Africa. Il debito che soffoca

In Africa, il debito estero ha raggiunto livelli critici e sta diventando un problema grave. Secondo Afreximbank (African export–import bank), nel 2023, ammontava a 1.160 miliardi di dollari ed, entro il 2028, potrebbe arrivare a 1.290 miliardi. I dieci Paesi più indebitati – Sudafrica, Egitto, Nigeria, Marocco, Mozambico, Angola, Kenya, Ghana, Costa d’Avorio e Senegal – detengono quasi il 70% dell’esposizione complessiva. Il rapporto debito/Pil aggregato del continente è salito al 71,7%, dopo un’impennata di 39 punti percentuali dalla crisi del 2008.

Le cause
Dietro questa corsa all’indebitamento si celano diverse cause: infrastrutture da costruire, spese sanitarie e scolastiche elevate, accesso limitato ai mercati finanziari interni e alti tassi di interesse. Le pressioni demografiche e la domanda crescente di valuta estera hanno spinto molti Paesi a contrarre prestiti da attori multilaterali e da creditori privati, attratti dalla possibilità di profitti elevati. Con una conseguenza: molti Paesi ora spendono più per ripagare gli interessi che per la scuola o la sanità. Sono 48 in totale, secondo il rapporto «Un mondo di debiti» dell’Unctad (agenzia Onu per lo sviluppo e il commercio), gli Stati che oggi spendono più in interessi sul debito che nei servizi essenziali. Tra questi molti Paesi africani, dove i governi, per onorare i rimborsi, hanno imposto tasse più alte e tagliato i sussidi su beni di prima necessità. In Kenya e Nigeria queste misure hanno innescato proteste diffuse.
L’analisi di Afreximbank divide i Paesi in tre gruppi: quelli a rischio moderato, come Rwanda, Senegal, Mali e Costa d’Avorio; quelli ad alto rischio, come Kenya, Guinea-Bissau, Etiopia e Tunisia; e quelli già sull’orlo dell’insolvenza, come Zambia, Mozambico, Sudan e Ghana. Altri Stati, come Egitto e Angola, mantengono l’accesso ai mercati, ma con un rischio sovrano elevato.

Recessione
Il quadro è aggravato da un contesto globale difficile. Dopo il rallentamento economico iniziato nel 2015 e acuito dalla pandemia da Covid-19, il Pil dell’Africa subsahariana ha subito la prima recessione in oltre 25 anni nel 2020. Il debito, che nel 2011 era al 39,5% del Pil, ha così superato il 70% già nel 2020. Il Covid ha colpito un continente già vulnerabile, con economie poco diversificate, fortemente dipendenti dalle esportazioni e dagli aiuti esterni.
Il debito africano è anche cambiato nella composizione: oggi, il 61% è detenuto da creditori privati, meno disposti a negoziare. Nel ventennio 2000-2019, diciotto Paesi africani sono entrati per la prima volta nei mercati obbligazionari internazionali, spesso attratti dall’assenza di condizionalità tipiche dei prestiti multilaterali. Una condizione che aggrava il peso delle scadenze e rende più difficile qualsiasi ristrutturazione del debito. L’Unctad denuncia come l’attuale architettura finanziaria internazionale penalizzi i Paesi poveri, rendendo i costi del debito insostenibili e alimentando il divario tra Nord e Sud del mondo. La Cina è emersa come il principale creditore bilaterale, detiene circa il 13% del debito africano – soprattutto nei confronti di Angola, Kenya, Camerun, Sudafrica ed Etiopia -. Ma l’assenza di trasparenza rende i dati poco certi.

Che fare?
Negli ultimi anni si sono moltiplicate le iniziative per tamponare la crisi. Durante la pandemia, la Banca mondiale (Bm) e il Fondo monetario internazionale (Fmi) hanno promosso la «Debt service suspension initiative» (Dssi), che ha consentito una temporanea sospensione dei pagamenti per oltre 40 Paesi. Ma l’adesione è stata limitata, anche per il timore di un peggioramento del rating da parte dei mercati. Nel 2020 il G20 ha varato il «Common framework for debt treatment», un meccanismo per affrontare i casi più critici di insolvenza. Finora solo Ciad, Etiopia e Zambia hanno aderito. Un’altra iniziativa del Fmi è stata l’emissione straordinaria di Diritti speciali di prelievo (Dsp): dei 650 miliardi complessivi, 23 sono stati assegnati ai Paesi dell’Africa subsahariana.

Diritti e bilanci
A fronte di queste misure, la sostenibilità del debito africano rimane una sfida aperta. La crisi, come ha ricordato papa Francesco, «colpisce soprattutto i Paesi del Sud del mondo, generando miseria e angoscia». Il Pontefice ha auspicato «una nuova architettura finanziaria internazionale, audace e creativa», che rimetta al centro i diritti umani e non solo i bilanci.
Un obiettivo fatto proprio da Caritas italiana che ha lanciato la campagna «Cambiare la rotta. Trasformare il debito in speranza», collegata alla campagna globale «Turn debt into hope» di Caritas Internationalis. «La campagna mira a sensibilizzare sull’urgenza di ristrutturare o condonare i debiti dei Paesi poveri e a riformare l’iniqua architettura finanziaria internazionale – afferma Massimo Pallottino di Caritas -. Un sistema che sostiene modelli di produzione e consumo responsabili del riscaldamento globale, alluvioni e siccità, danneggiando soprattutto le popolazioni più povere e vulnerabili. Serve una mobilitazione collettiva e individuale per promuovere cambiamenti di atteggiamento. I cambiamenti partono anche da noi».
Anche Afreximbank raccomanda misure concrete: politiche fiscali solide, strategie di crescita a lungo termine, riforme della finanza globale e una gestione più autonoma e trasparente del debito. Solo così l’Africa potrà invertire la rotta e liberarsi da una spirale debitoria che rischia di soffocare ogni possibilità di sviluppo.

Enrico Casale




Guerre con il silenziatore

Un mondo di conflitti

Sipri Yearbook 2024 (Screenshot)

Risolvere le contese a suon di armi

Sono 170 i conflitti armati sulla terra: coinvolgono Stati, gruppi non statali, civili. Hanno ucciso 170mila persone in modo diretto nel solo 2023, con un impatto economico di 19mila miliardi di dollari: il 13,5% della ricchezza mondiale. La guerra non esce (ancora) dall’orizzonte.

Le statistiche internazionali evidenziano un mondo colpito da circa 170-176 conflitti armati (a seconda delle fonti). Le stime più basse parlano di 54 conflitti che coinvolgono almeno uno Stato, 76 non statali, 40 caratterizzati dalla violenza unilaterale di un attore statale o non statale contro la popolazione civile.

Secondo l’Yearbook 2024, l’ultimo rapporto dell’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma (Sipri), in Svezia, nel 2023, i conflitti nel mondo che coinvolgevano almeno uno Stato erano, invece, 52: ventotto a bassa intensità (con meno di mille morti in un anno), venti ad alta intensità (tra mille e 9.999 morti) e quattro ad altissima (più di 10mila morti). Questi ultimi erano (e sono tutt’oggi) i conflitti in Myanmar, Sudan, Israele-Hamas e Russia-Ucraina. Cinquantadue guerre che hanno provocato oltre 170mila morti dirette in un solo anno.

Secondo l’ottavo rapporto di Caritas italiana sui conflitti dimenticati, «Il ritorno delle armi», pubblicato a fine 2024, a distanza di tre anni dal precedente, il livello di gravità e diffusione delle guerre nel 2023 appare abbastanza costante rispetto a tre anni prima. Il numero di conflitti e di Paesi coinvolti, infatti, varia di poche unità.

Almeno nove guerre ad alta intensità già in atto nel 2020, lo erano ancora nel 2023: Azerbaigian, Burkina Faso, Ciad, Kenya, Mali, Nigeria, Congo Rd, Somalia e Sud Sudan.

Sono diversi i centri internazionali che si occupano di studiare i conflitti nel mondo, dal già citato Sipri, all’Università di Heidelberg, in Germania, con il suo Conflict Barometer, all’Università di Uppsala, in Svezia (Conflict data program), allo statunitense Armed conflict location and event data project (Acled), all’Institute for economics and peace di Sydney, Australia con il Global peace index .

Scorrendo i dati a disposizione, l’Africa emerge come il continente con il numero più elevato di conflitti ad alta intensità, mentre il record del conflitto più longevo appartiene a quello israelo- palestinese, che può essere fatto risalire al 1917 (firma della cosiddetta Dichiarazione Balfour).

Guerre tradizionali, nuove prospettive

Rispetto alle previsioni di scenario avanzate nel corso dell’ultimo decennio, gli studi sui conflitti evidenziano alcuni mutamenti di rotta.

Innanzi tutto, non si è avverata la prospettiva di una guerra avanzata, ipertecnologica, attuata mediante l’utilizzo di apparati dotati di capacità chirurgica di offensiva.

La guerra in Ucraina, e in altre parti del mondo, dimostra la persistenza di errori umani, il ritorno a modalità belliche tradizionali, la ricomparsa del fante, della guerra di logoramento in trincea.

Una seconda previsione che non si è avverata riguarda, invece, la teoria secondo la quale la guerra sarebbe divenuta nel prossimo futuro un fenomeno residuale, relegato alle periferie del pianeta, che avrebbe compromesso le sacche meno avanzate della civiltà umana.

