto si colloca il Giappone con 18 imprese e al dodicesimo l’Italia con tre società (Assicurazioni Generali, Eni e Enel).

Assai significativo per comprendere il potere delle imprese è il confronto tra le entrate degli stati e i fatturati delle multinazionali. Al primo posto ci sono gli Usa con 8.010 miliardi di dollari di introiti, al decimo troviamo l’India con 682 miliardi, seguita dalla prima delle multinazionali – la Walmart – con un fatturato di 611 miliardi. In questa classifica ibrida (stati e multinazionali insieme), ai primi 100 posti ci sono 72 multinazionali.

Il dossier, oltre a numerose classifiche sulle top 200 imprese mondiali, contiene quattro approfondimenti relativi ai finanziamenti pubblici alle imprese private, agli affari delle società che producono programmi di intrattenimento, alla crescita dei privati nel settore della sanità e alla presenza di mercenari nei teatri di guerra nel mondo. Proprio questi quattro focus rappresentano la parte più attuale e originale del report. Da non perdere.

Rocco Artifoni
17/09/2023

Meno Cpr più umanità

Complimenti per la rivista. A mio modesto parere per quanto riguarda gli immigrati che vengono in Italia via mare occorre trovare una soluzione in Africa, visto che il numero di affamati è enorme. Si può creare punti mensa nelle zone con maggiori problemi utilizzando i canali delle missioni e ong. Meno Cpr in Europa e più aiuti diretti in Africa. Cordiali saluti,

Giorgio Tagliavini
23/09/2023

Grazie signor Giorgio per le brevi parole che hai scritto alla vigilia della giornata mondiale dei migranti e rifugiati, a cui abbiamo dedicato il nostro editoriale del mese di agosto-settembre.

Su questo tema le parole di papa Francesco sono sempre di una profondità e chiarezza unica, che spesso però trovano resitenze incredibili e cuori duri come pietre. Più grave ancora è la strumentalizzazione dei drammi dei migranti a uso elettorale e la chiusura totale nel nome della propria identià culturale da difendere. È decisamente penosa l’impocrisia di chi grida contro certe parole denigranti, come «tribù», perché ritenute umilianti, ingiuste e discriminatorie, da sostituire quindi con altri lemmi più rispettosi della dignità di tutti, e poi di fatto ha idee, atteggiamenti e comportamenti decisamente tribalisti nella pseudo difesa della propria superiorità e soprattutto dei propri interessi.

Come già scritto e riscitto, non è con la chiusura delle frontiere e l’incolpare i trafficanti e scafisti che si risolvono i problemi, ma con una vera rivoluzione sociale ed economica nelle relazioni tra stati e popoli, soprattutto da parte dei paesi più ricchi.

 

Opinioni post Lisbona

Egregia Redazione,
leggo da tempo il vostro interessante giornale e sentendomi quasi in famiglia ho pensato di condividere con voi queste riflessioni, benché modeste.

La giornata della gioventù a Lisbona ha radunato molti giovani. Bello vederli attenti e in silenzio ad ascoltare le parole del Papa. Il messaggio di verità del Vangelo attira sempre ed è indispensabile per l’umanità. I media hanno sintetizzato il discorso del Papa con le parole «tutti inclusi nella Chiesa». Va benissimo tutti inclusi, ma ciò non vuol dire che si debbano accettare e avallare gli errori e i grandi peccati che si fanno. Bisogna distinguere la persona dall’errore. Va bene tutti inclusi nella Chiesa ma i pedofili per esempio sono stati fin troppo inclusi. Il Vangelo richiede verità; bisogna dire chiaramente ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. I giovani devono sapere ciò che è sbagliato e chi compie tali errori deve essere invitato a correggersi. La pedofila è stata per molti la madre dell’omosessualità. A 14/15 anni i giovani sono ancora ragazzini e avrebbero bisogno di essere lasciati crescere serenamente in pace senza caricare sulle loro giovani spalle pesi così grandi come quelli dei dubbi sulla propria identità sessuale, come invece è di moda in questi tempi.

Personalmente ho visto il nascere di un atteggiamento gay in un ragazzo che aveva avuto esperienza di pedofilia. Nella scuola dove lavoravo c’era un quindicenne che si vantava con i compagni di sapere cose particolari sulla sessualità, gli altri rispondevano alle sue vanterie deridendolo. Alcuni invece lo ascoltavano perplessi e incuriositi. Lui voleva farsi vedere più emancipato e sperava così di attirarsi tanti amici, di essere più stimato ma a volte finiva col prendersi spintoni e insulti. Convocati i genitori, ignari di tutto, era emerso che, quando dovevano uscire di casa per il lavoro o per spese, mandavano il figlio da un loro vicino che sembrava affidabile ma che invece intratteneva questo ragazzino facendogli vedere video sulla omosessualità e rischiando così di creare nel giovane la «forte distorsione cerebrale e psichica che comporta l’omosessualità» (parole di un importante psicologo membro dell’Associazione internazionale di psicologia applicata). In seguito a queste esperienze subite questo ragazzo a 15/16 anni risultava quindi volersi indirizzare verso l’omosessualità. Un comportamento gay derivato da una pedofilia.

Purtroppo, la pedofilia risulta essere veramente all’origine di tanti casi di comportamenti gay. La chiesa ha il dovere di proteggere e salvaguardare ogni persona specie i giovani e per farlo deve dire ciò che è errore e danno e quindi peccato. La pedofilia e l’omosessualità che in genere ne è una derivazione sono un errore, un peccato, un danno più o meno cosciente per sé e per la società. Il normale bisogno di amicizia e affetto viene confuso con comportamenti sbagliati e contro natura.

Nella parabola sulla indissolubilità del matrimonio, a Pietro che di fronte all’impossibilità del divorzio dice che allora è meglio non sposarsi, Gesù risponde che non a tutti è dato di capire e che a volte occorre farsi eunuchi per il regno dei cieli. È però un linguaggio figurato. Non intende dire che occorre veramente farsi eunuchi ma che in certe situazioni bisogna comportarsi come se non sentissimo attrazione sessuale per l’altro sesso. Per rimanere fedeli a volte occorre veramente farsi eunuchi, cioè non ascoltare l’attrazione verso la donna che non è la propria moglie o viceversa verso l’uomo che non è il proprio marito.

Nella Chiesa invece sembra che alcuni abbiano preso alla lettera il farsi eunuchi traducendolo anzi in farsi omosessuali, per cui ci sono preti gay che continuano a svolgere il loro ministero pur comportandosi da omosessuali. Altri prelati sono sommessamente favorevoli ai rapporti gay causando così grande scandalo. Va bene accogliere tutti nella Chiesa ma non accogliere l’errore. Accogliere l’errante, ma dirgli chiaramente che deve impegnarsi a cambiare vita, non comportarsi più da gay ma vivere l’astinenza e non praticare rapporti sbagliati e contro natura.

[…] La chiesa anziché avallare i comportamenti omosessuali dovrebbe piuttosto rivedere l’ordine di celibato per i preti. Accettare anche preti sposati ma con una fede sincera, forte e disinteressata economicamente.

Certo, essere liberi da impegni familiari per poter andare ovunque ad annunciare il Vangelo è più generoso ed eroico ma si potrebbe accogliere anche chi desidera sposarsi. Meglio questo anziché accettare i comportamenti omosessuali. Non è assecondando le persone nei loro grandi errori che si guadagnano i fedeli. Cordiali saluti

Enrica B.
18/09/2023

Onestamente non credo che il messaggio centrale della Gmg di Lisbona fosse «Tutti inclusi», soprattutto nella sua interpretazione, come se papa Francesco avesse avvallato pedofilia e omosessualità. Lo slogan «Maria si alzò e andò in fretta» (Lc 1,39), ha una portata molto più vasta e missionaria ed è un forte invito a non chiudersi, a non fare una vita da «seduti sul divano» e diventare concreti testimoni di amore in questo nostro mondo dilaniato da guerre, ingiustizie sociali, cambiamento climatico, povertà, disciriminazioni e intolleranza di molti tipi.

La sua lettera rivela comunque una sofferenza vissuta sulla sua pelle di fronte a fatti nei quali sono coinvolti anche dei sacerdoti dagli atteggiamenti certamente non evangelici. E questo mi richiama il dialogo che ho avuto pochi giorni fa con una catechista che mi raccontava della perplessità di una famiglia a mandare i suoi bambini al catechismo dopo aver sentito e letto di episodi di pedofilia da parte di sacerdoti.

Vorrei solo confermare che su omosessualità e pedofilia di persone religiose, la presa di posizione di papa Francesco e della Chiesa intera è senza equivoci. Occorre però tanta vigilanza e intelligenza per non cadere nella trappola della generalizazzione che conduce dalla colpa di un singolo sacerdote, o vescovo, o religioso o religiosa a mettere sotto accusa tutto e tutti.

Probabilmente nel futuro vedremo anche i preti sposati nella nostra Chiesa, ma non certo come soluzione alla pedofilia. Le statistiche dicono che gran parte degli abusi sessuali sui minori avviene tra le mura di casa.

Credo che per affrontare seriamente la situazione occorra smettere di cercare il capro espiatorio e di puntare il dito, ma impegnarsi a vivere con maggior coerenza, tutti e in fretta, l’insegnamento del Vangelo, consci che tutti siamo fragili e peccatori.

Per quanto riguarda il legame causa effetto tra pedofilia e omossesualità, non mi trova d’accordo. Non penso sia un caso particolare (da lei conosciuto), a dare la regola generale. Preferisco quindi separare le due situazioni.

Se la pedofilia è senza dubbio sempre un «errore, un peccato», come lei la definisce, più complesso è il discorso per l’omossessualtà, che può essere un «sentire» differente, un voler vivere i propri sentimenti sulla base di quello che si prova davvero, senza ipocrisia. In questo caso non è un «errore, un peccato». Papa Francesco ha detto infatti: «Essere omossessuali non è un crimine» e, inoltre, «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla?».

In visita a un luogo sacro dei Kikuyu (tempio sacro dei Gekoyo) sull’Aberdare, Kenya: padre Delfino Bianciotto (seduto), can. Giacomo Camisassa (in piedi), coad Umberto Rosso, padre G. Cavallero e padre Panelatti, suor Maria Bonifacia e suor Cristina del Cottolengo

Ricordando Don Delfino

Gent. Direttore,
vorrei ringraziarvi per quanto realizzate, in particolare sono stato molto sorpreso dall’articolo del 12 giugno 2023 «La grande avventura». Sono pronipote di don Delfino Bianciotto, da lui battezzato nel suo 49° anno di sacerdozio. Era lo zio e il padrino di battesimo di mio padre che portava il suo nome. Io fin da piccolo venivo premiato con dei favolosi soggiorni presso don Delfino. Il missionario Delfino era un mito di saggezza e di fede. Lo ammiravo passeggiare per ore nel giardino in preghiera leggendo il Vangelo. Quando si accorgeva di me, mi avvicinava facendomi ammirare Dio nel creato, in un fiore, un’ape, nel volo di un uccello. Mi diceva che la preghiera si svolge in ogni luogo e in ogni istante.

Avevo 11 anni quando don Delfino, il 2 aprile 1961, festeggiò i 60 anni di sacerdozio. Fu felice che in quell’occasione molti si ricordassero di Lui: (tra questi) padre Carlo Masera, suo coadiutore in Abissinia (così era chiamata allora l’Etiopia, ndr) nel Kaffa, il vice superiore generale dell’Istituto, padre Giuseppe Caffaratto, il provicario della diocesi (di Pinerolo) don Giovanni Barra. Gli arrivò anche il telegramma d’auguri di papa san Giovanni XXIII (io gli recitai una breve poesia).

La mia curiosità ed ammirazione di bambino per don Delfino era immensa. Chiedevo che mi raccontasse le sue straordinarie avventure e venivo accontentato.

Mi raccontava dei suoi viaggi favolosi e pericolosi, dei bambini felici come me, ma dal destino tragico che aveva conosciuto e soccorso, chi aveva perso i genitori per incidenti con animali della foresta, chi era stato rapito dai predoni ed era venduto schiavo dagli stessi. Si rammaricava di non aver potuto riscattare tutti quegli innocenti che aveva consolato avvicinandoli a Gesù. Salì al cielo il 27 luglio 1962. Il 16 agosto 2023 don Delfino sarà stato molto felice, per l’elezione a superiore generale dei Missionari della Consolata di padre James Bhola Lengarin del Kenya (un «pronipote» dei bambini che lui aveva incontrato e soccorso in Kenya). Cordiali saluti

Franco Bianciotto
02/09/2023

Padre Delfino Bianciotto nacque a Frossasco (To) il 27 marzo 1874. Ordinato sacerdote il 23 marzo 1901, dopo aver esercitato per alcuni anni il ministero nella diocesi di Pinerolo, il 4 agosto 1906 entrò nell’Istituto. Partì per il Kenya il 10 dicembre dello stesso anno e là lo troviamo quando il canonico Giacomo Camisassa compì la sua visita nel 1910/1911. Il 15 ottobre 1917 entrò avventurosamente in Etiopia come commerciante e si unì a monsignor Gaudenzio Barlassina aprendo una prima casa a Ghimbi, nel Kaffa. Nel 1922 tornò in Italia come rappresentante dei missionari d’Etiopia per il primo capitolo generale dell’Istituto. Nel 1932, scaduto il periodo per il quale si era legato all’Istituto, ritornò nella sua diocesi di Pinerolo.

 




Islanda, miti e realtà. L’isola bivalente

Viaggio nell’isola del Nord Europa

Mappa con l’Islanda e gli altri paesi del Circolo polare artico.

Sommario

 

 

 



Ma non è il paradiso

Piccola, sperduta, spopolata. I boschi sono scomparsi da secoli. I ghiacciai stanno sparendo rapidamente a causa dei cambiamenti climatici. L’energia a disposizione è tanta, ma i turisti sono forse troppi. E anche i casi di depressione tra i suoi abitanti. L’Islanda è bella, ma non idilliaca come retorica racconta.

L’aria «si distingue per via di rarefazione e di condensazione nelle varie sostanze. E rarefacendosi diventa fuoco, condensandosi invece diviene vento, poi nuvola, e ancora più condensata, acqua, poi terra, e quindi pietra».

L’Islanda sarebbe stata la terra che il filosofo di Mileto, Anassimene (586-528 a.C.), da cui sono tratti questi versi, avrebbe probabilmente amato. I quattro elementi costituenti la materia da lui per primo teorizzati e che poi Empedocle (V secolo a.C.) avrebbe fissato in una concezione scientifica che avrebbe resistito fino al Medioevo, si scatenano da millenni nelle viscere di quest’isola per poi liberarsi sulla sua superficie plasmandone il territorio.

Anche se politicamente l’Islanda appartiene all’Europa, geologicamente l’isola è lo spettacolare palcoscenico in cui le due placche continentali europea e americana si incontrano permettendoci di calpestare il suolo dell’una o dell’altra.

I turisti si divertono ad attraversare il «Ponte tra i continenti» che si trova nella penisola di Reykjanes. Si lanciano saluti dalla placca americana a quella europea. A Þingvellir, le guide amano spiegare ai turisti che si inoltrano nel canyon di Almannagjá di stare camminando esattamente tra le due placche tettoniche, anche se in realtà le due faglie non sono così nettamente divise e il canyon di Almannagjà si trova interamente nella placca americana (e per calpestare il suolo europeo occorre attraversare per diversi chilometri tutta la pianura sino ai primi contrafforti che si vedono verso est).

Il piccolo porto di Husavik, nell’estremo nord dell’Islanda. Foto Christian Klein – Pixabay.

Le forze naturali: risorse e disastri

È comunque proprio questa conflagrazione naturale causata dalle forze tettoniche – che qui in Islanda ha trovato la sua espressione più spettacolare – la causa del fallimento, prima, e del successo, poi, della colonizzazione di questa terra.

Fallimento, perché per secoli la popolazione dell’isola ha dovuto lottare contro l’esuberanza degli agenti naturali e un clima rigido che limitava la coltivazione del terreno rendendo la vita al limite della sopportazione.

Secondo Halldór Laxness, scrittore islandese premio Nobel nel 1955, i suoi connazionali sono l’unico popolo che ha distrutto la natura del loro stesso Paese. La colonizzazione è coincisa con la deforestazione secondo l’idea di una natura da combattere invece che da proteggere.

Successo perché proprio la natura, insieme all’isolamento del Paese, ha da un lato protetto l’Islanda dalle guerre che hanno imperversato in Europa e nel mondo e, dall’altro, a partire dagli anni Novanta, ha favorito lo sviluppo dell’industria turistica, da anni in continua espansione.

Le case colorate della capitale islandese Reykjavik. Foto Tom Podmore – Unsplash.

Turismo ed energia da fonti rinnovabili

Nel 2022 sono stati 1,29 milioni i turisti che hanno raggiunto il paese a fronte di una popolazione totale di soli 390 mila abitanti. Pur non avendo ancora raggiunto la punta massima del 2018, quando i visitatori furono 1,82 milioni, l’aumento post pandemia è comunque considerevole, tanto da contribuire per il 6,2% del Pil nel 2022, ma suscitando qualche critica anche da parte della popolazione.

Le arterie cittadine sono ormai trafficate, gli incidenti causati dai guidatori non esperti che si avventurano in strade non asfaltate o che rimangono impantanati nei guadi sono in aumento, così come i rifiuti e gli atti di vandalismo (voluti o accidentali). La pressione demografica, che a prima vista potrebbe sembrare poco influente in un paese di 103mila km2 (un terzo dell’Italia), inizia a farsi sentire sull’ambiente (il 90% dei viaggiatori si concentra in aree limitate e utilizza mezzi propri per gli spostamenti) mentre il costo della vita, dei servizi e del mercato immobiliare aumenta, soprattutto a scapito degli abitanti. I prezzi degli appartamenti sono improponibili anche per un islandese, il cui stipendio medio si aggira sui 3.800 euro al mese: un appartamento in centro in una città di medie dimensioni costa sui 4mila euro al metro quadrato e a Reykjavik raggiunge anche i 6-8mila euro. Accanto ai disagi creati dal turismo, la natura islandese dona però anche indubbi vantaggi, in primo luogo sul piano energetico.

L’87% dell’energia prodotta nell’isola proviene da fonti rinnovabili (nell’Unione europea rappresenta il 18.6%, in Italia il 18,4%). Le imponenti masse d’acqua che si riversano nei fiumi generando cascate impressionanti forniscono energia idroelettrica per il 62% del totale dell’energia prodotta nel Paese (nell’Unione europea è il 5,4%, in Italia il 6,4%), mentre il vapore che fuoriesce ininterrottamente dal sottosuolo, oltre a riscaldare le piscine termali, alimenta le centrali geotermiche che contribuiscono al 25% della produzione energetica nazionale.

Nonostante la geotermia sia considerata fonte energetica a basso impatto ambientale, le emissioni di CO2 (anidride carbonica) e CH4 (metano) sono comunque considerevoli. I gas serra, sommati a gas tossici come l’idrogeno solforato (H2S), in un impianto geotermico sono emessi durante il processo di generazione. Nei giacimenti sotterranei i fluidi caldi, contenenti principalmente CO2 e metano, vengono portati in superficie, ma mentre il vapore acqueo può venire liquefatto, i gas in esso contenuti non sono condensabili. Al fine di evitare che i gas serra si diffondano nell’atmosfera a Hellisheiði, poco distante da Reykjavik, la più grande centrale geotermica islandese e l’ottava al mondo, è prevista l’installazione di un impianto Dacs (Direct air capture storage).

Mentre visito la struttura, Edda Aradóttir, Ceo della compagnia, mi illustra il progetto «Mammoth», un sistema che, una volta funzionante (si pensa entro il 2025), sarà capace di catturare nominalmente fino a 36mila tonnellate di anidride carbonica l’anno per poi insufflarla a 800-2.500 metri nel sottosuolo dove, nel giro di un paio d’anni, si trasformerà naturalmente in minerali carbonati.

Una vista spettacolare della valle di Oxnadalur con la fattoria Hals. Foto Piergiorgio Pescali.

Il riscaldamento climatico e i ghiacciai dell’isola

Il riscaldamento climatico, che gli islandesi cercano di mitigare limitando ulteriormente le già minime emissioni di gas serra rilasciate dal loro sistema energetico, è evidente a Fjallsárlón e Jökulsárlón dove trovo ad aspettarmi Andrea e Claude, entrambi geologi, con cui compio un giro per le lagune glaciali. L’innalzamento delle temperature che sta assottigliando il Vatnajökull, una massa di ghiaccio grande quanto il Friuli-Venezia Giulia, agisce in due modi: da una parte espone le morene all’aria e dall’altra fa arretrare il fronte glaciale. La fuliggine delle attività vulcaniche e la polvere che si deposita sulla superficie del ghiacciaio rendono il suo manto di un colore grigiastro che riduce l’albedo (il potere riflettente di una superficie bianca, ndr) con la conseguente accelerazione dello scioglimento, trasformando il ciclo in un pericoloso uroboro (l’uroboro è il serpente che si mangia la coda, ndr) climatico.

A dieci chilometri di distanza dal Fjallsárlón, si apre la laguna di Jökusárlón, più vasta e più bella della precedente e per questo anche quella più assaltata dai turisti. La Jökusárlón è formata dalla lingua glaciale del Breiðamerkurjökull che, dopo essersi espansa fino al 1890, dagli anni Venti del XX secolo ha iniziato a ritrarsi lasciando spazio a uno specchio d’acqua che si è venuto a formare a partire dal 1935. Oggi questo lago è ampio circa 18 chilometri quadrati e la sua superficie aumenta a velocità sempre più elevata. «L’Islanda ha solo 390mila abitanti e conta ben poco nella lotta contro il cambiamento climatico, ma è spesso presa a esempio per il suo impegno nel contribuire all’impegno per mantenere l’aumento della temperatura sotto il punto di non ritorno», afferma Andrea.

Vero è, però, che un paese poco densamente abitato che ha la fortuna di godere di fonti naturali energetiche poco impattanti dal punto di vista ambientale e – perdipiù – pressoché inesauribili, è sicuramente molto più favorito di altre nazioni.

Del resto, non tutto in Islanda funziona al meglio.
«Abitare in Islanda non è facile» mi dice Guðrún, studentessa di chimica all’University of Iceland che, per guadagnarsi da vivere, passa le vacanze lavorando come cameriera in un bar di Vik: «I turisti arrivano, rimangono estasiati dalla baia, dal Paese, dalle pecore, dalle cascate, dal mare, ma poi, dopo una o due settimane, se ne ritornano da dove sono venuti, nel caldo delle loro città, nella vita notturna, nei concerti. Escono al mattino con il sole e sanno che quella giornata rientreranno con il sole. Se vogliono possono bersi una birra o andare al ristorante senza spendere una fortuna. Da noi tutto questo è semplicemente impossibile».

Mi viene in mente un passo di «Miss Islanda», il libro di Auður Ava Ólafsdóttir, ambientato negli anni Sessanta, ma ancora attualissimo, in cui Hekla, trasferitasi a Copenaghen, scrive alla sua amica Ísey che «la pioggia (a Copenaghen, ndr) non è orizzontale, anzi scende giù verticalmente, come fili di perle».

L’impressionante volume d’acqua che forma la cascata di Dettifoss, la maggiore dell’Islanda e dell’Europa. Foto Piergiorgio Pescali.

Gli islandesi e il pericolo della depressione

Nella fascia di popolazione compresa tra i 18 e i 29 anni, un islandese su dieci soffre di depressione acuta  e lo Stato riserva il 12% del budget della sanità per le malattie mentali. Appena possono, i giovani fuggono dall’isola, spesso considerata come una prigione, per trasferirsi sul continente. Ogni anno circa duemila islandesi tra i 15 e i 64 anni si trasferiscono all’estero. Se è vero che essi rappresentano solo l’1% della fetta di popolazione di quell’età, è anche vero che oggi in termini assoluti sono ben 49mila gli islandesi (il 13,2%) che risiedono permanentemente fuori dal Paese.

A parte pochi paesini che contano qualche migliaio di abitanti (Húsavík, Akureyri, Stykkishólmur, Ísafjörður), la maggior parte dei centri islandesi sono deprimenti e senza alcuna attrazione.

La difficile situazione sociale islandese è raccontata oltre che dalla letteratura anche dalla filmografia: Virgin Mountain, Nói AlbÍnói, The Oath-il giuramento, Rams-Storia di due fratelli e otto pecore, e anche la serie Trapped, raccontano i risvolti di una società ben lontana dall’idilliaco stereotipo in cui i turisti si ostiniamo a dipingere la nazione.

Nell’Islanda dei libri di Halldór Laxness o di Ragnar Jónasson c’è molta più verità di una fotografia scattata durante una toccata e fuga nell’isola. È la vita reale di un’Islanda che preferiamo non vedere o non conoscere: famiglie spezzate, intrighi tra colleghi di lavoro, dialoghi ridotti all’osso ed ermetici, paesaggi desolati, quasi sempre cupi e piovosi, paesini malinconici.

Ne «I giorni del vulcano» di Jónasson, Ívar, il superiore di Ísrún, non vede l’ora di licenziare la collega, ma non potendolo fare le affida i lavori più noiosi e insignificanti mobbizzandola persino di fronte alla direttrice della redazione televisiva in cui lavora.

