Fedele fino alla morte

Il popolo Tolai vive nella penisola Gazzelle nel nord est dell’isola della Nuova Britannia in Papua Nuova Guinea. è una delle decine di etnie dell’arcipelago che circonda l’isola principale. Lì è arrivato diversi secoli fa stabilendosi nella zona più fertile di tutta la Papua Nuova Guinea. Popolo di fieri guerrieri, avevano una struttura matriarcale e i bambini venivano educati sotto la responsabilità dello zio materno che insegnava loro le basi di agricoltura, pesca e caccia. I loro nomi sono caratterizzati dal prefisso «To» o «Ia»: «To» per i maschi, «Ia» per le femmine.

Colonizzazione europea

Il primo europeo ad arrivare in queste terre è un navigatore olandese nel 1616, e poi gli inglesi all’inizio del XVIII secolo che chiamano l’isola Nuova Britannia. Nel 1884 arrivano i tedeschi, che prendono il controllo dell’arcipelago. A fine 1800 ci vivono circa 190mila indigeni e 800 tedeschi.

Nel 1914 ritornano gli inglesi dall’Australia. Sconfiggono i tedeschi, e nel 1919, con il trattato di Versailles, l’arcipelago diventa parte dell’Impero britannico. La Papua Nuova Guinea diventa indipendente dall’Australia nel 1975.

I primi missionari

I primi missionari, sia cattolici che protestanti, cominciano a evangelizzare le isole a fine XVIII secolo partendo da Sidney in Australia. La Santa Sede istituisce due vicariati apostolici solo nel 1844: quello della Melanesia e quello della Micronesia, e li affida ai missionari Maristi che mettono la loro base nell’isola di Woodlark e da lì raggiungono le altre isole. Lavorano con coraggio, ma pagano anche un prezzo altissimo: di venti missionari mandati nella regione, sette muoiono per malattie tropicali e cinque diventano totalmente invalidi. Così nel 1850 i Maristi chiedono che altri missionari prendano la responsabilità del Vicariato della Melanesia.

Nel 1852 arrivano i missionari del Pime da Milano, ma anche loro si ritirano nel 1855, lo stesso anno in cui nell’isola di Woodlark è ucciso padre Giovanni Battista Mazzucconi, ora beato.

Nel 1875 entrano in scena con forza i missionari protestanti Metodisti che, nel giro di due anni, riescono ad aprire ben undici stazioni tra i Tolai.

Nel 1881 dall’Australia viene mandato padre René Lannuzel, un sacerdote associato ai Cappuccini. Arrivato nella penisola
Gazelle è subito ben accolto dai nativi e, in poco tempo, battezza 76 bambini.

Nel settembre 1882 sbarcano a Vunapope tre missionari francesi del Sacro Cuore. Nonostante le molte difficoltà (malattie, contese per la terra, restrizioni governative alla loro azione, incendi delle stazioni di missione), la missione comincia a dare i primi frutti. Nel 1887 ci sono 700 cattolici (100 europei e 600 nativi), quattro stazioni di missione, sette scuole con 600 bambini e nove missionari, sei suore e un fratello.

Rakunai e il capo To Puia

I missionari, bene accolti dai Tolai, aprono una stazione di missione a Rakunai, uno dei loro villaggi più importanti. è anche il luogo dove spesso le questioni tra i vari clan vengono risolte in combattimenti tra le parti.

I missionari sono sorpresi dalla rapidità con cui il popolo accoglie il Vangelo. Pur tra grandi difficoltà, fanno uno splendido lavoro di inculturazione ed entro la fine del 19° secolo i Tolai abbandonano pratiche ancestrali come cannibalismo, riti demoniaci, lotte, guerre e pratica della schiavitù.

Rakunai deriva da «ra kunai», che significa «campo di erba» ed è in una delle zone più fertili della regione e anche centro di mercato per i villaggi vicini. Qui troviamo la famiglia di Peter To Rot. Suo padre è Angelo To Puia, un leader del suo clan e capo villaggio di Rakunai. La mamma è Maria Ia Tumul. Peter è il terzo di sei figli: quattro fratelli e due sorelle. Gli ultimi due, i più giovani, muoiono ancora bambini.

Peter nasce probabilmente nel 1912. La sua famiglia è già cristiana. Il padre è stato battezzato nel 1898, ed è uno dei primi cattolici tra i Tolai. To Puia è un capo molto rispettato, un buon padre e un ottimo cristiano. Come capo è attento ai più poveri, soprattutto agli orfani che accoglie e cura nella sua stessa casa. È lui a invitare i missionari a vivere nel villaggio, a costruire  una chiesa e una scuola. È il capo della zona per circa 40 anni e muore nel 1938. La sua conversione al cattolicesimo, con quella della sua famiglia, segna la fine dell’influenza dei Metodisti nell’area, contribuisce ad allentare le discriminazioni governative verso cattolici e incoraggia altre conversioni.

Il prediletto di papà

Il Beato Peter to Rot (in foto elaborata dall’originale in bianco e nero
(Asia News)

To Rot è battezzato lo stesso anno della sua nascita. Riceve la sua formazione cristiana soprattutto dal papà. È un ragazzo tranquillo, gentile e molto obbediente. Ha un rapporto molto profondo con suo padre, di cui, proprio per il suo carattere, è il «prediletto». A sette anni è ammesso nella scuola primaria di Rakunai, che frequenta con regolarità. Sveglio, attento e pronto, partecipa attivamente alle lezioni, e fuori è l’anima dei giochi e anche di vari lavoretti. A scuola impara molto bene la Bibbia, memorizzandone tante pagine.

Visto il suo impegno, riceve la prima Comunione che ha solo circa 11 anni. Quando poi il missionario chiede volontari per servire la messa ogni giorno, lui è uno dei primi a offrirsi. Dato che la sua casa è molto lontana dalla chiesa, il papà gli dà il permesso di stare con dei parenti che abitano vicino a essa e così può andare a servire messa tutti i giorni senza doversi alzare prestissimo e fare una lunga camminata.