Una serie di recenti conflitti nel cuore dell’Europa, che hanno coinvolto le grandi potenze occidentali, dimostrano, invece, che le guerre sono un rischio trasversale che si affaccia anche alle nostre finestre, nei nostri cortili.

Nel corso degli anni i conflitti armati si sono trasformati in alcuni dei loro aspetti rilevanti. Uno di essi riguarda le diverse forme che assumono. La tradizionale distinzione tra guerre civili e guerre tra Stati, ad esempio, è stata sostituita un po’ per volta da una prospettiva interpretativa più analitica, che vede non due, ma tre tipologie: la prima è quella denominata «State-based violence» che riguarda i conflitti in cui si fronteggiano due soggetti armati, dei quali almeno uno è uno Stato; la seconda è quella del «Non-state conflict», nel quale si fronteggiano ribelli, organizzazioni criminali, milizie armate su base etnica religiosa, ecc., cioè gruppi che le principali istituzioni internazionali non riconoscono come Stati sovrani; la terza tipologia è quella chiamata «One-side violence» (violenza unilaterale), cioè quelle situazioni nelle quali un soggetto statale, parastatale, o non statale usa violenza indiscriminata sulla popolazione civile.

Rispetto a questa classificazione, come abbiamo già osservato, nel 2023 la tipologia più frequente è stata quella dei conflitti non statali, seguita dalle guerre State-based e dalle One-side violence.

Rientrano nella tipologia delle guerre statali conflitti come quello tra l’Azerbaigian e la repubblica separatista del Nagorno-Karabakh, e quello tra l’Ucraina e i separatisti filorussi, poi sfociato nell’invasione russa del febbraio 2022.

Tra i Non-state conflict vi sono varie situazioni di violenza diffusa, come, ad esempio, gli scontri armati tra i cartelli della droga messicani, quelli tra organizzazioni criminali in Brasile e quelli tra etnie e gruppi religiosi in diversi Paesi dell’Africa.

Infine, tra le situazioni di violenza unilaterale attuata da governi e/o milizie di vario tipo nei confronti dei civili come obiettivo privilegiato, possiamo fare l’esempio delle brutalità commesse dai Talebani in Afghanistan, o delle uccisioni in Iran di centinaia di manifestanti scesi in piazza per diversi mesi per protestare in seguito alla morte di Mahsa Amini, avvenuta il 16 settembre 2022.

In una prospettiva storica, il confronto su una finestra temporale di venti anni (2002-2023) evidenzia la sostanziale stabilità delle guerre State-based, l’aumento delle violenze tra gruppi non statali (10 punti percentuali in più) e la diminuzione della violenza unilaterale mirata verso le popolazioni civili (13 punti percentuali in meno).

CAR refugees in Southern Chad

Sempre più armati

Secondo il Global peace index, l’impatto economico dei conflitti armati nel mondo nel 2023 è stato di 19mila miliardi di dollari, il 13,5% del Pil mondiale, circa 2.380 dollari a persona.

I dati disponibili evidenziano le contraddizioni del nostro tempo: a fronte di una conflittualità persistente, aumenta la spesa militare complessiva, in particolare in alcuni Stati che impegnano a tale scopo quote sempre più ampie della propria ricchezza disponibile.

È un fenomeno che riguarda tutti gli Stati, non solamente le superpotenze planetarie come gli Usa, la Cina e la Russia.

Ad esempio, con 83,6 miliardi di dollari, l’India si è collocata al quarto posto per livello di spese militari: nel 2023, il budget militare indiano è aumentato del 4,2% rispetto al 2022 e, addirittura, del 44% rispetto al 2014.

Secondo i dati del Sipri, i primi cinque Paesi della classifica (Usa, Cina, Russia, India, Arabia saudita) rappresentano il 61% delle spese militari globali.

Sulle teste dei bambini

Le conseguenze dei conflitti armati sono molte e sempre devastanti sulle popolazioni come sull’ambiente, sia nei Paesi direttamente coinvolti che su quelli vicini e, spesso, anche lontani.

Uno sguardo particolare va dedicato all’impatto sulle vite dei minori.

Secondo i dati diffusi dall’ultimo rapporto del Segretario generale per i bambini e i conflitti armati dell’Onu, pubblicato a giugno 2024, sono state registrate nel mondo 32.990 gravi violazioni contro i bambini in venticinque conflitti nazionali e in un conflitto regionale (quello del bacino del lago Ciad). È il numero più alto mai registrato dall’inizio delle attività di monitoraggio nel 2005.

Le violazioni includono sei categorie di fenomeni: uccisioni e menomazioni; reclutamento e utilizzo dei minori in gruppi e forze armate; violenza sessuale; rapimenti; attacchi a scuole e ospedali; negazione dell’accesso agli aiuti umanitari.

«Nel 2023 – si legge nel rapporto Onu -, 22.557 bambini (15.847 maschi; 6.252 femmine; 458 di sesso sconosciuto) sono stati vittime di almeno una delle seguenti quattro violazioni: reclutamento e sfruttamento; uccisioni e mutilazioni; stupro e altre forme di violenza sessuale; rapimento. Le situazioni con il numero più elevato di bambini colpiti si sono verificate in Israele e nei Territori palestinesi occupati, nella Repubblica democratica del Congo, in Myanmar, in Somalia, in Nigeria e in Sudan».

Per il primo dei sei punti (uccisioni e menomazioni), nel 2023 è stato registrato un aumento dei casi pari al 35%: da 8.647 bambini uccisi o mutilati nel 2022 a 11.649 nel 2023.

Per quanto riguarda i minori reclutati e impiegati in gruppi e forze armate, nel 2023 sono stati 8.655. I bambini rapiti, invece, 4.356: una cifra cresciuta per il terzo anno consecutivo.

Soltanto in Ucraina, nel febbraio 2022, sono stati riportati 1.682 attacchi alla salute dei minorenni, a danno di operatori sanitari, forniture, strutture, magazzini, e ambulanze, e oltre 3mila attacchi a strutture educative, che hanno lasciato circa 5,3 milioni di bambini ucraini senza un accesso sicuro all’educazione.

© European Union, 2021 (photographer: Olympia de Maismont) – Des élèves arrivent à l’école Gondologo B à Ouahigouya, Burkina Faso, le 20 janvier 2021.

Milioni di persone vulnerabili

L’ingente quantità di persone che si trovano in condizioni di vulnerabilità determinate dai conflitti armati, fa emergere un fabbisogno umanitario enorme, che non trova una risposta adeguata nelle attuali politiche: quasi 300 milioni di individui nel mondo sono bisognosi di aiuto e dipendenti da esso. Non hanno, infatti, alcuno strumento per soddisfare in modo autonomo i propri bisogni primari. È un numero che equivale quasi al 70% della popolazione dell’Unione europea. In Africa orientale e meridionale sono 74,1 milioni coloro che dipendono dall’assistenza umanitaria.

Da sola, la guerra in Sudan ha generato nel 2023 bisogni umanitari per 15,8 milioni di persone, stimate a 30 milioni per il 2024. Di queste, 3,5 milioni sono bambini. Un dato che fa del Sudan il Paese con il più alto numero di minori sfollati.

Povertà e conflitti

Un’altra caratteristica importante dei conflitti armati odierni è la loro correlazione con la povertà.

Se mettiamo in relazione tra loro i dati sui conflitti armati con la classifica dei Paesi in base all’Indice di sviluppo umano (Isu) stilata dall’Undp (United nations development programme), si apprende che l’incidenza di Paesi in guerra è molto più alta tra quelli a basso valore di sviluppo umano rispetto a quanto accade tra i Paesi più ricchi. In altre parole, i Paesi in maggiore difficoltà si trovano più spesso coinvolti in conflitti violenti.

Tradotto in cifre: è coinvolto in situazioni di conflitto armato il 27,3% dei Paesi con basso Isu, mentre solo il 4,3% di quelli con Isu molto elevato. Un mancato coinvolgimento diretto di questi ultimi in azioni di guerra, però, non significa che le potenze economiche non siano coinvolte nei conflitti: sono numerose, infatti, in diverse parti del mondo, le cosiddette «guerre per procura», giocate per interposta persona da eserciti, gruppi e milizie di Paesi terzi, pesantemente equipaggiati in violazione di sanzioni ed embarghi di armi. Due esempi su tutti: il sostegno del Rwanda alle milizie M-23 nella confinante regione del Kivu in Repubblica democratica del Congo; l’appoggio degli Emirati arabi uniti alla Rapid reaction force nella guerra civile sudanese.