Mi dirigo verso Siglufjörður, a nord di Akureyri, dove è ambientata la serie televisiva Trapped e dove si dipanano le scene dei libri di Ragnar Jónasson. Una manciata di case sparpagliate su una baia per un totale di 1.300 abitanti. Nonostante non piova, le strade sono deserte. Solo qualche turista si aggira tra la banchina del porto e la fabbrica di aringhe alla ricerca di qualche scena che ricordi i luoghi calpestati da Andri Ólaffson, il poliziotto a capo delle indagini.

Ne «L’angelo di neve», Jónasson descrive magistralmente il paesaggio in cui mi immergo: «Il fiordo li accolse con il grigio opprimente di una giornata coperta. Nuvole scure nascondevano l’anello di montagne impedendo di ammirarne in pieno la magnificenza. Il grigiore rendeva opachi i tetti delle case e i giardini erano coperti da un leggero strato di neve».

A Djúpavik, lungo la costa Strandir, nei fiordi occidentali, la desolazione si ripresenta in modo ancora più deprimente. Nel villaggio vive una sola famiglia immersa nel nulla di un paesaggio che è tanto magnifico quando è illuminato dal sole quanto è demoralizzante quando piove. La cittadina più vicina, Hólmavik, si trova a settanta chilometri al termine di una strada non asfaltata. L’unico hotel è una magnifica oasi di pace aperta nel 1985 da Eva Sigurbjörnsdóttir e dal marito Ásbjörn Þorgilsson che, con i loro figli, hanno trasformato ciò che restava di una vecchia fabbrica di aringhe, chiusa nel 1954, in un piccolo museo in cui artisti esibiscono i loro lavori. D’altro non c’è molto: una stazione di benzina in disuso, il relitto arrugginito della Suðurland che, dopo aver smesso di fare servizio fra Reykjavik e il Breiðafjörður, venne trasferita a Djúpavik nel 1935 e usata per ospitare la manovalanza stagionale della fabbrica di aringhe.

Nonostante il villaggio sia quasi abbandonato, Halldór Laxness ha ambientato qui il suo romanzo «Guðsgjafaþula» (Una narrazione dei doni di Dio, non ancora tradotto in altre lingue), mentre nel 2006 i Sigur Rós hanno suonato nella vecchia fabbrica di aringhe e, nel 2016, Ben Affleck, Willem Dafoe e Jason Momoa hanno girato alcune scene di «Justice League».

Gli iceberg della laguna di Jökulsárlón; il riscaldamento climatico ha liberato blocchi di ghiaccio che fluttuano nella laguna attirando migliaia di turisti. Foto Piergiorgio Pescali.

La politica e la stretta migratoria

L’isolamento a cui sono costretti molti centri islandesi a causa dei collegamenti poco veloci o per le condizioni atmosferiche, ripropone in modo più che mai attuale la questione dello spopolamento delle campagne. Il 94% della popolazione si accalca nelle città. Reykjavik, la cui municipalità da sola raggruppa 243mila islandesi, si sta espandendo: nel 1972 era una cittadina quasi sconosciuta quando per qualche giorno occupò le prime pagine dei giornali di tutto il mondo con la leggendaria sfida di scacchi tra Bobby Fisher e Boris Spassky e nel 1986 tornò alla ribalta grazie alla riunione tra Ronald Reagan e Michail Gorbačëv alla Höfði. Il summit, assieme all’inaugurazione, avvenuta pochi giorni dopo, della chiesa di Hallgrímskirkja, iniziata nel 1945 (anche in Islanda non tutto funziona in modo efficiente), segnarono la svolta della capitale.

Nel Paese iniziarono a riversarsi i primi turisti e, con loro, i primi immigrati. Dieci anni dopo quasi il 3% della popolazione islandese era straniero: oggi lo è il 19%.

L’apprezzata prima ministra islandese, Katrín Ja-kobsdóttir, del Movimento sinistra e verdi, pur avendo nel suo Dna una politica sociale progressista e illuminata, deve fare i conti con una singolare coalizione di governo che la vede alleata di minoranza di due partiti di centro destra, il Partito dell’indipendenza e il Partito progressista. Il primo, con 17 deputati su 63, è il maggior gruppo parlamentare con un orientamento a destra e liberale. Sostenuto dalle cooperative di pescatori e dagli imprenditori, è euroscettico, condividendo questo sentimento con gli altri due alleati.

Il Partito progressista si è invece sempre più avvicinato ai movimenti populisti abbracciando la retorica sovranista, opponendosi a un’eventuale entrata dell’Islanda nell’Unione europea, criticando le istituzioni e i creditori internazionali e chiedendo una stretta nella regolamentazione migratoria.

Chi ne fa le spese sono soprattutto gli immigrati. La politica islandese sta cambiando radicalmente: le difficoltà economiche, come spesso accade, hanno aumentato l’ostilità della popolazione e del governo verso l’immigrazione, in particolare quella economica. Di fronte alla minaccia di rimpatrio («deportazione» è il termine esatto utilizzato dalle Ong islandesi ) di trecento richiedenti asilo (principalmente di nazionalità irachena e nigeriana), nel 2022 diverse organizzazioni, tra cui la Croce Rossa, sono scese in piazza chiedendo al governo di rivedere la sua politica migratoria.

Nei primi quattro mesi del 2023 su 1.771 domande di asilo (813 da venezuelani, 629 da ucraini, 71 da palestinesi e varie altre nazionalità), solo 736 ne sono state accettate (547 ucraini, 67 palestinesi, 36 siriani).

Padre Jacob Rolland con, sullo sfondo, la cattedrale cattolica di Cristo Re nella capitale islandese. Foto Piergiorgio Pescali.

La polemica religiosa

Nel 2018 il governo di Jakobsdóttir è stato anche al centro di una vivace polemica internazionale per il disegno di legge proposto dal Partito progressista che intendeva proibire la circoncisione con una pena fino a sei anni di prigione.

Di fronte a tale pericolo, l’Inter Faith Forum, presieduto da padre Jakob Rolland, della Chiesa cattolica islandese in collaborazione con l’Istituto di studi religiosi dell’Università dell’Islanda, ha indetto una conferenza a cui hanno partecipato rappresentanti laici, cristiani, ebrei e musulmani (la comunità ebraica islandese conta circa 500-600 membri e solo nel 2021 la fede ebraica è stata riconosciuta come una delle religioni ufficiali del Paese).

Il caso fu ripreso anche dalla stampa: «Se un Paese inizia a proibire una pratica religiosa con la giustificazione dei diritti umani, altre nazioni potrebbero seguirne l’esempio creando un precedente molto pericoloso», mi dice padre Rolland, il quale aggiunge che la sua famiglia polacca ricorda bene gli orrori dei campi di concentramento nazisti. «Era quindi chiaro per noi che dovevamo fermare la proposta sin dall’inizio per evitare che potesse passare inosservata aprendo porte che non devono assolutamente essere di nuovo aperte».

Dopo la conferenza dell’Inter Faith Forum, il parlamento islandese chiese la rettifica della legge al governo, ottenendone il congelamento (non la sua cancellazione).

Un pescatore islandese mostra la preda. Foto Piergiorgio Pescali.

Il marketing dei vichinghi e il nazionalismo islandese

«I nostri antenati erano vichinghi, il nostro popolo è abituato a lottare per la propria sopravvivenza. Se vuoi qualcosa te la devi meritare, non puoi arrivare in Islanda e pretendere che il governo ti conceda tutto quello che non hai avuto nel tuo Paese d’origine» mi dice un sostenitore del «Fronte nazionale islandese», un partito di estrema destra nato nel 2016 che, come si legge nel suo statuto, intende «proteggere il sistema sociale, l’indipendenza dell’Islanda e la cultura islandese».

L’immagine dell’islandese vichingo è oggi sempre più utilizzata in senso nazionalista dall’ultradestra del paese. In realtà, i primi colonizzatori, a partire da quell’Ingólfur Arnarson che nell’874 sbarcò con la moglie Hallveig Fróðadóttir e al fratello di sangue Hjörleifur Hróðmarsson, erano fuggiaschi norvegesi, per lo più poveri contadini, che cercavano terre da coltivare che non fossero soggette alla pesante tassazione reale.

«Siamo più eredi di poveracci che di fieri guerrieri. Dal punto di vista del marketing, però, l’eredità dei landnásmenn (i proprietari delle terre) non rende quanto quella di nerboruti e battaglieri combattenti», sostiene Lúna, neolaureata in Studi medioevali presso la University of Iceland.

Nel «Landnamabók» (Libro dell’insediamento) sono nominati circa quattrocento coloni che arrivarono in Islanda (tra cui centotrenta dalla Norvegia e cinquanta dalla Britannia).

Molti di essi fuggirono dalla Norvegia per le vessazioni di Harold Fairhair (Bellachioma, ndr), altri fuggirono dalle isole britanniche per le sconfitte subite nel Wessex e a Dublino nel 902.

Ancora oggi la storia della colonizzazione dell’Islanda è ricoperta da un velo di mistero. Si parla anche dell’arrivo di monaci irlandesi, i cosiddetti «Papar» (vedi sotto).

Un gregge di pecore a Hverir. Foto Piergiorgio Pescali.

Saghe, leggende e stereotipi

A proposito di stereotipi, nel 2019, ho partecipato a Edimburgo a una conferenza in cui era invitato Hallgrímur Helgason, scrittore pittore presentatore radiofonico, uno degli uomini più famosi in Islanda (e uno dei più contestati, specie negli ambienti della sinistra), vincitore di due Premi letterari islandesi (nel 2001 e nel 2018) e conosciuto anche in Italia per il suo romanzo «101 Reykjavik».

Nel suo intervento, incentrato sul turismo in Islanda, l’autore ha inanellato luoghi comuni degni del migliore assorbitore seriale di leggende metropolitane lette sui social: dalle coppie giapponesi che sbarcano in Islanda in inverno per avere la possibilità di concepire sotto l’aurora boreale perché ritenuto di buon auspicio (una storia inventata di sana pianta che ha avuto origine in Canada e in Alaska), ai gruppi che circolano per Reykjavik chiedendo «a che ora accendono l’aurora boreale» (l’aforisma – molto probabilmente inventato dallo stesso Helgason – deve piacere particolarmente allo scrittore perché lo cita spesso nei suoi interventi variando di volta in volta la nazionalità dei gruppi – ora cinesi, ora filippini, ora giapponesi – che però rimangono immancabilmente asiatici).

«Ecco, ora hai capito perché ci sentiamo in un certo senso orfani letterari», mi spiega una collega islandese. «Purtroppo dopo Laxness non siamo più riusciti a sfornare scrittori di talento».

Eppure, l’Islanda è il Paese in cui la letteratura, specialmente quella epica, è fiorita più che in altri: le innumerevoli saghe di cui si nutre la storia islandese hanno plasmato la cultura e il carattere della popolazione. Ogni luogo, ogni comunità, ogni anfratto racchiude storie di elfi, diavoli, tesori, troll di cui gli attuali toponimi trasmettono ancora l’eredità.

La centrale geotermica di Krafla, nel nord del Paese, appartiene alla Landsvirkjun, il più grande gestore elettrico dell’Islanda, di proprietà statale. Foto Piergiorgio Pescali.

Lo scandalo finanziari0 e il «Best Party»

Continuando a parlare di miti e leggende, ma sul lato secolare, la leggenda che forse è più dura a morire riguarda l’integrità del sistema Islanda dopo la grande crisi finanziaria del 2008 (che ha visto il fallimento delle tre principali banche del paese, ndr).

Dei 202 imputati chiamati a rispondere delle loro responsabilità, solo 25 sono stati incriminati con pene relativamente miti (tra 6 mesi e 6 anni) e a quattro di questi la condanna è stata sospesa. La maggior parte di loro ha scontato la pena nella prigione di Kvíabryggja, un luogo di detenzione all’aperto e non recintata, e rilasciata dopo un anno. «Attraverso i cambiamenti legislativi, le condanne, già brevi, sono diventate comicamente brevi e in pochi mesi sono tornati a pilotare elicotteri e cenare con i loro coniugi nei migliori ristoranti di Reykjavik», afferma Jared Bibler, ingegnere al Mit di Boston e direttore della squadra investigativa che ha indagato sulla crisi pubblicando in un libro del 2021 un dettagliato resoconto della sua esperienza.

Geir H. Harde, il primo ministro islandese al tempo dello scandalo, dopo essere stato «punito» con la nomina ad ambasciatore dell’Islanda negli Stati Uniti, è oggi direttore esecutivo alla Banca mondiale per gli Stati nordici e baltici.

A seguito della debacle finanziaria, l’Islanda ha conosciuto una rivoluzione politica che si è riverberata sull’intero pianeta: un attore comico, Jón Gnarr, ha formato un partito, il Best Party, che con la sua satira affermava di non voler mentire ai propri elettori: «Dato che i partiti sono segretamente corrotti, noi promettiamo di essere apertamente corrotti».

Il Best Party, nato inizialmente come uno scherzo, è diventato ben presto una realtà politica: nel 2010 ha partecipato alle elezioni comunali di Reykjavik, vincendole con il 35% dei consensi e conquistando sei dei quindici seggi del consiglio comunale. Anarchico, figlio di un poliziotto comunista, Jón Gnarr, pur non avendo mai terminato le scuole secondarie, è diventato sindaco della capitale islandese per quattro anni.

Tra dichiarazioni ironiche («importeremo ebrei per avere finalmente in Islanda qualcuno che ne capisce di economia»), consiglieri improbabili («mi lascio consigliare dai Moomin e dagli elfi, che mi hanno detto che l’Islanda deve aderire all’Unione europea»), Reykjavik sotto Gnarr ha risanato il debito e si è riscoperta una città colorata abbandonando lo squallido grigiore e quella patina di austera compostezza che la contraddistingueva.

La Orkuveita reykjavíkur (Or), l’azienda energetica municipale che aveva accumulato due miliardi di dollari di debiti, è stata risanata licenziando il direttore generale e duecento dipendenti, chiamando esperti, depoliticizzando l’azienda e trasferendo gli uffici in una sede meno costosa. Le reti dei trasporti pubblici e delle strutture educative (scuole e asili) sono state riorganizzate (non senza vivaci proteste da parte della popolazione) e in città sono stati costruiti 25 km di piste ciclabili.

Foche nei pressi del villaggio di Djúpavík, nei fiordi occidentali. Foto Piergiorgio Pescali.

Dall’indipendenza alle guerre del merluzzo

L’ascesa politica di Gnarr e il suo stesso modo di parlare e di agire nel nome del popolo è stato certamente favorito dalla cultura islandese. Viaggiando per la nazione non si può fare a meno di notare la quantità di riferimenti alla pace: strade vivacizzate con i colori arcobaleno, semafori con luci a forma di cuore, una vita tranquilla (per molti, troppo tranquilla).

Non dobbiamo però farci ingannare: pur essendo un Paese pacifico e senza esercito, l’Islanda ha sempre tratto beneficio dalle guerre.

In «Gente indipendente», Halldór Laxness scrive che «La guerra mondiale continua a portare benefici al Paese e alla gente, tanto che non la chiamano altro che guerra benedetta […] e più andava avanti, più la gente ne aveva piacere. Tutti i buonuomini si auguravano che potesse continuare il più a lungo possibile».

La Seconda guerra mondiale ha segnato una tappa fondamentale per l’Islanda: con l’occupazione statunitense, che dal 1941 si sostituì a quella britannica, nel 1944 l’isola ottenne l’indipendenza dalla Danimarca, allora sotto occupazione tedesca. Dopo la fine del conflitto, gli islandesi ricevettero più aiuti procapite rispetto a tutti gli altri europei occidentali.

L’adesione alla Nato contribuì anche alle tre vittorie nelle «guerre del merluzzo» (1950-1970), combattute con successo contro il Regno unito a colpi di speronamenti e, a volte, anche con scambi di artiglieria navale tra la Guardia costiera islandese e la marina britannica, intervenuta a difesa dei propri pescherecci. Con il 10% del Pil legato alla pesca, Reykjavik non poteva (e ancora oggi non può) permettersi di condividere con altre flotte più numerose e attrezzate della sua, le pescose acque artiche. Il governo islandese chiedeva con insistenza che lo sfruttamento dei mari fosse esclusiva prerogativa delle sue navi. Priva di una propria marina, l’Islanda giocò la carta geopolitica minacciando di uscire dalla Nato nel caso le sue richieste non fossero state accettate. Alla fine, fu Kissinger a convincere Londra a ritirare le proprie navi. Così, al termine delle tre guerre (1958-61; 1972-73; 1974-75), Reykjavik riuscì a estendere le acque territoriali a duecento miglia dalle proprie coste.

Il ghiacciaio che si getta nella laguna di Fjallsárlón; il riscaldamento climatico da una parte sta facendo ritirare il fronte del ghiacciaio, dall’altro ha permesso di liberare blocchi di ghiaccio che fluttuano nella laguna attirando migliaia di turisti. Foto Piergiorgio Pescali.

Tra Unione europea e Cina

La questione ittica, con il mancato accordo sulle quote di pesca, è stato anche uno dei motivi del ritiro, annunciato nel 2013 e messo in pratica nel 2015, della richiesta di adesione dell’Islanda all’Unione europea, anche se, secondo un sondaggio svoltosi nell’aprile 2023, il 44% degli islandesi sarebbe favorevole all’entrata nella Ue contro il 34% dei contrari.

Nel frattempo, però, l’economia islandese deve trovare nuovi sbocchi e nuovi partner. E un nuovo partner lo ha trovato, preoccupando seriamente gli Stati Uniti, nella Cina.

Dopo il crollo della cortina di ferro e lo spostamento dell’attenzione internazionale in Asia, la piccola, sperduta e spopolata Islanda, anziché perdere la sua importanza strategica, l’ha aumentata. In particolare, a partire dal 2013, quando, su iniziativa dell’allora presidente Ólafur Ragnar Grímsson, Reykjavik ospitò la prima assemblea del Circolo artico. Questo, a differenza dell’Arctic council, il consiglio governativo formato nel 1996, è un organismo a cui possono partecipare istituzioni di vario genere, governative, private, Ong, università, ecc. non necessariamente geograficamente ed economicamente coinvolte nelle attività artiche. Vi partecipano, quindi, anche Cina, India, Corea del Sud, Singapore, Emirati arabi, e questo allargamento di confini ha aumentato il peso specifico della politica islandese aprendo le porte dell’isola all’economia di Pechino. La nuova Via della seta passa anche da qui.

Piergiorgio Pescali

Il getto d’acqua del geyser di Strukkur (Geysir); erutta ogni 5-10 minuti lanciando un getto alto tra i 20 e i 30 metri. Foto Piergiorgio Pescali.


Dorsali, placche, magma, geyser

La dorsale medio atlantica si allunga per circa 15mila chilometri nel fondo dell’oceano e, a mano a mano che il mantello della crosta terrestre si eleva, al di sotto di esso viene a crearsi una depressione che riscalda la roccia. Questo aumento di temperatura porta allo scioglimento della crosta che trova sfogo nelle parti meno spesse dando così origine ai fenomeni vulcanici.

Lungo la dorsale, il magma fuoriesce dalle viscere della terra e, a contatto con l’acqua, solidifica. È così che ogni anno il fondo marino si innalza di 2,5 cm, ma vi sono dei punti in cui il movimento è più attivo che in altri ed è qui che il suolo si è innalzato tanto da affiorare sul livello del mare per formare isole più o meno grandi. L’Islanda è la maggiore tra queste e il suo territorio viene letteralmente spaccato dalla dorsale che si incunea per tutta la sua lunghezza. Una diramazione si stacca verso sud dalla faglia principale all’altezza dei vulcani Grimsvötn e Laki-Fogrufjöll per creare una terza «isola» tettonica che comprende i vulcani Katla e Hekla, mentre nella piana di Þingvellir, sede storica del primo parlamento islandese, la placca continentale americana si divide da una placca minore a sé stante, la microplacca di Hreppar.

La mappa mostra le dorsali (ridges, in inglese) che attraversano o lambiscono il Paese.

Terra tra le più giovani del pianeta (è iniziata ad affiorare circa 20 milioni di anni fa), l’Islanda è in continua evoluzione, come testimoniano i numerosi vulcani attivi e le sorgenti termali di cui i geyser sono l’espressione più scenografica.

Le fratture tra le due placche si allargano ogni anno di circa 2,5 centimetri e il movimento, seppur impercettibile ai nostri occhi, causa una vivace attività sismica che si trasmette in fenomeni che toccano più direttamente la vita della popolazione: terremoti, eruzioni magmatiche o geotermiche.

I materiali ricchi di metalli alcalini sono trasportati in superficie dai cosiddetti hotspot, punti circoscritti particolarmente caldi che affiorano seguendo cunicoli e pennacchi. La presenza di acqua, invece, da una parte è la causa della formazione di getti ad alta pressione che fuoriescono sotto forma di geyser, fenditure del terreno che si collegano a falde riscaldate da rocce a contatto con il magma, dall’altra, quando entra in contatto direttamente con il magma, l’acqua si trasforma in vapore dissociandosi in idrogeno e ossigeno. Questa miscela, innescata dai getti incandescenti, esplode con violenza spargendo cenere vulcanica in tutta la regione e cambiando radicalmente la conformazione del terreno.

Pi.Pes.


I vichinghi, «guerrieri del mare»

La tela dipinta da Oscar Wergeland nel 1877 ricorda l’arrivo dei vichinghi in terra d’Islanda.

L’immagine dell’islandese vichingo è uno stereotipo che ha fatto il suo tempo, ma che continua a essere molto popolare all’estero.

Il termine vikingr al maschile era usato dai norreni (nome generico per i popoli della Scandinavia) per indicare «guerrieri del mare», mentre al femminile, viking, indicava le «spedizioni marittime a fini militari». Oggi la parola vikingr è usata per descrivere chiunque abbia origini norrene nell’era vichinga.

Solitamente assimilati a uomini rudi, mezzi nudi e pelosi, con il barbone rosso che cala dal mento e che si confonde con i capelli lunghi e arruffati nascosti parzialmente da un curioso elmo cornuto, in realtà, i norreni erano una popolazione dai gusti raffinati, eleganti, dedita al commercio con le nazioni più potenti dell’epoca, il Sacro Romano Impero, l’impero arabo, quello bizantino.

I rapporti non si limitarono solo a negoziazioni commerciali di beni di prima necessità, ma consentirono alla società norrena di approfondire la conoscenza di altre culture e apprezzarne la ricchezza artistica.

Grazie ai drekar, le navi dalla chiglia piatta, il popolo dei norreni poteva navigare in mare aperto così come lungo i fiumi a basso pescaggio compiendo esplorazioni in Groenlandia, Islanda e raggiungendo le coste del Nord America, qualche secolo prima di Colombo.

Quella dei vichinghi è un’era che si dipana tra il 750 e il 1050 d.C. Chiamata «Età dell’oro», in essa le società scandinave espansero la loro economia, le loro conoscenze e, dall’XI secolo, assorbirono le influenze cristiane.

Deluderà forse sapere che le corna poste ai lati degli elmi che ancora oggi piacciono tanto ai turisti e ai negozi di souvenir, sono frutto di una leggenda nata in tempi recenti. Fu lo scenografo Carl Emil Doepler a disegnare proprio un elmo del genere per il ciclo «L’anello dei Nibelunghi». Molto probabilmente i vichinghi raramente indossavano copricapi in ferro, preferendo quelli in cuoio, lasciando gli elmi per le cerimonie dei nobili, che se li portavano nelle loro tombe come simbolo distintivo sociale.

L’ecllissi della società vichinga avvenne in concomitanza con la transizione verso il cristianesimo grazie all’opera del re Olaf II Haraldsson (995-1030), il Sant’Olaf a cui tutta la cultura baltica e slava è particolarmente affezionata. È a seguito della conversione forzata del popolo norreno che venne realizzata la famosa stele di Dynna, oggi conservata nel museo di Storia di Oslo. Questo monolito piramidale di tre metri rappresenta una delle prime testimonianze cristiane della regione scandinava. I suoi bassorilievi propongono una commovente Natività e i tre re Magi che seguono la stella di Betlemme, non ancora trasformatasi nella cometa di cui Giotto sarà primo autore, tre secoli più tardi, nella Cappella degli Scrovegni, a Padova.

Pi.Pes.

Sorgenti calde nell’area di Geysir. Foto Piergiorgio Pescali.


Geotermia, dall’Italia all’Islanda

La generazione di energia elettrica e di calore da geotermia è iniziata in Italia nel 1818 grazie all’ingegnere di origini francesi, Francesco Giacomo Larderel che pensò di sfruttare i getti di vapore che uscivano dal suolo nel comune di Pomarance, nell’allora Granducato di Toscana, per produrre boro utilizzandolo nelle industrie farmaceutiche.

Per omaggiare l’ingegno di Larderel, Leopoldo II decise di dare al luogo il nome dell’ingegnere e il 4 luglio 1904 il proprietario della ditta, Piero Ginori Conti, decise di sperimentare un generatore la cui bobina era alimentata con il calore geotermico. Con l’accensione di cinque lampadine, quel 4 luglio 1904, si inaugurò la geotermia.  Sette anni dopo, la prima centrale geotermica al mondo venne inaugurata a Larderello e oggi le 34 centrali geotermiche italiane producono seimila GWh (2.976 GWh in provincia di Pisa, 1.492 GWh in provincia di Siena e 1.403 GWh in provincia di Grosseto), circa la stessa quantità generata in Islanda (5.960 GWh).

