Trascendenza e culto dei morti

testo e foto di Piergiorgio Pescali |


È una regione della Francia, ma la penisola della Bretagna ha origini e caratteristiche tutte sue. Ne sono testimonianza concreta la lingua (appartenente al gruppo celtico), ma anche i suoi monumenti religiosi: dai «dolmen» ai «menhir» fino ai «calvaires» dell’epoca cristiana.

Il «Cristo verde» di Paul Gauguin, famoso pittore francese.

Paul Gauguin (1848-1903) è conosciuto dal grande pubblico per i quadri dipinti durante i suoi due soggiorni a Tahiti, negli ultimi anni della sua vita.

Prima di quel periodo, però, vi fu un’intensa preparazione artistica e tecnica sviluppatasi durante la sua permanenza in Bretagna, a Pont-Aven e a Le Pouldou. Lì, in una breve quanto tormentata fase della sua vita, l’artista francese inaugurò quella forma pittorica denominata a volte «sintetismo», altre volte «ideismo», che lo portò a produrre quadri che troveranno la loro definitiva completezza in Polinesia. Tra di essi ve n’è uno, considerato opera minore e oggi conservato al Museo reale di belle arti di Bruxelles. Dipinta nel 1889, subito dopo la più famosa Il Cristo giallo, la tela è intitolata Il Cristo verde e ritrae una donna bretone seduta sulla base di una scultura in pietra che raffigura la deposizione di Gesù dalla croce.

Il «Cristo giallo» del famoso pittore francese Paul Gauguin.

È, quella scultura, un «calvario», una rappresentazione tipica delle terre bretoni che testimonia la religiosità di una terra aspra e dura, francese de jure, ma indipendente per tradizione e vanto. Coluche, l’attore comico italo-francese (1944-1986), disse una volta che «la Bretagna è bella e poi non è lontana dalla Francia».

Sviluppatisi in quei «recinti parrocchiali» (enclos paroissiaux in francese) nati tra il IX e l’XI secolo e continuamente arricchiti di elementi artistici e architettonici, i calvari della Bretagna rappresentano l’ultima fase di completamento spirituale che ha avuto inizio ben prima dell’avvento del cristianesimo.

«Dolmen» e «menhir»

Per capire l’importanza e la peculiarità di queste realtà religiose occorre individuare il profondo legame che connette il popolo bretone con la trascendenza. Un rapporto che affonda le radici nella preistoria, qui ben rappresentata dai numerosi dolmen e soprattutto menhir che costellano a centinaia le colline della regione.

Del resto, dolmen e menhir sono due parole bretoni che significano rispettivamente «tavola di pietra» (dol, tavola e men, pietra) e «pietra lunga» (da men e hir, lunga). Innalzati cinque-seimila anni fa da civiltà pressoché sconosciute (i più famosi druidi arrivarono ben dopo), i menhir vennero trasformati dal cristianesimo in una sorta di protocalvari con la sola aggiunta di croci sulla loro cuspide.

Il complesso megalitico di Carnac, In Bretagna. Foto Deborah Bates – Pixabay.

 

Dai Galli ai Celti: il cristianesimo bretone

Furono popolazioni celtiche, provenienti per lo più dal Galles e dalla Cornovaglia, a introdurre il cristianesimo e a sostituirsi ai galli. L’Armorica romana divenne la «Piccola Bretagna» per differenziarsi dalla «Grande Bretagna», ma i legami con le terre d’origine vennero mantenuti.

Tutti i sette santi ritenuti fondatori della Bretagna erano nati e avevano studiato in Galles, avevano predicato chi in Irlanda, chi in Scozia per approdare poi sulle coste del continente europeo tra il V e il VI secolo d.C. dando vita a una fede tra le più incrollabili di Francia. Un pellegrinaggio, il Tro Breizh («Il giro della Bretagna», noto anche come Pèlerinage des Sept-Saints de Bretagne), collega attraverso seicento chilometri le sette cattedrali dedicate ai padri del cristianesimo bretone.

«Terra di vecchi santi e di bardi» recita il Bro Gozh ma Zadoù (Vecchia terra dei miei padri), l’inno della Bretagna che, oltre a spartire con le regioni britanniche una cultura ancestrale, ne condivide anche la lingua. Per secoli il mare è stato fonte di unione, mentre le foreste che dividevano la regione dal regno franco occultavano l’orizzonte e le luci di Parigi. Un proverbio afferma che quando Parigi sarà inghiottita dalle acque, riemergerà la città di Ys, la leggendaria capitale bretone situata nella baia di Douarnenez distrutta per i peccati di Dahut, la figlia del re Gradlon. Il mito, che ricorda quello di Sodoma, rimane vivo ancora oggi tra le famiglie della Bretagna a testimonianza di una dicotomia franco-bretone non ancora completamente sanata.

La cattedrale di Tréguier ospita le tombe di due dei sette santi fondatori della Bretagna: San Tugdual e Sant’Ivo. Foto Piergiorgio Pescali.