Walter Nanni

Bairi Ram, a local resident, stands next to his house damaged by overnight Pakistani artillery shelling in Kotmaira village near the Line of Control (LoC) in India’s Jammu region on May 11, 2025. India and Pakistan traded accusations of ceasefire violations early on May 11, hours after US President Donald Trump announced that the nuclear-armed neighbours had stepped back from the brink of full-blown war. (Photo by Money SHARMA / AFP)

Conflitti in numeri

  • 300 milioni di persone al mondo dipendono da aiuti umanitari; di cui 74,1 milioni in Africa orientale e meridionale.
  • 52 Stati vivono situazioni di conflitto armato.
  • 20 guerre ad alta intensità (1.000-9.999 morti).
  • 4 guerre ad altissima intensità (più di 10mila morti nell’anno): Myanmar e Sudan, Israele-Hamas e Russia-Ucraina.
  • 170.700 morti dirette in azioni di guerra.
  • 32.990 gravi violazioni contro i bambini in 25 conflitti nazionali e un conflitto regionale in Ciad (11.649 uccisi o menomati; 8.655 reclutati in gruppi armati; 4.356 rapiti).
  • 63 operazioni multilaterali di pace. Un terzo delle operazioni è coordinato dall’Onu.
  • 100.568 operatori (civili e militari) impegnati in operazioni di pace.
  • 2.443 miliardi di dollari: spesa militare mondiale (massimo storico). Equivalente al 2,3% del Pil globale, 306 dollari a persona, di cui 820 miliardi di dollari di spesa militare USA; 296 miliardi: Cina; 109 miliardi: Russia;
  • 19mila miliardi di dollari: impatto economico dei conflitti armati nel mondo: il 13,5% del Pil mondiale, circa 2.380 dollari a persona.

W.N.

Il ritorno delle armi. Rapporto della Caritas

Il volume «Il ritorno delle armi» costituisce l’ottava tappa di un percorso di studio sui conflitti dimenticati, avviato da Caritas italiana nel 2002, e che ha dato luogo ad altrettante pubblicazioni editoriali.
Frutto di un lungo lavoro di studio portato avanti a cura di un gruppo ristretto di studiosi ed enti accreditati, il rapporto si concentra sul peso mediatico delle guerre nell’agenda informativa italiana, con particolare interesse agli aspetti umanitari e al legame tra guerra, ambiente e mercato delle armi.
Il rapporto è diviso in tre parti. La prima è di taglio descrittivo analitico, e offre uno spaccato dei fenomeni e delle tendenze di guerra in atto, con particolare riferimento allo scenario geopolitico dello scacchiere internazionale.
La seconda parte riporta una serie di ricerche sul campo condotte ad hoc per il rapporto, sulla presenza dei conflitti nell’agenda mediatica, e sulla loro percezione da parte dell’opinione pubblica.
La terza parte del volume è, invece, di taglio propositivo, e ha lo scopo di delineare alcune possibili prospettive di lavoro e di impegno, anche a partire da esperienze concrete, nell’ambito civile ed ecclesiale, con particolare riferimento al ruolo della Chiesa universale e alla specifica realtà Caritas.

W.N.

Non solo Ucraina e Israele

Il ruolo dei media nella percezione pubblica dei conflitti

Solo una persona su quattro in Italia sa elencare almeno tre guerre attuali. Il 29% non ne conosce nemmeno una. Il resto quasi solo Ucraina o Israele. L’assenza dei media su questo tema è vistosa, nonostante le persone vogliano essere informate.

Quante sono le persone che in Italia sono informate sui conflitti che ogni giorno fanno vittime in tutto il mondo e che causano spesso conseguenze concrete anche alla loro vita (dall’immigrazione, all’aumento dei prezzi di alcuni prodotti, ai cambiamenti climatici)?

Il «cuore» del rapporto di Caritas italiana sui conflitti dimenticati affronta questo interrogativo. La seconda sezione del volume, infatti, descrive i risultati di una serie di ricerche sul campo condotte ad hoc dall’Istituto Demopolis.

L’attenzione si concentra non solo sui media tradizionali (tv, radio, carta stampata), ma anche sul web e sull’ambiente dei social media, in particolare di Instagram, uno dei più diffusi, soprattutto in ambito giovanile.

La rilevazione online sulla piattaforma ha consentito di rispondere a tre interrogativi: come si parla di guerra su Instagram? Come si parla dei conflitti dimenticati? Chi parla dei conflitti dimenticati?

Un capitolo di questa sezione del rapporto è poi quella curata dall’Osservatorio di Pavia (un istituto di ricerca indipendente specializzato nell’analisi dei media), che ha studiato la presenza dei conflitti dimenticati nei contenuti trasmessi dai principali Tg italiani negli anni 2022 e 2023. L’Osservatorio ha inoltre approfondito i fattori che favoriscono la copertura telegiornalistica dei conflitti, e quanto le notizie hanno messo in rilievo un tema, particolarmente importante per i diritti umani e l’ambiente, come quello dell’acqua.

Un altro capitolo analizza circa 180 video, disegni, fotografie e componimenti inviati da studenti italiani, dalla scuola dell’infanzia fino alle superiori, che hanno dato una propria lettura e interpretazione al tema del conflitto nell’ambito di un concorso indetto dal ministero dell’Istruzione e del merito e da Caritas italiana.

Haitian police officers deploy in Port-au-Prince as they exchange gunfire with alleged gang members on November 11, 2024. (Photo by Clarens SIFFROY / AFP)

Conoscenza molto bassa, ma in crescita

Il sondaggio demoscopico, realizzato dall’Istituto Demopolis su un campione rappresentativo di italiani, si sofferma innanzitutto sulla conoscenza delle guerre.

Rispetto alla precedente ricerca risalente al 2021, appare molto forte in quella del 2024 l’incremento tra gli italiani di conoscenze sui conflitti: il 71% degli intervistati è in grado di citare almeno una guerra degli ultimi cinque anni, conclusa o ancora in corso (nel 2021 erano il 53%).

Il conflitto più citato è stato quello russo-ucraino (47%); 3 su 10 hanno ricordato il fronte israelo-palestinese; il 16% ha citato la Siria. Il 26% giunge a individuare tre conflitti.

L’attenzione degli italiani è legata innanzitutto alla dimensione locale (il 65%). Nonostante questo, però, il livello di conoscenza circa i conflitti che avvengono nel mondo è aumentato.

La guerra si può evitare

Un aspetto importante della ricerca si riferisce all’atteggiamento valoriale e culturale delle persone intervistate riguardo alla natura della guerra: l’80% degli italiani considera le guerre come «avvenimenti evitabili» e non legati in modo indissolubile alla natura profonda dell’uomo (erano il 75% nel 2021). Così come si rileva una buona fiducia nei confronti della comunità internazionale come strumento di prevenzione delle guerre o di mediazione tra le parti. Il 74% degli italiani, di fronte allo scoppio di un conflitto, richiederebbe alla comunità internazionale di agire con la mediazione politica, senza l’uso della forza, con un incremento di 4 punti rispetto al 2021. Oggi, solo il 13% appoggerebbe un intervento immediato, anche con la forza, per fermare un conflitto.

Se dal dato teorico si sposta l’attenzione degli intervistati sul ruolo ipotizzabile per l’Italia, la tendenza al pacifismo si conferma, ma con sfumature significative. Per il 56% degli italiani, il nostro Paese non dovrebbe mai, in alcun caso, intervenire militarmente in situazioni di guerra e conflitto internazionale. Il 41% non esclude invece forme di intervento militare, ma solamente all’interno di un’azione coordinata dalle Nazioni Unite o dall’Unione europea.

Nigeria 2018. Nel nord-est della Nigeria, epicentro della crisi del Lago Ciad, infuria il conflitto tra lo Stato e il gruppo armato Boko Haram. Continuano gli attacchi e gli sfollamenti. Dall’ottobre 2017 sono state sfollate più di 140.000 persone. © Unione Europea 2018 (foto di Samuel Ochai)

I conflitti nella Tv

Sul tema della presenza dei conflitti nella comunicazione televisiva, l’Osservatorio di Pavia ha realizzato uno studio sui sette principali Tg nazionali trasmessi in fascia serale (Tg1; Tg2; Tg3; Tg4; Tg5; Studio aperto; TgLa7) dal 1° gennaio 2022 al 31 dicembre 2023, allo scopo di rilevare la «copertura» dei Paesi interessati da conflitti di estrema o alta gravità.

Nel 2023, i Tg italiani hanno dedicato ai conflitti nel mondo 3.808 notizie, pari all’8,9% del totale di tutte le notizie trasmesse. Dal 2022 al 2023, l’attenzione dei Tg è diminuita: le notizie sulla guerra nel 2022 erano state 4.695, con un valore di incidenza superiore, pari all’11,7%.

Il 50,1% delle notizie sulle guerre nel 2023 ha riguardato il conflitto israelo-palestinese e il 46,5% quello in Ucraina, che ha ricevuto un’attenzione media quotidiana rilevante, sebbene più che dimezzata rispetto all’anno precedente, il 2022, l’anno nel quale la Russia ha invaso il Paese confinante. Il restante 3,4% delle notizie si è distribuito su quindici Paesi: Afghanistan, Brasile, Colombia, Filippine, Haiti, India, Myanmar, Nigeria, Pakistan, Repubblica democratica del Congo, Siria, Somalia, Sudan, Venezuela, Yemen.

I conflitti in Bangladesh, Burkina Faso, Camerun, Etiopia, Giamaica, Guatemala, Honduras, Iraq, Kenya, Mali, Messico, Trinidad e Tobago non hanno ricevuto nessuna copertura.

Anche le notizie indirettamente pertinenti i conflitti analizzati risultano in diminuzione nel 2023 rispetto al 2022: da 4.636 a 2.089, in termini di incidenza dall’11% al 4,9%, di cui il 72,3% sulla guerra in Ucraina, il 26,5% sul conflitto israelo-palestinese, il restante 1,2% distribuito fra Filippine, Rd Congo, Venezuela e Yemen.

Le cornici narrative prevalenti di questo tipo di notizie sono state la diplomazia, la politica italiana, gli appelli di pace e diplomazia della Chiesa.