La compagnia energetica nazionale islandese, la Orkustofnun, ha la possibilità di rilevare le risorse energetiche presenti nel sottosuolo di qualsiasi terreno, privato o pubblico, nel Paese. Un proprietario di terreno può richiedere la licenza d’uso per poter sfruttare risorse geotermiche (e del sottosuolo in generale) per un periodo limitato.

In Islanda, ad oggi sono state individuate 20 aree geotermiche all’interno di zone vulcaniche attive con vapori che raggiungono temperature sotterranee di 250°C entro i mille metri di profondità e circa duecentocinquanta aree geotermiche lontane dalle zone vulcaniche, i cui vapori, sempre a mille metri di profondità, non superano i 150°C.

Oggi il 90% delle abitazioni islandesi sono riscaldate con impianti che traggono calore dall’energia geotermica e in alcune zone di Reykjavik e di altre città islandesi i marciapiedi, le strade e le aree di parcheggio sono dotate impianti di riscaldamento a geotermia per sciogliere il ghiaccio durante i mesi invernali.

Nel 2000 un consorzio di compagnie energetiche private e pubbliche (HS Orka hf, Landsvirkjun, Orkuveita Reykjavíkur e la Orkustofnun) ha iniziato un progetto, l’Iceland deep drilling project, Iddp, per sfruttare sistemi idrotermali ad altissima temperatura al fine di raggiungere fluidi supercritici che si trovano a 4-5 km di profondità con temperature che raggiugono i 400-600°C. I giacimenti supercritici potrebbero arrivare a una potenza sino a dieci volte superiore rispetto a quelli convenzionali: mentre questi ultimi raggiungono una profondità media di 2,5 km con una potenza equivalente di 5 MWe, quelli Iddp riescono ad attingere giacimenti supercritici con temperature superiori a 450° con una potenza equivalente prodotta pari a 50 MWe.

Pi.Pes.

La cattedrale della Chiesa nazionale d’Islanda nella capiatale del paese. Foto Wikimedia commons.


Chiese e fedeli

La leggenda dei «papar»

Come negli altri paesi nordici, anche in Islanda la grande maggioranza dei fedeli segue la Chiesa luterana. I cattolici arrivarono presto, ma la loro vicenda è priva di certezze storiche.

Padre Jakob Rolland, cancelliere ecclesiastico della diocesi cattolica di Reykjavik, che incontro presso la cattedrale di Landakotskirkja (Cristo Re), afferma che i primi abitanti dell’Islanda furono monaci irlandesi, i cosiddetti «Papar», dal celtico pap e dal latino papa, «padre» o «papa».

Secondo lo storico Axel Kristinsson, invece, non vi è alcuna prova archeologica secondo cui l’Islanda fosse in qualche modo abitata prima dell’arrivo dei norreni (nome generico per i popoli della Scandinavia, ndr) nel IX secolo. Il testo più antico che testimonia la presenza dei papar è l’«Íslendingabók» (Libro degli islandesi), scritto tra il 1122 e il 1133 dallo scrittore e religioso Ari Þorgilsson (1067-1148) in cui si afferma che «L’Islanda fu colonizzata per la prima volta dalla Norvegia ai tempi di Harold Fairhair. […] A quel tempo l’Islanda era coperta da boschi tra le montagne e la costa. C’erano cristiani, che i norvegesi chiamano papar, ma che se ne andarono perché non volevano convivere con i pagani lasciando libri irlandesi, campane e pastorali. Da questo si poté capire che fossero uomini irlandesi». Ma l’Íslendingabók, oltre a essere stato scritto da un rappresentante della Chiesa, non porta alcuna prova, oltre a quella tramandata oralmente circa tre secoli dopo i fatti raccontati, della presenza cristiana.

Quel che è certo, è che la fede cristiana venne abbracciata nel 999 d.C.

La chiesa Hallgrímskirkja, opera del noto architetto islandese Gudjon Samuelsson, a Reykjavik. Foto Piergiorgio Pescali.

Cristiano III e il luteranesimo

Nel villaggio di Holmavík, c’è uno dei musei islandesi più particolari e originali: quello di magia e stregoneria, diretto da Anna Björg Þórarinsdóttir. «In Islanda la Chiesa cattolica e il paganesimo, che portava con sé pratiche magiche, hanno convissuto abbastanza pacificamente», ha commentato la direttrice.

Fu solo dopo il XVI secolo, quando Cristiano III (1503-1559), re di Danimarca e Norvegia, impose la fede luterana anche all’isola, allora possedimento danese, che iniziò la caccia alle streghe.

«Il primo caso di messa al rogo registrato è avvenuto a Eyjafjörður, quando un certo Jón Rögnvaldsson venne accusato di aver praticato casi di stregoneria, mentre l’ultimo avvenne nel 1719 a Þingvellir».

Luterani e cattolici nell’Islanda di oggi

Mons. Dávid Bartimej Tencer, vescovo della Chiesa cattolica islandese. Foto Wikimedia commons.

In termini percentuali, la Chiesa cattolica islandese è la più grande tra quelle dei paesi del Nord Europa, tutti dominati dalle Chiese luterane. Dal 2015 la comunità cattolica è guidata da monsignor Dávid Bartimej Tencer, dell’ordine dei frati minori cappuccini.

Agnes Margrétardóttir Sigurðardóttir, vescovo della Chiesa nazionale d’Islanda. Foto www.kirkjan.is.

La Chiesa principale (70 per cento dei fedeli) è la Chiesa nazionale d’Islanda, luterana. Dal 2012 essa è retta da Agnes Margrétardóttir Sigurðardóttir, la prima donna vescovo del paese.

Piergiorgio Pescali


Hanno firmato il dossier:

Piergiorgio Pescali, ricercatore e consulente in ambito nucleare, è giornalista e scrittore. Da molti anni è un assiduo collaboratore di Missioni Consolata.

A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione mc.




Haiti: rapiti sette religiosi e tre famigliari in un colpo solo


Sulla situazione sociale esplosiva ad Haiti abbiamo parlato nel numero di marzo di MC. Così come del problema del dilagare del rapimento, come diffuso strumento di generazione di reddito.

Il numero di rapimenti ha subito un brusco aumento nel primo trimestre di quest’anno: sono stati censiti 142 casi tra gennaio e marzo, circa tre volte quelli del primo trimestre 2020 (51).

Il fine settimana scorso (10-11 aprile) si è verificato un record in questo senso, perché 12 sono state le persone rapite di cui sette membri della chiesa haitiana.

Domenica 11 nella zona di Croix-des-Bouquet, comune alla periferia Nord-Est della capitale Port-au-Prince, aveva luogo la cerimonia di insediamento del nuovo parroco, padre Arnel Joseph, a Ganthier.

Ma alcuni degli invitati alla celebrazione non sono mai arrivati. Si tratta di due religiose, suor Anne Marie Dorcélus e suor Agnès Bordeau (francese) e cinque religiosi, di cui i padri Evens Joseph, Michel Briand (francese), Jean Nicaisse Milien e Joel Thomas della Società dei preti di Saint Jaques, e padre Hugues Baptiste, dell’arcidiocesi di Cap-Haitien. Come anche tre membri della famiglia del padre Joseph. Sono stati tutti portati via da un gruppo di banditi armati.

È il più grosso rapimento di gruppo di religiosi finora registrato. La Conferenza haitiana dei religiosi (Chr) ha protestato per l’inefficienza del governo nel combattere al piaga dei rapimenti.

Poche ore prima, nella notte tra sabato e domenica, era stato rapito il Gran maestro della loggia massonica Grande Oriente di Haiti, l’avvocato Yves Benoit Jean-Marie.

Il medico Trevant Valembrun, noto e attivo in diversi ospedali della capitale era invece stato rapito sabato 10.

I riscatti chiesti sono sovente di alcuni milioni di dollari, che poi sono negoziati al ribasso. Viste alcune liberazioni recenti, è chiaro che i soldi sono pagati. Il gioco, insomma, funziona.

Il primo ministro Joseph Jouthe durante una conferenza stampa martedì 13 aprile ha dichiarato di aver preso disposizioni contro questi atti di criminalità. Jouthe ha sostenuto in passato di aver smantellato la gang (gruppo criminale) chiamato «400 mwenzo», che controlla Croix-des-Boquets, ed è la probabile responsabile dei rapimenti di domenica.

La polizia resta incapace di combattere le bande che imperversano nel paese, che le autorità stimano essere circa 175.

Si ricorda che il presidente Jovenel Moise, il cui mandato è scaduto il 7 febbraio scorso, è rimasto in carica, pretendendo, grazie a un cavillo costituzionale, che la sua scadenza sia lo stesso giorno del 2022. Moise ha l’appoggio dei principali partner internazionali di Haiti, quali Nazioni Unite, Usa, Unione europea. Il suo governo, de facto, sta organizzando una modifica della Costituzione haitiana, che porterebbe allo smantellamento di molti diritti acquisiti dalla fuga di Jean-Claude Duvalier (febbraio 1986) ad oggi. Il sistema della gang è in realtà un meccanismo funzionale a questa operazione, che si può leggere anche come un golpe istituzionale.

Marco Bello

© Valerie Baeriswyl / AFP




Amazzonie, riflessioni post Sinodo panamazzonico

Testi di: Gaetano Mazzoleni, Paolo Moiola, Jaime C. Patias. A cura di: Paolo Moiola |



Dopo un lungo e tormentato percorso storico

Un sinodo sull’Amazzonia, finalmente

Questo sinodo era un’esigenza storica. Non è nato all’improvviso, ma da un lungo percorso della Chiesa e del papato. Un missionario e antropologo con una lunghissima esperienza nell’Amazzonia commenta il documento finale (senza trascurare qualche puntatina polemica verso i critici).

Dopo oltre cent’anni dall’enciclica Lacrimabili statu di san Pio X sulle condizioni disumane dei popoli amazzonici, finalmente è stato realizzato un sinodo sulla Panamazzonia e sui suoi abitanti. Questa affermazione potrebbe meravigliare molti lettori, ma molto di più ha sorpreso qualche manipolo di cattolici – si potrebbe dire – «più papisti del papa», che hanno fatto di tutto per ostacolare e disturbare la realizzazione di questo sinodo speciale. Ma andiamo con ordine.

Diversi gli invasori, identici i risultati

La prima domanda da porsi è: perché un sinodo speciale sull’Amazzonia? La risposta è duplice: la prima legata all’attualità ambientale, la seconda alla preoccupazione della Chiesa per i più deboli.

Nei mesi scorsi i mass media ci hanno inondato di pessime notizie ambientali. Da un lato, la fascia equatoriale del mondo, in cui si trovano realtà come il bacino amazzonico, il bacino del Congo e la zona del Sud Est asiatico, aree che hanno registrato preoccupanti segni di distruzione da parte dell’uomo (con probabili ripercussioni sui cambiamenti climatici globali). Dall’altro, i mesi di giugno e luglio sono stati caratterizzati da notizie allarmanti sulla foresta amazzonica in fiamme.

Le problematiche della regione amazzonica erano già state affrontate dalla Chiesa con la bolla di Benedetto XIV Immensa Pastorum Principis del 20 dicembre 1741, la bolla di Urbano VIII del 22 aprile del 1639 Commissum nobis e, ancora più indietro nel tempo, la bolla Pastorale Officium di papa Paolo III, datata 29 maggio 1537.

La citata enciclica di San Pio X, Lacrimabili statu, datata 7 giugno 1912, aveva come oggetto la tutela dei diritti umani e naturali degli amerindi amazzonici. Ai tempi, queste popolazioni erano oggetto di indicibili soprusi. Era l’epoca dello sfruttamento del caucciù (fine secolo XIX – prima metà del secolo XX), un periodo storico corrispondente all’inizio dell’industria automobilistica nel mondo occidentale. Il ciclo del caucciù si sarebbe concluso con l’arrivo dei derivati del petrolio, dopo la seconda guerra mondiale.

Denunciando quelle situazioni disumane, san Pio X si dimostrò un papa antesignano rispetto alla sensibilità per le condizioni dei popoli indigeni e dell’Amazzonia. Dopo oltre 100 anni da quella denuncia, l’esperienza dimostra che sono cambiati gli invasori, ma i fatti si ripetono: conquista, occupazione, distruzioni, profitto, oro, morti e sempre le stesse persone che perdono.

Questi due elementi – il progressivo degrado della situazione ambientale e la condizione delle popolazioni autoctone amerindie – indicavano alla Chiesa la necessità di fare qualcosa.

Così, quando papa Francesco ha parlato per la prima volta della necessità di un sinodo sull’Amazzonia, la mia prima reazione è stata un’esclamazione di gioia: «Finalmente. Era ora!». Non solamente perché lo consideravo giusto, utile o una novità assoluta, ma per la sua esigenza storica.

Una Chiesa che ascolta

foto Paolo Moiola

Scorrendo le pagine del Documento finale del Sinodo speciale, uscito a fine ottobre, mi pare esplicito l’invito a riflettere su diverse problematiche: ambientali, ecologiche, antropologiche ed ecclesiali.

La Chiesa «in uscita» si mette in «ascolto» del grido di aiuto dell’Amazzonia e delle popolazioni indigene che l’abitano per riflettere su come annunziare, vivere, celebrare il messaggio evangelico ed essere Chiesa radunata dall’Eucaristia. Riascoltando le voci dell’Amazzonia, il sinodo speciale invita tutte le persone di buona volontà, nello spirito di Francesco d’Assisi, a prendersi cura della «casa comune», a praticare la solidarietà con i più poveri che devono recuperare la loro dignità di persone, di figli di Dio e la loro identità culturale. «Cristo indica l’Amazzonia»: con questa affermazione di san Paolo VI comincia il primo capitolo (numeri 5 – 19) del Documento finale. È un grido che viene da lontano: dalla Lacrimabili statu di san Pio X, attraversa tutto l’arco temporale e di pensiero del Concilio Vaticano II e arriva fino ai nostri giorni.

Per la Chiesa latinoamericana il percorso verso l’Amazzonia e i suoi abitanti si è snodato attraverso gli incontri della Conferenza episcopale latinoamericana (Celam): Medellìn (1968), Puebla (1979), Santo Domingo (1992), Aparecida (2007), ma anche e forse soprattutto i molteplici incontri promossi dal «Dipartimento di Missioni» (Demis) dello stesso Celam con la guida del papa.

Dalla connessione all’alleanza

«Connessione» è un’ulteriore prospettiva essenziale del Documento finale perché presenta la stretta unione tra il grido della terra e quello dei poveri con la denuncia della distruzione del creato, dello sterminio del mondo naturale, della minaccia alla vita umana di coloro che abitano quei territori, ma anche con l’annuncio e la testimonianza della buona notizia di Gesù.

La connessione si fa alleanza quando si parla di Chiesa e popoli indigeni: Chiesa alleata del mondo amazzonico. Cristo, indicandoci l’Amazzonia, ci segnala le grandi sfide globali, la crisi socio-ambientale, il dramma delle migrazioni forzate e la convivenza tra culture e religioni differenti. L’ascolto dell’Amazzonia è un invito per la Chiesa alla conversione integrale perché ne riconosce il suo messaggio di vita: la voce e il canto dell’Amazzonia che diventa nello stesso tempo un grido di tutto il territorio e dei suoi abitanti. Dall’ascolto sorge la proposta di nuovi cammini di conversione pastorale, culturale, ecologica e sinodale.

© Vatican Media

Il percorso di una conversione pastorale (20 – 40) riguarda tutti i battezzati chiamati a costruire una Chiesa samaritana, misericordiosa e solidale. Una Chiesa missionaria impegnata nel dialogo ecumenico, interreligioso e culturale con volto e cuore indigeno o contadino (caboclo, ribereño, colono, afrodiscendente, …), migrante e giovane. Alla Chiesa della Panamazzonia è chiesto di diventare essa stessa missionaria. L’ascolto della Panamazzonia si trasforma – inoltre – in una conversione culturale (41 – 64).

Alleandosi con i popoli amazzonici la Chiesa si sente in dovere di rispettare e far rispettare i loro valori, le loro culture e il loro stile di vita come risultato di una forza vitale di adattamento storico. La Chiesa difende i diritti dei popoli amazzonici e denuncia tutti gli attacchi contro la vita delle loro comunità, il loro ambiente, con molteplici forme di sfruttamento.

Questa presa di posizione implica un’apertura sincera all’altro visto come fratello da cui si può imparare – ce lo dimostra la millenaria esperienza di adattamento dei popoli amerindi – e non come mezzo di cui servirsi a nostro beneficio. Per la Chiesa la difesa della «vita» e dei diritti dei popoli amerindi è un principio evangelico. L’alleanza tra popoli indigeni e Chiesa si realizza nell’ottica della fraternità, si manifesta in una sempre maggiore inculturazione della fede nella vita dei popoli amazzonici. In un’atmosfera di fraternità la Chiesa deve svolgere la missione di evangelizzare, il che non ha nulla a che vedere con il proselitismo, rifiutando al tempo stesso ogni forma di «evangelizzazione di stile coloniale».

I nuovi cammini di conversione ecologica (65 – 85) indicano che lo sfruttamento illimitato della «casa comune e dei suoi abitanti» deve essere fermato. Un’ecologia integrale non è un cammino tra i tanti che la Chiesa può scegliere per il suo futuro e quello di questo territorio, ma è l’unica via possibile e urgente; non esiste altro percorso praticabile per salvare la regione e i popoli indigeni. I cambiamenti nel sistema economico mondiale e la solidarietà globale sono urgenti e necessari.

Anche se la Chiesa non ha il potere di cambiare immediatamente e ovunque i modelli di sviluppo distruttivi e predatori, essa segnala e mostra da che lato sta. Il fondamento è la dottrina sociale della Chiesa, che implica espressamente l’ecologia. Deve impegnarsi per uno sviluppo equo, solidale e sostenibile con una denuncia coraggiosa dello scempio prodotto dall’estrattivismo.

L’introduzione del «peccato ecologico»

Nel porre in rilievo nuovi cammini di sviluppo «amichevoli» verso la casa comune, la Chiesa fa un’opzione chiara per la difesa della vita, della terra (territorio) e delle culture originarie amazzoniche (78).

In tale luce si comprende il «peccato ecologico» (82): ogni azione o omissione contro Dio, il prossimo, la comunità e l’ambiente. Tra le proposte concrete, spicca quella di un fondo mondiale per coprire parte dei bilanci delle comunità amazzoniche e la creazione di un osservatorio socio-ambientale pastorale che lavori in alleanza con i vari attori ecclesiali nel Continente – a partire dal Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) – e con i rappresentanti delle etnie native.

Nell’orizzonte di comunione e partecipazione si devono cercare nuovi cammini ecclesiali, soprattutto, nella ministerialità e nella sacramentalità della Chiesa con volto amazzonico (86-119). La Chiesa ha bisogno di nuove esperienze sinodali, di un nuovo cammino fatto insieme, di una cultura del dialogo e dell’ascolto per rispondere alle sfide pastorali. In particolare, nel documento si sottolinea a questo riguardo la corresponsabilità dei laici.

Il volto femminile

Un’intera sezione del Documento è poi dedicata alla «presenza e all’ora della donna», al volto femminile della Chiesa amazzonica. Il ruolo straordinario dell’evangelizzazione al femminile viene riconosciuto con forza chiedendo la possibilità che anche le donne possano accedere ai ministeri di lettorato, accolitato e di dirigente di comunità.

Il testo del Documento finale è il risultato dello «scambio aperto, libero e rispettoso» svoltosi nelle tre settimane di lavori del Sinodo, per raccontare le sfide e le potenzialità dell’Amazzonia, «cuore biologico» del mondo, un cuore esteso su 9 paesi e abitato da oltre 33 milioni di persone, di cui circa 2,5 milioni di indigeni. Questa regione, seconda area più vulnerabile al mondo (dopo l’Artico) a causa dell’uomo, si trova «in una corsa sfrenata verso la morte» e ciò esige urgentemente una nuova direzione che consenta di salvarla, pena un impatto catastrofico su tutto il pianeta.

foto Paolo Moiola

Amazzonia, «locus theologicus»

Questo, per sommi capi, il contenuto del documento finale di un sinodo benedetto, anche se arrivato molto tardi.

Penso di poterlo affermare sulla base dei miei 45 anni trascorsi nella regione amazzonica. Una regione dove, durante la stagione delle piogge (invierno), i fiumi si gonfiano, straripano e mandano a farsi benedire tutti i confini stabiliti «politicamente». Durante questa stagione i confini cambiano. È la legge della Panamazzonia, diversa dalla legge degli stati.

Come è diversa quella che dice: «I fiumi uniscono, non dividono». Diretta conseguenza di un altro principio: «Chi proibisce agli uccelli dell’altra sponda di venire a questa e viceversa? O chi impedisce ai pesci di questo lato del fiume di passare liberamente e tranquillamente all’altro?». Questa è saggezza e filosofia panamazzonica o, se si preferisce, «pensiero mistico religioso» di quell’area.

Qualcuno si è scandalizzato per espressioni come «buon vivere» o, ancora di più, «Pacha Mama» (madre terra). Eppure, un noto salmo biblico recita: «Venite ammirate le opere del Signore: ha fatto cose stupende sulla terra» (come, per esempio, il bacino e la selva amazzonica). In effetti, ci vuole così poco per riconoscere la foresta panamazzonica come un «locus theologicus»: basta viverci dentro.

Gaetano Mazzoleni

foto Paolo Moiola

 


Il documento finale del sinodo, una lettura laica:

L’Amazzonia, cuore biologico del mondo

Come l’Instrumentum laboris, anche il documento finale del Sinodo panamazzonico ha tra i propri meriti la chiarezza delle posizioni. Almeno quando parla della situazione politica, ambientale e antropologica.

Link ai documenti del Sinodo:

La situazione dell’Amazzonia, cuore biologico della Terra, è drammatica. Sono necessari – ricorda nei passaggi iniziali il documento finale del Sinodo – dei cambi radicali e urgenti nonché una nuova direzione che permetta di salvarla (2 – questi numeri si riferiscono al documento finale).

Nella regione amazzonica coesiste una realtà plurietnica e multiculturale, dato che, oltre ai popoli originari, esistono popolazioni meticce nate dall’incontro tra popoli diversi (8). I popoli indigeni hanno come orizzonte il «buon vivere», che significa vivere in armonia non soltanto con se stessi e con gli altri esseri umani, ma anche con la natura e con l’essere supremo (9).

Questa realtà plurietnica, pluriculturale e plurireligiosa richiede un’apertura al dialogo, riconoscendo la molteplicità degli interlocutori: oltre ai popoli indigeni, quelli rivieraschi, i contadini, gli afrodiscendenti, le organizzazioni della società civile, i movimenti sociali popolari, lo stato (23). Senza dimenticare le altre chiese cristiane e denominazioni religiose, anche se le relazioni tra cattolici e pentecostali, carismatici ed evangelici non sono facili (24). Va poi precisato che, in Amazzonia, il dialogo interreligioso si rivolge specialmente alle religioni indigene e ai culti afro. Queste tradizioni meritano di essere conosciute, comprese nelle loro espressioni e nelle loro relazioni con la foresta e la madre terra (25).

Nella foresta non soltanto la vegetazione è in connessione, ma anche i popoli sono collegati in una rete di alleanze che porta vantaggi per tutti. Grazie a questo sistema di interrelazioni e interdipendenze il pur fragile equilibrio dell’Amazzonia si è preservato nel tempo (43).

La visione indigena e quella occidentale

Il pensiero dei popoli indigeni offre una visione integrale della realtà, una visione capace di comprendere le molteplici connessioni esistenti tra tutti gli elementi del creato. Questo contrasta con la corrente dominante del pensiero occidentale che, per comprendere la realtà, tende a frammentarla, senza riuscire ad articolare una visione complessiva e unitaria. Oltre a ciò, nei popoli indigeni s’incontrano anche altri valori come la reciprocità, la solidarietà, il senso di comunità, l’eguaglianza (44).

L’avidità per la terra è alla radice dei conflitti che portano all’etnocidio, così come all’assassinio e alla criminalizzazione dei movimenti sociali e dei suoi dirigenti. La demarcazione e la protezione delle terre indigene è un obbligo degli stati nazionali e dei loro rispettivi governi. Senza dubbio, buona parte dei territori indigeni sono sprovvisti di protezione e quelli già demarcati (per esempio, la terra degli Yanomami) sono invasi a causa dell’estrattivismo minerario e forestale, dei grandi progetti infrastrutturali, delle coltivazioni illecite (in primis, la coca) e dei latifondi che promuovono le monocolture e l’allevamento estensivo (45).

Come spiega molto bene la Laudato si’, l’«ecologia integrale» ha il suo fondamento nel fatto che tutto è in connessione. Questo significa che ecologia e giustizia sociale sono intrinsecamente unite (66). Una delle cause principali della distruzione dell’Amazzonia è il cosiddetto «estrattivismo predatorio» che risponde alla logica dell’avarizia, propria del paradigma tecnocratico dominante (67).

foto Paolo Moiola

La visione indigena e quella occidentale

Risulta scandaloso che si criminalizzino i leader indigeni e le comunità per il solo fatto di reclamare i propri diritti. In questi ultimi anni, la regione amazzonica ha visto un continuo incre-
mento dello sfruttamento delle risorse naturali (legname, petrolio, oro e molto altro) e lo sviluppo di megaprogetti infrastrutturali (dighe, centrali elettriche, strade). Tutto questo si è tradotto in pressioni dirette sui territori ancestrali senza la possibilità per gli indigeni di ottenere giustizia (69).