Il suo amore per Gesù nell’Eucarestia è il suo più intimo segreto e più grande tesoro. Sarà la forza di tutta la sua vita.

Un ragazzo responsabile

Peter è un ragazzo normale, vivace come tutti i suoi coetanei. Anche lui fa delle marachelle, ma ha un forte autocontrollo: quando le cose degenerano tra gli amici, ha la capacità di dire «basta», e sa farsi ascoltare. Ovvio che, come figlio del capo, è rispettato dai suoi compagni, ma questo non gli fa montare la testa, anzi è molto amichevole con tutti, e ha una speciale attenzione ai più poveri e agli orfani, come ha imparato da suo padre.

Passata l’adolescenza, dovrebbe lasciare la scuola, ma lui vuole continuare. Il parroco, che lo segue da vicino, conosce il suo amore per l’Eucarestia e pensa che To Rot potrebbe essere un buon prete per la sua gente. Ne parla con il papà, To Puia, ma questo gli dice: «Non credo che uno della nostra generazione sia pronto per diventare prete. È troppo presto per quello. Piuttosto mandalo alla scuola di catechisti».

Catechista

Così nel 1930, a 18 anni, Peter entra nel Saint Paul catechist training centre di Taliligap, un centro creato nel 1925 per tutto il vicariato della Melanesia. La scuola accoglie centinaia di giovani, provenienti dagli oltre trenta gruppi linguistici del vicariato, per preparare i futuri catechisti: formarli spiritualmente, insegnare i metodi per comunicare il Vangelo e quanto necessario per animare una comunità anche in assenza del sacerdote; organizzare e gestire una scuola elementare di villaggio, imparando la lingua locale, se necessario; apprendere metodi e contenuti sia per l’insegnamento religioso che per quello scolastico di base; tenere i registri e promuovere attività extra scolastiche.

Arrivato al centro, To Rot si sente subito a casa. Si butta nello studio e diventa uno degli studenti migliori. Sfrutta al meglio il suo tempo, diviso tra preghiera, studio, lavoro nell’orto, attività ricreative e sport. Naturalmente approfondisce anche la sua vita spirituale, e il suo amore per l’Eucarestia diventa sempre più sincero e il centro della sua vita. Per questo fa la comunione tutti i giorni, cosa non abituale allora.

Impiego anticipato

Il corso che frequenta dura tre anni, ma Peter, già all’inizio del 1933, viene mandato al suo villaggio, Ranukai, perché il catechista è andato via e non c’è nessuno ad aiutare il sacerdote. Ha 21 anni, è un giovane sano e robusto, un gran bel ragazzo, ben cosciente del suo stato sia di catechista che di figlio del capo. Servire con umiltà e dedizione creando una profonda collaborazione con il sacerdote, lavorando con lui, chiedendogli approfondimenti sugli aspetti della fede che non gli sono ancora chiari. Ha un solo pensiero nel cuore: essere un buon catechista e servire Gesù con tutto il cuore.

Attento alla vita della sua gente, non è indifferente di fronte ai problemi o a qualcuno che torna al paganesimo. Corregge con gentilezza, interessato al bene delle persone, come avrebbe fatto Gesù stesso: odia il peccato ma ama i peccatori.

Nella scuola è attento ai bisogni dei ragazzi, in particolare i più fragili. Non ama gli scontri, e usa tutta la sua influenza e il suo amore per ricondurre all’ovile le pecore disperse.

Se sa che qualcuno è malato, va a visitarlo nella sua casa e lo aiuta anche a trovare le medicine, oppure, nei casi più gravi, informa il sacerdote perché possa ricevere i sacramenti.

Sposo e padre

Nel 1936, l’11 novembre, si sposa in chiesa con Paula Ia Varpit che ha solo 16 anni. Arrivata a Rakunai a 14 anni, già battezzata, è diventata sua allieva nella scuola, dove è sbocciato l’amore.

Il matrimonio è preparato secondo i costumi locali senza però che siano le famiglie a scegliere sposo o sposa. In più To Rot rifiuta la convivenza di prova prima del matrimonio come previsto dai costumi locali. La celebrazione è quella del rito cattolico seguito poi dalle feste tradizionali a cui Peter ha diritto come figlio del capo.

Il matrimonio di Peter e Paula è esemplare per tutti, soprattutto perché i due si amano profondamente e pregano insieme mattina e sera, condividendo le fatiche quotidiane e superando con l’amore e il rispetto reciproco le tradizioni più negative della cultura Tolai.

Dopo l’invasione dei giapponesi del 1942, il loro amore diventa ancora più forte. Peter e Paula hanno due figli: Andreas To Puia nel dicembre 1939 e Rufina Ia Mama nel 1942. Un terzo nasce nell’agosto 1945.

Occupazione giapponese

Dal 4 gennaio 1942 i giapponesi occupano la Nuova Britannia cacciando gli australiani. Il 25 gennaio arrivano a Rakunai dopo aver bombardato la chiesa in cui sospettano siano nascosti dei soldati nemici.

In un primo momento i giapponesi permettono a padre Laufer, il parroco, di rimanere, ma poi, in ottobre, tutti i missionari sono internati, dapprima in un campo di concentramento a Vunapope, porto e capitale della zona, e più tardi a Ramale.

Così la cura dei cristiani ricade totalmente sui catechisti. To Rot, pur cosciente della gravità della situazione e dei rischi che corre, si prende la responsabilità di essere vicino ai cristiani e sostenerne la fede. Continua a guidare la preghiera domenicale, a battezzare i bambini, a formare le giovani coppie e benedire il loro matrimonio, ad aiutare i più poveri, a visitare gli ammalati e a seppellire i morti. Il tutto registrato accuratamente nei libri della parrocchia. Oltre a questo, visita regolarmente anche i missionari imprigionati e porta loro cibo e vestiario, che però spesso viene confiscato dalla polizia giapponese. Andando a Vunapope, a cinque, sei ore di cammino, coglie anche l’occasione per prendere nella chiesa centrale delle ostie consacrate per distribuire la comunione.