Sui 30 Paesi campione coinvolti in conflitti, le notizie che non trattavano la dimensione conflittuale sono state 575, pari all’1,3% del totale. Hanno riguardato prevalentemente la Siria, colpita da un grave terremoto a febbraio del 2023, ampiamente coperto dai Tg, e l’India, dove a settembre si è svolto un summit del G20, anche questo riportato da tutte le testate giornalistiche.

In sintesi, nell’arco di questi due anni, solo due conflitti hanno ricevuto un’ampia attenzione nei Tg nazionali: la guerra in Ucraina, che nel 2022 ha ottenuto una copertura media di 13 notizie al giorno, e di cinque nel 2023. Il secondo è il conflitto israelo-palestinese che, a partire dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, ha ricevuto una copertura media quotidiana di 22 notizie.

Tutti gli altri Paesi interessati da conflitti di estrema o alta gravità, in proporzione hanno avuto una visibilità ridottissima, in molti casi addirittura nulla.

Guerre «notiziabili»

L’Osservatorio di Pavia ha studiato anche la correlazione fra alcuni fattori di notiziabilità dei conflitti e la loro copertura nell’informazione dei Tg italiani del 2022 e 2023. È risaputo tra chi studia l’informazione che non tutti i fatti che accadono nel mondo diventano notizia.

Tale possibilità dipende da una serie di caratteristiche, denominate «fattori di notiziabilità», tra cui il tipo di evento, qual è lo strumento di comunicazione, la competizione tra le testate giornalistiche, l’interesse del pubblico, ecc.

Basandosi sui risultati di precedenti ricerche, sono stati presi in considerazione sei fattori misurabili statisticamente: la vicinanza geografica tra l’Italia e il Paese interessato dal conflitto; la gravità del conflitto, in termini sia di eventi politici violenti, sia di eventi con danni diretti alla popolazione; la potenza economica del Paese interessato dal conflitto, e gli scambi commerciali con l’Italia, in termini sia di import che di export.

I risultati dell’analisi statistica dimostrano che, fra tutti i fattori sopra indicati, la copertura dei conflitti nei Tg italiani è correlata soprattutto alla gravità del conflitto e alla vicinanza geografica con l’Italia. Non per nulla, questi due fattori sono fortemente presenti sia nella guerra in Ucraina che nel conflitto israelo-palestinese, non ascrivibili infatti nel novero dei conflitti dimenticati.

I conflitti per i giovani

«Voci silenziose», opera dell’Itt Rondani di Parma per il concorso «Spezziamo la violenza» indetto dalla Caritas nel 2023.

Un altro capitolo del rapporto Caritas si sofferma sulle modalità con le quali i giovani vedono il tema del conflitto.

Per poter esaminare questo aspetto si è deciso di utilizzare i lavori prodotti da bambini e giovani, nell’ambito di un Concorso nazionale indetto da Caritas italiana in collaborazione con il ministero dell’Istruzione e del merito.

Gli studenti erano stati invitati a produrre dei lavori di vario tipo sul tema del conflitto (non necessariamente di tipo bellico). Da tutta Italia sono pervenuti 177 elaborati che sono stati prodotti con diverse tecniche. Attraverso 103 disegni e fotografie, 40 video e 34 testi scritti, i ragazzi e le ragazze di tutte le regioni hanno raccontato il loro personale sguardo sul tema dei conflitti, in risposta a una domanda che di tale concetto proponeva una definizione volutamente ampia, proprio per accogliere le diverse visioni dei giovani.

Analizzando i lavori, si apprende che il 76% degli elaborati visivi dei ragazzi (foto e disegni), si riferiva alla dimensione internazionale, con precisi riferimenti alla guerra in Ucraina e nel Medio oriente. Particolarmente emblematica a riguardo è la fotografia «Legami», prodotta da una classe terza dell’Istituto tecnico tecnologico Rondani di Parma, specchio di tante immagini violente che scorrono sui media e raggiungono anche i giovani.

Il 14,4% degli elaborati aveva invece come oggetto una dimensione nazionale, più vicina alla quotidianità dei ragazzi e delle ragazze. In questi casi il conflitto assumeva altre identità, tra cui la criminalità organizzata, il bullismo e la violenza sulle donne. Diversi lavori grafici e video sono testimonianza di dinamiche difficili, ma anche di soluzioni concrete per provare a contrastare questi fenomeni.

Interessante notare come in alcune immagini i ragazzi abbiano riprodotto dei fili che reggono burattini e marionette (ne è un esempio la fotografia denominata «Voci silenziose»).

L’idea è che spezzare la violenza di ogni genere significa tagliare le corde della manipolazione che impediscono un movimento libero.

Walter Nanni

«Legami», opera degli studenti dell’Itt Rondani di Parma

Le guerre di Instagram

I conflitti dimenticati negli spazi social

I social network sono ambienti di comunicazione e informazione. Le contese geopolitiche e i diritti umani non mancano, ma – anche su social come Instagram – alcuni conflitti sono più assenti di altri. E il rischio della superficialità è grande.

Dalle rivoluzioni delle Primavere arabe fino ai recenti conflitti globali, i social network hanno dimostrato la capacità di mobilitare e informare un vasto pubblico in tempo reale.

A tale riguardo una specifica indagine condotta da Federica Arenare dell’Università di Bologna ha tentato di dare una risposta ad alcuni interrogativi: quali, tra i profili social di testate giornalistiche, di giornali nati online e di giornalisti freelance, parlano maggiormente di conflitti?
Su quali guerre si pone più attenzione e, soprattutto, come se ne parla?

L’indagine, che compare all’interno del rapporto Caritas, analizza post condivisi tra giugno 2023 e maggio 2024, ed esplora le modalità di Instagram nel veicolare informazioni sui conflitti dimenticati, in riferimento alle guerre segnalate dall’Heidelberg institute for international conflict research (Hiicr), ovvero quelle di Burkina Faso, Camerun, Ciad, Repubblica centrafricana, Rd Congo, Etiopia (Tigray e Oromia), Haiti, Kenya, Mali, Myanmar, Nigeria (Boko Haram), Somalia (al-Shabaab), Sud Sudan, Sudan (Darfur), Uganda.

I risultati evidenziano un’ampia disparità di attenzione dedicata ai vari contesti di guerra: il Sudan, teatro di una guerra civile devastante dal 2023, è quello che viene maggiormente coperto; mentre Paesi come la Repubblica centrafricana e il Ciad ricevono una copertura marginale.

L’analisi ha coinvolto oltre 30mila post, rilevando che solo pochi attori, come Ong e giornalisti freelance, riescono a far emergere queste tematiche.

I profili coinvolti nell’indagine comprendono testate tradizionali come «la Repubblica» e «Corriere della sera», testate native digitali come «il Post» e «Tpi», e realtà nate sui social come «Will» e «Torcha». Secondo i risultati della ricerca, Sudan, Repubblica democratica del Congo e Nigeria sono i Paesi di cui si è più parlato su Instagram nel periodo preso in considerazione, mentre i conflitti maggiormente dimenticati sono – partendo dall’ultimo in classifica – Repubblica centrafricana, Myanmar e Ciad.

C’è anche da mettere in evidenza che lo scarto esistente tra il primo Paese in classifica e quello che si trova all’ultimo posto è molto ampio: 4.161 nomine per «Sudan» e «Darfur» (15,1% del totale), rispetto alle sole 49 citazioni di «Repubblica centrafricana» (0,2%): un disequilibrio informativo non indifferente.

L’attenzione verso il Sudan è probabilmente giustificata dallo scoppio della guerra civile nell’aprile del 2023 che sta causando una carestia di massa e, secondo Medici senza frontiere, lo sfollamento di oltre 8,4 milioni di persone.

Rispetto ad altri conflitti e nonostante gli allarmi umanitari, il Sudan rimane comunque quasi assente nelle agende internazionali e nel dibattito pubblico globale.

“Vivevamo bene, nella prosperità, finché non sono arrivati loro”, riflette Tetiana sul periodo precedente alla guerra.
Tra le mani tiene i frammenti delle granate che hanno danneggiato la sua casa un anno fa e spera che il sostegno internazionale per il popolo ucraino continui.
© Unione Europea, 2023 (fotografo: Oleksandr Ratushniak).

Nel rumore di fondo della piattaforma

Informazioni interessanti derivano anche dal confronto tra le modalità narrative che distinguono le diverse tipologie di pagine Instagram.

Nello specifico, dalle analisi di confronto tra le diverse testate (tradizionali vs digitali) emerge che quelle nate sui social riescono a sfruttare meglio le potenzialità del canale, offrendo contenuti che, sebbene poco approfonditi, riescono a coprire più tematiche. Le prime cinque testate che citano maggiormente i Paesi in cui sono in corso conflitti sono tutte native digitali.

Il fatto che queste pagine siano nate sui social, non ha dirette correlazioni con le tematiche che affrontano, ma ha senz’altro a che fare con gli algoritmi che regolano in modo incontrovertibile, e in continua evoluzione, gli spazi su cui condividono i loro contenuti.