È evidente che l’intervento dell’uomo ha perso il suo carattere «amichevole», per assumere un’attitudine vorace e predatoria che tende a sfruttare le risorse naturali disponibili fino al loro esaurimento (71). Molte attività estrattive, come le miniere su grande scala (quelle illegali in particolare, si pensi all’estrazione dell’oro), riducono in maniera sostanziale il valore della vita in Amazzonia. In effetti, si appropriano della vita dei popoli e dei beni comuni della terra, concentrando potere economico e politico nelle mani di pochi. A peggiorare le cose, molti di questi progetti distruttivi si realizzano nel nome del progresso e sono appoggiati o permessi dai governi locali, nazionali e stranieri (72).

Il futuro dell’Amazzonia è riposto nelle mani di tutti noi. Esso dipende principalmente dall’abbandono immediato del modello di sviluppo attuale che distrugge la foresta, non porta benessere e pone in pericolo l’immenso tesoro naturale amazzonico e i suoi guardiani (73).

La Chiesa riconosce la conoscenza tradizionale dei popoli indigeni rispetto alla biodiversità, una conoscenza viva e sempre in marcia. Il furto di essa è chiamata biopirateria, una forma di violenza contro queste popolazioni (76).

Nel nuovo modello sostenibile e inclusivo diventa una necessità urgente lo sviluppo di politiche energetiche che riducano drasticamente l’emissione di biossido di carbonio (CO2) e degli altri gas legati al cambiamento climatico. Inoltre, va assicurato l’accesso all’acqua potabile, che è un diritto umano fondamentale (77).

La difesa della vita dell’Amazzonia e dei suoi popoli necessita di una profonda conversione personale, sociale e strutturale (81). Occorre adottare comportamenti responsabili che rispettino e valorizzino i popoli dell’Amazzonia, le loro tradizioni e conoscenze, proteggendo la loro terra e cambiando i nostri modi di vivere. Dobbiamo ridurre il consumo eccessivo e la produzione di rifiuti solidi, stimolando il riuso e il riciclaggio. Dobbiamo ridurre la nostra dipendenza dai combustibili fossili e dall’uso delle plastiche. Dobbiamo cambiare le nostre abitudini alimentari, visto l’eccessivo consumo di carne e pesce. Dobbiamo attivarci nella semina di alberi. Dobbiamo cercare alternative sostenibili nell’agricoltura, nel campo energetico e nella mobilità. Dobbiamo promuovere a tutti i livelli l’educazione all’ecologia integrale (84).

© Guilherme Cavalli-Cimi

Valorizzare la donna e le lingue autoctone

La saggezza dei popoli ancestrali afferma che la madre terra ha un volto femminile. Sia nel mondo indigeno che in quello occidentale la donna è la persona che lavora in una molteplicità di campi (101). Eppure, nella vita quotidiana le donne sono vittime di violenza fisica, morale e religiosa. La Chiesa si schiera in difesa dei loro diritti e le riconosce come protagoniste e guardiane della creazione e della casa comune (102).

Avviandosi alla conclusione, il Documento finale ricorda che la Chiesa cattolica deve dare una risposta alla richiesta delle comunità amazzoniche di adattare la liturgia valorizzando la cosmovisione, le tradizioni, i simboli e i riti originari nelle loro dimensioni trascendenti, comunitarie ed ecologiche (116). E tutto va fatto usando le lingue proprie dei popoli che abitano l’Amazzonia (118).

Paolo Moiola

© Vatican Media


Scheda


Contro il sinodo e contro papa Francesco: Tribalista ed ecologista

Il Sinodo panamazzonico ha avuto molti avversari interni alla Chiesa cattolica. Per capirne di più, abbiamo dato un’occhiata ai loro siti.

Povero padre Corrado Dalmonego, non solo hanno messo il suo essere missionario tra virgolette («questo “missionario”»), ma ne hanno anche travisato il cognome (Dalmolego), segno – lo diciamo per inciso – non di sbadataggine ma di sciatteria. L’ambito è il sito dell’agenzia Corrispondenza Romana e la firma è quella di Cristina Siccardi, saggista torinese molto critica verso il pontificato di papa Francesco. È la stessa persona che sul medesimo sito, il 6 novembre, scriveva scandalizzata: «Il papa in persona, il 4 ottobre scorso, alla vigilia del Sinodo, ha partecipato ad una cerimonia nei giardini del Vaticano, insieme a vescovi e cardinali, guidata in parte da sciamani, dove sono stati usati degli oggetti che nulla hanno a che vedere con il Cattolicesimo, in particolare la donna nuda e incinta, la Pachamama. Papa Francesco ha anche riverito due vescovi che portavano in processione la Pachamama sulle loro spalle nella Sala del Sinodo, per essere poi collocata in un luogo d’onore. E statue di figure femminili nude in legno sono state venerate nella Basilica Vaticana, di fronte alla Tomba di San Pietro!».

Sarebbe interessante sapere il parere di Cristina Siccardi sul nudo nell’arte sacra o, senza andare lontani, sui corpi nudi della Cappella Sistina.

Corrispondenza Romana è il sito – uno di quelli ascrivibili al fondamentalismo cattolico anti papa Francesco (vedere riquadro) – che ha esultato per il gesto, definito «coraggioso», del giovane austriaco che «il 21 ottobre ha rimosso dalla chiesa di Santa Maria in Traspontina (una delle sedi esterne del Sinodo, ndr) e ha gettato nel Tevere le statuette di Pachamama, la divinità pagana rappresentante la “Madre Terra” amerindia».

© Guilherme Cavalli-Cimi

Il Sinodo è una minaccia

L’offensiva contro il malcapitato padre Corrado – missionario in Amazzonia (Catrimani, Roraima, Brasile), giovane ma preparatissimo, tanto da essere chiamato come uditore al Sinodo – era iniziata già a giugno 2019 con un attacco firmato dal cileno José Antonio Ureta sempre su Corrispondenza Romana.

Ureta così descrive gli Yanomami tra i quali padre Dalmonego opera: «Gli Yanomami sono un gruppo etnico composto da 20 a 30 mila indigeni che vivono nella foresta tropicale in modo molto primitivo […]. I loro vestiti sono molto sommari e li usano a malapena come ornamento ai polsi, alle caviglie e come cintura attorno alla vita. Gli uomini della tribù generalmente hanno varie mogli, comprese adolescenti appena entrate nella pubertà. Gli uomini sono soliti consumare la pianta “epená” o virola, che contiene una sostanza allucinogena». José Antonio Ureta è membro di «Tradizione, famiglia e proprietà», un movimento nato in Brasile che lotta contro «la grave minaccia che il Sinodo sull’Amazzonia rappresenta per la civiltà occidentale» e contro «un’ecologia falsa, i cui promotori cercano di controllare la società con il pretesto di salvare l’ambiente». Lo stesso Ureta e la citata Cristina Siccardi sono tra i cento firmatari della protesta (Contra Recentia Sacrilegia) per – si legge testualmente (9 novembre) – «gli atti sacrileghi e superstiziosi commessi da Papa Francesco, il Successore di Pietro, durante il recente Sinodo sull’Amazzonia tenutosi a Roma». Le accuse dei firmatari verso il pontefice partono tutte dal suo atteggiamento definito sacrilego verso la «dea pagana Pachamama». Nell’elenco si trova anche Roberto De Mattei, storico, presidente della «Fondazione Lepanto», direttore della rivista Radici Cristiane e di Corrispondenza Romana, nonché discepolo di Plinio Corrêa de Oliveira, fondatore del movimento «Tradizione, Famiglia e Proprietà». È sul sito da lui stesso diretto che de Mattei ha attaccato il nuovo «Patto delle Catacombe», firmato il 20 ottobre nelle catacombe di Domitilla in una celebrazione presieduta dal cardinale Hummes. Il professore ha usato parole sarcastiche per descrivere l’evento, definendolo «il patto socio-cosmico dell’era di Greta Thunberg» (Corrispondenza Romana, 22 ottobre). Molti dei firmatari del documento Contra Recentia Sacrilegia sono statunitensi come statunitense è il sito National Catholic Register. È il sito che ha attaccato (Edward Pentin il 17 ottobre) duramente anche la Repam (presieduta dal cardinal Hummes) e il Cimi (guidato da dom Roque Paloschi), la prima molto impegnata nell’organizzazione del Sinodo, il secondo da anni in prima linea nell’impagabile difesa dei popoli indigeni e dell’Amazzonia.

foto Paolo Moiola

I tre vaticanisti

L’offensiva anti Sinodo e anti papa Bergoglio è proseguita sulle pagine web di alcuni vaticanisti. «Il sinodo dell’Amazzonia è passato agli archivi, ma lo “scandalo” che ne ha accompagnato il cammino è lontano dall’essere sanato», scrive Sandro Magister nel suo blog Settimo Cielo il 13 novembre. Poi parla di idolatria a causa di quella «statuetta lignea di una donna nuda e gravida». Infine, boccia il Sinodo per «l’irrilevanza, se non l’assenza, dell’annuncio cristiano e l’enfasi scriteriata data invece alla cultura e alla religiosità pagane, senza esercitare su di queste il necessario giudizio». Secondo l’autore, oggi il «populismo» di papa Francesco è focalizzato sulle tribù amazzoniche e sull’«esaltazione del “buen vivir”» (30 novembre).

In un suo precedente scritto (30 ottobre), Magister aveva individuato il vero punto nevralgico – a suo dire – del Sinodo amazzonico: «È di dominio pubblico che questo sinodo è stato ideato e organizzato precisamente con questo obiettivo primario: “aprire” all’ordinazione di “viri probati” in Amazzonia per poi estendere la novità a tutta la Chiesa».

Anche Aldo Maria Valli, vaticanista della Rai, si concentra (con una certa dose di sarcasmo verso alcuni suoi critici) sulla questione dell’ordinazione di uomini sposati (viri probati). «In seguito al molto discusso Sinodo amazzonico – scrive il 16 novembre – si sta facendo più vicina l’ipotesi non di permettere a tutti i preti di sposarsi, bensì di ordinare, in certe aree, uomini sposati, anzi anziani sposati (poveri anziani!). Ma sappiamo come vanno queste cose. E dovrebbero saperlo anche i maestrini che pretendono di darmi lezioni. Dopo che è stato aperto un pertugio, da esso può passare di tutto. Nel caso specifico, si tratta di un pertugio amazzonico, che sembra lontano da noi, ma non lo è. Serviva un pretesto, e di solito il pretesto arriva da un caso limite».

Per parte sua, Marco Tosatti, un altro vaticanista (dai toni ancora più ruvidi e perentori), la butta tutta in politica: nella lotta tra la sinistra perdente (quella del Pd, di Repubblica, di Zuppi, «cardinale in quota Pd», Tosatti dixit) e la destra vincente (quella di Salvini, Meloni, ma anche – sostiene il vaticanista – di Casa Pound, il movimento neofascista), papa Bergoglio è schierato inopinabilmente con la prima. Però, ha perso, pure sul Sinodo, anche se questo si è svolto – scrive Tosatti – «in una situazione di manipolazione altissima» (29 ottobre), su alcuni temi come i viri probati e il diaconato femminile. Ma – avverte – occorre stare vigili perché il papa è il «detentore del mazzo», un pontefice che «si scaglia contro i cattolici che non sentono e pensano esattamente come lui», un papa con una «memoria selettiva» (16 novembre) perché esprime timori per un ritorno in auge di idee naziste, ma non dice nulla della Cina, del Nicaragua e del Venezuela.

Insomma, per costoro è tutto chiaro: papa Francesco non solo è un vero cattocomunista, ma ha riportato in vita la teologia della liberazione. Magari – come ha suggerito Julio Loredo, presidente per l’Italia di Tradizione, Famiglia e Proprietà (il Giornale, 20 novembre) – nelle sue forme aggiornate: la teologia indigena e la teologia ecologica. Loredo è la stessa persona che, a febbraio 2019, con chiaro intento spregiativo aveva definito la Chiesa «tribalista ed ecologista».

Paolo Moiola

Siti contro (la giostra delle citazioni)

  • https://www.corrispondenzaromana.it
  • http://www.ncregister.com (Stati Uniti)
  • https://lanuovabq.it
  • https://anticattocomunismo.wordpress.com
  • https://www.rossoporpora.org
  • https://www.fondazionelepanto.org
  • https://www.radicicristiane.it/
  • https://www.radiospada.org/
  • https://www.radioromalibera.org/
  • https://www.marcotosatti.com/
  • http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/

Quelli sopra elencati sono gli indirizzi dei principali siti contrari (o fortemente contrari) al Sinodo panamazzonico e a papa Francesco. Gli ultimi tre appartengono ad altrettanti vaticanisti: Aldo Maria Valli, Marco Tosatti e Sandro Magister. Va detto che nomi e contenuti all’interno di questi siti si ripetono spesso perché alcune persone sono presenti in vari ambiti (Roberto de Mattei su tutti) e perché la citazione reciproca è molto praticata. È giusto ed opportuno che i lettori li conoscano anche per comprendere meglio l’entità della battaglia interna che il papa argentino si trova a dover affrontare.

Pa.Mo.


© Vatican Media


Il documento finale del sinodo: una lettura missionaria

Il grido della Terra: dopo l’ascolto, l’azione

Il Sinodo è stato un successo, ma adesso viene il difficile: passare dall’ascolto all’azione. E questa dovrà sfidare «altari» e «troni». La Chiesa sarà sempre missionaria, ma in modo diverso. La «conversione» passa anche attraverso un nuovo tipo di presenza sul territorio amazzonico e al fianco dei popoli che lo abitano.

Il Sinodo per l’Amazzonia dello scorso ottobre è stato una benedizione per la Chiesa e per l’umanità. Allo stesso tempo, ha posto sul tavolo le principali sfide per la missione in un mondo globalizzato e minacciato. L’intero processo di preparazione e realizzazione di questo evento ecclesiale convocato da papa Francesco ha rafforzato la convinzione che territorialità e popoli determinano una missione che deve includere l’ecologia. Questa prospettiva aveva già acquisito slancio durante la visita del papa a Puerto Maldonado in Perù (gennaio 2018), un gesto che aveva sottolineato l’importanza di ascoltare gli indigeni e gli altri popoli.

La sfida ad «altari» e «troni»

Questo processo di ascolto del «grido dei poveri e del grido della terra» sfida «altari» e «troni» nella ricerca di nuovi modi di essere Chiesa. Il rinnovamento desiderato comporta necessariamente la conversione.

Durante l’assemblea sinodale, svoltasi dal 6 al 27 ottobre a Roma, la riflessione ha avuto come temi: la conversione pastorale, la partenza missionaria, la conversione culturale, il dialogo ecumenico, interreligioso e interculturale, la conversione sinodale, i nuovi ministeri, la teologia, catechesi e formazione inculturata, il riti amazzonici, la Chiesa povera, con e per i poveri. Temi che rappresentano una sfida alla missione della Chiesa e, quindi, si scontrano con «altari» al proprio interno (come raccontato a pag. 41 di questo dossier, ndr).

D’altra parte, temi come conversione integrale, conversione ecologica, modelli di sviluppo sostenibile, cura della casa comune, promozione ecologica integrale, grido dei poveri e grido della terra, interdipendenza tra tutti gli esseri, ecc., sfidano i «troni» del sistema capitalista attuale che è neoliberista e predatore.

È bene sottolineare che tutte queste domande sono interconnesse da una «spiritualità dell’ascolto» e dall’annuncio della buona novella con uno «spirito profetico».

Nel pontificato di Francesco, le basi per questo cambiamento sono state poste nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013)* e nell’enciclica Laudato si’ (2015). Allo stesso modo, il documento finale del sinodo (che dovrebbe orientare l’esortazione post sinodale) indica un passaggio dall’ascolto alla conversione integrale ponendo l’Amazzonia come «luogo teologico» simbolico per l’intera Chiesa universale.

© Vatican Media

I nuovi percorsi della Chiesa

Una lettura missionaria del documento finale aiuta a mettere in luce che il tema della missione è ben articolato in cinque percorsi (e altrettanti capitoli) di «conversione»: integrale, pastorale, culturale, ecologica e sinodale.

Quando, a inizio del capitolo 2 del documento, si legge: «Una chiesa missionaria in uscita richiede da noi una conversione pastorale» (20), scorgiamo la sintonia tra il sinodo e la teologia della missione del Concilio Vaticano II e delle conferenze dell’episcopato latinoamericano (Celam). Infatti, al numero 21 si legge: «La Chiesa, per sua natura, è missionaria e ha la sua origine nell’“amore fontale di Dio” (AG 2). Il dinamismo missionario che scaturisce dall’amore di Dio si irradia, si espande, trabocca e si diffonde in tutto l’universo. “Siamo inseriti dal battesimo nella dinamica dell’amore attraverso l’incontro con Gesù, che dà un nuovo orizzonte alla vita” (DAp 12). Questo straripamento spinge la Chiesa alla conversione pastorale e ci trasforma in comunità viventi, lavorando in gruppi e reti al servizio dell’evangelizzazione. La missione così intesa non è opzionale, un’attività della Chiesa tra le altre, ma la sua stessa natura: la Chiesa è missione! “L’azione missionaria è il paradigma dell’intera opera della Chiesa”(EG 15)» (Doc. finale 21).

Ciò che colpisce è la convinzione che la missione appartiene a tutti, la Chiesa è missione, e quindi «ogni cristiano è una missione» di Dio nel mondo. Con ciò, la missione cessa di essere qualcosa di esterno come «ornamento» e diventa qualcosa di essenziale: «La vita è missione» (EG 273) e questo pone la Chiesa sulla soglia per entrare «nel cuore di tutti i popoli» (Doc. finale 18).

© Guilherme Cavalli-Cimi

Una revisione dello stile missionario

Proponendo la conversione nei modi più diversi, il sinodo ribadisce che la «gioia del Vangelo» prima di essere diretta verso gli altri è diretta alla Chiesa stessa e ai suoi missionari. La conversione integrale si manifesta principalmente attraverso la conversione pastorale (missionaria) e sinodale. Per i missionari questa conversione richiede una seria revisione dello stile di missione che presuppone una presenza incarnata nella realtà e nella vita dei popoli. «La nostra conversione pastorale sarà samaritana, in dialogo, accompagnando le persone con volti concreti di indigeni, contadini, discendenti africani (quilombolas), migranti, giovani e abitanti delle città. Tutto ciò comporterà una spiritualità di ascolto e annuncio» (Doc. finale 20).

La conversione pastorale implica anche una prospettiva missionaria di itineranza, vicinanza e una presenza più efficace con i popoli, superando le visite sporadiche (desobrigas) e creando relazioni permanenti nella missione. Il sinodo sottolinea l’importanza di gruppi itineranti composti da diversi carismi, istituzioni e congregazioni, religiose e religiosi, laici e sacerdoti che lavorano formando una rete viaggiante (Doc. finale 39 e 40). Non bisogna più camminare da soli. La missione si svolge in una rete e in comunione ecclesiale. Il desiderio è che la Chiesa assuma in Amazzonia la sinodalità missionaria (Doc. finale 86-88).

© Guilherme Cavalli-Cimi

Davanti alla realtà amazzonica

Questo sinodo è stata una cosa unica. Le numerose attività (incontri, dibattiti, celebrazioni, mostre) della «Tenda amazzonica: la casa comune» (con sede principale nella chiesa della Traspontina in via della Conciliazione, a Roma) durante l’assemblea sinodale hanno portato a Roma rappresentanti dei popoli del territorio panamazzonico per «ascoltare insieme» con Francesco, i padri e le madri sinodali. Francesco ha invitato la periferia a sedersi nel centro del cristianesimo, la «foresta amazzonica» è stata piantata nella «foresta di pietre» e la «città eterna» è stata ossigenata.

Nella missione, i protagonisti sono la realtà e i suoi popoli che, oltre ad essere valorizzati, devono anche assumersi la loro responsabilità. «Questo sinodo vuole essere un forte appello per tutti i battezzati in Amazzonia ad essere discepoli missionari. (…) Pertanto, crediamo che sia necessario generare un maggiore impulso missionario tra le vocazioni native; l’Amazzonia deve essere evangelizzata anche dai suoi abitanti» (Doc. finale 26). In questo senso, la proposta di nuovi «ministeri per uomini e donne in modo equo» (95) e l’«elaborazione di un rito amazzonico» (119) sono encomiabili.

L’ambiente e il «peccato ecologico»

© Guilherme Cavalli-Cimi

Un altro momento saliente di questo sinodo è stato quello di affermare che l’ecologia integrale e la cura della casa comune sono parti costitutive della missione della Chiesa. Pertanto, l’azione evangelizzatrice con i suoi progetti e missionari non può dimenticare la cura della vita del pianeta. In questo senso, la definizione di «peccato ecologico come azione o omissione contro Dio, contro il prossimo, la comunità e l’ambiente» (Doc. finale 82) rappresenta un aggiornamento importante dell’insegnamento della Chiesa per la pratica della fede cristiana.

Decolonizzare la missione

Il sinodo per l’Amazzonia segue la linea della Conferenza di Medellin che, nel 1968, ha dato una contestualizzazione al Concilio Vaticano II in America Latina. Esso ha avuto anche il contributo di altri continenti. Questo cambio di prospettiva è importante per la «decolonizzazione» della missione e l’allontanamento dal pensiero eurocentrico. È bene ricordare che papa Francesco è un figlio del Concilio e del Sud, un fattore rilevante per «decolonizzare» la missione. L’Amazzonia ci sfida a passare dalla visione della missione come «espansione» alla missione come «incontro» senza proselitismo. «Siamo tutti invitati ad avvicinarci alle popolazioni amazzoniche su una base di uguaglianza, rispettando la loro storia, le loro culture, il loro stile del ben vivere. […] Rifiutiamo un’evangelizzazione in stile coloniale. Proclamare la buona novella di Gesù implica riconoscere i semi della Parola già presenti nelle culture» (Doc. finale 55).

Nonostante resistenze e incomprensioni, questo sinodo è un kairos, un momento tempestivo di grazia e speranza. Molto al di là del ricco documento prodotto, stiamo affrontando un processo che dovrebbe condurre a nuovi percorsi per una Chiesa divenuta molto più consapevole che, senza una conversione integrale e sinodale, non ci saranno cambiamenti reali nel suo modo di essere e di vivere la missione.

Jaime C. Patias

Firma del Patto delle Catacambe – © Guilherme Cavalli-Cimi


Dal 16 novembre 1965 al 20 ottobre 2019

Il «Patto delle catacombe» rivive e si rinnova

Nelle catacombe di Domitilla è stato firmato un nuovo patto. Per la casa comune. Per una Chiesa dal volto amazzonico, povera e serva, profetica e samaritana.

Il Concilio Vaticano II aveva ispirato, durante il suo svolgimento, un gruppo di vescovi guidati da mons. Helder Camara (1909-1999) a costruire una Chiesa servitrice e povera. Questa utopia prese forma il 16 novembre 1965, nelle Catacombe di Santa Domitilla a Roma, dove pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II, quarantaquattro padri conciliari celebrarono un’eucaristia e, con un gesto profetico, firmarono l’«Alleanza della Chiesa dei poveri e dei servi», meglio noto come il «Patto delle catacombe». Molti altri vescovi si unirono successivamente al Patto. I firmatari del documento si impegnarono a vivere in condizione di povertà, a rinunciare a tutti i simboli o privilegi di potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale.

Questa alleanza è stata considerata il seme della Chiesa di Francesco, che tre giorni dopo essere stato eletto successore di San Pietro, disse ai giornalisti: «Come vorrei una chiesa povera per i poveri!». Bergoglio conosceva bene la «barca» che stava cominciando a guidare. Ed è stata la sua sensibilità per «il grido dei poveri e il grido della terra» che lo ha portato a convocare il Sinodo speciale per l’Amazzonia, alimentato dall’enciclica Laudato si’ (2015) e dalla riaffermazione di una Chiesa che «non può dimenticare i poveri e la cura della Creato». Il pontificato di Francesco è diventato un forte richiamo alla conversione della Chiesa e dei poteri politici ed economici. È ovvio che ciò disturba coloro che, nella Chiesa, ignorano i poveri e non vogliono né perdere i loro privilegi, né mettere in discussione i potenti del mondo globalizzato che obbediscono solo ai desideri del profitto.

© Caldeira Ferreira Julio César

Una nuova alleanza per la casa comune

Sebbene non facesse parte della programmazione ufficiale del sinodo, il 20 ottobre 2019,  giornata missionaria mondiale, potrebbe anch’essa divenire una data storica, perché nella stessa sede del Patto del 1965, è stato firmato un nuovo Patto, questa volta per la casa comune: una chiesa dal volto amazzonico, povera e serva, profetica e samaritana. La proposta era stata costruita nei mesi precedenti il sinodo e aveva preso forma nelle prime due settimane della sua realizzazione a Roma.

Prima dell’alba di domenica 20 ottobre, cinque pullman parcheggiati in Via dei Cavalleggeri, vicino alla sala del sinodo, aspettavano un variegato gruppo composto da vescovi sinodali, esperti, leader pastorali, indigeni e religiosi e altre persone coinvolte nelle attività della tenda «Amazzonia, casa comune». La destinazione del gruppo erano le catacombe di Santa Domitilla nel moderno quartiere Ardeatino di Roma.