Controllati dalla polizia

Le cose cambiano nel marzo 1943. I giapponesi sentono il peso degli attacchi degli alleati e la Nuova Britannia passa dall’amministrazione civile a quella militare. Una delle conseguenze è che gli occupanti controllano di più i catechisti e ne riducono le attività. To Rot è convocato dalla polizia che gli proibisce di fare incontri con grandi gruppi di cristiani. Nello stesso tempo distruggono completamente la chiesa, con la scusa che è un edificio grande e quindi troppo visibile ai bombardieri alleati.

To Rot ottiene di poter costruire una cappella più piccola e più mimetizzata. Tutta la comunità lo aiuta. È la chiesetta di Palnalama, di rami di palma.

Nuove restrizioni

Nel marzo 1944 la situazione peggiora ancora. I giapponesi stanno perdendo la guerra e controllano solo la penisola Gazelle che è spesso bombardata dagli alleati e tagliata fuori da rifornimenti via mare.

La polizia convoca i catechisti cattolici e i pastori metodisti e comunica loro che tutte le attività religiose sono proibite. To Rot protesta, ma l’ufficiale giapponese, Meshida, lo zittisce brutalmente.

Tornato a casa non si arrende. «Vogliono toglierci la preghiera, ma io continuerò con il mio lavoro». Ormai è solo. I missionari sono nel campo di concentramento, i suoi compagni catechisti sono troppo spaventati e gli ordini dei giapponesi impediscono ogni attività pastorale. Non solo: gli occupanti requisiscono ogni simbolo religioso (libri, crocefissi, immagini) e confiscano e bruciano tutti i registri parrocchiali.

Prudenza e perseveranza

Così esce di notte a incontrare i cristiani radunati in piccoli gruppi in luoghi segreti, prega con loro, li istruisce, battezza i bambini e benedice matrimoni. Ha una cura particolare per gli ammalati e i moribondi. Per essi riesce perfino ad andare fino a Vunapope per riportare loro l’Eucarestia. Non abbandona i suoi amici catechisti, incoraggiandoli, istruendoli personalmente o inviando loro lettere con consigli e istruzioni. Ai suoi cristiani raccomanda la prudenza e li invita alla perseveranza nella preghiera senza mostrarsi in pubblico. È ben cosciente che rischia la prigione e la sua stessa vita.

Viva la poligamia

A giugno 1944 la situazione peggiora ancora. I giapponesi sono alle strette e cercano il sostegno della popolazione locale. Per questo offrono ricompense ai capi locali e, per ingraziarseli, decidono di ripristinare un’antica tradizione culturale dei Tolai: la poligamia, proibita dal cristianesimo e messa fuori legge dai governi precedenti. Non solo la legalizzano, ma puniscono chiunque obietti contro questa decisione.

La proposta è accolta con favore da diversi capi e perfino da uno dei fratelli di To Rot, Tatamai. To Rot non accetta la decisione. Continua così il suo servizio e la sua testimonianza che ha grande influenza sulla sua gente. Questo lo mette in contrasto diretto con i giapponesi, soprattutto con il capo della polizia, Meshida, e un poliziotto locale al loro servizio. Questi vuole prendere come seconda moglie una donna cristiana già sposata. To Rot interviene aiutando la donna davanti al capo villaggio, e questa riesce a tornare da suo marito.
Il poliziotto, To Metapa, diventa furioso con To Rot e cerca ogni opportunità per bloccarlo.

L’arresto

Nel maggio 1945, una sera è di pattuglia e ferma una giovane coppia. I due, interrogati su cosa facciano in giro a quell’ora, impauriti, raccontano che stanno tornando dalla fattoria di famiglia di To Rot, dove quest’ultimo ha appena celebrato alcuni matrimoni, tra cui il loro. To Metapa ha in mano la scusa che cercava e fa arrestare Peter To Rot e i suoi due fratelli la mattina dopo. Perquisiscono da capo a fondo la fattoria dove i tre fratelli vivono, e distruggono tutto il materiale religioso di Peter: Bibbia, crocefisso, catechismo, libri di canti, registri di battesimo e di matrimonio. Picchiano lui e i suoi fratelli. Questi sono condannati a un mese di prigione, e lui a due mesi. La sua chiara opposizione alla poligamia aggrava la situazione.

Viene portato al campo di prigionia di Vunaiara, una struttura molto spartana con capanne di pali circondate da fossati e una galleria scavata nel lato della collina. Viene chiuso in una piccola stanza sotterranea. Nel campo sono prigionieri anche i suoi fratelli, e per un certo tempo può frequentarli. Lui è trattato con più durezza di tutti. Mentre gli altri durante il giorno possono uscire a lavorare nei giardini dei vicini, lui è tenuto in isolamento o mandato a lavorare nella cucina del campo. Spesso di notte è chiuso in una cella sotterranea senza finestre. Può ricevere visite dalla vecchia madre, dalla sorella e dalla moglie con i figli. Lui li incoraggia. «Non piangete. Pregate. Sono qui per una buona causa. Ne sono felice, perché sono qui in ragione della mia fede». Ed è perseverante nella sua preghiera quotidiana.

I suoi fratelli sono rilasciati dopo un mese ma lui, finiti i suoi due, continua a essere internato senza una ragione specifica. L’odio di Meshida e To Metapa blocca ogni via alla libertà.

Gli ultimi giorni

Peter To Rot è ben cosciente che sarà ucciso, ma non ha paura. Due giorni prima di morire, sua moglie incinta va a trovarlo con i due bambini. Gli porta il crocefisso che lui le ha chiesto e aveva lasciato nascosto. Lei gli chiede di smettere di fare il catechista e di ritirarsi a una vita più tranquilla. «Non preoccuparti. È mio dovere morire per Dio Padre, Figlio e Spirito Santo e per la mia gente», è la sua risposta. Lei insiste, e lui: «Non impedirmi di fare il mio lavoro. È il lavoro di Dio».