Da un lato, bisogna tenere sempre presente che redazioni come quelle di Repubblica, Corriere e Domani creano i loro contenuti soprattutto per i quotidiani cartacei e per il loro sito web. La principale ragione per cui sono presenti sui social network è la necessità di rimanere visibili al grande pubblico e di guadagnare dalle sponsorizzazioni che ospitano sui loro siti. Dall’altro lato, i contenuti di attualità delle testate nate con il cartaceo hanno però un vantaggio: essendo distribuiti su molte piattaforme, anche se attirano meno engagement e alimentano meno dibattito pubblico, possono comunque essere trattati su altri canali web, in quanto non direttamente legati alle prigioni algoritmiche dei social.

Un ulteriore focus di attenzione è il fatto che la narrazione sui conflitti dimenticati è spesso legata a eventi specifici che riescono a emergere dal rumore di fondo della piattaforma. E tali eventi non sono sempre di natura bellica.

Ad esempio, il Sudan ha ricevuto particolare attenzione grazie alla candidatura della sua nazionale di basket alle Olimpiadi di Parigi 2024, un evento che ha stimolato emozione e interesse anche fuori dalle cerchie di esperti di geopolitica. Ma in questo modo, all’interno di video e storie che parlavano della nazionale di basket, si è colta l’occasione per parlare anche della guerra vissuta da lunghi anni dal Paese africano.

Il messaggio sulle guerre riesce, quindi, a bucare la rete in modo indiretto, in quanto il contenuto è veicolato mediante altri tipi di narrative, che fungono da polo attrattivo dello spettatore digitale.

L’uso di accattivanti formati visuali consente alle testate più innovative di raggiungere un pubblico giovane e poco incline ai canali tradizionali.

Il potenziale informativo di Instagram si è rivelato molto interessante in ambiti come il giornalismo, dove l’uso di immagini, brevi video e grafiche facilita la comunicazione di temi complessi.

Tuttavia, questa semplicità comunicativa è anche un’arma a doppio taglio: il rischio della superficialità è grande, e la riduzione di profondità delle analisi può incentivare la condivisione di contenuti sensazionalistici o poco accurati.

Nonostante i suoi limiti strutturali, Instagram rappresenta un’opportunità per sensibilizzare su tematiche complesse come i conflitti dimenticati.

Un approccio critico e consapevole a questa piattaforma può favorire una maggiore comprensione delle dinamiche globali e promuovere una «dieta informativa» più equilibrata.

È fondamentale, tuttavia, educare gli utenti ai meccanismi che governano questi spazi, per distinguere tra contenuti di valore e quelli puramente orientati al coinvolgimento emotivo.

Walter Nanni

Pelstina 9marzo2024 – Foto di Emad El Byed su Unsplash

L’arbitrato internazionale

Se la prima parte dell’ottavo rapporto sui conflitti dimenticati di Caritas italiana propone una panoramica dei conflitti armati nel mondo, e la seconda approfondisce i motivi per i quali molti di essi sono invisibili per l’opinione pubblica, dimenticati, appunto, la terza e ultima parte è, invece, di taglio propositivo. I capitoli che la compongono hanno lo scopo di descrivere alcune strade praticabili già oggi, possibili prospettive di lavoro e di impegno da parte delle istituzioni internazionali, ma anche da parte delle istituzioni ecclesiali, con particolare riferimento alla Chiesa universale e alla specifica realtà Caritas, dei gruppi e dei singoli cristiani.
Il primo capitolo approfondisce il ruolo dell’Organizzazione delle nazioni unite (Onu) nel mantenimento della pace, analizza gli strumenti a sua disposizione, e suggerisce possibili riforme che renderebbero l’azione dell’Onu più efficace.
Uno degli strumenti di prevenzione del conflitto approfonditi nel capitolo è la Corte permanente di arbitrato internazionale. Si tratta di un meccanismo globale per risolvere le controversie internazionali in modo pacifico: un elenco di persone designate dagli Stati firmatari della Corte stessa, dal quale le parti in conflitto possono scegliere un «arbitro» che emetta una sentenza (o lodo) per risolvere il dissidio. La decisione dell’arbitro è vincolante.
Questa istituzione non è un vero e proprio tribunale, come è il caso della Corte internazionale di giustizia che è una struttura precostituita.
In caso di conflitto, le parti in causa possono scegliere l’arbitrato, costituendolo in quel momento.
Il ricorso all’arbitrato potrebbe risolvere molti conflitti prima che sfocino nella violenza, soprattutto nel caso i contendenti siano unità statali riconosciute dalle Nazioni Unite.
Ciò non può invece avvenire quando le entità contrapposte non siano di carattere statale, come è il caso di gruppi armati rivoluzionari o forze paramilitari.
Purtroppo, il ricorso all’arbitrato non è così frequente come si potrebbe sperare, e il più delle volte è stato utilizzato per risolvere questioni di carattere commerciale.
Si possono tuttavia citare vari casi nei quali il ricorso all’arbitrato ha risolto dispute interstatali che sarebbero potute sfociare in situazioni di conflitto armato.
Uno di questi è la disputa tra Eritrea e Yemen che nel 1998-’99 si contendevano la sovranità su un gruppo di isole nel Mar Rosso. L’arbitrato contribuì a risolvere una disputa che aveva causato scontri armati tra le due nazioni. La decisione definitiva stabilì un confine e prevenne l’escalation del conflitto.
Un altro caso è quello che ha coinvolto nel 2014 Bangladesh e India per la delimitazione dei confini marittimi nella Baia del Bengala. L’arbitrato pose fine a una controversia di lunga data e prevenne tensioni che avrebbero potuto portare a un confronto militare. Entrambe le parti hanno accettato la decisione, migliorando le relazioni.

W.N.

A woman herding cattle looks up as a UN Plane lands in Baga Sola in Chad on May 11, 2022.

Laudato si’, vicinanza, progetti

Data la forte connessione tra guerra e ambiente, un capitolo della terza parte del rapporto Caritas studia ciò che ha detto il magistero pontificio sul tema, cruciale per i conflitti odierni, della «casa comune», con particolare attenzione all’enciclica firmata da papa Francesco nel 2015, la «Laudato si’».

La pubblicazione dell’enciclica ha indubbiamente esercitato sulla Chiesa stessa una grande influenza a diversi livelli. Nonostante il suo recepimento non sia stato – e non sia ancora – lineare e privo di ostacoli, la «Laudato si’» ha generato entusiasmo e attivismo, e una vasta gamma di iniziative ecclesiali che proprio al titolo dell’enciclica si richiamano.

Ma il messaggio del Papa ha avuto una eco forse ancora più ampia al di fuori della Chiesa cattolica: ha favorito il dialogo con altre Chiese cristiane e altre religioni, e ha suscitato un ampio dibattito civile, politico e istituzionale.

L’idea di fondo della «Laudato si’» è che la Parola di Dio e l’antropologia cristiana propongono una concezione della persona umana che parla (e offre una prospettiva di senso) alle donne e agli uomini del nostro tempo. Un’idea di persona umana che porta in sé, come centro costitutivo, la pace, a condizione che venga elaborata alla luce di quello che il nostro tempo ci dice; attraverso i dati della scienza e un dialogo aperto alle culture contemporanee.

Hasan Maqbol Afif, Yemeni displaced trader holds h…inside his shop in Tuban IDP camp, Lahj, Yemen.1 SAMI AL-ANSI

Chiesa italiana

Un altro capitolo del rapporto, curato dal Servizio per gli interventi caritativi per lo sviluppo dei popoli della Cei, presenta, invece, possibili percorsi di riconciliazione, alla luce dei quattro pilastri dell’enciclica «Pacem in terris» firmata nel 1963 da papa Giovanni XXIII – verità, giustizia, carità e libertà -, e a partire da esperienze sostenute dalla Chiesa italiana.

Questa, attraverso fondi che tanti contribuenti continuano a destinare all’8xmille, dal 1991 ha accompagnato in tutto il mondo più di 18mila progetti, con oltre 2,5 miliardi di euro.

Si tratta di gocce in un mare di bisogni, piccole luci che si accendono, anche nelle situazioni più difficili e spronano tutti a non cedere.

Il servizio, il camminare insieme, sono l’anima di una fraternità che edifica riconciliazione e la pace, anche dal basso.

La Caritas nei conflitti

Dal novembre 2018 al 31 ottobre 2024, la Cei, attraverso lo stesso Servizio, ha finanziato 1.351 progetti in 28 Paesi interessati da conflitti ad alta o estrema gravità, per un finanziamento totale di 243,98 milioni di euro.

Sul totale dei 2.321 progetti complessivi finanziati in quegli anni, 2018-2024, quindi, oltre la metà (58,2%) ha riguardato Paesi in guerra (57,6% dei fondi erogati): 473 in Africa (con un finanziamento complessivo di 103,3 milioni di euro); 435 in Asia e Oceania (71,4); 417 in America (59,8); 23 in Medio Oriente (9); 3 in Europa (307mila euro).

W.N.

Hanno firmato il dossier

Walter Nanni
Sociologo, ricercatore, per anni consulente per enti locali e organizzazioni non profit in materia di ricerca, formazione e progettazione sociale, attualmente responsabile del Servizio studi e ricerche di Caritas italiana. Esperto sui temi della povertà e dell’esclusione sociale, è curatore del Rapporto annuale sulla povertà di Caritas italiana e dell’edizione italiana del Cares report di Caritas Europa. È curatore del Rapporto sui conflitti dimenticati sin dalla prima edizione del 2001.