Con 17 chilometri di gallerie, quattro piani e oltre 150mila tombe, queste catacombe sono tra le più grandi di Roma. Vi furono sepolti numerosi martiri del primo cristianesimo, tra cui la stessa Flavia Domitilla, nipote dell’imperatore Vespasiano che donò la terra ai cristiani, e Nereo e Aquilleo che diedero il nome alla basilica semi sotterranea costruita alla fine del IV secolo su richiesta di papa Damaso I.

Mentre il gruppo scendeva le scale verso la basilica, il silenzio e la commozione hanno preso il sopravvento. La canzone «Alla luce dei martiri della fede», del noto cantautore Antonio Cardoso, annunciava il significato di quella visita. «Torniamo qui – dice il testo – tutte le volte che è necessario. Dopo il Concilio ci siamo incontrati per camminare con i poveri e Gesù. Torniamo qui per riscattarci in Amazzonia. Cerchiamo tutte le alleanze in queste tombe alla luce dei martiri della fede». E, usando la tintura rossa estratta dal seme dell’urucum (annatto) dell’Amazzonia, tutti hanno lasciato le loro impronte digitali su un panno morbido, simbolo della memoria del Gesù martire e di coloro che, per fede in lui, hanno versato il loro sangue.

Tra martiri e profeti

Padre Oscar Beozzo ha ricordato la storia del Patto del 1965, sottolineando che allora le guide del gruppo erano l’arcivescovo Helder Camara, l’arcivescovo Leonidas Proaño, vescovo degli indigeni in Ecuador, e l’arcivescovo Enrique Angelelli, che in seguito sarà assassinato dalla dittatura militare argentina.

L’eucaristia è stata presieduta dal cardinale Claudio Hummes, presidente della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam), che era accompagnato dal cardinale Pedro Barreto, arcivescovo di Huancayo in Perù, vicepresidente della stessa organizzazione.

Il ricordo del Patto del 1965 era rinnovato dalla stola di dom Helder usata a messa dal cardinale Hummes, che, emozionato, alla fine l’ha consegnata a dom Erwin, uno dei grandi profeti viventi dell’Amazzonia. Era presente anche una tunica di dom Helder, indossata da dom Adriano Ciocca, vescovo di São Felix do Araguaia, dove vive dom Pedro Casaldáliga, uno di coloro che hanno realizzato il patto all’estremo. Il calice e la patena usati nella messa appartenevano a padre Ezequiel Ramin, un missionario comboniano italiano, martirizzato nel 1985 a Cacoal, Rondônia, Brasile, per volere dei proprietari terrieri della regione.

© Caldeira Ferreira Julio César

Nella casa comune tutto è connesso

A differenza del primo, questo Patto per la casa comune è stata firmato da tutti i presenti (oltre 200 persone, tra cui 80 padri sinodali e due membri di altre chiese delegate fraterne nel Sinodo) con rilievo per la partecipazione degli indigeni e delle donne. Si tratta di un documento aperto che può ancora essere firmato in occasione di riunioni o attività in difesa della casa comune in tutto il mondo.

Chi firma i suoi 15 impegni rinnova l’opzione preferenziale per i poveri e si prende cura della casa comune con un’ecologia integrale in cui tutto è interconnesso (la sostenibilità della foresta, dei fiumi e del bioma amazzonico); valorizza e difende la diversità culturale, le tradizioni spirituali e lo stile di vita dei popoli amazzonici; desidera camminare ecumenicamente con altre comunità cristiane e religioni; valorizza le comunità e riconosce i ministeri; segue uno stile di vita sobrio, semplice e solidale; vuole ridurre la produzione di rifiuti e l’uso di materie plastiche, e favorire la produzione e la commercializzazione di prodotti agroecologici; difende i perseguitati e la vita dove essa è minacciata.

Saper ascoltare le voci scomode

Di fronte alle sfide ecologiche, sociali ed ecclesiali, questo nuovo Patto è una risposta alle preoccupazioni di papa Francesco che, anche alla messa di chiusura del Sinodo (il 27 ottobre), ha nuovamente ricordato: «Quante volte, anche nella Chiesa, le voci dei poveri non vengono ascoltate e talvolta sono derise o messe a tacere perché scomode. Chiediamo la grazia di saper ascoltare il grido dei poveri: è il grido di speranza della Chiesa». E come afferma il Patto: «Con loro abbiamo sperimentato il potere del Vangelo che opera nei piccoli».

Jaime C. Patias

foto Paolo Moiola


Hanno firmato questo dossier:

  • Gaetano Mazzoleni. Missionario della Consolata, dopo gli studi di teologia, si è specializzato in antropologia culturale presso la Catholic University of America di Washington. Ha vissuto in Colombia dal 1965 al 2010 con un intervallo di un anno in Venezuela. Durante la sua lunga esperienza si è sempre occupato di popoli indigeni, prima come missionario, poi come missionario e antropologo.
  • Jaime C. Patias. Missionario della Consolata, giornalista, attualmente è membro della Direzione generale dell’Istituto Missioni Consolata con responsabilità sulla regione americana.
  • A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.

foto Paolo Moiola




Missione a km0

Testo di Luca Lorusso


Una nuova forma di presenza della Chiesa

Abitare è annunciare

«Abitare in una parrocchia con i propri figli per un’esperienza di accoglienza, di annuncio del Vangelo, di corresponsabilità pastorale, per dare volto a una Chiesa fraterna e missionaria, per annunciare la gioia del Vangelo nel modo più semplice e vero: da persona a persona», è la frase che campeggia nella parte alta del blog delle Famiglie missionarie a km0 della diocesi di Milano: https://famigliemissionariekm0.wordpress.com/

Sono famiglie che annunciano il Vangelo nella quotidianità e nella fraternità, abitando uno spazio ecclesiale, a volte con altre famiglie, con altri laici, a volte con sacerdoti, religiosi o religiose in una bella e feconda sinergia di vocazioni.

Il gruppo di Milano, che al momento è l’unico organizzato, conta già 27 esperienze, ma molte altre ne esistono e ne stanno nascendo in diverse diocesi della Chiesa italiana.

Siamo andati a conoscerne alcune.



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A Mongreno, sulla collina torinese

Ricchi di fraternità

Quattro giovani famiglie vivono gli spazi altrimenti abbandonati della chiesa di San Grato facendo esperienza di fraternità e di servizio alla Chiesa e all’evangelizzazione. Nella semplicità della loro vita quotidiana.

L’appuntamento è per l’ultimo sabato mattina di settembre alla chiesa di San Grato, immersa nel bosco della collina torinese a Est del fiume Po. Lì, in zona Mongreno, vive una fraternità di quattro famiglie, due nella canonica e due in un’altra casa poco distante di proprietà della parrocchia. Sono otto adulti tra i 30 e i 40 anni e sette bimbi tra i 6 mesi e i 7 anni, più un altro in arrivo.

Sono tutti provenienti dal mondo dello scoutismo con un grande desiderio di mettersi a disposizione: della Chiesa e degli altri. Per questo le loro settimane sono scandite da diversi servizi pastorali e dagli appuntamenti di fraternità, oltre che dagli impegni famigliari e lavorativi comuni a chiunque.

Dopo diversi minuti di salita e di tornanti, parcheggiamo l’auto a un centinaio di metri dalla destinazione, di fronte a una piccola struttura che una volta ospitava la scuola elementare di zona, e percorriamo l’ultimo tratto a piedi. L’aria d’inizio autunno è fresca, e c’è un silenzio molto piacevole.

Arriviamo al sagrato della chiesa: un terrazzo stretto tra la facciata seicentesca dell’edificio e la vegetazione che cresce sul terreno scosceso della collina. Ci guardiamo intorno: oltre alle strutture della chiesa non si vede nient’altro che bosco. Le case dei parrocchiani che abitano qui attorno sono tutte sparse per la collina, e lungo la via ne abbiamo intuito la presenza solo dai passi carrai o dalle stradine laterali che s’infilano nel verde.

Fraternità casalinga

Alla canonica di San Grato si accede da un cancello che dà su un cortile, a lato della facciata della chiesetta. Suoniamo il campanello. Viene ad aprirci Massimiliano Grasso, Max per tutti, il più giovane tra gli adulti della fraternità: 30 anni, capelli neri, folti e ricci. Bolle di sapone sparate da una pistola verde e arancio campeggiano sulla sua maglietta nera. Ci accoglie con un sorriso e ci guida alla porta della canonica, una costruzione di due piani addossata al fianco della chiesa. Lui vive al piano terra con la moglie Sara Stilo, 31 anni, e con i loro bimbi Iago, di 2 anni, ed Elia, di 6 mesi.

Entriamo in cucina, dove Sara, capelli neri a caschetto attorno a un viso che pare giovanissimo, ci saluta mentre prepara la pappa per Elia che sorride allegro nel seggiolone. La piccola stanza, che fino a tre anni fa era una saletta parrocchiale, è semplice e accogliente: dentro ci stanno una cucina ad angolo, un divano a due posti, un tavolo per quattro. Le pareti sono organizzate con pensili e mensole carichi di tutto ciò che una giovane famiglia con bimbi piccoli deve avere a portata di mano.

«Lavoriamo tutti e otto – inizia a raccontare Sara -. Io e Serena, un membro della fraternità, lavoriamo insieme. Lei è la mia referente in una cooperativa di animatori. Facciamo attività di educazione al consumo consapevole nelle scuole. Mio marito, invece, è infermiere, ma in questo momento si sta occupando più di educazione che d’infermieristica, in una comunità di ragazzi psichiatrici. Da poco segue un bambino arrivato da un orfanotrofio russo. Avevano bisogno di una figura maschile e gli hanno chiesto se voleva occuparsene lui».

Quattro giovani famiglie

Max esce nel cortile al richiamo di due voci di bimbi, e al suo posto compare Giovanni Messina, 37 anni, che abita con la moglie Enrica Ruffa al piano di sopra. Sente che parliamo di lavoro e si presenta: «Io faccio lo sviluppatore di web e app per una cooperativa. Invece mia moglie è coordinatrice di una struttura di accoglienza della diocesi di Torino che si trova qua vicino, in strada Traforo del Pino. Segue una quarantina di rifugiati provenienti dal Moi (l’ex villaggio olimpico di Torino occupato da migranti e sgomberato a più riprese negli ultimi anni, ndr). Si occupa di tutto: dalla sistemazione ai documenti, all’italiano, alla condizione sanitaria, alle borse lavoro e alla vita ordinaria».

Mentre Giovanni parla, entra in cucina Iago, seguito da suo papà Max e dall’amichetta Cecilia, di due anni come lui. Iago porta con sé un vasino che posa a terra di fronte a noi: ha imparato da poco a usarlo ed è felice di mostrarlo a tutti.

Giovanni ci spiega che Cecilia ha un fratellino, Pietro, di sei anni, e che i suoi genitori, Stefano Picco e Chiara Gaschino, sono una delle due coppie che vivono nell’altra casa della fraternità a pochi passi da qui: Stefano ha 40 anni e fa il consulente sulla sicurezza in ambito forestale, Chiara ha 37 anni e fa la maestra. In questo momento Chiara è a casa, ma Cecilia è qui perché voleva giocare con Iago.

Nella casa dove abitano Stefano e Chiara c’è un secondo alloggio nel quale stanno Serena Andrà, 34 anni, con suo marito Claudio Aseglio, 35 anni, medico anestesista, e i loro bimbi: Agnese di 7 anni, Paolo di 5 e Francesco di 2 e mezzo. Un quarto piccolino nascerà all’inizio del prossimo anno.

Amici che si spalleggiano

Dopo averci presentato per sommi capi le famiglie della fraternità, Giovanni ci illustra anche i molti servizi che la fraternità offre per la comunità di San Grato e per l’unità pastorale nella quale San Grato è inserita: «Ci occupiamo di un’ex parrocchia di collina. Quando l’ultimo parroco è andato via, la parrocchia è stata fusa con quella di Sassi, dove don Stefano Audisio, che oggi ha quasi ottant’anni, fa i salti mortali. Il nostro incarico è essere qua, aprire e chiudere la chiesa, animare le messe domenicali: abbiamo il nostro nucleo di una decina di parrocchiani affezionati, e poi amici, altre famiglie con bambini, scout che vengono per il week end.

Ci siamo ritagliati una stanza nella casa di sotto dove vivono Chiara, Stefano, Serena e Claudio: la usiamo per i momenti di preghiera della nostra fraternità e per l’ospitalità nei fine settimana. Ospitiamo soprattutto scout per il semplice motivo che dormono per terra, oppure in tenda.

Oltre a questi servizi a San Grato, diamo una mano a don Stefano anche in altri ambiti della pastorale parrocchiale: il corso prematrimoniale, ad esempio, poi il corso per i battesimi, il catechismo, un percorso per i genitori dei bimbi del catechismo. Seguiamo anche un gruppo di giovani affiancando il don. Partecipiamo al consiglio pastorale.

I parrocchiani sono molto felici che ci siamo. Se non ci fossimo noi, probabilmente questa chiesa sarebbe chiusa e la struttura in decadenza. Il bosco si prenderebbe tutto se non ci fosse qualcuno qui.

Il punto di forza della nostra esperienza – conclude – è che siamo in quattro e ci spalleggiamo. Per le messe domenicali, ad esempio, ci alterniamo».

Storia della fraternità

Dal cortile sentiamo arrivare il suono gracchiante di un walkie talkie. È Serena che ci raggiunge con Francesco, di due anni come Iago e Cecilia. I bimbi più grandi, Agnese e Paolo, non volevano venire, e sono rimasti a casa insieme a Chiara, collegati con la mamma tramite la radiolina. La casa è appena al di là del piccolo sagrato della chiesa e di una rampa di scale in discesa tra gli alberi, forse una cinquantina di metri, ed è divertente rimanere in contatto così. Mentre Francesco si ferma in cortile con Iago, Cecilia e Max, Serena entra e ci saluta.

Serena e suo marito Claudio vivono a San Grato da sette anni, a differenza delle altre tre famiglie che sono arrivate tre anni fa. Chiediamo quindi a lei di raccontarci la storia della fraternità.

«I primi a venire a Mongreno nel 2006 sono stati Paolo e Nicoletta Leombruni. San Grato era ancora parrocchia, e don Sebastiano, che aveva ricevuto come lascito testamentario la casetta qui sotto, li ha invitati a viverci perché gli dessero una mano. Loro si occupavano di pastorale famigliare.

Quando don Sebastiano è andato in pensione e la canonica è rimasta vuota, Paolo e Nicoletta hanno chiesto a Luca e Arianna Tagliano di venire a viverci per fare un’esperienza di fraternità. Era il 2008. Entrambe le famiglie sono rimaste a Mongreno fino al 2016-17. I Leombruni avevano 4 figli più un affido. I Tagliano tre figli. Noi siamo arrivati nel 2012, dopo due anni di matrimonio, mentre aspettavo Agnese».

Quando Serena e Claudio sono arrivati, hanno introdotto alcune novità. Una di queste è stata l’apertura agli esterni del triduo pasquale fino ad allora vissuto in fraternità. Un triduo «ora et labora», lo chiama lei, cioè un’occasione di preghiera e lavoro per sistemare il verde che cresce rigoglioso attorno alla chiesa. «È stato proprio durante uno di questi tridui, nel 2016, che abbiamo conosciuto Max e Sara. Loro sono rimasti colpiti dall’esperienza, allora, dato che i Tagliano stavano per andare via, abbiamo proposto loro di venire a vivere qui. Ad agosto si sono sposati, e a gennaio 2017 si sono trasferiti».

Nel frattempo anche la famiglia Leombruni ha deciso di andare altrove, e Serena e Claudio hanno iniziato a cercare altre coppie.

«In quell’estate del 2016 – interviene Giovanni -, Serena e Claudio hanno incrociato noi e Chiara e Stefano e ci hanno fatto la proposta. Noi abbiamo iniziato a venire nei week end per vedere e, pian piano, abbiamo capito che la cosa ci interessava».

«C’è stato un attimo di défaillance – confessa Serena -, non pensavamo che tutti fossero interessati. Gli spazi erano per tre famiglie, non per quattro».

«Quindi abbiamo cercato di capire se ci saremmo stati – prosegue Giovanni -. Noi eravamo già sposati e anche Chiara e Stefano, che avevano già Pietro. Quando abbiamo deciso di venire, abbiamo iniziato i lavori qui nella canonica per ricavare un secondo alloggio e, alla fine, abbiamo traslocato durante l’estate 2017. Ovviamente, in tutto questo cammino, siamo stati sempre accompagnati da don Stefano».

Questioni pratiche (ed economiche)

Dato che si parla di ristrutturazioni e di famiglie che abitano dei luoghi che non sono di loro proprietà, chiediamo qualche delucidazione sugli accordi con la parrocchia. «Il nostro alloggio, qui sopra, è fatto di due stanze, il bagno e la cucina – spiega Giovanni -. Questo di Sara e Max ha la cucina, due stanzette piccole, la camera da letto e il bagno. Le ristrutturazioni le abbiamo pagate noi dividendoci la spesa. Il contratto è un comodato d’uso gratuito per cinque anni. A nostro carico, oltre alle ristrutturazioni, abbiamo ovviamente le spese vive, le utenze di luce, acqua, gas. Poi, ogni anno, facciamo un’offerta volontaria che corrisponde all’Imu. È come se fossimo in affitto: la spesa per le ristrutturazioni è più o meno quello che avremmo speso per un affitto di cinque anni».

Coppia, famiglia, fraternità, impegno

Essendo arrivate le 12, Serena si congeda: aveva già da tempo in programma di andare con i bimbi al picnic ecologico «Un Po meno inquinato» organizzato al parco Colletta, ai piedi della collina, da diverse associazioni, tra cui Altri Modi Ets, l’impresa sociale per cui lavora Enrica.

Anche Sara e Max andranno al picnic tra poco.

La nostra attenzione è rapita dal gorgoglio che Elia emette, quasi come una ninna nanna, in braccio a Sara. Con tutta la fatica che qualsiasi coppia fa, tra le tante gioie, per costruire l’equilibrio sempre nuovo di una giovane famiglia con bimbi piccoli, domandiamo come facciano a tenere dietro anche a tutti gli impegni legati alla fraternità.

«Effettivamente è una delle fatiche – risponde Sara -. Siamo tutti molto impegnati e, tra l’altro, ci siamo resi conto che è importante coltivare anche le relazioni tra noi famiglie. L’anno scorso abbiamo iniziato una riflessione sull’equilibrio tra fraternità, famiglia e servizio. È emerso che alcuni di noi sono qua soprattutto per l’aspetto comunitario e che il servizio dovrebbe essere nel cerchio più esterno. Prima si deve essere alleati nella coppia. Poi si allarga il cerchio ai figli, poi alla fraternità, poi al servizio. Per avere delle fondamenta forti».

Il valore aggiunto

Per lasciare che Sara e Max si preparino anche loro per il pic nic ecologico, ci spostiamo fuori con Giovanni che oggi rimarrà l’unico della fraternità a San Grato. C’è un piacevole sole autunnale che ci illumina e scalda. Nel cortiletto c’è un tavolo da esterno con le sedie.

«Qual è il valore aggiunto di questa fraternità alla vostra vita di sposi?», chiediamo. «Una cosa bella che la fraternità ci offre è quella di poter fare servizio insieme, come coppia. E poi c’è una dimensione di sogno e di condivisione che ci piace. Di bisogno di camminare con altri, di poterci confrontare».

«E quali sono, invece, le difficoltà?».

«La difficoltà dell’esperienza di fraternità è che, come succede a tutti i fratelli che vivono sotto lo stesso tetto, quando ci si passa vicini, ci si può urtare. Ci sono i momenti nei quali uno si dice, chi me l’ha fatto fare? Il fatto di essere in quattro, però, a volte aiuta, perché se c’è un momento nel quale hai bisogno di chiuderti un po’ a guscio, puoi farlo senza scompensare troppo gli equilibri.

C’è poi la fatica della trasparenza continua. Qui non c’è l’anonimato condominiale, e tutto quello che fai è conosciuto dall’altro: i tuoi orari, come decidi di rimproverare i figli, come li fai giocare, cosa gli regali… Tutto è pubblico, anche le tue fatiche con il coniuge, i litigi di coppia. È un’esperienza molto sfidante.

Poi c’è anche il vantaggio di dire: “Mio figlio mi sta facendo impazzire, te lo lascio un attimo perché se no darei di matto”. Hai una rete solida vicina».

Una chiesa incarnata

Arriva il momento di andare anche per noi. Quando ci congediamo, partiamo pensando alla spontaneità dei bimbi e dei loro genitori, colti nel mezzo della loro vita quotidiana. Il clima famigliare, la semplicità dell’accoglienza e della casa, l’andirivieni di bimbi e adulti, la pappa, il caffè preparato con un piccolo in braccio, il pic nic ecologico, ci hanno dato il sentimento di trovarci in mezzo a fratelli che condividono le cose di ogni giorno senza ansie e con molta flessibilità.

È un’immagine di Chiesa in uscita che s’incarna in un tempo e in un luogo attraverso voci e vicende personali, famigliari e comunitarie precise.

Quando abbiamo domandato a Giovanni se crede che l’esperienza di fraternità che sta vivendo abbia un suo posto nella Chiesa di oggi, ha risposto: «Io penso che sia una cosa naturale. Non la vedo come una cosa strana, di rottura. È il frutto del Concilio Vaticano II. Il ruolo del laico. La ricchezza dell’essere coppia, e dell’essere fraternità. Siamo in un tempo di costruzione, di esplorazione. È una dinamica normale, sensata».

Luca Lorusso


Casa Santa Barbara, un condominio speciale ad Alba

Il bene comune si fa insieme

Siamo andati a conoscere dal vivo l’esperienza di Emanuela e Nicola Costa: una «Famiglia missionaria a km0» che vive la fraternità e l’accoglienza in uno spazio parrocchiale assieme a due giovani volontari e a tre donne africane in difficoltà.

A guardarla da fuori è un’anonima palazzina di tre piani come se ne vedono in qualsiasi città: uno scatolone intonacato di bianco con balconi e finestre disposti simmetricamente a sinistra e a destra della scala.

Dentro, però, l’anonimato non ha spazio, perché le persone che la abitano, tutte in modo temporaneo, vivono un’interessante esperienza di fraternità, accoglienza e solidarietà, sempre con le porte aperte.

Siamo ad Alba, seconda città della provincia di Cuneo per popolazione dopo il capoluogo.

La palazzina, chiamata casa Santa Barbara perché sorge nell’omonima via di un quartiere centrale piuttosto benestante della città, è una struttura di proprietà della parrocchia Cristo Re destinata all’accoglienza di donne sole in condizione di disagio.

Attualmente è abitata da tre donne africane con i loro figli che risiedono in tre alloggi distinti, da due giovani volontari, Paolo in un appartamento e Giulia in un altro (in attesa dell’arrivo anche di Miriam, altra giovane), e dalla famiglia Costa, di quattro persone, cui fa capo l’associazione «Il Campo» che gestisce l’accoglienza. Un’umanità variegata che, nella semplicità della vita quotidiana, fatta anche di documenti da tradurre, telefonate dei servizi sociali, tapparelle da aggiustare, nutre le relazioni con occasioni di gioco per i bambini, momenti condivisi di manutenzione, feste, pasti, preghiere, compiti di scuola fatti assieme.

Una parrocchia accogliente

Alla stazione di Alba viene ad accoglierci Emanuela Iacono: jeans blu, maglietta rossa, foulard variopinto di farfalle, occhiali viola e una parlantina invidiabile. Lei e il marito Nicola Costa, entrambi quarantenni, con i due figli Edoardo di undici anni e Giacomo di sette, sono arrivati ad Alba da Milano cinque anni fa per lavoro. Nicola è un esperto di sicurezza alimentare, Emanuela si occupa di comunicazione per il terzo settore.

Emanuela cammina spedita facendoci strada. Oggi è lunedì, giorno di lavoro, e avremo a disposizione poco più del tempo della pausa pranzo. Nonostante questo, prima di andare in via Santa Barbara, abbiamo in programma di conoscere don Claudio Carena, parroco di Cristo Re e vicario generale della diocesi di Alba, responsabile ultimo della casa.

Arriviamo in cinque minuti, e troviamo ad accoglierci nel suo ufficio don Claudio, 53 anni, affabile e sorridente. Nella sua parrocchia l’esperienza della casa Santa Barbara non è l’unica iniziativa sociale: «Qui in canonica, ad esempio, ospitiamo quattro famiglie e quattro persone singole – ci spiega -. È una struttura molto grande, e il mio predecessore ne ha tratto otto bilocali. Gli ospiti hanno tutti situazioni difficili. Innanzitutto economiche, ma anche di fragilità psicologica, sociale. Oggi abbiamo ospiti di tre etnie e tre religioni diverse. C’è un dialogo interreligioso di fatto in un bel clima di rispetto. Le famiglie fanno una convenzione per undici mesi rinnovabili, ma alcuni non riescono ad andarsene anche quando avrebbero la possibilità economica di farlo: c’è una coppia marocchina con due figli, ad esempio, che lavora e potrebbe pagare un affitto altrove, ma nessuno vuole dare loro il proprio appartamento…».