A sua madre venuta a visitarlo (probabilmente il 6 luglio) dice: «La polizia mi ha detto che stanno aspettando un medico giapponese che deve venire a darmi delle medicine. Penso che sia una bugia, perché non sono malato. Non so cosa questo significhi». Poi le chiede di pregare per lui e salutandola, in modo molto sereno, le dice: «Questa notte mi metteranno di nuovo nella buca».

Francobollo che rappresenta il momento dell’esecuzione di To Rot

Quella notte vengono due medici giapponesi e tutti i prigionieri, accompagnati dalla polizia indigena, sono mandati fuori, in una fattoria vicina, a giocare e divertirsi in occasione della luna piena, anche se piove. Tutti, tranne To Rot e un ragazzo di 15 anni più giovane di lui. Non ci sono testimoni in giro.

Il capo dei guardiani manda il ragazzo a chiamare To Rot e poi lo caccia via. Si nasconde sul fianco della collina poco distante e vede che un dottore fa un’iniezione a Peter e poi gli dà da bere. Lo fa poi sdraiare e gli riempie il naso e le orecchie di cotone. Peter vuole vomitare. Il medico gli copre la bocca, lo tiene giù e gli dà un colpo sulla gola con un bastone. Dopo un po’ To Rot si irrigidisce e muore. Il ragazzo corre a raccontare quello che ha visto agli altri. Tutti i prigionieri, quando tornano alla prigione vedono il corpo di To Rot, ma, impauriti, si ritirano in silenzio.

Il giorno dopo (7 luglio), dopo il solito appello mattutino, tutti vanno al lavoro. Quando arrivano alcuni collaboratori dei giapponesi, questi vedono il corpo di To Rot e danno l’allarme. Le guardie fingono di essere sorprese. Mishida copre il corpo con un telo e dice a tutti: «Il “ragazzo della missione” era molto malato ed è morto. Dite al capo Tata di Rakunai e ai suoi parenti di venirlo a prendere e portarlo via».

Il capo Tata arriva rapidamente e trova il corpo di To Rot ancora caldo. Naso e bocca sono pieni di cotone, una schiuma puzzolente esce dagli angoli della bocca, c’è un rigonfiamento sul collo, prova di una botta ricevuta, due tagli sanguinolenti nel retro della testa e il segno rosso di una puntura alla vena del braccio sinistro: è chiaro per tutti che To Rot è stato ucciso «per quello che conosceva e per la sua religione». Nessuno crede alla storia della malattia. Bisbigliano tra loro, ma la paura della polizia militare è troppo forte.

Portano il corpo di To Rot a casa dalla sua famiglia. La moglie, Paula, incinta del terzo figlio, scoppia in pianto. Viene preparata la bara. La gente accorre a vederlo. Il funerale è celebrato senza solennità e in silenzio per paura che la polizia faccia altri arresti. Lo seppelliscono nel cimitero della famiglia di sua madre, secondo le loro tradizioni.

Il cardinal Parolin con il quadro del beato il 31 marzo 2025, giorno dell’annuncio della canonizzazione di To Rot (Vatican Media)

Martire

Per riconoscere un vero martire, sono necessarie tre condizioni: che sia ucciso; che la persona sia ben cosciente di rischiare la vita rimanendo fedele alla sua fede; che questo avvenga in odio alla fede.

Nel caso di Peter To Rot questo è  chiaro fin da subito, così papa Giovanni Paolo II lo dichiara martire e beato il 17 gennaio 1995 senza bisogno di miracoli approvati. Lo stesso fa papa Francesco che, il 31 marzo 2025, tre settimane prima della sua scomparsa, ne ha autorizzato la canonizzazione. La data effettiva  sarà decisa da papa Leone XIV. Sarà il primo santo nativo della Papua Nuova Guinea.

Aggiornamento: Peter ToRot, il primo Santo della Papua Nuova Guinea, sarà canonizzato il 19 ottobre 2025, domenica in cui si celebrerà la 99ma Giornata Missionaria Mondiale. Lo ha deciso oggi (13 giugno 2025) Papa Leone XIV, durante la celebrazione del suo primo Concistoro Ordinario Pubblico.
Da Agenzia Fides

Gigi Anataloni

Testo liberamente tradotto e sintetizzato dal libro di padre Thomas Ravaioli, Blessed Peter To Rot, pubblicato dalla Catholic bishop conference of Papua New Guinea and Solomon Islands, 2020.

17 gennaio 1995, papa Giovanni Paolo II con il quadro del nuovo beato il giorno della beatificazione (Vatican Media)



Quei santi sconosciuti: i martiri di Guiúa


Testo di Osório Citora Afonso


Era il 22 marzo 1992, ventitré catechisti furono assassinati da un gruppo di uomini armati. Si trovavano nel centro catechistico di Guiúa per formarsi al loro ministero. Qualche anno prima, nel 1987, un altro catechista aveva subito la stessa sorte nello stesso luogo. Oggi si è conclusa la prima parte del processo di beatificazione che li riguarda.

Il 22 marzo scorso, in un momento nel quale il centro del Mozambico è stato devastato dal ciclone Idai che ha colpito in modo indiscriminato le persone, le città e i loro beni, si è celebrato il 27° anniversario del martirio dei catechisti laici di Guiúa.

Inoltre, si è chiuso in maniera positiva il processo diocesano per la loro beatificazione e si è quindi aperta la fase romana con il trasferimento alla Congregazione per le cause dei santi di tutto il materiale istruttorio raccolto in diocesi.

Vogliamo dunque ricordare i catechisti martirizzati a Guiúa nel 1992 (cfr MC, dossier, 3/2002) e, inoltre, offrire un omaggio ai laici catechisti e missionari del Mozambico che anche oggi spendono la loro vita, spesso in condizioni difficili e pericolose, perché Cristo sia annunciato e tutti gli uomini ricevano la salvezza.