Lontani da Parigi

Dopo l’allontanamento dei normanni (939), il ducato di Bretagna si mantenne virtualmente autonomo dal regno di Francia fino al 1547. Durante questo periodo i duchi di Montfort, che amministrarono gran parte della regione, svilupparono un fiorente commercio di lino e tessuti con le isole britanniche, orientando l’economia della regione al di là della Manica piuttosto che verso l’esecrata Parigi.

La ricchezza che ne seguì favorì sia le classi più povere che i feudatari ripercuotendosi sulle parrocchie. Il clero locale vide le entrate finanziarie aumentare enormemente in pochi decenni: i meno abbienti davano parte dei loro magri introiti come ringraziamento, mentre le famiglie più ricche «si sdebitavano» della loro agiatezza su questa terra comprando indulgenze per la vita dopo la morte.

Il calvario di Guimiliau è tra i più famosi della Bretagna; la caratteristica principale sono i personaggi, tutti rappresentati con vestiti dell’epoca in cui è stato realizzato (1581-1588). Foto Piergiorgio Pescali.

Recinti parrocchiali, peste e processioni

È da queste premesse che, a partire dal IX secolo, iniziarono a sorgere i «recinti parrocchiali», complessi architettonici cristiani (chiesa, cappella, cimitero, ossario) chiusi. Il primo fu quello di La Martyre, nel dipartimento di Finistère, ma ben presto ne seguirono altri scatenando una competizione che si prolungò nei successivi sei secoli. Le parrocchie chiamavano i migliori architetti e scultori per avere le enclos più belle e prestigiose in grado di richiamare fedeli da tutta la Bretagna.

 

In un’epoca in cui la manipolazione del denaro era vista con sospetto, le enclos paroissiaux servivano anche a separare fisicamente le attività commerciali (le fiere, i mercati, le compravendite) dalla vita religiosa. Le barriere così create impedivano la mescolanza tra il mondo sacro e quello mondano e, non ultimo, ostacolavano l’accesso agli animali.

I primi recinti comprendevano solo la chiesa e il cimitero. Non dimentichiamo che i villaggi erano formati al massimo da poche decine di famiglie e quindi, almeno nei primi decenni, il terreno occupato dal camposanto non aveva necessità di grandi estensioni.

Nel settembre 1347, dalle navi in porto a Marsiglia cominciò a diffondersi anche in Francia la peste nera che raggiunse la Bretagna alla fine dell’anno successivo. Le guerre di successione in atto tra i conti di Blois e i duchi di Montfort favorirono la propagazione della pandemia che continuò a falciare vite fino alla fine del secolo. La pestilenza non cessò del tutto, ma rispetto al resto dell’Europa, alla Bretagna venne in parte risparmiata l’ecatombe: il batterio Yersinia pecstis riuscì a essere confinato in alcune città grazie ad una severa politica di segregazione che salvò le campagne dal morbus pestiferus. Fu in questo periodo che iniziarono a divenire popolari i pardons, pellegrinaggi penitenziali (ancora oggi in uso), dedicati a un particolare santo a cui chiedere una grazia, un favore o a cui semplicemente rendere grazie.

Il collegamento alla peste di queste processioni è chiaro se si pensa che i santi più acclamati erano San Rocco e San Sebastiano e i pardons partivano o arrivavano non presso le chiese, ma più spesso nei pressi di una fontana da dove sgorgava acqua pura di sorgente. Le fontane erano spesso considerate, assieme ai santi, dispensatrici di poteri purificatori capaci di allontanare le epidemie e di mondare dai peccati alla stregua del battesimo cristiano.

L’ossario del Calvario di Guehenno con il «Santo sepolcro» e il Cristo deposto sulla tomba. Foto Piergiorgio Pescali.

L’«Ankou», la morte

Fu invece la successiva ondata epidemica a colpire, con più ferocia della precedente, la Bretagna dopo la metà del XVI secolo ravvivando la fede delle comunità. I lazzaretti vennero presto riempiti e le autorità obbligarono i contagiati a rintanarsi in casa segnando le porte con calce bianca. Era loro concesso di uscire all’aperto per pochi minuti al giorno, ma in tal caso dovevano indossare una tunica con una croce bianca avvisando del loro passaggio con il rumore di un bastone picchiato sul selciato.