L’esperienza della casa Santa Barbara, dove ora vivono Emanuela e Nicola «è nata circa 20 anni fa – ci racconta don Claudio -. Una persona aveva donato una struttura alla parrocchia con l’impegno di attivare qualcosa per i poveri. Il parroco di allora, don Angelo Stella, ha costruito l’attuale condominio grazie all’istituto per il sostentamento del clero. Poi, il parroco successivo, don Valentino Vaccaneo, ne ha fatto una casa di accoglienza per donne sole, e una coppia di parrocchiani, Anna e Franco Foglino, è andata a viverci dedicando all’accoglienza 18 anni di vita con grande generosità e competenza. Quando sono arrivato io sette anni fa, mi hanno chiesto di trovare un’altra famiglia, e la provvidenza, nel 2016, ha mandato Emanuela e Nicola».

Uno spazio nel quale ricostruirsi

Salutiamo don Claudio e ci lasciamo guidare da Emanuela verso via Santa Barbara. «Accogliamo donne sole in difficoltà – ci spiega lungo la strada -. Sono donne spesso segnate da rapporti difficili con le famiglie di origine o con i compagni. L’obiettivo della casa è offrire un tempo di ripartenza verso una vita autonoma di massimo due anni. Le donne vengono segnalate dai servizi sociali o da associazioni. A ognuna chiediamo di partecipare alle spese della casa. Quando non possono ci aiutano gli enti che ce le mandano: i servizi sociali, Caritas o altri.

Noi diamo una mano a queste donne nelle cose di ogni giorno come buoni vicini di casa: stampare la pagella dei figli, scrivere il curriculum vitae, e cerchiamo di attivare reti di aiuto informali. La loro provenienza è varia. Negli ultimi tre anni abbiamo avuto con noi donne dalla Romania, dalla Tunisia, dal Marocco, dalla Bulgaria, dall’Italia».

Le attuali ospiti sono tre donne africane: «Una è madre di un ragazzo di 12 anni con disabilità. Insieme a loro c’è anche la nonna. Hanno da poco avuto l’assegnazione di una casa popolare». La seconda è di origine marocchina con un bimbo piccolo: «Sta affrontando una separazione difficile. Ha bisogno di un tempo in cui seguire le pratiche legali, trovare un lavoro, e riprogettare la sua vita». La terza è una mamma originaria della Nigeria, con una bimba di dieci mesi. «È stata battezzata in parrocchia a Cristo Re. Lì ha battezzato anche la sua bimba. Era in un Cas (Centro di accoglienza straordinaria, ndr) di Alba, poi è stata spostata in un Cas di un’altra città. Quando ha ottenuto la protezione internazionale, le abbiamo proposto di tornare qui come segno di cura da parte della comunità che l’ha accompagnata al battesimo. Lei è molto contenta di essere di nuovo ad Alba dove si è ben integrata anche grazie all’aiuto di associazioni del territorio. È molto motivata a ripartire».

Condividere tempi e luoghi

Arriviamo in via Santa Barbara 4. Dietro la palazzina s’intravede un cortile. Di fronte, dall’altra parte della strada, c’è un palazzo di cinque piani, di quelli i cui alloggi negli annunci immobiliari recano la scritta «finiture di pregio».

Entriamo nell’androne sul quale si affacciano tre porte: una è del centro di ascolto Caritas della parrocchia; un’altra è di uno degli alloggi per l’accoglienza, la terza dà su un monolocale a uso comune. I volontari l’hanno sistemato due mesi fa, e ora è attrezzato con una cucina, un tavolo e alcune sedie.

Qui tutti i giovedì vengono alcuni ragazzi scout e delle parrocchie vicine a far giocare i bambini della casa. «Un altro gruppetto di giovani viene il sabato mattina a fare dei lavori manuali – ci racconta Emanuela -. Tra questi c’è anche Babatunde, arrivato in Italia qualche anno fa. Ora ha una fidanzata albese e lavora in una cantina. Viene il sabato mattina a dare una mano perché vuole restituire l’accoglienza che ha ricevuto».

Nel monolocale c’è Nicola, arrivato dal lavoro pochi minuti fa per la pausa pranzo: sta preparando gli agnolotti del plin, tipici piemontesi, e un’insalata. C’è anche Paolo, un giovane di 27 anni – «capo scout», ci tiene a dire -, che vive al piano di sopra da maggio per fare un’esperienza di accoglienza e fraternità. Paolo è già in partenza per andare al lavoro, ma fa in tempo a raccontarci dell’altra sua bella esperienza conclusa appena prima di arrivare qua: ha abitato per due anni con un altro giovane nella canonica della sua parrocchia Santa Margherita, per sperimentare la vita fuori dalla casa paterna, la convivenza e soprattutto il servizio alla parrocchia.

Oltre a Paolo, come detto, nella palazzina abita da poco anche Giulia, e un’altra giovane, Miriam, si sta avvicinando: la famiglia Costa ha, tra le sue caratteristiche, quelle della condivisione e della fraternità, sia con le donne accolte che con i giovani.

Una famiglia missionaria a km0

Emanuela e Nicola sono una scheggia albese del gruppo di «Famiglie missionarie a km0» che loro stessi hanno contribuito a creare nel 2013 nella diocesi di Milano. Un gruppo nel quale si sono radunate famiglie che, in modo indipendente l’una dall’altra e con stili diversi, avevano iniziato ad abitare con spirito missionario in canoniche, oratori o altre strutture ecclesiali. Si definiscono «famiglie missionarie», perché molte di loro hanno vissuto esperienze all’estero, anche di diversi anni, o semplicemente perché sta loro a cuore l’evangelizzazione, far conoscere Gesù a chi ancora non l’ha incontrato; «…a km0» per sottolineare la vicinanza tra la loro vita e la missione: che sia ad Alba o a Quarto Oggiaro – il quartiere milanese della parrocchia Pentecoste nella quale i Costa hanno vissuto due anni, prima di trasferirsi -, poco importa.

Desiderio di fraternità

«In questa casa ci sono dieci alloggi. Uno è questa stanza comune per stare insieme – ci dice Nicola -. Poi c’è il centro di ascolto della Caritas, l’alloggio per Paolo, quello per Giulia, e quello per noi. Tutti gli altri sono dedicati all’accoglienza».

La descrizione della destinazione degli alloggi non vuole essere un semplice elenco, vuole piuttosto mettere in luce uno degli elementi fondamentali di questa esperienza di condominio solidale: la fraternità. La casa non è solo un «rifugio» per persone in difficoltà, ma è un luogo nel quale sperimentare una forma nuova di vicinato, una modalità aperta di relazioni paritarie tra persone diverse.

«La cosa è nata dalla nostra esperienza precedente in parrocchia a Milano – ci spiega Emanuela -. È significativo che ci sia una fraternità tra famiglia e sacerdote al centro della parrocchia. Ci sembrava significativo che ci fosse una forma di fraternità anche al centro dell’esperienza di accoglienza. Cercavamo un’altra famiglia e non l’abbiamo trovata. Allora abbiamo pensato ai giovani».

«Prima che arrivassero questi nuovi giovani – aggiunge Nicola -, è stata qui Elisabetta, che oggi ha 27 anni e si è appena sposata. Lei diceva che voleva vedere le cose con i suoi occhi: “Ho un lavoro, ho il fidanzato, ma non voglio andare a convivere. Esco di casa, faccio due anni con la porta aperta. Mi metto al servizio di chi ha bisogno”». «Alla fine – aggiunge Emanuela – ha detto che essere qua non è solo fare servizio, ma rendersi conto di cosa succede nel mondo, perché ognuna delle donne ospitate ti racconta come vanno le cose a casa sua e anche la fatica di stare in Italia. Paolo e Giulia staranno qua per un anno, Miriam farà un ingresso più graduale. L’idea è che passino per questa esperienza prima delle scelte definitive della vita: è anche un’esperienza di discernimento. Si mettono al servizio, e in più provano a immaginare la loro vita futura. Per vivere la fraternità in modo più completo con loro, facciamo almeno una cena alla settimana insieme. Poi in pratica diventano anche due o tre, perché spesso passano per un saluto e alla fine si fermano a mangiare. Oltre alla cena, stiamo costruendo il modo di pregare insieme».

La quotidianità fraterna, però, per i Costa non si realizza solo con i giovani. In senso più ampio è il vivere con la porta aperta e il cuore disponibile nei confronti degli ospiti: «Vivendo insieme è più facile che s’inneschino delle dinamiche di reciprocità – continua Emanuela -. Io sono qua per aiutarti, però, se questo spazio è unico e lo abitiamo insieme, anche tu che sei ospite partecipi. Il bene comune lo costruiamo insieme. Questo è difficile, soprattutto per quelle persone che sono tanti anni che vengono aiutate. Fare quel salto di qualità: pensare “però anche io posso darmi da fare per gli altri”, è provocatorio, ma vivendo insieme viene naturale».

Il cortile si riempie

Mentre mangiamo e chiacchieriamo, arriva da scuola Edoardo, il figlio maggiore di Nicola ed Emanuela. Saluta, posa lo zaino e si siede a tavola anche lui. Partecipa volentieri a questo pranzo con uno sconosciuto: è abituato a condividere gli spazi e i tempi di casa con altri. Chiediamo però ai suoi genitori come fanno a conciliare le esigenze di coppia e di famiglia con quelle di un condominio così.

Nicola, ormai alla fine della sua pausa pranzo, risponde: «La famiglia e il servizio non sono due cose distinte. Non è come il lavoro: esco, vado in un luogo dove gli altri non possono venire, faccio le mie cose e torno. È una parte integrante della nostra vita. È una forma della vita, anche se bisogna riuscire a tenere degli spazi riservati, soprattutto per i figli». «Il nostro è un vicinato aperto – Aggiunge Emanuela -. Poi è bello che io e Nicola facciamo le cose assieme. Invece per i nostri figli è bello avere molte relazioni. Per cui capita che ci sia l’invasione di chi non vuoi nei momenti che non vuoi, ma poi hai tanto di più attorno. Loro sono contenti. Lo erano anche di vivere in parrocchia. Apprezzano molto i giovani che abitano qua, i giochi al giovedì, il fatto che vengano gli amici dei bambini accolti, che il cortile si riempia».

La terza porta della chiesa

La famiglia Costa vive nella casa Santa Barbara da tre anni. Come i loro amici della diocesi di Milano, anche loro si sono dati un tempo di cinque anni, scaduti i quali verificheranno, insieme alla parrocchia, se la loro presenza nella casa ha portato buoni frutti e se proseguire con l’esperienza oppure andare altrove. «Tre anni sono pochi. Cinque anni permettono di entrare nel vivo. È un tempo sensato. Dopo di ché ci sentiamo sostituibili».

La casa Santa Barbara non è una realtà visibile. È un condominio in mezzo ad altri condomini. Non ha insegne o frecce luminose che ne indichino la presenza. Si fa vedere solo da chi la conosce, e da chi frequenta le persone che la vivono. Non è invadente. Ma è un pezzettino di Chiesa che abita il quartiere, che sta in mezzo alle case.

«Le Famiglie missionarie a km0 sono la terza porta della Chiesa – ci dice Emanuela mentre ci salutiamo -: c’è la porta istituzionale, poi c’è la porta piccola che è quella degli istituti religiosi o della sacrestia dove entrano solo gli addetti ai lavori, e poi c’è la terza porta che è fatta da quelli che desiderano vivere la fede e una vita piena pur facendo la vita di tutti. L’impegno è quello di essere una porta d’ingresso verso il popolo di Dio. Questo è il nostro impegno: riuscire a fare da tramite».

Luca Lorusso


Dieci storie in un libro

Le Famiglie missionarie a km0 della diocesi di Milano, dal 2013 costituiscono un gruppo ormai consolidato e organizzato che oggi conta almeno 27 famiglie più altre in rete.

Le loro provenienze sono le più disparate: c’è chi viene dal mondo scout, chi da Azione cattolica, da Comunione e liberazione, dal laicato dei missionari della Consolata, dall’Operazione Mato Grosso, dalla rete delle famiglie ignaziane e da altre realtà.

Tutte si ritrovano attorno a una chiamata e a una prassi comune: essere missionari nella quotidianità, attraverso l’abitare in un quartiere, in una parrocchia, in uno spazio della Chiesa, qui in Italia. Senza bisogno di valicare frontiere. Essere missionari non a prescindere o nonostante la condizione di famiglia, ma proprio perché famiglia.

Il gruppo di Milano è il più visibile, in questo momento, nella Chiesa italiana, ed è quello che ha maturato una riflessione più articolata, ma i suoi membri non sono i soli che vivono la missione a km0. Proprio il fatto di avere iniziato a darsi un nome, a comprendersi come un volto specifico della Chiesa del nostro tempo, sta facendo loro conoscere molte altre esperienze in giro per il nostro paese, famiglie che sentono la stessa chiamata in forme simili e che stanno avviando un dialogo con le loro diocesi di appartenenza.

Gerolamo Fazzini, nell’ottica di iniziare a tirare un po’ le fila di qualcosa che sta pian piano, con i tempi dello Spirito, prendendo forma, ha raccolto in un bel volume, ben scritto e gustoso nei contenuti, dieci esperienze: sette milanesi, due piemontesi e una veneta, con una prefazione di mons. Luca Bressan, una cronologia essenziale della storia del gruppo ambrosiano, una piccola panoramica delle esperienze fuori dalla diocesi di Milano e una postfazione con un’intervista a Johnny Dotti sull’«abitare generativo».

L.L.


A colloquio con monsignor Luca Bressan

Scrivere la presenza di Gesù nel quotidiano

L’esperienza milanese delle famiglie missionarie in canonica sono una freccia che indica nuove forme di presenza della Chiesa sul territorio. La quotidianità, la fraternità, la sobrietà, l’accoglienza, sono alcuni dei suoi strumenti principali per incarnare la fede nella Chiesa e nel mondo che cambiano.

«Per me è stato un privilegio incontrare le Famiglie missionarie a km0. Io le leggo come un segno che lo Spirito ci dà per dire come incarniamo la fede oggi. Sono una realtà giovane che va aiutata a crescere e a scoprire il mistero che porta dentro. Allo stesso tempo sono un dono che interroga la Chiesa, e che mette in luce quanto essa sta cambiando».

Monsignor Luca Bressan è sacerdote della diocesi di Milano dal 1987, dal 2012 è vicario episcopale per la cultura, la carità, la missione e l’azione sociale, «ovvero – ci dice -, quella parte di azione pastorale che intercetta la cultura, il mondo, la società, e quindi ne legge i cambiamenti».

È coinvolto nell’accompagnare quelle famiglie che nella sua diocesi incarnano la condizione di «Chiesa in uscita» abitando una struttura ecclesiale, e ce ne offre una lettura di ampio respiro.

Don Luca, a proposito di Chiesa che cambia, in un tuo intervento di qualche mese fa a Padova, proprio riferendoti alla Chiesa, hai parlato di «tornante storico». Ci puoi spiegare?

«Tutti ci accorgiamo che la Chiesa cambia, non solo perché i presbiteri sono meno, ma perché sono meno anche i battesimi. La Chiesa ha un’incidenza minore nella storia.

Il Concilio ci insegna che dobbiamo abitare questo cambiamento senza stancarci. Il rischio, però, è di interpretare questo “non stancarci” in modo troppo attivo: “Siamo noi che agiamo sulla riforma della Chiesa, che la mettiamo al passo con i tempi”. Invece, più che disegnare a tavolino quale sarà la forma futura della Chiesa, è molto meglio fermarsi e vedere come lo Spirito suscita vocazioni diverse, modi differenti di dire la fede.

Veniamo da un passato in cui la fede era incarnata soprattutto dalla vita religiosa, dall’esercito di suore che, accanto ai malati, agli abbandonati, ai bambini, raccontavano alla gente la gratuità dell’amore di Dio. Ecco, adesso quell’esercito di religiosi, religiose, preti, sta venendo meno, e corriamo il rischio che la Chiesa diventi “un’agenzia di servizi” a cui ricorrere per una preghiera, una prestazione.

La presenza delle Famiglie missionarie a km0 ci ricorda che è ancora possibile vivere una logica di gratuità. Avere queste famiglie non significa avere manodopera in più, ma delle persone che scrivono la presenza di Gesù nel quotidiano».

Le Famiglie missionarie a km0 sono una nuova forma di presenza della Chiesa nella società?

«Sì, noi la leggiamo in questo modo. Per questo la vogliamo accompagnare. È una freccia che ci indica nuove forme di presenza. Non in alternativa, non in sostituzione alle forme organizzate, al ministero presbiterale ad esempio, ma proprio come forma di aggiunta.

Il valore profetico che c’è in quest’esperienza è l’idea della fraternità missionaria che fa vedere come insieme si viene trasfigurati dalla fede, dal Vangelo che si vive, e quindi lo annuncia».

La fraternità è una delle caratteristiche fondanti di quest’esperienza, come si esprime?

«Questo dipende dalle situazioni. Ci sono luoghi nei quali la fraternità s’incarna in una frequenza fisica e quotidiana, ci sono luoghi in cui la famiglia abita dove una volta c’era il prete e ora il prete non c’è più, per cui la fraternità è più vincolata a momenti e orari.

C’è una fraternità quotidiana vissuta localmente che si esplicita in modi diversi. Poi c’è una fraternità più ampia che riguarda l’intera esperienza delle Famiglie missionarie a km0, che vuole essere uno spazio nel quale, ad esempio, si confrontano i tanti carismi da cui le coppie provengono: il mondo della missione, quello francescano, gli scout, Cl, famiglie legate a spiritualità più tradizionali, il mondo dei gesuiti…

Il gruppo è come una piazza in cui le differenze s’incontrano e arricchiscono tutti. L’ultima cosa che desiderano è spegnere le differenze. Infine c’è una fraternità ecclesiale di fondo che lega queste famiglie con la Chiesa».

Oltre alla fraternità, anche la quotidianità è un elemento fondamentale per questa esperienza.

«L’incarnazione avviene nel quotidiano. Il Verbo si è fatto carne in un momento determinato della storia e in un luogo determinato. Per cui, esatto, il quotidiano è una parola chiave. Il Vangelo non si vive e non si testimonia in astratto».

Quali sono i punti di forza, le criticità e le prospettive delle Famiglie missionarie a km0?

«I punti di forza sono, da una parte, l’energia spirituale, la gioia, la voglia di creare nuovi percorsi. Poi lo stile di vita famigliare, la sobrietà, la voglia di far vedere che cosa dà sapore e senso alla vita.

C’è una differenza tra ricerca del piacere e ricerca della gioia. C’è chi cerca la gioia pur vivendo in un mondo che ricerca solo i piaceri.

Le sfide stanno nel capire come innestare tutti questi elementi di novità nella presenza della Chiesa tra la gente, e come dare loro forma. La criticità sarà poi superare man mano la fase di entusiasmo e vedere come far diventare questa esperienza la normalità della vita ecclesiale, come farla diventare una figura conosciuta, una figura ministeriale».

Com’è accolta questa esperienza dalla gente e dai sacerdoti della diocesi?

«La gente in qualche caso ha espresso diffidenza, ma poi si è accorta della capacità di contagio e di annuncio che ha quest’esperienza. I preti, in parecchi casi, hanno riconosciuto in questa presenza un nuovo modo di declinare la loro missione, e anche la loro scelta celibataria. Più di un prete mi ha detto che, grazie alla famiglia missionaria, ha imparato, ad esempio, a organizzare meglio la sua vita, gli spazi di silenzio, i luoghi d’incontro con la gente».

Lo scopo del gruppo delle famiglie qual è?

«A livello diocesano è quello di istituire uno spazio di crescita anzitutto spirituale e comunionale. Ci s’incontra per nutrirci a vicenda della profondità del mistero che abitiamo e per tornare poi a immergerci in un quotidiano che richiede tante energie».

C’è una commissione in diocesi che sta redigendo delle linee guida. Cosa sono?

«L’idea è, senza affrettare i tempi, quella di consolidare l’esperienza. Scopo delle linee guida è di mettere per iscritto alcuni suoi elementi costitutivi perché ne diventino l’ossatura e le permettano di essere trasmessa e condivisa. Permettere a noi e agli altri di capire quali sono i tratti essenziali delle Famiglie missionarie a km0, così che poi possano essere declinati nelle differenti situazioni e, man mano, possano istituire una figura riconoscibile dalla diocesi.

Della commissione fanno parte alcune famiglie e alcuni elementi della Chiesa diocesana.

Però non vogliamo accelerare i tempi. Vogliamo che il processo di stesura sia la trascrizione a livello verbale del processo di consolidamento dell’esperienza che si sta vivendo a livello di corpo».

Come viene gestita la presenza di una famiglia in spazi di proprietà della Chiesa?

«Essendo un’esperienza carismatica segnata dalla gratuità, le famiglie si mantengono con il loro lavoro, come fa qualsiasi famiglia normale. Dato però che abitano in un contesto di fraternità missionaria e di collaborazione pastorale, la chiesa le ospita in modo gratuito nelle sue strutture. Il tutto basato su un contratto di comodato di cinque anni, rinnovabile, che permette a tutti di essere liberi, soprattutto alla famiglia. Il primo compito della coppia è salvaguardare, approfondire, nutrire il suo sacramento, e quindi la famiglia: la durata quinquennale serve per dare un termine e per vedere se nella famiglia, ad esempio con la crescita dei figli, sono nate nel frattempo nuove esigenze. L’idea è di non mettere a nessuno degli obblighi».

Cosa dà a te quest’esperienza?

«Io sono contentissimo. Mi accorgo di esserne nutrito. Trovo dei fratelli e delle sorelle che mi aiutano a tenere incarnata la mia fede e, allo stesso tempo, danno gioia al mio cammino. Fa parte del famoso centuplo raccontato dal Vangelo. Ritrovo dei legami famigliari che non avrei mai immaginato potessero esserci. E questo è bellissimo».

Luca Lorusso


Marco, Maida e i loro cinque figli, dalle Ande peruviane a Milano

Con la porta sempre aperta

Marco e Maida Radaelli appartengono all’Operazione Mato Grosso (Omg), presente in Ecuador, Perù, Brasile e Bolivia, fin da giovani. Prima di conoscersi hanno fatto alcune esperienze all’estero: Marco in Ecuador e Maida in Perù, e quando si sono sposati, neanche trentenni, dopo due mesi sono partiti per 10 anni in Perù.

Oggi vivono nella parrocchia di Ponte Lambro, Linate, zona Sud Est di Milano, e sono una Famiglia missionaria a km0 con i loro cinque figli, di cui le prime tre nate sulle Ande: Martina di 14 anni, Margherita (11), Beatrice (9), Daniele (2) ed Elena (1).

«Nel tornare ci eravamo chiesti quale sarebbe potuto essere il modo per vivere la missione anche qua in Italia», ci dice Maida per telefono.

Maida, ci descrivi la vostra esperienza in Perù?

«Vivevamo in una casa dell’Omg a Yungay, a 2.800 metri, in zona rurale sulle Ande, proprio ai piedi del Huascarán, la montagna più alta del Perù. Niente a che vedere con Ponte Lambro a Milano.

Avevamo una scuola di falegnameria con un internato dove c’erano 20 ragazzi scelti tra i più poveri dei villaggi vicini: vivevano insieme a noi e quindi passavamo tutta la giornata con loro.

Dopo due anni abbiamo costruito una scuola: asilo, elementari e medie. Dalle 8 alle 16 avevamo con noi 300 bambini, ai quali davamo anche da mangiare. Tutto con l’aiuto dei volontari italiani.

I professori erano peruviani, e poi c’erano volontari italiani che venivano anche solo per un mese, e davano una mano a insegnare».

Quindi il vostro lavoro in Perù era quello educativo. Non avevate un’altra fonte di reddito?

«No. Non avevamo stipendio. Vivevamo anche noi con quello che veniva mandato dall’Italia. Poi avevamo delle donazioni private di parenti o amici che utilizzavamo per cose nostre».

Che formazione avete?

«Siamo infermieri tutti e due. Ci siamo conosciuti all’università. Abbiamo lavorato come infermieri cinque anni prima di partire».

Cosa vi ha lasciato l’esperienza di condivisione continua con i ragazzi peruviani?

«Una ricchezza molto grande. Le nostre figlie hanno respirato da sempre che la nostra famiglia non è chiusa. La porta di casa era sempre aperta. È sempre stata una famiglia molto allargata. Vuoi o non vuoi, i tuoi problemi, le cose che ti sembra di non riuscire a superare, passano in secondo piano. Condividere la giornata con altre persone ti fa capire che non sei tu il centro del mondo. Le nostre figlie hanno visto con i propri occhi la povertà, materiale e non. Quando oggi diciamo: “Stai attenta a non pensare solo a te stessa”, ci capiamo. In Perù eravamo molto facilitati in tutto, perché non avevamo un lavoro che ci portava via durante il giorno, e quindi eravamo lì 24 ore su 24. Potevamo dedicarci agli altri sempre. In Italia la vita è più frenetica e ti impedisce di fare quello che vorresti: ci sono gli impegni fissi come la scuola, il lavoro, e quindi poi devi gestire il tempo che ti rimane».

Ogni tanto sentivate il bisogno di avere uno spazio solo vostro, di famiglia?

«Ce lo chiedono sempre. Certo: avevamo il nostro spazio con una piccola cucina e le nostre stanze. A volte venivano a bussare, però era sottinteso che se eravamo nel nostro spazietto, dovessero trattenersi. Poi in realtà passavamo in casa pochissimo tempo. Eravamo sempre insieme ai ragazzi».