I catechisti in tempo di prova

Dobbiamo sottolineare due caratteristiche importanti della Chiesa mozambicana durante il periodo che va dal 1975, data dell’indipendenza nazionale, al 1992, data dell’accordo di pace.

Da una parte abbiamo una chiesa sotto un regime marxista, una chiesa spogliata dei suoi averi e del suo essere. Dall’altra una chiesa nella guerra civile, una chiesa martirizzata.

Ambedue vivono sotto il segno dell’emergenza e della riscoperta del ruolo fondamentale dei catechisti laici.

Poco dopo la dichiarazione d’indipendenza del Mozambico nel 1975, con l’ascesa al potere del Fronte per la liberazione del Mozambico (Frelimo) e la sua dichiarata posizione marxista leninista, ostile alla Chiesa, inizia un periodo di vera persecuzione, con espropriazioni, restrizioni di ogni genere all’attività pastorale, negazione dei visti d’entrata nel paese ai missionari stranieri. Molte missioni si vedono svuotate dei loro missionari e sacerdoti. Nascono allora piccole comunità cristiane che si radunano non più attorno ai sacerdoti, ma a quelli che vengono chiamati «missionari laici», cioè i catechisti che svolgono un’attività di custodi, di testimoni e di animatori delle comunità cristiane.

Una lunga guerra civile

Negli anni immediatamente successivi all’indipendenza, il Mozambico è teatro di una lunga e sanguinosa guerra civile, durata ben 17 anni, tra il Frelimo al potere, e il movimento di guerriglia anticomunista Resistenza nazionale del Mozambico (Renamo).

Durante la guerra civile varie missioni si trovano coinvolte nel conflitto: molti sacerdoti, religiosi, religiose e laici vengono sequestrati. Alcuni testimoniano l’adesione a Cristo con il martirio.

La «Chiesa ministeriale»

L’Assemblea pastorale nazionale di Beira del 1977 costituisce un avvenimento centrale per la chiesa mozambicana sotto il marxismo e colpita dalla guerra civile. Con una nutrita rappresentanza di laici delle piccole comunità cristiane, la chiesa legge i segni dei tempi e traccia coraggiosamente il progetto di trasformarsi da «chiesa del popolo» in «Igreja ministerial» (chiesa ministeriale), mediante la valorizzazione dei ministri laici.

Le comunità sono chiamate a strutturarsi secondo ministeri, servizi che il Signore va suscitando. Così viene riformulata la formazione da offrire ai catechisti per rendere più facile ed efficiente la presenza viva della chiesa in tutte le comunità diffuse nei vasti territori delle missioni. In queste missioni i catechisti diventano davvero «custodi, testimoni e animatori delle comunità cristiane».

Questa chiesa mozambicana, nel tempo della prova, è in grado di produrre martiri.

Pensiamo anzitutto a quelli che saranno formati nel Centro catechistico di Anchilo per svolgere la loro attività missionaria nella zona di Nampula e che saranno uccisi sul campo di missione e, in secondo luogo, a quelli di Guiúa di cui parliamo qui, che saranno uccisi durante la loro preparazione proprio nelle vicinanze del centro.

I 24 martiri di Guiúa

È il 21 marzo del 1992, il Centro catechistico di Guiúa accoglie quindici famiglie provenienti delle missioni di Maimelane, Mapinhane, Vilankulo, Muvamba, Funhalouro, Morrumbene, Mocodoene, Jangamo, Guiúa e Inhambane, tutte già provate duramente dalla guerra. Si trovano nel Centro formativo di Guiúa per essere preparate al loro ministero.

Già durante il giorno si sentono colpi di arma da fuoco echeggiare da lontano, ma sembra che non ci siano pericoli immediati. Verso le 23, invece, le famiglie, le religiose francescane e i due missionari della Consolata, Andrea Brevi e John Njoroge, presenti nel centro, si rendono conto di essere stati accerchiati da un nutrito gruppo di giovani uomini (alcuni paiono avere tra 10 e 15 anni), forse allo scopo di saccheggiare la struttura.

Visto il pericolo, ogni famiglia si chiude ciascuna nella casetta che gli è stata assegnata per il soggiorno, ma ben presto i guerriglieri iniziano a sparare e a tirare fuori con violenza le famiglie dalle abitazioni. Due catechisti che provano a fuggire venogno uccisi, gli altri vengono radunati. Ad un certo punto si sentono due colpi di mortaio sparati dall’esercito regolare che presidia il vicino acquedotto. Un gruppo di guerriglieri allora si dirige verso i soldati, ma non li trova e ritorna indietro.

Raggruppate le persone che sono riusciti a tirare fuori dalle abitazioni fino a quel momento, i guerriglieri le fanno camminare con loro per 500 metri e si fermano nei pressi di una capanna per interrogare gli ostaggi. Vogliono sapere da dove provengono e perché si trovano lì, poi chiedono informazioni sulla dislocazione dell’esercito e sulla strada libera dalle mine per poter entrare nell’area protetta, ma non ricevono le risposte che vorrebbero.

Dato che comincia ad albeggiare, gli assalitori decidono di inoltrarsi nel bosco con gli ostaggi per circa tre chilometri, poi si fermano, separano una decina di ragazzi dal resto del gruppo per portarli nelle loro basi, e uccidono a sangue freddo tutti gli altri.

Prima di essere uccisi, i catechisti chiedono di poter pregare e gli assassini glielo concedono.

Il bilancio finale dell’assalto e del massacro è di 23 persone uccise, tra cui sei bambini tra uno e 13 anni.

Il ventiquattresimo martire, il catechista Peres Manuel Chimganjo, venne ucciso invece il 13 settembre del 1987, cinque anni prima, sempre a Guiúa, in circostanze simili.

Custodi, animatori, testimoni

I catechisti sono custodi, animatori e testimoni delle loro comunità cristiane. I ventiquattro martiri di Guiúa lo sono stati in modo speciale.