I morti divennero talmente numerosi che i cimiteri non bastavano più a contenere tutti i cadaveri che, già a partire dal XIV secolo, venivano riesumati con maggior frequenza. La seconda peste obbligò ad accelerare il disseppellimento e a partire dal XVI-XVII secolo i resti vennero conservati negli ossari, garnal in lingua bretone. Come le tombe, anche gli ossari erano rivolti verso Est e come le lapidi cimiteriali anche su questi ossari difficilmente si trovano le croci. I fedeli potevano osservare le ossa dei defunti, spesso ammonticchiate le une sopra le altre, da finestrelle. La porta, chiamata Porz a maro, «Porta della morte», che consentiva l’accesso all’interno della struttura era ornata da rilievi che mostravano riti di passaggio verso l’immortalità mutuati dal mondo celtico la cui figura più comune è l’Ankou, la morte, spesso raffigurata come uno scheletro avvolto in un mantello e con una falce o un’ascia tra le mani e accompagnata da frasi ammonitrici. Nel recinto parrocchiale di La Roche-Maurice accanto a una delle rappresentazioni più famose dell’Ankou si legge la scritta «Vi uccido tutti» e «Uomo, ricorda che sei polvere», mentre a La Martyre l’ossario accoglie i fedeli con un «Morte, giudizio, gelido inferno: quando l’uomo pensa a tutto questo deve tremare».

Dal XVIII secolo le famiglie più ricche iniziarono a mettere i teschi dei loro defunti nelle boîte à chef (cassette dei teschi) identificate per nome ed età del morto accompagnando la traslazione con canti e litanie che ricordavano che sulla terra «non c’è più nobiltà, né ricchezza, né bellezza! La terra e i morti si sono confusi e uniti!».

Il calvario di Guehenno, eretto nel XVI secolo; il gallo di fronte ricorda il triplice diniego di Pietro: fu aggiunto alla scultura originale solo nel 1863 dall’abate Jacuot. Foto Piergiorgio Pescali.

I calvari

Ciò che caratterizza maggiormente le enclos sono sicuramente i calvari, che iniziarono ad apparire dopo il 1450 a Tronoën ed ebbero il loro epilogo a Saint-Thegonnec nel 1610. A volte sono solo semplici croci in pietra su cui è raffigurata la deposizione o Maria Vergine e Maria Maddalena. Altre volte sono vere e proprie storie animate da decine di personaggi. Sono questi i calvari più ammirati e famosi, che si trovano a Gumiliau, Plugastel-Daoulas, Pleyben, Saint-Jean-Trolimon, Guehenno, Plougonven. Artisticamente sono il risultato di un lungo processo di trasformazione che ha rimodellato i menhir preistorici in strutture più elaborate, ma rivolte, fisicamente e spiritualmente, sempre verso il Cielo. La cuspide smussata delle «lunghe pietre» viene sostituita dalla croce e la parte più massiccia che affonda nel suolo si trasforma nelle scene evangeliche più rappresentative e note. Dal punto di vista strettamente religioso i calvari sono le biblia pauperam destinate ai fedeli. I parroci li utilizzavano per insegnare catechismo, i devoti riconoscevano le fasi della vita di Cristo e la sua Passione.

La certezza della Resurrezione, identificabile nei cimiteri dove le tombe sono rivolte verso Est, si ripercuote nelle scene dei calvari, privi di qualsiasi accenno ai miracoli di Cristo. La Salvezza non è un miracolo, ma una certezza. Tutto si sviluppa attorno alla croce, simbolo di salvezza, e le scene non seguono mai uno schema e una cronologia ben definita lasciando all’artista la scelta di ciò che vuole rappresentare e la posizione all’interno dell’opera. Vi sono calvari in cui i personaggi sono vestiti con abiti bretoni del tempo, altri in cui indossano abbigliamenti più ligi agli eventi descritti nei Vangeli. In comune tra loro hanno la divisione in due parti: la vita di Gesù prima dell’entrata a Gerusalemme (annunciazione, visitazione, natività, epifania, fuga in Egitto, presentazione, battesimo, tentazioni) e le ultime fasi della vita di Cristo dopo la domenica delle palme (entrata a Gerusalemme, ultima cena, lavanda dei piedi, Getsemani, processo, via crucis, la Veronica, crocifissione, morte, deposizione, tumulazione, resurrezione).

Diavolo e inferno

Non tutti i calvari sono monumentali: questo è a Callac. Foto Piergiorgio Pescali.

L’unica libertà mondana che si prendono alcuni scultori è la rievocazione di Katell Kollet («Caterina la perduta») che si trova nei calvari di Guilimiau e Plougastel-Daoulas. Caterina, nipote del Conte Morris signore di La Roche-Maurice era una bella sedicenne il cui unico scopo nella vita era il divertimento e il ballo. Per questa sua «leggerezza» venne rinchiusa sino a quando non avesse deciso di maritarsi. Liberata da un servo compiacente si rifugiò a La Martyre dove la coppia ballò sino allo sfinimento. Il servo morì, ma Katell, desiderosa di continuare la danza, invocò il diavolo che, presa la palla al balzo, la rapì portandola all’inferno. Caterina Kotell divenne quindi Caterina Kollet. La leggenda è molto popolare in Bretagna, tanto da dare il nome a una band musicale che continua la tradizione dei gwerz, i canti popolari.

 

Come scrisse Anatole Le Braz (1859-1926) ne La leggenda della morte, «tra tutti i popoli celtici, i bretoni sono forse quello che ha conservato più intatta l’antica curiosità della razza per i problemi della morte».

Piergiorgio Pescali