Luca Lorusso (a cura di)
Giornalista, redattore di MC.

sitografia
Juliet ha solo 18 anni, ma si occupa già di quattro bambini, tra cui i suoi gemelli. È fuggita dalla guerra in Sud Sudan e ha trovato rifugio in Uganda, dove frequenta corsi sostenuti dai fondi umanitari dell’UE. Ha imparato a leggere e scrivere e continua a lavorare sodo per diventare infermiera in futuro. 13 marzo 2020 – EU Civil Protection and Humanitarian Aid_flickr



Ucraina. Ritorno a Kharkiv

Padre Luca Bovio, missionario della Consolata italiano in Polonia, da tre anni compie viaggi di solidarietà in Ucraina.
Ci è tornato tra il 3 e il 7 gennaio 2025 per raggiungere Kharkiv, città a pochi cilometri dal confine russo, e portare medicinali e altri aiuti alla popolazione provata dalla guerra.

3 gennaio – Sloviansk

Oggi partiamo e ci dirigiamo a Sudest nella regione del Donbass precisamente nella città di Sloviansk. Qui ad attenderci c’è don Giulio che abita presso l’unica parrocchia latino cattolica dedicata ai SS. Cirillo e Metodio.
Don Giulio ha creato attorno alla parrocchia un centro di accoglienza per i soldati e i volontari. I militari che tornano dal vicino fronte qui possono trovare riposo e alcuni servizi come la lavanderia. Possono anche rilassarsi facendo una sauna e gustando buone cene preparate per loro. Anche i volontari trovano un luogo per fermarsi e organizzare meglio gli aiuti sul territorio.
Don Giulio ci porta in macchina per le città e i villaggi intorno: è, infatti, un cappellano militare e ha tutti i permessi per muoversi in queste zone.
Visitiamo Krematorsk e altri villaggi. Ci racconta che l’uso di tecnologie e di droni è aumentato considerevolmente dall’inizio della guerra. Nella cappella della parrocchia, ai piedi della statua di San Michele Arcangelo, vediamo un drone russo lasciato dai soldati ucraini come ringraziamento al Signore per le loro vite salvate. Quel piccolo drone, infatti, trasportava sino a due chilogrammi di esplosivo che, miracolosamente, non è esploso sopra di loro.

4 gennaio – Nowy Korotycz

Visitiamo la comunità delle suore di Don Orione a Nowy Korotycz vicino a Kharkiv. Qui le suore missionarie accolgono bambini orfani o accompagnati dalle loro mamme.
Nelle tre case della comunità sono distribuite quasi 50 persone. I bambini hanno diverse età: dai neonati di pochi mesi sino all’età scolare. In questo luogo trovano rifugio e le condizioni necessarie per vivere.
Le loro storie sono varie e spesso molto tristi, anche se non per questo alcuni di loro perdono il sorriso.
I loro papà possono essere a combattere. Di alcuni di loro si sono perse le tracce.
Le storie di alcune famiglie sono segnate dal problema dell’alcolismo, molto diffuso qui.
Le suore con l’aiuto di personale e di volontari, non solo garantiscono loro i servizi, ma riescono a trasmettere quel calore e quell’amore umano così importante per la crescita di ognuno.
A loro consegniamo dei lavori di lana fatti a maglia a mano dalla signora Laura, una pensionata di Milano che, avendo molto tempo libero, si impegna a realizzare e poi a donare.
Lasciamo anche un’offerta raccolta da alcune giovani famiglie che vivono in Polonia e in Svizzera. Questa serve alle suore per organizzare una vacanza per tutti gli ospiti della loro comunità.

4 gennaio – Siruako

Nei pressi di Kharkiv, a Siruako, visitiamo il convento delle suore Carmelitane di clausura. Qui incontriamo le tre sorelle che vi vivono. Sono la madre Suor Mariola, di origine polacca, e le suore Pia e Ludmila, di origine ucraina. Le altre suore che qui abitavano, oggi si trovano per motivi di sicurezza in Polonia, pronte a ritornare quando la guerra sarà finita.
L’incontro con le monache, pur essendo breve, è molto gioioso, una gioia che nasce dalla loro totale e incondizionata appartenenza a Cristo, una gioia che è di grande aiuto per coloro che sono gravati dalla sofferenza della guerra.
Le ringraziamo per il prezioso aiuto che offrono attraverso la preghiera e il loro essere sempre disponibili all’incontro e all’ascolto per chiunque bussa alla loro porta.
Il loro è uno dei pochi i conventi contemplativi esistenti in Ucraina, e per questo è ancora più prezioso.

4 gennaio – Tsupiwka

Il villaggio di Tsupiwka dista da Kharkiv 40 km circa, e pochi chilometri dal confine con la Russia. Questo villaggio occupato dai russi e poi liberato, prima della guerra contava circa mille abitanti. Oggi ne sono rimasti circa sessanta.
Le condizioni di vita sono difficili. Il coprifuoco inizia alle 17.00 e termina alle 9.00 del mattino. Solo per poche ore si può uscire dalle proprie case.
Molte abitazioni sono visibilmente danneggiate,così come la scuola e la chiesa, e spesso si sentono i vicini bombardamenti.
Portiamo in questo luogo un carico di aiuti arrivato dall’Italia. Ci accolgono alcune persone nella casa parrocchiale riscaldata da una stufa. Qui il riscaldamento è prevalentemente a legna, e utilizzato soltanto nelle ore notturne. Durante il giorno il fumo che esce dal camino può diventare un segno della presenza di persone, quindi indicare ai russi un possibile bersaglio.
Un solo piccolo negozio di alimentari è aperto. Il maggiore aiuto viene portato con le macchine dalla cattedrale. Gli abitanti, molto cordiali, ci raccontano che uno dei disagi maggiori è quello della mancanza di trasporti verso la città. Lungo la strada non asfaltata e piena di buche, viaggiano le auto militari e le macchine che portano gli aiuti umanitari.

5 gennaio – Kharkiv

La città di Kharkiv, prima dell’inizio della guerra, contava più di 2 milioni di abitanti. Oggi la popolazione si è dimezzata. Di questa, circa mezzo milione di persone sono abitanti locali. L’altro mezzo milionè è composto da persone giunte dalle zone del fronte, costrette a lasciare i propri villaggi.
Le tre linee della metropolitana sono attive e completamente gratuite, come tutti i mezzi di trasporto pubblici della città. Le stazioni della metropolitana diventano spesso anche luoghi di rifugio durante gli allarmi e i bombardamenti. In alcune stazioni sono allestite delle scuole per bambini.
A pochi giorni dal Natale ortodosso, che si celebra il 7 di gennaio, e dalla festa del battesimo di Gesù, è tradizione immergersi in vasche di acqua gelida, oppure scavate nel ghiaccio dei laghi. Questa immersione vuole simbolicamente ricordare la purificazione che si attua nel battesimo.

5 gennaio – Consegna delle medicine

Siamo ospiti della curia della diocesi di Kharkiv. Qui vive un gruppo di sacerdoti, tra cui padre Michele che è cappellano militare e svolge il suo servizio presso il grande ospedale militare della città che serve tutta la regione orientale del Paese.
Padre Michele ci racconta che vengono ricoverati mediamente 30 soldati al giorno provenienti dal fronte, per un totale di circa 1.000 ricoveri mensili.
Questi numeri non tengono presente il servizio che i tanti ospedali da campo svolgono presso il fronte.
Con il suo aiuto riusciamo a consegnare un buon numero di scatoloni di preparati rigenerativi da usare dopo le operazioni. Parte di essi sono distribuiti ai soldati, altri consegnati all’ospedale oncologico della città. Altri scatoloni di medicinali specifici li spediamo per posta ad altri ospedali del Paese.

6 gennaio – Concerto dei canti di Natale nella Cattedrale di Kharkiv.

Per la festa dell’Epifania è stato organizzato per la prima volta un concerto dei canti natalizi nella cattedrale di Kharkiv, con la partecipazione di diversi gruppi delle Chiese latino cattolica, greco cattolica e ortodossa.

6 gennaio – Sumy

Visitiamo don Andrea, il parroco di Sumy. Questa è una città di circa trecentomila abitanti posta a poche decine di chilometri dal confine con la Russia. Da questo confine, l’esercito ucraino la scorsa estate è riuscito a occupare una parte del territorio Russo. Tutta questa zona è fortemente militarizzata.
Al parroco lasciamo degli aiuti umanitari per alcune famiglie locali.
Incontriamo anche padre Romualdo, un francescano che vive a Konotop. Questa comunità è stata aiutata in passato dalla nostra fondazione. L’incontro di oggi non previsto è stata una piacevole occasione per conoscersi e continuare in futuro la collaborazione.

Luca Bovio


Per rileggere tutti i racconti dei viaggi di padre Luca Bovio in Ucraina:




Ucraina. Faccia a faccia con la guerra


30 aprile-5 maggio. Approfittando delle feste nazionali polacche, con don Leszek Krzyża, direttore dell’ufficio di aiuto per le chiese dell’Est presso la conferenza episcopale polacca, e di Rika Itozawa, ci mettiamo di nuovo in macchina per visitare alcune città al Sud dell’Ucraina e portare aiuti. Il nostro viaggio ci porta da Varsavia a Kiev e poi Odessa, Mikolajow e Cherson, con ritorno a Kiew e quindi a Varsavia. Dopo esserci fermati a Kiev per una sola notte, ci dirigiamo verso Odessa.