Collaboravate con la parrocchia?

«C’erano due sacerdoti locali. Con loro avevamo anche dei momenti insieme, e una volta alla settimana uno veniva a celebrare la messa con noi e i ragazzi. C’era una strettissima collaborazione».

Com’è stato il rientro per le vostre figlie?

«Per loro l’Italia era un mondo sconosciuto e si sentono ancora peruviane. Rimpiangono spesso la vita semplice del Perù. Però quando abbiamo spiegato loro che avremmo mantenuto alcune caratteristiche della vita peruviana, che saremmo venuti a vivere in una parrocchia, hanno accettato bene».

Avevate già un posto dove andare?

«Sì, avevamo sentito l’ufficio missionario della diocesi di Milano. Inizialmente avevamo chiesto di andare in un paese e non in città, perché le nostre figlie in Perù avevano vissuto una vita molto semplice e volevamo conservare questo aspetto. Ci è stato proposto Bulciago, in Brianza, e quando siamo tornati nel 2014 siamo andati direttamente lì, in canonica, per tre anni. Nel frattempo è tornato dal Perù don Alberto Bruzzolo che ha sempre chiesto, sia in Italia che in Perù, la collaborazione di una famiglia vivendoci insieme. In diocesi è stato il primo a provare questa esperienza fin dal 2001 a Pentecoste. Quando è arrivato, conoscendoci già, ci ha chiesto di fare fraternità con lui. Allora nel 2017 ci siamo spostati qui a Ponte Lambro, in un contesto di periferia urbana totalmente diverso. Noi diciamo sempre alle nostre figlie che non importa dove si vive, importa come uno vuole spendere la sua vita: che sia con i ragazzi peruviani, in Brianza, o in città. Ne abbiamo parlato molto, e alla fine loro hanno detto che sì, l’importante è aiutare gli altri.

Qui c’è un centro d’ascolto della san Vincenzo che segue 150 famiglie. Vengono distribuiti vestiti, medicine… Anche qui i miei figli vedono la povertà».

Com’è la vita di fraternità?

«Viviamo in fraternità missionaria con don Alberto, che è parroco, e con don Emanuele Merlo, che segue la pastorale dei Rom. Siamo in una casa di due piani dentro l’oratorio: al piano terra ci siamo noi, e al piano superiore i due don. In un’altra struttura ci sono tre suore Marcelline. Anche loro hanno chiesto di lavorare nella periferia.

Abitando nella stessa casa, diciamo le lodi al mattino insieme, poi facciamo colazione per raccontarci un po’ di cose. E poi la domenica sera facciamo la compieta e un commento di un brano biblico.

Nella vita quotidiana, poi, ci sono pranzi, cene. Così come vengono. Avendo la porta sempre aperta è facile che succeda».

Lavorate?

«Mio marito sì. Io no. È stata una scelta per coltivare l’accoglienza. La mia presenza in casa è importante. Infatti, per il fatto di essere un’infermiera, a volte le persone vengono a chiedermi medicine o iniezioni… e questa cosa ci apre un mondo, perché le persone vengono e poi ti raccontano tutto di loro. Come dice una mia amica che vive anche lei in una canonica: “Noi facciamo la pastorale del caffè”.

A volte la figura del sacerdote può dare un po’ di soggezione. Invece vedere una famiglia, che è una famiglia normale, perché ha i figli, fa casino, i bambini gridano, la mamma pure, fa sentire più a casa. Don Alberto dice che conosciamo le stesse famiglie, ma da punti di vista diversi: i nostri figli vanno alle feste di compleanno, vanno a scuola… in tutte quelle parti della vita dove il don non può arrivare, noi possiamo».

Tuo marito che lavoro fa?

«Con degli amici, anche loro tornati dalla missione, ha fondato una cooperativa sociale di imbianchini e giardinieri, e gestiscono cinque isole ecologiche qua nei dintorni e in Brianza. Poi fanno un lavoro sociale con il reintegro nel lavoro di ex alcolizzati, ex drogati, persone bisognose.

Lui dice sempre che non vuole fare un lavoro che lo separi dalla vita normale».

In parrocchia che ruolo avete?

«Non abbiamo cose precise. Facciamo incontri con genitori che chiedono il battesimo. Ognuno di noi ha un gruppo di lettura del Vangelo una volta ogni 15 giorni: cioè andiamo nelle case delle persone che si rendono disponibili. Io sono anche catechista e gestiamo l’oratorio feriale e le attività dei bambini, sempre con i due don e con le suore».

Difficoltà e soddisfazioni?

«La difficoltà è quella di avere pochi momenti di intimità famigliare. A volte dici: “Ma basta! Questo campanello che suona in continuazione”. I bambini che avrebbero bisogno di attenzione, però devi dire loro di aspettare un attimo. A volte è una fatica. Usi energia togliendola alla famiglia. Ma alla fine ti dici: non è quella la cosa che mi rende più felice, pensare solo a me e alla mia famiglia. Alla fine, vivere così è una ricchezza».

L.L.


Per una parrocchia a misura di pannolino

Contagiati dalla gioia

Suor Enrica Bonino, 53 anni, accompagna il cammino delle Famiglie missionarie a km0 fin dal 2001, quando ha partecipato alla nascita della prima esperienza nella parrocchia di Pentecoste, nel quartiere di Quarto Oggiaro a Milano.

È una suora energica. Torinese di nascita e ignaziana di spiritualità. È un’ausiliatrice delle anime del purgatorio con la vocazione di accompagnare le persone attraverso i loro «purgatori», le fasi di crisi che la vita offre a tutti, verso la gioia.

Suor Enrica non esita a definire «profetica» la realtà delle famiglie missionarie che a Milano e altrove offrono un volto nuovo di Chiesa alla gente.

Suor Enrica, tu sei legata all’esperienza delle
Famiglie missionarie a km0 fin dagli inizi.

«L’esperienza è nata nel 2001 nella parrocchia Pentecoste a Quarto Oggiaro, dove vivevo. È partita dal parroco don Alberto Bruzzolo, da Marco e Marta Ragaini, una coppia con tre figli arrivata dal Chad dopo 6 anni di missione, e da me. Loro vivevano in parrocchia, io nella mia comunità e il parroco in un appartamento nel quartiere.

L’ho vissuta fino al 2006, quando sono partita per un anno in Colombia. Al mio rientro nel 2007, sono andata a Torino, e ho ripreso l’attività con le famiglie, anche se più legata alla spiritualità ignaziana. Insieme ad alcune coppie, ci siamo resi conto che è necessaria una certa cura del cammino a due, allora ho sviluppato un po’ questo aspetto: affiancare le famiglie e sostenerle in un percorso di spiritualità coniugale. Credo molto in quello che dice l’Amoris Laetitia (31): “Il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo e della Chiesa”.

Infine, nel 2012, sono tornata a Quarto Oggiaro».

Che ruolo hai nel gruppo delle Famiglie a km0?

«Sono stata coinvolta per la mia esperienza con le famiglie e perché la spiritualità ignaziana offre degli strumenti concreti: gli esercizi spirituali, una disciplina e un metodo di preghiera, un metodo per il discernimento e per le scelte.

Io non ho un ruolo specifico. Quando il gruppo ha iniziato a organizzarsi, mi sono stati chiesti degli incontri di formazione spirituale. Dopo di che ho iniziato a visitare alcune famiglie a fare telefonate, visite, confronti, in una modalità molto relazionale. L’idea è di prendersi cura l’uno dell’altro e di sensibilizzarsi reciprocamente su questa cura».

E che ruolo hanno, invece, le Famiglie missionarie a km0 nella Chiesa?

«Secondo me hanno un ruolo profetico. Entrare in una canonica e non trovarti la classica segretaria o il parroco, ma un bambino che ti chiede se giochi con lui, rivoluziona l’idea della parrocchia: offre un’immagine di semplicità, di vita quotidiana, di una chiesa a misura di pannolino, direi.

Oggi la parrocchia rischia di essere un luogo in cui si fanno delle cose, mentre è importante che sia vissuta come luogo di fraternità dove si sperimentano delle relazioni, poi si fanno anche delle cose, ma in funzione di una relazione che sia la più ampia, accogliente, aperta possibile».

La fraternità con sacerdoti o religiosi è un punto centrale per tutte le Famiglie missionarie a km0?

«Sì, però le modalità dipendono dalle situazioni: dai lavori della coppia, dalla disponibilità di tempo, dall’età dei figli, dal tipo di sacerdote. Non c’è un cliché. Un momento di preghiera insieme e uno di scambio su come va, c’è sempre. Per chi è implicato nella pastorale, lo scambio avviene anche su dove stiamo andando, cosa stiamo facendo, cosa aiuta di più la parrocchia. Ma non è detto che tutte le famiglie siano coinvolte nella pastorale allo stesso modo».

Quali sono i punti di forza di quest’esperienza per la famiglia, la parrocchia, il quartiere?

«Il punto di forza per la famiglia è la possibilità di non chiudersi in sé, nei propri problemi, nella gestione faticosa della quotidianità, di aprirsi ad altri e di coltivare un orizzonte spirituale più ampio. Perché quando sei continuamente sollecitato dagli altri, ti devi rinnovare nella motivazione che ti abita. Questo è anche il punto di fragilità, perché, a volte, essere troppo sollecitati può creare disguidi. È necessario cercare un equilibrio sempre nuovo.

Anche la comunità parrocchiale e il territorio ne hanno un beneficio, perché iniziano a vedere un volto diverso di Chiesa, la possibilità di confrontarsi con una fede più semplice, vissuta. Non è tanto una fede parlata, è una presenza accogliente.

L’altra cosa bella, per me, è che alcune Famiglie missionarie a km0 prendono contatti con altre diocesi, altre regioni, altri paesi, ad esempio la Francia, dove ci sono realtà simili: è come stare dentro un laboratorio continuo. Tutto questo crea una grande circolazione d’idee ed esperienze. Per esempio, alcuni da Milano sono andati qualche tempo fa a Padova a conoscere una comunità di famiglie ignaziane. Conoscere altri territori e stili è arricchente, dà molto entusiasmo ed è un modo per sostenersi a vivere una vita evangelica».

Il gruppo di famiglie della diocesi di Milano può aiutare altre esperienze a emergere?

«Ci sono diverse esperienze di famiglie che sperimentano fraternità differenti ma non si conoscevano tra di loro e non provengono da organizzazioni già costituite nelle diocesi. Adesso che con i convegni tenuti ogni due anni a Milano, con le trasmissioni televisive, i giornali, si inizia a vedere che c’è una realtà lombarda consistente, allora le altre realtà più isolate incominciano a venire fuori e a chiedere un confronto. Ne ho conosciute in Puglia, Emilia Romagna, Piemonte, Veneto, Umbria, Toscana, in Sicilia… Alcune realtà iniziano a confrontarsi con le proprie diocesi. Alcune diocesi non hanno le realtà ma i vescovi vorrebbero.

C’è un grande movimento e una grande curiosità. È un’esperienza portatrice di grande fermento.

Dove porterà non lo so. Don Luca Bressan dice, e io condivido, che dobbiamo lasciare che la cosa cresca, sostenerla con delicatezza, lasciando che le persone trovino il proprio spazio, senza codificare troppo, perché altrimenti si spegne lo spirito.

È necessaria una grande attenzione. Ed è per questo che ci sono molte telefonate: come stai? Come sta quella coppia? La vai a trovare tu, o vado io?».

È bella questa sinergia tra vocazioni differenti.

«Io credo molto nel sostegno tra vocazioni diverse. Indirettamente queste famiglie sostengono me nella scelta che ho fatto e, per quel che sono capace, a mia volta offro un sostegno, una presenza.

Io credo che la Chiesa possa essere solo così. Non può esserci una Chiesa di separati, in cui i religiosi sono da una parte, le famiglie sono dall’altra e ognuno sta chiuso nella propria casa o convento.

Mi piace la possibilità di mostrare un volto di chiesa diverso, il cui la suora, ad esempio, lavora come tutti, dà una mano in cucina se serve, può accompagnare i bambini al bagno e guardare i cartoni animati con loro. È considerata una persona come le altre. Questo è uno stile che vivo anche con la rete delle famiglie ignaziane da anni.

Lavorare per questo ideale e per questa mescolanza a me dà una grande gioia. Poi non so come andrà e chi tirerà le fila di tutto, ma anche questo a me dà una grande gioia e libertà: provo a lavorare, e poi tutto è nelle mani di Qualcun altro».

Questa esperienza è uno dei frutti che il Vaticano II continua ancora oggi a far nascere?

«Per me è un’esperienza a contagio. Sono arrivati dei missionari che hanno fatto esperienza di missione, e hanno iniziato a contagiare. È l’esperienza della semplicità che tu sperimenti solo in missione, con i più poveri, che a un certo punto trasforma la tua vita e non riesci più a vivere diversamente.

Io la vivo così, non tanto pensando ai documenti della Chiesa. Certamente è uno sviluppo del Vaticano II, certamente è in linea con il pontificato di papa Francesco e con tutti i documenti che lui ha scritto, perché uno dei punti cardine di questa esperienza è diffondere la gioia del Vangelo. Cioè far vedere che a essere cristiani si è felici, si è contenti, pur essendo incasinati. Perché i casini non li risparmia a nessuno la vita. Ma li vivi in un altro tipo di serenità, perché sai di chi sei, a chi appartieni e chi vuoi passare, chi vuoi trasmettere».

Luca Lorusso




Dal Sinodo per l’Amazzonia una nuova sfida per la missione

«Non indurite il vostro cuore»

testo della Fesmi, Federazione stampa missionaria italiana |


«Vi vedo un po’ inquieti, forse non capite di che cosa ha bisogno l’Amazzonia… Noi abbiamo una nostra visione, questo ci avvicina a Dio, la natura ci avvicina a poter contemplare di più il volto di Dio, a contemplare l’armonia con tutti gli esseri viventi. Mi sembra che non vi tornino i conti, vi vedo preoccupati, dubbiosi di fronte a questa realtà che noi cerchiamo. Non indurite il vostro cuore».

Tra le tante parole ascoltate in queste settimane intorno all’Amazzonia è l’appello pronunciato da Delio Siticonatzi Camaiteri – indio cattolico peruviano, membro del popolo Ashaninca, una delle 390 etnie indigene della grande foresta che il Papa ha voluto a Roma nel cuore della Chiesa universale – il riassunto più efficace che come riviste missionarie ci portiamo a casa da questo Sinodo: «Non indurite il vostro cuore».

Conferenza stampa del 7/10/2019 (foto Guilherme Cavalli_Cimi)

Fin dal suo cammino di preparazione, il Sinodo ha proposto uno sguardo unitario su una regione del mondo parcellizzata dagli interessi di un’economia assetata di materie prime e ridotta a riserva da sfruttare, senza rispetto per niente e per nessuno.

Questo Sinodo ha avuto il coraggio di mettersi in ascolto di popoli e culture che il mondo globalizzato vorrebbe ridurre a semplici reperti da museo. Persone e comunità che invece hanno un messaggio forte da portare alla società e alla Chiesa del XXI secolo e desiderano, allo stesso tempo, ascoltare la parola di Gesù.

Questo Sinodo chiede alla Chiesa di essere autenticamente missionaria, e a noi riviste missionarie (associate nella Fesmi, Federazione stampa missionaria italiana) lascia in eredità alcuni compiti.

1) Continueremo a parlare dell’Amazzonia. Abbiamo visto in queste settimane quanto anche in certe frange del mondo cattolico i pregiudizi sui suoi popoli siano radicati. Quanta ignoranza, quanta superficialità, quanto disprezzo per coloro che vivono una cultura diversa dalla nostra. ; quanti occhi chiusi sui tanti cristiani che anche in Amazzonia sono perseguitati e muoiono nell’indifferenza di un mondo che non accetta mai di porsi domande sull’unico vero idolo del nostro tempo: il proprio carrello da riempire al supermercato. Per questo moltiplicheremo i nostri racconti. Aiuteremo a scoprire che uno sviluppo amico della biodiversità fisica e culturale dell’Amazzonia è possibile ed è già realtà là dove non regna solo la legge del profitto massimo e immediato. Andremo avanti a ripetere il messaggio che Papa Francesco ha messo al cuore dell’enciclica Laudato Sì: tutto è connesso.

2) Racconteremo il cammino della Chiesa dal volto amazzonico, di comunità che alla luce del Vangelo vogliono rileggere la propria storia, la propria cultura, i propri miti. È quanto la prima evangelizzazione realizzò in Europa, dando vita a sintesi e devozioni straordinarie; perché dovrebbe creare scandalo se a compiere questa stessa inculturazione della fede oggi sono i cristiani di altri continenti?

3) Riveleremo i volti delle comunità cristiane dell’Amazzonia, con ministeri che hanno qualcosa di importante da suggerire alle nostre comunità; i volti delle donne, che in tanti luoghi sono già punto di riferimento e leader di comunità, e i volti dei martiri/testimoni che stanno pagando con la vita per un mondo nuovo.

Ma proveremo anche a far capire a chi si scandalizza che no, in Amazzonia nessun cristiano guarda alla statuetta della Pachamama come a un idolo da adorare. In quelle viscere ritrova un’immagine della misericordia di Dio che troppi cristiani in Occidente oggi fanno fatica a contemplare.

«Non indurite il vostro cuore». Alla fine, il punto è proprio questo. Perché la dove il cuore è duro non c’è posto per la missione.

In Amazzonia come nelle nostre città.

Fesmi

Foto di gruppo del 17/10/2019 – Vatican Media

Firma del Patto delle Catacombe (foto Guilherme Cavalli-Cimi)




Atti 6. Situazione economica dei credenti a Gerusalemme

Testo di Angelo Fracchia


Nel nostro percorso di lettura degli Atti degli Apostoli abbiamo già parlato (nel numero di maggio) dei «sommari lucani», che presentano in sintesi il quadro della chiesa degli inizi e, probabilmente ancora di più, della chiesa ideale sognata da Luca. In uno di questi sommari, si parlava della comunione dei beni: «Quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno» (At 4,34-35).

Si trattava di una condivisione probabilmente necessaria, soprattutto a Gerusalemme. Nel tempo della prima chiesa, infatti, la città dipendeva economicamente dal tempio. La Giudea è una regione povera, composta da colline scoscese e rocciose dove piove poco e dove quindi è difficile coltivare, né sono presenti particolari tesori minerari nel sottosuolo. Nei tempi più antichi la pastorizia aveva costituito un ripiego interessante per sopravvivere, ma l’economia del primo secolo dopo Cristo era più avanzata e ricca e non si reggeva più sui pastori.

Per una serie di fortunate o intelligenti prese di posizione politiche gli ebrei avevano acquisito in quei decenni, sotto Roma, alcuni privilegi, tra cui il diritto per ogni ebreo maschio adulto di inviare ogni anno al tempio di Gerusalemme una parte delle proprie tasse. Era mezzo siclo d’argento all’anno, ossia circa 25 euro odierni, che possono non sembrare molto, ma moltiplicati per il numero di ebrei maschi adulti che nell’impero pare arrivasse intorno ai due milioni, costituivano un’entrata importante per il tempio, che si aggiungeva alle offerte di coloro che a Gerusalemme arrivavano in pellegrinaggio. È vero che con quei soldi si manteneva una classe dirigente (sacerdoti e leviti) e le strutture di un tempio davvero imponente, ma avanzavano ancora molte ricchezze, che venivano in parte ridistribuite sotto forma di aiuto ai bisognosi. Dovevano essere molti quelli che si facevano mantenere da questa forma di carità: il motore dell’economia di Gerusalemme era il tempio.

Anche i credenti in Cristo inizialmente lo frequentavano (At 2,46; 3,1-10, ecc.), ma forse erano già rimasti un po’ ai margini di quella ridistribuzione. È ciò che sembra emergere anche dal bisogno che sorgerà, qualche anno dopo, di fare una colletta per sostenere i poveri (cristiani) di Gerusalemme (At 24,17; 1 Cor 16,1-2; 2 Cor 8-9; Rom 15,25-28). Ma questo in seguito. Per il momento, ci informa Luca, «nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva» (At 4,32) e tutto era condiviso.

L’esempio di Barnaba (At 4,36-37)

Segue subito un esempio: Giuseppe, detto Barnaba, uno dei discepoli, un levita originario di Cipro, vende un campo e ne mette tutto il ricavato ai piedi degli apostoli.

Chi ha già letto il libro sa che Barnaba ritornerà più avanti, e sarà una figura importantissima: non di quelli che fanno parlare molto di sé, ma uno di coloro che, in silenzio, lavorano a recuperare gli esclusi, a garantire che tutto funzioni, a rendere umilmente la vita più semplice per tutti. Abbiamo un’ulteriore conferma del fatto che Luca sa narrare bene proprio da questo suo introdurre quasi per caso un personaggio che in seguito diventerà rilevante.

Quando però guardiamo all’episodio narrato con un poco di malizia, non possiamo non porci delle domande. Ma se tutti condividevano tutto ciò che avevano, perché citare Barnaba? Uno che, a ben guardare, vende solo un campo, ossia nulla di particolarmente rilevante.

L’esempio negativo di Anania e Saffira (At 5,1-11)

La domanda si fa più forte quando leggiamo l’episodio che segue. C’è anche una coppia, Anania e sua moglie Saffira, che vende un campo e ne pone il ricavato ai piedi degli apostoli. Solo che Anania, a differenza di Barnaba, non deposita tutto ciò che ha incassato. D’accordo con la moglie, consegna solo una parte, attento però a dare l’immagine di uno che dà tutto. Pietro smaschera la sua furbizia e rimprovera Anania, accusandolo di avere il cuore pieno di Satana e di aver voluto mentire allo Spirito Santo. E gli fa anche notare che non c’era nessun bisogno di imbrogliare, perché non c’era nessun obbligo di dare tutto e «l’importo della vendita non era forse a tua disposizione?» (At 5,4). L’osservazione è importante, perché ci fa capire che la condivisione di beni non era una legge vincolante, bensì una buona pratica che molti, se non tutti, si assumevano. Pietro, chiaramente, non rimprovera Anania per essersi tenuto qualcosa, ma per aver sostenuto di aver dato tutto; non è l’avidità o il bisogno che Pietro censura, ma la menzogna. «Tu non hai mentito agli uomini, ma a Dio». E subito Anania crolla a terra, morto.

Senza neanche avvisare la moglie, dei giovani raccolgono il suo corpo e lo vanno a seppellire.

Arriva poi la moglie Saffira, che Pietro sottopone a un rapido interrogatorio su ciò che già sa. La moglie conferma la versione fraudolenta di Anania e muore immediatamente anche lei, prontamente sepolta accanto al marito.

Non è la prima volta che Luca ci informa del «timore» diffuso in tutta la Chiesa e all’intorno (At 2,43), ma stavolta ci sembra che il rispetto religioso rischi di essere sostituito dalla paura. Da quando il Dio buono e amante della vita si è trasformato in un giudice così implacabile da essere pronto a dispensare la pena di morte?

Leggere tra le righe

Chi commenta la Bibbia prova spesso a rendere attuale ciò che è stato scritto quasi duemila anni fa, per evitare che testi che possono nutrire la fede e la vita sembrino semplicemente stranezze incomprensibili. Nel fare ciò, si corre spesso il rischio di volerla troppo addomesticare. È nota la battuta sui biblisti che sosterrebbero: «La Bibbia dice bianco, ma voleva dire nero», come se quello che l’autore voleva dire non sia ricavabile da ciò che c’è scritto. Ecco perché invito il lettore a seguirmi in un percorso appena più intricato, per poter valutare in prima persona gli indizi che Luca distribuisce per leggere con correttezza il suo racconto.

L’autore degli Atti degli Apostoli, lo abbiamo già fatto notare e si può facilmente verificare, è bravo, sa scrivere e sa modulare molto bene i suoi personaggi. Eppure qui sembra quasi perdersi, trasformarsi in un autore superficiale e grezzo nel presentare situazioni e persone: troppi particolari sembrano forzati, strani. È tutto normale? Per capire, ricordiamoci che anche noi, quando facciamo uno scherzo, assumiamo spesso un tono di voce e una modalità di comportamento che dovrebbero suggerire a chi ci ascolta che si tratta, appunto, di uno scherzo. Magari chi ci conosce sa che siamo persone corrette e oneste, eppure ci mettiamo a difendere, scherzando, l’evasione delle tasse: i nostri amici capiscono subito che non siamo seri, ma anche chi ci conosce meno potrebbe intuire la burla dal modo con cui parliamo. Chi scrive, a volte si comporta in modo simile. L’autore raffinato si trasforma d’un tratto, cambia stile, come se fosse un narratore di favolette, di leggende. Sarà da intendere alla lettera? O bisogna capire quale senso dare al racconto? Probabilmente non vuole prenderci in giro, ma sta solo usando un paradosso. Allora, che cosa vuole comunicare? Quando un narratore cambia in modo tanto plateale il proprio stile, suggerisce al lettore che deve sforzarsi di ragionarci sopra.