Sono stati custodi, ossia «missionari laici», come già erano definiti i catechisti mozambicani nel 1977, ossia «padri di famiglia trasformati in apostoli» che hanno saputo conservare con cura, difendere e proteggere non soltanto la fede dei loro fratelli, ma anche il patrimonio della Chiesa nel tempo in cui essa era sotto il marxismo e colpita dalla guerra civile.

Padre Cornelio Prandina, comboniano morto nel 1992, descrivendo le attività dei catechisti diceva: «Sono incaricati di dirigere e coordinare la vita di decine di comunità, specialmente dove non c’è il sacerdote. Alcuni arrivano ad avere la responsabilità di più di 50 comunità».

Sono stati testimoni, cioè non hanno avuto paura di testimoniare la loro fede di fronte al pericolo. Uno degli scampati del 21 marzo 1992 ha raccontato l’interrogatorio subito dai guerriglieri:

«Da dove venite?».
«Veniamo da diverse missioni della provincia».

«Per fare che cosa?».
«Noi siamo catechisti: impariamo la Bibbia e i diversi lavori dei cristiani nelle comunità cristiane».

«Dov’è il vostro cibo?».
«Siamo poveri, non abbiamo magazzino e viviamo alla giornata».

«Dove sono i militari che vi difendono?».
«Non lo sappiamo. Non siamo di qui, veniamo da lontano perché qui c’è una chiesa e un Centro che forma i catechisti».

«Voi siete sacerdoti?».
«No. Siamo catechisti».

«Che abbiate risposto bene o male, giusto o sbagliato, per voi la fine sarà la stessa: cioè la morte».

Sono stati animatori di comunità: durante quegli anni alcuni di loro, reagendo alla paura, riunivano piccoli gruppi di cristiani, anche di due o tre persone soltanto. Poco importava se all’ombra di una capanna o sotto una pianta di caju (anacardio). In tutto il Mozambico, scomparsi i quadri organizzativi della chiesa, le piccole comunità cominciavano discretamente a riaggregarsi per pregare e leggere la Bibbia, grazie al lavoro dei catechisti. Progressivamente, si sono formate e rafforzate tante piccole comunità, organizzate attorno alla Parola e alla preghiera al fine di garantire il servizio della fede e l’aiuto ai fratelli in necessità: il catechista svolgeva un ruolo fondamentale. L’essere e l’agire della comunità radunata attorno al catechista o all’animatore, che si trattasse dell’azione semplice di ogni giorno o dell’estremo dono di sé, esprimevano la concezione di una vita messa a disposizione della Parola e della legge del Signore. Era questa la loro prima e radicale espressione. Si trattava di una vera e propria spiritualità del martirio.

Joaquim, Isabel e Carlos

Sul catechista cinquantatreenne Joaquim Marrumula Nyakutoe si dice che fosse uomo coraggioso e pieno d’amore verso la sua gente, e che seppe, con il suo zelo apostolico, formare e animare la sua comunità cristiana di Guissembe. Aveva dieci figli, dei quali tre furono rapiti e tornarono a casa dopo sei mesi.

Sulla catechista quarantacinquenne Isabel Foloco si dice che fu una donna sempre disponibile ad animare la comunità e a collaborare nei diversi impegni. I più bisognosi della comunità trovavano sempre in lei un aiuto. Aveva cinque figli e fu uccisa davanti a loro.

Su Carlos Mukuanane trentaduenne si dice che aveva una buona capacità di leader. Fu scelto per essere catechista e animatore della comunità di Funhalouro che si trovava senza sacerdote. Seppe animare la sua comunità cristiana nella preghiera e lettura della Bibbia. Aveva quattro figli.

Sono tre esempi di custodi, testimoni e di animatori di comunità che hanno dato la loro vita mentre si preparavano per il loro ministero. Il sacrificio delle famiglie di Guiúa non è stato inutile, perché quel luogo oggi è il fulcro della diocesi di Inhambane, dove si può toccare e vedere l’impronta della presenza di Dio nella terra dei Tonga, dei Twas, degli Xopes e degli Ndaus. Voglia Dio aprire gli occhi e la mente di tutti perché possiamo percepire, ricordare e valorizzare debitamente quest’apertura del cuore di Dio per Inhambane.

Osório Citora Afonso

Sui martiri di Guiúa nell’Archivio MC:


È morto monsignor Francisco Lerma  MartÍnez

Missionario, vescovo, amico dei mozambicani

 

Mons. Francisco Lerma Martínez, missionario della Consolata, vescovo di Gurué, è andato alla casa del Padre il 25 aprile scorso. Era ricoverato all’ospedale Istituto del Cuore a Maputo, Mozambico.

Nato a Murcia, in Spagna, il 4 maggio del 1944, mons. Francisco Lerma ha passato quasi tutta la sua vita missionaria in Mozambico, paese che ha raggiunto nel 1971, dopo l’ordinazione sacerdotale.

Dal 1971 al 1974 è stato prima viceparroco e poi parroco a Maúa, quindi dal 1974, per due anni, direttore della scuola per catechisti di Correia. Passati gli anni dell’indipendenza del Mozambico, dal 1976 al 1979 è stato parroco a Cuamba dove ha chiuso il suo primo decennio di missione nella Provincia del Niassa, Nord Ovest del Mozambico, la più povera del paese.

Nel 1979 è stato inviato più a Sud e gli è stato affidato il ruolo di segretario della pastorale nella diocesi di Inhambane, ruolo che ha dovuto interrompere dopo due anni per recarsi in Spagna a causa di una malattia che lo ha fermato per più di un anno.

Nel 1982 è ritornato in Mozambico e ha ripreso il servizio di coordinamento pastorale. Dopo quattro anni gli è stata assegnata la cura pastorale della parrocchia di Massinga dove è rimasto per altri quattro anni.