Odessa, città storica e strategica

foto 1

Ritorniamo in questa bella città costruita sul Mar Nero dopo circa un anno per una breve visita. Odessa oltre a essere una città storica e artisticamente ricca, è soprattutto il luogo da cui partono decine di navi che trasportano in tutto il mondo i raccolti di frumento e mais del Paese (foto 1). Per questo motivo strategico è una città presa di mira dall’esercito russo (foto 2). Nelle ultime settimane gli attacchi provenienti dalla vicina Crimea o dalle navi russe sono aumentati.

foto 2

Ci incontriamo con il cancelliere della diocesi, don Cristoforo. Ci racconta che gli aiuti sono diminuiti del 60% dall’inizio della guerra.

Mentre conversiamo, seduti in un ristorante tartaro accanto alla Cattedrale, le sirene iniziano a suonare. Non c’è alcuna reazione tra i clienti e i passanti. Questo può sorprendere, tuttavia occorre ricordare che da oltre due anni le sirene suonano quotidianamente. Dopo pochi minuti, si spengono.

Vediamo da un punto panoramico la città e il porto con i grandi silos. Ci sono almeno tre grandi navi nelle vicinanze. Ci raccontano che attualmente gli ucraini hanno un corridoio che permette alle imbarcazioni di dirigersi verso Istanbul e da lì proseguire per il canale di Suez.

Andiamo brevemente sulla spiaggia in una zona residenziale, una delle poche accessibili, e vediamo una casa, chiamata il castello di Potter a motivo della sua somiglianza con il castello del famoso film, con il tetto distrutto. Pochi giorni fa un missile dal mare ha colpito l’edificio causando delle vittime (foto 3 e 4).

foto 3

foto 4

foto 5

 

 

La chiesa distrutta di Koszeliwka

Prima di sera ci rimettiamo in macchina per dirigerci verso la vicina Mykolaïv dove abita don Alessandro, presso il Santuario di san Giuseppe. Dopo esserci riposati, al mattino visitiamo il villaggio di Koszeliwka, a distanza di circa un anno dall’ultima volta. La chiesa in questo villaggio è stata distrutta e oggi rimangono solo le macerie (foto 5). Da poco don Alessandro ha acquistato due container dal porto di Odessa e li ha posti nei pressi della chiesa distrutta. Un container serve come cappella, l’altro come centro medico.

foto 6

Il progetto per il futuro è quello di ricostruire la chiesa accanto a quella precedente, lasciando le rovine a ricordo. Anche le case duramente colpite iniziano a essere ricostituite dalle famiglie che lentamente provano a ritornare (Foto 6).

Cherson, sulla linea dei combattimenti

Nel pomeriggio ci viene a prendere, dalla vicina Cherson, don Massimo, il parroco, e ci guida attraverso i posti di blocco dei soldati fino alla sua parrocchia che si trova in prima linea in città.

Le nuove procedure impongono a noi stranieri di firmare una dichiarazione di responsabilità per poter entrare. La parrocchia del Sacro cuore di Gesù è l’unica romano-cattolica della città, e si trova vicina al fiume Dnepr in una zona abbandonata quasi da tutti. Se Cherson contava circa 300mila abitanti prima dell’invasione russa, oggi si stima abbia una popolazione di soli 20mila.

foto 7

È la terza volta che visitiamo questo luogo e, nonostante il lungo tempo trascorso, non si vedono cambiamenti. Le strade sono deserte e continui colpi, rompono il silenzio che qui avvolge tutto.

Il fiume Dnepr, in questo momento, è la linea di confine tra i due eserciti che occupano le rispettive rive: a Est i russi, a Ovest gli ucraini che si scambiano colpi giorno e notte in tutta la regione (foto 7).

foto 8

La città è fortemente segnata da questa situazione. Anche la parrocchia, il primo sabato di quaresima, è stata colpita per la seconda volta: quando, nel primo pomeriggio, un razzo è finito ai piedi della statua della Madonna che si trova davanti alla chiesa (foto 8).

Come la prima volta, quando un razzo entrò dal tetto della chiesa, anche questa volta non ci è stata l’esplosione. Le schegge dell’impatto hanno colpito la facciata della chiesa senza ferire nessuno nelle vicinanze.

Dopo qualche settimana, i soldati hanno messo in sicurezza il razzo che usciva dal terreno. Don Massimo vive qui con il vicario don Sergio e un aiutante, anche lui di nome Sergio. Senza nessuna costrizione, hanno scelto di restare per poter essere un segno di speranza non solo per le poche famiglie che qui sono rimaste ma anche per i tanti villaggi della regione che quotidianamente visitano portando aiuti, amministrando il sacramento della confessione e portando la santa comunione.

L’ospedale di Bilozerka

foto 9

La mattina successiva visitiamo Bilozerka, un villaggio a Sud lungo il fiume. Arriviamo nel piccolo ospedale che serve tutta la zona. Ci dà il benvenuto la giovane dottoressa chirurga Natalia che qui lavora (foto 9). Mentre ci mostra il primo piano di questo semplice edificio, ci racconta che, a motivo delle continue esplosioni, gli ammalati sono stati trasferiti dal primo piano al piano terreno.

foto 10

Tutte le finestre delle camere che vediamo sono state danneggiate dagli scoppi. L’unica attività rimasta al primo piano è quella della stanza operatoria che visitiamo notando i sacchi di sabbia a protezione dei vetri delle due stanze (foto 10).

La dottoressa Natalia ci racconta che per molti giorni l’ascensore è stata fuori servizio. Così le infermiere dovevano scendere le scale portando il paziente sdraiato sul letto. Oggi per fortuna l’ascensore è tornato in funzione. Raccontiamo che i prossimi giorni riceveremo dei farmaci dall’Italia e stabiliamo con la dottoressa quali sono quelli più necessari da far arrivare.

foto 11

Nello stesso villaggio incontriamo il signor Władek, 94 anni, di origini polacche. Ci racconta la sua storia e manda anche un video di saluti ai suoi connazionali (foto 11).

foto 12

Poi don Massimo ci accompagna dalla signora Lena che è paralizzata a letto da ben 29 anni (foto 12). Ci sorprende la sua vitalità e la sua energia. È molto contenta di accoglierci nella sua casa insieme al marito. Ci racconta che i due figli con le loro famiglie sono riusciti a scappare dal villaggio prima che venisse occupato dai soldati russi per alcuni mesi. Oggi ritornano spesso a visitare i genitori, ma le piccole nipoti hanno paura delle esplosioni che qui si sentono di continuo. Per questo le visite sono sempre brevi.

Ci raccontano che il tempo dell’occupazione è stato quello più difficile: i soldati passavo di casa in casa. Sono stati anche qui. C’era sempre paura, soprattutto quando erano visibilmente ubriachi.

Ci colpisce la vitalità del racconto di questa donna, che nonostante viva paralizzata a letto, nel mezzo di una guerra, trasmette la forza di vivere e un coraggio non comune. Spesso sorride e ha un timbro di voce forte e sicuro. Usciamo da questa casa edificati, e ringraziamo il Signore per questi esempi che ci pone di fronte.

Charkiv e le sue ferite

foto 13

La seconda parte della giornata la trascorriamo ritornando a Charkiv, dove siamo stati diverse volte nei mesi scorsi, per visitare alcuni quartieri della città. Passeggiamo per il parco giochi dei bambini completamente abbandonato. Forte è il profumo delle acacie e dei castagni in fiore che ci abbraccia. Per terra si trovano i resti dei razzi esplosi.

Incontriamo alcune donne che ci invitano a seguirle. Ci mostrano la cantina in cui vivono nei sotterranei del loro palazzo distrutto dopo tre giorni incessanti di bombardamenti.

foto 14

Ci fanno vedere i loro appartamenti dal cortile: i balconi sono devastati dalle esplosioni; penzolano i serramenti delle porte e delle finestre e i condizionatori appesi ai fili (foto 13-14).

Una improvvisa esplosione non lontana interrompe la nostra visita.

foto 15

Ci rechiamo per brevemente a Nord della città per vedere i resti del ponte Antonov, uno dei pochi che collegavano le due sponde. Il ponte è stato fatto saltare dai russi durante l’abbandono della città (foto 15).

 

foto 16

Don Massimo scrive una lettera di ringraziamento ai benefattori, molti sono tra voi lettori di Missioni Consolata. Con parte delle offerte raccolte abbiamo potuto finanziare il trasporto di aiuti giunti fino a qui (Foto 16).

I due giorni successivi sono impegnati per il ritorno a Varsavia passando da Kiev.

Gli aiuti che diminuiscono sono sempre più necessari. Per questo occorre non stancarsi e continuare a venire di persona per incontrare abitanti di questo Paese, ascoltare le loro storie, condividere del tempo e incoraggiare i confratelli sacerdoti, pregare con loro.