Proviamo ad analizzare insieme alcuni elementi, partendo da quello più evidente: abbiamo qui due esempi, uno positivo e l’altro negativo, di dono dei propri beni. L’uno, Barnaba, vende un campo e dona tutto, e la sua vita sarà fruttuosa e lunga; gli altri, Anania e Saffira, si limitano a fingere la generosità, e muoiono. Forse non forziamo la mano a Luca se intendiamo che voglia dirci che chi inganna la comunità per avidità, rinuncia a vivere e uccide se stesso. D’altronde, sarebbe strano un Dio che dona la vita, che ha fatto risuscitare Gesù, e poi distribuisce pene di morte con tanta facilità. Pietro, dopo la sua domanda, non dichiara che moriranno, non dà una sentenza di morte: è l’inganno stesso a essere mortale.

Una seconda osservazione importante che Pietro stesso ci fa notare, è che a essere ingannati non sono degli uomini ma Dio. Questa annotazione, che potrebbe giustificare la morte della coppia soltanto per dei lettori un po’ superficiali, ci riporta però a un’osservazione che ritorna spesso negli Atti degli Apostoli: la Chiesa non è una comunità soltanto umana, Dio si identifica pienamente in lei (il passo in cui sarà affermato questo principio nel modo più scenografico sarà alla conversione di Paolo: «Io sono Gesù, che tu perseguiti», benché, a voler essere precisi, Paolo perseguitasse non Gesù ma i cristiani. At 9,5 esprime con forza il principio che «toccare i cristiani è toccare Gesù»).

Proprio nel modo tanto schematico e paradossale di presentare questo episodio, Luca vuole probabilmente suggerire al lettore che quello che narra forse non è accaduto davvero, che è più una parabola che un fatto storico, ma serve a far intuire che quanto sta crescendo nella chiesa non è uno scherzo. Non è indifferente fare sul serio o no, è una questione di vita o di morte. Infatti, ad Anania e Saffira non è rimproverata l’avidità, ma l’inganno. Si può non essere totalmente generosi, ma non si può prendere in giro Dio. E a non prendere sul serio Dio, si rinuncia a vivere.

Per la chiesa di oggi

Ancora una volta, quello che sembra un racconto antico scritto in modo antico per gente antica si svela utile e «parlante» anche per noi oggi.

Anche oggi si tratta di scegliere da che parte stare. La strada di Dio è quella della condivisione generosa. Ma se Dio può sopportare i tentennamenti, le incertezze e le paure, non tollera la falsità e l’inganno. Se ci pensiamo, è coerente con un Dio che vuole non essere servito, ma incontrato e amato. Anche noi, nelle nostre relazioni personali, capiamo le titubanze, i timori e i passi falsi, ma l’inganno intenzionale uccide la relazione.

E poi, anche oggi siamo chiamati a scoprire, a credere, che nelle persone che vediamo, nella comunità che incontriamo, è presente Dio. E Dio, però, non parla dalle nubi, in modo misterioso e magico, ma si esprime tramite persone umane. Nella Chiesa è davvero presente Dio, totalmente coinvolto, ma per vederlo devo guardare agli esseri umani. Forse non è un caso che in questo passo, per la prima volta, leggiamo negli Atti degli Apostoli la parola «Chiesa» (At 5,11).

Ma insieme, Luca ci fa intuire che questa splendida comunità non è esente da colpe, dalla presenza del male al proprio interno, da falsità e ipocrisie. L’inquinamento della purezza non è una decadenza dei nostri tempi, è sempre accaduto. La Chiesa è fatta di uomini, ne porta tutta la ricchezza e il limite. Luca comincia a condurci sulla strada che ci farà scoprire come è davvero nella Chiesa che incontro Dio, senza per questo dedurne che la Chiesa sia perfetta. Tutt’altro. Nello stesso tempo, l’imperfezione della Chiesa non toglie che lì dentro davvero si incontri Dio. Allora come oggi.

Angelo Fracchia
(6. continua)




Atti 5. Sulle strade del mondo


Testo di Angelo Fracchia


Negli Atti degli Apostoli, Luca presenta il percorso ideale della chiesa nel mondo. Nei primi due capitoli imposta la scena: dopo aver salutato Gesù (At 1,4-11), ricostituito il numero dei dodici (1,15-26) e accolto lo Spirito (2,1-13), che suscita il primo annuncio di Pietro (2,14-41), troviamo un primo grande sommario (At 2,42-47), scritto per offrire un quadro globale di questa nuova comunità.

Nella nostra lettura sistematica degli Atti degli Apostoli, nello scorso numero abbiamo anticipato anche gli altri sommari (At 4,32-35; 5,12-16): Luca, infatti, come i bravi autori, intreccia le diverse questioni di cui gli interessa narrare, così da risultare più vario e attraente, allo stesso modo con cui in un film la trama principale e i diversi temi secondari si alternano con grazia. Chi però voglia analizzarne il contenuto, può tornare a distinguerli, con meno eleganza artistica, ma forse con più chiarezza.

È ciò che faremo anche in questo numero. In tal modo, quando torneremo a leggere Luca ci risulterà ancora più interessante e piacevole.

La ricchezza della chiesa (At 3,1-10)

Il primo appuntamento storico in cui vediamo impegnata la prima comunità cristiana potrebbe subito stupirci. Troviamo infatti Pietro e Giovanni che si recano… al tempio!

L’imponente tempio di Gerusalemme, rifondato, ampliato e arricchito da Erode il Grande e ancora in parte in costruzione negli anni ‘30 del primo secolo, era già da lustri un punto di riferimento fondamentale per gli ebrei. Riprendeva e superava la gloria del tempio di Salomone e dava agli Israeliti la speranza che forse un giorno sarebbero tornati quegli antichi splendori. Anche Gesù lo aveva frequentato regolarmente fin da bambino, ma se si era anche sempre scontrato con le autorità religiose proprio sulla natura e uso del tempio. Tenendo conto dell’atteggiamento critico di Gesù non era scontato che il tempio divenisse luogo di incontrode i primi cristiani.

Subito dopo la risurrezione di Gesù e la discesa dello Spirito Santo, Pietro e Giovanni si pensano semplicemente come degli ebrei. E, come gli altri ebrei, ritengono che il modo più facile per incontrare Dio sia andare al tempio di Gerusalemme. Non pensano di essere stati mandati a rinnovarne o abolirne il culto.

È pur vero, però, che vanno al tempio per la preghiera della sera, l’unica che non prevedeva l’offerta di sacrifici (è solo un caso, oppure già sono consapevoli che con Gesù i sacrifici animali sono diventati inutili?). E insieme, pur essendo galilei, decidono di non tornare a casa: evidentemente pensano che debba succedere, a breve, qualcosa di importante in città.

Sulla strada, trovano uno storpio che chiede l’elemosina. La città e i dintorni del tempio erano pieni di mendicanti. Pietro ne viene forse colpito, ma non ha soldi. «Quello che ho, te lo dò: nel nome di Gesù, alzati e cammina!» (At 3,6).

Quell’uomo cercava soldi, Pietro guarda la persona e le viene incontro. Offrendo la possibilità di non avere più bisogno di invocare la benevolenza dei passanti. Il primo volto della neonata chiesa è quello di chi si accorge di chi c’è accanto e viene incontro a quel bisogno; non in modo paternalistico e provvisorio, come avrebbe fatto dando delle monete, ma puntando a rendere la persona capace di prendere in mano la propria vita.

E questo Pietro lo fa «nel nome di Gesù». La prima chiesa è ricca di Gesù. Non si limita a predicare, ma agisce, facendo esattamente ciò che avrebbe fatto Gesù. Luca aveva appena detto che «segni e prodigi avvenivano per opera degli apostoli» (At 2,43), ed eccoli subito visibili. La missione non è semplicemente quella di annunciare un messaggio, ma di proseguire il vangelo, iniziando a operare, in prima persona, ciò che aveva fatto Gesù. Pietro non usa il nome del Maestro come una parola magica, ma si mette al suo posto, ripetendo il modo con cui aveva visto tante volte comportarsi il maestro.

La prima chiesa, da subito, si chiede che cosa farebbe Gesù al suo posto, e lo fa.

Raffigurazione del tempio al tempo di Cristo, con scalinata e arco di Robinson / © Benedetto Bellesi – AfMC

Una chiesa arcaica (At 3,11-26)

Come è prevedibile, allo stupore del miracolo segue un discorso di Pietro che lo spiega. Succede molto spesso, negli Atti degli Apostoli, che i personaggi importanti spieghino, in brevi discorsi, ciò che è accaduto. Era tipico di tutte le opere storiche dell’antichità, e Luca è un buono storico, che sa come si scrive. Inoltre, ci ricorda che non c’è niente di magico in ciò che accade, tanto che se ne può sempre spiegare la ragione. Prodigi, di certo, ma non magia: Dio non vuole privarci della nostra intelligenza.

Può semmai stupirci il modo con cui Pietro parla di Gesù. Non so se sia consolante scoprire che stupisce anche i biblisti.

Gesù viene infatti definito il «servo» (At 3,13,26: riprendendo di certo l’immagine del servo del Signore di Isaia), e poi il «santo e giusto» (3,14), «l’autore della vita» (3,15), tutti titoli che di certo si addicono a Gesù, ma non ci sono per niente consueti. Di fatto, non erano consueti neppure più al tempo della chiesa di Luca, e non saranno ripresi nelle preghiere che sono arrivate fino alla nostra liturgia.

Altrettanto curioso è il tipo di ragionamento che troviamo in 3,19-21: se ci si pente (se si «inverte il senso» della propria vita) il Signore, ossia il Padre, ci consolerà e farà tornare a noi Gesù, che sembra essere lì in attesa di venire a finire l’opera che ha iniziato. Dopo duemila anni, non ci aspettiamo certo che Gesù stia per ritornare da un momento all’altro, ma è significativo, di nuovo, che lo stesso Luca, che scrive molti anni dopo il discorso di Pietro, non sembra credere a un’idea del genere, tanto che non la ripeterà più nel resto del suo libro.

Ancora, è strano sentire presentare Gesù come quel profeta che compie la promessa divina di mandare qualcuno simile a Mosè (At 3,22-24). E, infine, ci suona curiosa l’affermazione finale, secondo cui Gesù compie la parola garantita ad Abramo, per il bene di tutti i popoli, ma soprattutto di Israele (3,24-26).

Che cosa dovremmo pensarne? Che di certo questo discorso non è tutta farina del sacco di Luca, il quale invece l’ha ripreso da altri, più vecchi di lui. Che all’inizio della chiesa, nei primi tempi, non tutto era chiarissimo, e alcune idee si sarebebro dovute precisare meglio in seguito. È ciò che nella storia, anche personale, è sempre accaduto e accadrà: troviamo le parole giuste per spiegare certi passaggi della nostra vita solo lentamente, anche se il loro senso era già lì, presente fin dall’inizio.

Ma in fondo Luca ci dice soprattutto che il modo con cui si pensa a Gesù, si capisce il suo ruolo e la sua importanza e si cerca di annunciarlo, cambia nel tempo, si trasforma, perché cambiamo noi e perché capiamo meglio le cose. Anche la chiesa ha cambiato e approfondito il suo modo di pensare a Gesù, perché è nella storia e cresce e si sviluppa non solo in ciò che fa ma anche in ciò che crede. In ogni caso, a restare immutato nei tempi è il desiderio di unirsi a Gesù e di vivere come lui vivrebbe.

Porta di Damasco, la più impressionante, risale forse alla costruzione della terza muraglia nord, di Erode Agrippa nel 40-41 dC. Ideata da Adriano come entrata monumentale della città Aelia Capitolina, rimangono le arte originali riscavate, sulle quali è stata innalzata l’odierna ornamentazione musulmane / © Benedetto Bellesi – AfMC

Perseguitati dai «poteri forti»? (At 4)

E per la prima volta la neonata chiesa si scontra con la persecuzione. «Irritati per il fatto che insegnavano al popolo e annunciavano la risurrezione» (At 4,2), i capi religiosi arrestano Pietro e Giovanni. Peraltro, siccome è già tardi, rimandano al giorno dopo l’interrogatorio, arrogandosi il diritto di trattenerli lungo la notte (At 4,3). Il potere contro il quale i discepoli di Gesù si scontrano non si cura delle persone, né di essere trasparente nelle motivazioni (a sentire loro, a essere discutibile è l’autorità con cui hanno guarito: At 4,7).

È interessante notare come le autorità si accorgano del nuovo movimento non dopo il primo discorso di Pietro, non dopo la Pentecoste, ma dopo il primo miracolo, che evitando di beneficare paternalisticamente un mendicante, lo ha tolto invece dalla condizione di emarginazione.

Sembra quasi che Luca ci voglia suggerire, già duemila anni fa, che finché ci limitiamo a parlare non diamo fastidio a nessuno, ma quando iniziamo ad agire, a cambiare le cose, allora sì che arrivano le critiche e gli ostacoli. Nello stesso tempo, è chiarissimo che l’agire della chiesa di Pietro scaturiva da convinzioni profonde, che nascevano dall’incontro con Gesù. È perché Pietro ha conosciuto Gesù che può arrivare a pensare, e quindi a dire, ciò che dice, e quindi anche a comportarsi come si comporta. Il comportamento è il frutto che stuzzica interessi e fastidi di chi passa per strada, ma le radici, che non si vedono, sono ciò che rende possibile il frutto.

E di fronte alla persecuzione si vedrà quanto davvero le trasformazioni nelle menti e nei cuori di questi galilei siano profonde, quanto il nuovo movimento sia solido. Fin dall’inizio, Luca, mentre parla dell’arresto, dice che cresce il numero dei credenti (At 4,4). Poi, di fronte alla richiesta di credenziali («Con quale potere avete fatto questo?»: At 4,7; anche a Gesù avevano chiesto con quale autorità guariva: Mc 11,28-33), rispondono con il dato di fatto (hanno salvato la vita del mendicante: At 4,9) e poi con il fondamento di quel fatto, ossia l’incontro con Gesù salvatore (At 4,10). I responsabili religiosi che avrebbero dovuto aiutare le persone a incontrare Dio avevano voluto cancellare Gesù, ma Dio stesso ne ha fatto il fondamento su cui costruire quell’incontro (At 4,10-11).

In radice, quei provinciali rozzi e incolti (At 4,13) capiscono di aver incontrato davvero Dio, e di non poter quindi far altro che seguire lui, piuttosto che le parole di uomini (At 4,19-20). Tant’è vero che, di fronte al potere delle autorità religiose e alla loro dissimulazione delle proprie intenzioni autentiche, i due discepoli reagiscono in piena schiettezza e trasparenza, indicando il motivo vero dell’arresto e anche, con decisione e coraggio, di non poter tacere. Il Pietro che poco tempo prima aveva negato di conoscere Gesù per paura delle conseguenze (Lc 22,54-62), ora parla senza paura di fronte a chi può farlo giustiziare.

Non si tratta della rivolta di «sempliciotti» contro i «poteri forti». Più seriamente, è la presa di coscienza di aver incontrato chi può salvarli, può rendere sensata la loro vita; di conseguenza viene la scelta di seguirlo comunque. Non è un caso che un ragionamento simile sarà seguito, poco dopo, da Gamaliele, maestro di san Paolo (At 22,3), importante rabbino che è citato nelle fonti giudaiche come persona di particolare saggezza e intelligenza. Gamaliele ripercorrerà le vicende di personaggi che avevano preteso di interpretare l’intenzione di Dio nel ribellarsi ai romani. Questi personaggi, pur importanti sul momento, erano periti e le loro opere umane erano state cancellate. Se però dovesse mai accadere che sia davvero Dio ad agire nella nuova comunità, sarà inutile perseguitarla: «Non vi accada di combattere contro Dio!» (At 5,35-39).

Non siamo di fronte a un partito. Siamo di fronte a persone che hanno incontrato il Salvatore, e scelgono e si comportano di conseguenza. Persone che, liberate dal Signore, diventano coraggiose e autonome. Luca, con l’esempio di Gamaliele, importante membro del sinedrio, ci dice che si può anche essere «dall’altra parte della barricata», ma se si è persone di buon senso e di attenzione all’opera di Dio, non ci si troverà a contrapporsi a Lui.

Angelo Fracchia
(5. continua)




Atti 4: Uno sguardo «dall’alto»

Testo di Angelo Fracchia


Gli Atti degli Apostoli si presentano, apparentemente, come una cronaca dei primi tempi di vita della comunità cristiana. Non appena li si legga in modo non ingenuo, però, ci accorgiamo che non si tratta di una vera e completa cronaca: Luca trascura moltissimi aspetti e luoghi geografici abitati dal primo cristianesimo. Per non fare che un esempio, dagli Atti non veniamo a sapere nulla sulla comunità cristiana dell’Egitto, paese vicinissimo alla Palestina che contava una forte presenza di ebrei (dalle cui fila provengono i primi cristiani, come è ovvio) e dove già all’inizio del II secolo sappiamo esistere una comunità cristiana molto numerosa e ben organizzata, che quindi evidentemente doveva essere nata decenni prima. Sembra facile spiegare che Luca abbia deciso di trascurarla perché, chiaramente, non sarebbe stato possibile raccontare tutto. L’autore seleziona ciò che ritiene utile per comprendere quello che per la prima generazione era stato importante. Non è, quindi, una cronaca, né un saggio su come dovesse essere la chiesa, ma qualcosa di intermedio, un racconto fondato su elementi storici con un forte taglio teologico.

Anche per questo, di tanto in tanto, Luca sembra fermarsi e contemplare dall’alto ciò che accade, quasi a fare il punto della situazione, come un riassunto che aiuti a capire meglio dove si sta andando. Da molto tempo i biblisti definiscono «sommari» queste soste contemplative. In essi, più ancora che altrove, l’autore ci mostra con trasparenza ciò che, a suo parere, doveva essere la chiesa ideale di Cristo.

Il grande sommario: la comunità (At 2,42-47)

Il primo di questi sommari è anche, probabilmente, il più importante. Qui Luca, che sa narrare bene, si ferma a contemplare dall’alto la Chiesa dilungandosi e strutturando il proprio racconto. Siccome è la prima volta che fa qualcosa del genere, vuole indicare in modo chiaro al lettore che si trova davanti a qualcosa di diverso da un semplice racconto cronologico. Quando in seguito inserirà altri sguardi dall’alto, sarà molto più facile per il lettore intuirne subito la natura e allora l’autore potrà procedere più spedito.

In questo primo sommario notiamo anche una costruzione più accurata rispetto ai due successivi. Molto spesso noi, quando guardiamo un film o ascoltiamo un brano musicale, magari senza essere degli specialisti di quel genere, cogliamo comunque che cosa è importante, capiamo anche su che cosa l’autore vuole suggerirci di fare più attenzione, ma magari non afferriamo bene come abbia fatto a ottenere questo risultato. Chi è esperto, d’altra parte, può anche riconoscere e indicare con chiarezza i «trucchi del mestiere». A volte, poi, ci sono anche delle semplici convenzioni, che con il tempo ci siamo però semplicemente abituati ad afferrare. In un film giallo, ad esempio, quando la telecamera si ferma su particolari apparentemente secondari, magari con una musica di sottofondo priva di una vera melodia, noi spettatori automaticamente facciamo più attenzione, perché siamo abituati a quel segnale che ci avverte che probabilmente quei dati secondari in seguito diventeranno molto importanti. Anche se non siamo «del mestiere», a forza di vedere film abbiamo imparato a conoscere quel tipo di linguaggio.

Anche gli scrittori antichi utilizzavano trucchi del genere. Alcuni di essi possono essere letti e risultare efficaci anche se ne siamo del tutto inconsapevoli. Per altri, più tipici di quel tempo, possiamo avere bisogno di qualcuno che ci aiuti a vederli e ci indichi come usarli bene, esattamente come in certi indizi dei film gialli. Noi, ad esempio, quando esponiamo un tema (ma anche quando raccontiamo una barzelletta…) siamo molto abituati a utilizzare la struttura della «scala»: ogni dato è più importante di quello precedente e ci aiuta a capire quello successivo. L’ultima è l’informazione più importante. Possiamo anche non esserne consapevoli, ma ormai siamo abituati a usarla. Gli scrittori biblici usano invece spesso la struttura dell’«incrocio»: accumulano delle informazioni in modo apparentemente casuale, ma, a ben guardare, le dispongono come in cerchi concentrici, dove la prima informazione rimanda all’ultima, la seconda alla penultima, e al centro c’è quella più importante. È la cosiddetta struttura a chiasmo usata da Luca in questo brano.

Intanto ripete due volte che quella descritta non è una forma di vita comunitaria occasionale: «perseveravano», «erano costanti».

Il livello più esterno (1) è quello più lasco, che da solo non ci farebbe intuire la struttura: ascoltavano l’insegnamento degli apostoli (è il punto di partenza: v. 42) e godevano della simpatia di tutto il popolo (è il punto di arrivo: v. 47). In mezzo, quasi come parentesi, Luca aggiunge che tutti provavano un timore religioso nei loro confronti (v. 43), come chi si accorge di assistere a qualcosa di speciale, non semplice frutto del lavoro umano.

Il secondo livello (2), più importante, parla dell’«unione fraterna, comunione» (v. 42) e del mangiare insieme in gioia e semplicità (v. 46), proprio ciò che accade in una fraternità autentica.

Poi, Luca parla, ancora più al centro (livello 3), dello «spezzare il pane» (vv. 42.46), che per le prime generazioni cristiane era la formula per indicare l’eucaristia. Possiamo stupirci allo scoprire che l’eucaristia non sia il centro del centro, l’elemento assolutamente più importante della vita cristiana: come accade spesso, Luca non ha paura di spiazzarci.

Avvicinandoci ancora di più al centro (livello 4), in questo sommario che parla della vita cristiana, sta la preghiera (alla fine del v. 42, e poi ancora nella frequentazione del tempio, al v. 46: al tempio si andava per pregare (ma su questo continuare a «fare gli ebrei» avremo occasione di parlare più approfonditamente più avanti).

Al centro di tutto (livello 5), ai vv. 44-45, c’è la condivisione totale, che peraltro riprende quella «comunione» spontanea e gioiosa che stava nel secondo cerchio.

Sembra che Luca ci suggerisca che la chiesa ideale impara dagli apostoli e va al mondo, ma più importante ancora è l’esperienza di una dimensione di comunione fraterna spontanea che ci aiuta a vivere l’ancora più fondamentale comunione con Gesù (nella frazione del pane) e quindi il dialogo con Dio (la preghiera), fino ad arrivare al punto più importante di tutti, la condivisione completa con gli altri, magari vissuta con meno spontaneità rispetto all’unione fraterna, ma intesa come decisione di fondo, anche quando fosse faticosa ed esigente. L’autore degli Atti sostiene che non siamo chiamati innanzi tutto a vivere una vita di liturgia e preghiera (che restano ottime, ma come strumenti per arrivare ad altro), bensì che la chiesa perfetta è quella che mette al centro gli altri, la comunità. Se possiamo confermare questa intuizione con uno sguardo fuori dall’opera lucana, il vangelo secondo Giovanni afferma che i cristiani saranno riconoscibili non perché celebrano messa o perché pregano bene, ma per come si amano (Gv 13,35).

Gli altri due sommari

Non è un caso che su questo tema, in una forma più limitata e concreta, si torni anche nel secondo dei grandi sommari. In Atti 4,32-35 si presenta quello che alcuni hanno etichettato come «comunismo cristiano». L’indicazione è semplice: «Nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune». Più che di abolizione della proprietà privata, sembra dal contesto che si tratti di abolizione dell’egoismo: chi ha bisogno, otterrà ciò che gli serve, perché gli viene messo a disposizione da coloro che non si limitano a chiamarsi fratelli, ma davvero si dimostrano tali. Luca sarà poi costretto a confessare che questo quadro ideale, nella comunità reale non era sempre vissuto in pienezza, ma resta l’ideale verso cui tendere.

Peraltro, questo ideale porta a compimento ciò che nell’Antico Testamento era stata una promessa di Dio: in Dt 15,4, all’interno delle norme sull’anno sabbatico (un anno in cui non si sarebbe dovuto coltivare la terra), Mosè dà voce a Dio nel promettere che non ci sarà da avere paura di non mangiare, in quell’anno, perché la terra avrebbe prodotto da sé quanto necessario all’uomo per vivere. «Del resto non vi sarà nessun bisognoso in mezzo a voi». A questa promessa fa eco l’affermazione di Luca: «Nessuno infatti tra loro era bisognoso» (At 4,34).

Nel terzo dei sommari (At 5,12-16) si insiste sul cammino della chiesa verso l’esterno. Tutti guardano con simpatia questo nuovo movimento, anche se magari se ne tengono a distanza (v. 13). Ma ad essere interessante è soprattutto il modo con cui i cristiani si muovono dentro la società da cui provengono. Non provano a distinguersi con la forza, non polemizzano con nemici (è purtroppo il modo più facile per farsi conoscere, e infatti è quello più utilizzato dai movimenti nascenti), ma si comportano in modo coerente con questa generosità che abbatte l’egoismo: non contestano, non provano a convincere, non cercano di difendersi, ma guariscono i malati (vv. 15-16).

Coloro che si affidano a Gesù vivono, insomma, per gli altri (che siano cristiani o no), abbattono le barriere di autodifesa che l’umanità sempre cerca di costruirsi e vivono nella confidenza e nella leggerezza. L’incontro con Gesù porta alla fiducia di fondo verso Dio e verso gli altri, e questo fa vivere meglio. Perché l’obiettivo ultimo di Dio non è di essere venerato, ma che gli uomini, che Lui ama, vivano bene.

Angelo Fracchia
 (4. continua)