All’inizio del 1992 è stato mandato a guidare la formazione dei seminaristi al seminario filosofico di Matola, ruolo che ha ricoperto per quattro anni.

issione. Ha saputo stare dalla parte dei poveri, facendo sentire il loro grido, e ha richiamato con coraggio alla pace e riconciliazione dopo i tanti fatti di violenza e ingiustizia

Passati alcuni mesi dall’inizio del 1996, alla parrocchia di Nova Mambone, a giugno è nominato direttore del Centro catechistico di Guiúa, dove quattro anni prima 24 catechisti avevano testimoniato col loro martirio l’amore a Cristo e al Vangelo. È rimasto a Guiúa fino al 2002, ricoprendo allo stesso tempo il servizio di consigliere della Regione Mozambico dei missionari della Consolata.  Dopo un periodo a Roma, dove si è occupato del Segretariato generale per la missione per l’Istituto, nel 2007 è ritornato in Mozambico dove è stato eletto superiore regionale l’anno seguente. Ruolo che ha svolto per due anni fino al 24 marzo 2010, quando Papa Benedetto XVI lo ha nominato vescovo di Gurué.

Mons. Francisco era una persona semplice e amabile, vicina a coloro che il Signore gli affidava nel corso della sua attività missionaria. Nel periodo prima dell’indipendenza del Mozambico, ha condiviso i dolori e le gioie di un popolo che gridava e lottava per la libertà. Poi, nel periodo post indipendenza, ha condiviso la fatica dello stesso popolo di trovare intesa e riconciliazione. Si è interessato profondamente della cultura e all’espressione religiosa di coloro che serviva, scrivendo anche libri e divulgandone la conoscenza.

Persona comunicativa, ha cercato, soprattutto negli ultimi anni come pastore della chiesa di Gurué, di fare conoscere la situazione dei suoi cristiani e anche di coinvolgere tanti amici e conoscenti nella sua stessa m accaduti nella diocesi a lui affidata.

Pedro Louro




i loro nomi sono scritti in cielo

1. Ivone Faustino – Aveva 5 anni, ma era già una bambina molto vivace e giudiziosa: aiutava la madre nei piccoli lavori di casa, come attingere acqua, raccogliere legna, tenere pulita la casa. Tre fratelli maggiori furono rapiti dagli assalitori: due riuscirono a fuggire; l’altro fu costretto a seguire i rapitori alla loro base e non toò più. Fu trafitta da una baionetta, in braccio alla mamma.
2. Cecilia Jamisse – Aveva 41 anni e quattro figli. A 18 anni fu battezzata e lo stesso giorno sposò il catechista Faustino Cuamba. Moglie esemplare, accompagnò il marito
nell’attività apostolica della comunità fino alla morte.
Il giorno prima di arrivare al Centro, era ancora all’ospedale.
Giunsero a Guiúa la sera del 22 marzo; poche
ore dopo, fu uccisa da un colpo di baionetta,
mentre cercava di difendere la figlia Ivone.
3. Faustino Cuamba – Marito di Cecilia Jamisse, aveva
44 anni. Era catechista e cornordinatore zonale nella
parrocchia di Inhambane:
educato dai genitori alla
vita tenace del pescatore
per diventare anche, mediante
il servizio alla comunità,
«pescatore di
uomini». Fu il primo a
morire nell’attacco al
Centro catechetico. Mentre usciva di
casa, venne falciato da una raffica di mitraglia. Fu
trovato agonizzante, accasciato ai piedi di un albero
di cajú, con le mani sul ventre, squarciato dalle
pallottole.
4. Albino Tepo – Era nato nel 1948 a Mocumbi, cugino
di suor Lurdes, delle Francescane missionarie
di Maria. Grande lavoratore, nei giorni di permanenza
alla missione occupò il tempo intessendo cesti,
che poi vendeva. Stava per ritornare a Mocumbi,
quando fu sorpreso dall’attacco dei guerriglieri.
Ucciso a colpi di baionetta.
5. Catarina Sambula – Nata il 2 marzo 1965 a Machukele,
Mapinhane (Vilankulo), da genitori metodisti.
Nel 1987 sposò Armando Duzenta, responsabile
parrocchiale della commissione dei laici e famiglie.
Donna molto attiva in famiglia e nella
comunità, era insegnante di cucito, responsabile dei
giovani e assistente dei gruppi per la promozione
della donna. Aveva due figli: Azarias (5 anni) e Candida
(6 mesi). Gli assalitori la obbligarono a seguirli
ed abbandonare a terra la figlia più piccola, che fu
trovata ancora viva dalle suore e si salvò. Azarias fu
salvato dal padre, che riuscì a sfuggire agli assalitori.
Catarina, invece, fu trovata nel bosco martoriata
in tutto il corpo.
6. Isabel Foloco – Aveva 45 anni. Proveniva da Morrumbene.
Sposata con il catechista Benedito Penicela,
aveva cinque figli. Generosa nel collaborare ad ogni
iniziativa comunitaria, i poveri e bisognosi trovavano in lei
un aiuto sicuro e discreto. Fu accoltellata, sotto gli occhi
dei figli.
7. Benedito Penicela – Marito di Isabel e catechista di Morrumbene,
era nato nel 1944. Uomo alto e forte, si distingueva
per zelo e dinamismo nell’animare la sua comunità.
Insegnava xitshuaa suor Teresa. Anche lui, come la
sposa, fu ucciso a coltellate alla gola e al ventre.
8. Joaquim Marumula – Era nato a Massinga nel 1939.
Fu battezzato a 17 anni; sposò Palmira Kezane
Mapuiane, che gli diede 10 figli. Per sostenere
la famiglia, emigrò in cerca di lavoro. Aveva
iniziato l’attività di catechista nel 1967, facendosi
apprezzare per la generosità e la bella
voce, con cui guidava i canti della liturgia. Fu
ucciso a colpi di baionetta. Tre dei suoi figli furono
rapiti, ma tornarono a casa dopo sei mesi.
La moglie riuscì a salvarsi con la fuga.
9. Veronica Sambula – Era nata a Mavume
(Massinga) nel 1960. A 13
anni andò a lavorare a
Maxixe, dove conobbe
il futuro marito, Paolo
Saieta Kuniane, che lavorava
a Inhambane.
Ad entrambi furono affidati
compiti di responsabilità:
Veronica fu eletta anziana della comunità
e il marito fu scelto come catechista e anziano
della zona di Murure. Nel 1987 fu affidato loro
il compito della formazione dei giovani della
stessa zona pastorale. Morì accoltellata in varie
parti del corpo.
10. Madalena Beme – Originaria di Guiúa, aveva
una cinquantina d’anni. Donna semplice e
laboriosa, viveva in un villaggio vicino a Guiúa.
Frequentava il secondo anno di catecumenato.
Al momento del massacro si era rifugiata nel
Centro. Fu uccisa a colpi di baionetta.
11. Deolinda Gungave Sevene – Aveva 50 anni.
Fu battezzata nel dicembre 1962. Sposa di
Feando Sevene, catechista di Mocodoene,
era una madre esemplare e laboriosa. Nella comunità
era stimata per la profonda vita di preghiera
e la generosità nell’aiutare gli altri. Uccisa
a colpi di baionetta.
12. Gina Feando – Figlia di Deolinda, aveva
13 anni. Era ancora catecumena. Nutriva grande
amore per i genitori, che aiutava nei lavori
di casa e dei campi. Non si separava mai dalla
madre, alla quale confidava i suoi problemi
e dalla quale attingeva forza e coraggio. Fu trovata accanto
a lei, sul luogo del martirio, trafitta da baionetta.
13. Manuel Peres – Quarant’ anni. Originario di Beira. Fu
ucciso nell’assalto al Centro il 13 settembre 1987. Cadde
vittima di pallottole sparate a bruciapelo mentre difendeva
la moglie e i figli.
14. Maria Titosse – Era nata nel territorio di Guiúa nel
1960 ed era stata battezzata nella chiesa metodista. Piccola,
magra e timida, aveva sposato Leonardo Joel Maniane,
da cui ebbe tre figli. Volendo entrare nella chiesa
cattolica, frequentava il secondo anno di catecumenato.
Fu uccisa a colpi di baionetta, insieme al marito e i figli
Rita e Arlindo.
15. Arlindo Leonardo Maniane – Figlio di Maria Titosse e
Leonardo Joel, aveva solo un anno di età. Fu trovato sul
luogo del massacro con due ferite all’addome: morì durante
il trasporto all’ospedale di Inhambane.
16. Rita Leonardo Maniane – Figlia di Maria Titosse e Leonardo
Joel, aveva 8 anni. Frequentava la scuola elementare
di Guiúa. Allegra e laboriosa, aiutava i genitori nei lavori
di casa e dei campi. Trafitta da colpi di baionetta, morì
insieme ai genitori.
17. Leonardo Joel Maniane – Nato nel territorio di Guiúa,
aveva 47 anni. Grande lavoratore, era stato per molti anni
cuoco della missione. Sposato con Maria Titosse, aveva
tre figli. Era entrato solennemente nel catecumenato nel
1987 e stava per essere battezzato. Fu trovato morto, insieme
alla sposa e ai figli Rita e Arlindo.
18. Aaldo Adolfo Nombora – Nato a Massinga nel 1976
da Adolfo Nombora e Luisa Mabalane, genitori profondamente
cristiani, fu battezzato a un anno
di età. Frequentava la settima classe
elementare e faceva parte del gruppo
giovanile. Scomparso il padre nel
trambusto causato dall’attacco, rimase
con la madre e insieme a lei fu
ucciso.
19. Zito Adolfo Nombora – Fu tra i più
giovani martiri: aveva 4 anni. Era figlio
di Vitoria Adolfo. Al momento del
massacro era insieme ai nonni,
Adolfo Nombora e Luisa Mabalane.
20. Luisa Mafo – Nata nel 1943 a
Moduça, missione di Massinga, venne
battezzata a 14 anni. A 17 sposò
Adolfo Raul Nomera: ebbero 10 figli. Nel 1977 frequentò
con il marito il primo corso per catechisti nel Centro catechetico
di Mangonha (Massinga); entrambi esercitarono
il loro apostolato nella comunità di Kofi. Uccisa a colpi di
baionetta, insieme al figlio Aaldo e al nipote Zito.
21. Juvencio Carlos Mukwanane – È il più piccolo dei martiri:
era nato a Funhalouro il 2 marzo 1991. Figlio di Carlos
Mukwanane e Fatima Valente, fu trovato agonizzante
con ferite all’addome e al petto, mentre succhiava dal seno
della mamma morta.
22. Fatima Valente – Nacque a Makwene (Funhalouro)
nel 1970. Si sposò con Carlos Mukwanane nel 1989, dal
quale ebbe il figlio Juvencio. Donna molto sensibile e di
debole costituzione, era tuttavia molto impegnata come
madre e catechista, aiutando il marito nell’attività apostolica.
Morì con il piccolo Juvencio tre le braccia.
23. Carlos Mukwanane – Nato nel 1960 a Mukamba (Fugnaloro),
aveva frequentato la sesta classe elementare. Alto
e magro, era un bravo agricoltore. Nel 1991 aveva frequentato
con la moglie un corso di formazione nella missione
di Massinga, per diventare entrambi responsabili
della missione di Fugnaloro, rimasta senza missionari a
causa della guerra. La comunità li aveva scelti e mandati
a Guiúa per completare la loro formazione. Fu uno dei primi
martiri di Guiúa: gli assalitori gli spararono, appena lo
videro uscire dalla sua casa.
24. Susanna Carlos Mukwanane – Figlia di Carlos e della
sua precedente moglie, era nata a Mukamba (Fugnaloro)
nel 1979. A 13 anni si comportava come una «donna di
casa», aiutando i genitori in tutti i lavori domestici e accudendo
gli altri fratellini. Fu uccisa nel luogo del martirio,insieme
alla seconda madre, a colpi di coltello.

Giacomo Mazzotti