Luca Bovio

Grazie da Cherson

A nome dei parrocchiani della Parrocchia del Sacratissimo Cuore di Gesù a Cherson, ringrazio i benefattori della Rivista Missioni Consolata per aver finanziato il costo del trasporto di aiuti umanitari.
Grazie al vostro aiuto e stato possibile ricevere materiale per pulizie e di igiene personale distribuito per i più bisognosi della città e dei villaggi.
Grazie per laiuto e la generosità. Un ricordo nella preghiera

don Massimo Padlewski
parroco

 

 


I viaggi precedenti su MC

 

 




A Charkiv per essere vicini


Carissimi amici,
all’inizio del nuovo anno abbiamo fatto il primo viaggio del 2024, il decimo da quando è scoppiata la guerra in Ucraina. Il tempo trascorre velocemente e purtroppo possiamo dire che la situazione non migliora, anzi per alcuni aspetti è decisamente peggiorata. Negli ultimi mesi il conflitto in Palestina ha spostato l’interesse dei media su quel luogo con le relative conseguenze. Si constata anche una comprensibile stanchezza nelle persone nel sostenere per un così lungo tempo una crisi di cui ancora non se ne vede l’uscita. Anche la relazione tra Ucraina e Polonia ha visto ultimamente momenti difficili quando, ad esempio, alcune categorie hanno protestato per motivi collaterali alla guerra, come hanno fatto i trasportatori polacchi che hanno bloccato per settimane le frontiere per protestare per i mancati guadagni che sono andati a vantaggio dei loro colleghi ucraini che beneficiano di sgravi derivanti dal conflitto in atto.

Purtroppo, il conflitto continua senza sconti. Lungo gli oltre 1.000 km del fronte, stime non ufficiali raccolte sul posto, parlano di circa 200- 300 morti al giorno tra i soldati ucraini. Da parte russa il numero va almeno raddoppiato. Occorre anche ricordare che siamo in pieno inverno con tutti i disagi che questo comporta.

11-12 gennaio 2024: Warszawa –Kiev-Charkiv

Il viaggio per arrivare a Charkiv ci impegna due giorni, il tempo necessario  per coprire i 1300 km dopo esserci fermati per riposare a Kiev.

La prima cosa che facciamo appena arrivati è quella di cercare un autolavaggio per pulire la macchina piena di neve e di sale a causa delle condizioni stradali che ci hanno accompagnato per tutto il viaggio. L’auto era talmente sporca che non si poteva nemmeno leggere la targa. La temperatura è di 17 gradi sottozero con un vento che rende ancora più fredda la temperatura percepita.

Troviamo Don Wojciech, il direttore della Caritas locale, chiuso nella sua camera a motivo di un brutto raffreddore che lo ha colpito e che non gli permette di uscire.

La notte trascorre abbastanza tranquilla. Solo qualche sirena e il volo di alcuni droni (usati sempre più spesso nel conflitto) sopra la città, tuttavia senza conseguenze.

La mattina incontriamo un gruppo di bambini presso il centro Caritas dove aloggiamo, a fianco della cattedrale della città. Abbiamo con noi degli zaini scolastici pieni di pennarelli e quaderni preparati dai bambini della scuola elementare di Valmorea (Como). I bambini ucraini aprono con gioia e sorpresa i loro doni, trovando anche delle letterine scritte dall’Italia: coraggio, vi siamo vicino, presto passerà … sono le frasi più ricorrenti che traduciamo. I bambini ucraini si mettono subito al lavoro per rispondere ai loro coetanei e registriamo anche un video per mandare saluti e ringraziamenti.

I bambini ucraini aprono con gioia e sorpresa i loro doni trovando anche delle letterine scritte dai bambini della scuola elementare di Valmorea

Con l’aiuto di un volontario siamo accompagnati per la città e nei dintorni per vedere gli ultimi luoghi colpiti. Tra questi ci sono hotel, case e scuole colpiti due giorni prima del nostro arrivo, obbiettivi tutt’altro che militari… (foto 5,6,7 nello slideshow)

La città di Charkiv, ricordiamo che la seconda per grandezza del paese a poche decine di chilometri dal confine ad est con la Russia, si sta lentamente ripopolando. Dopo essersi svuotata con lo scoppio della guerra, progressivamente le persone stanno ritornando. In questo tempo si stanno aggiungendo molti che vengono volontariamente o forzatamente portati in città dai villaggi della regione vicini al fronte, per motivi di sicurezza o semplicemente per la mancanza di condizione minime per la sopravvivenza durante l’inverno. (Foto 8,9,10 nello slideshow)

13 gennaio 2024: Charkiv-Hrakove-Charkiv

Nel pomeriggio siamo raggiunti da sr. Camilla, una suora polacca delle Piccole Missionarie della Carità fondate da don Orione. Sr. Camilla insieme alla sua comunità è molto impegnata in diversi progetti. Ci accompagna a vederne uno di questi a Hrakove un piccolo villaggio tra Charchiw e Izum.

Il villaggio di Hrakove, prima occupato e poi liberato, si presenta mostrando tutte le sue ferite. Le case sono quasi tutte semidistrutte così come l’asilo e le costruzioni attorno. Neanche la chiesa ortodossa è stata risparmiata dagli attacchi. Dappertutto ci sono cartelli e nastri che avvertono di tenere la distanza a motivo della presenza di mine nel terreno.  (Foto 11,12,13,14,15,16 nello slideshow)

La strada completamente ghiacciata finisce di fronte alla casa dove lavorano Nina e suo marito Alesandro. Nina è una giovane donna di Charkiw che ha sposato Alessandro nativo di questo villaggio. Sono tra le 200 persone rimaste ancora qui oggi. Prima della guerra se ne contavano 800. Nina avendo lavorato in una fabbrica di cucito ha imparato bene il lavoro. Ora con il nostro aiuto ha ricevuto delle macchine da cucire dalla Polonia con delle stoffe e del materiale per lavorare. La sua idea è quella di provare a iniziare una sua produzione per poter immaginare e costruire un futuro, non solo per se stessa, ma anche per alcune donne del villaggio a cui insegna il mestiere di sarte. Per il momento la produzione è inziale e viene fatta solo su ordinazione. Lo stesso vescovo locale, Pavlo Honcharuk, ha fatto degli ordini, così anche sr. Camilla che, disponendo di alcune offerte, fa preparare abiti da distribuire poi in altri villaggi a coloro che non si possono permettere gli acquisti. (Foto 17,18,19 nello slideshow)

L’iniziativa è davvero interessante e unica in una situazione così ancora fragile e ancora aperta a ogni possibile scenario. Dopo una lunga chiacchierata fatta a fianco della stufa e bevendo un buon tè caldo, facciamo ritorno in città.

Nina nel suo laboratorio di cucito con alcune donne del villaggio a cui insegna il cucire a macchina.

14 gennaio 2024: Charkiv

La domenica mattina salutiamo il vescovo Pavlo (Paolo) e i sacerdoti che ci hanno accolto per dirigerci verso la comunità di sr. Camilla. Lì lasciamo gli aiuti che abbiamo portato. Tra questi un generatore di corrente, materiale scolastico raccolto in Italia da Eskenosen (associazione di famiglia di Como) e abiti invernali. Presso la casa delle suore vivono delle giovani madri con i loro figli. Le incontriamo distribuendo a loro dei pacchi regalo preparati dai bambini del catechismo di Civiglio e Brunate (Como). Anche loro contraccambiano i doni ricevuti con dei tradizionali biscotti alla cannella che hanno preparato e che porteremo in Italia.

Celebriamo insieme la Messa domenicale e, dopo un veloce pasto, ritorniamo a Kiev.

15 gennaio 2024: Kiev-Varsavia

Di buon mattino ci rimettiamo in viaggio verso Varsavia. Strada facendo troviamo improvvisamente in un corteo funebre. Una lunga fila di auto accompagna la salma di un soldato, avvolta dalle bandiere. Durante il lungo il tragitto notiamo che tutti mezzi che viaggiano dalla parte opposta si fermano in segno di rispetto. Gli autisti scendono dalle macchine, si tolgono il cappello e spesso si inginocchiano nella neve e nel fango per rendere onore a coloro che hanno dato la loro vita per garantire la libertà al paese. Durante il tragitto quando attraversiamo un paese, anche i bambini delle scuole e dell’asilo escono per salutare la salma. I funerali celebrati sono tanti. Foto 20 video 5-6

In serata in mezzo a una bufera di neve che da tempo non si vedeva facciamo rientro a Varsavia.

Luca Bovio
(missionario della Consolata in Polonia)




Ucraina nel cuore dell’estate


Padre Luca Bovio ha compiuto il suo settimo viaggio in Ucraina tra il 23 e il 28 luglio 2023. Partito da Kiełpin, in Polonia, ha toccato le città di Lutsk, Lubieszów, Kiev e Cherson (Fedorivka). Ecco la cronaca giorno per giorno.

Lutsk

23/07/2023. Questo viaggio si svolge nel cuore dell’estate e inizia con una prima tappa nella città di Lutsk, la prima che si incontra entrando dalla frontiera più a nord dalla Polonia.

Questa città, come del resto la regione chiamata Volyn, è la zona più lontana dal fronte. Per questo motivo più di 100mila rifugiati hanno trovato accoglienza qui.

I problemi non mancano, considerando che la zona è economicamente povera. Nella regione si trovano decine di villaggi medio piccoli abitati prevalentemente da contadini.

In questo territorio, fortemente influenzato dalla vicina Polonia, sono avvenuti scontri molto crudeli alla fine delle Seconda guerra mondiale.

La presenza dei cristiani cattolici è bassa. Più numerosi sono gli ortodossi. Quasi ogni nostro viaggio è iniziato da qui perché e la strada più diretta per entrare nel paese arrivando dalla Polonia.

Andiamo a conoscere il vescovo, mons. Vitalii Skomarovs’kyj. Qui la chiesa locale è impegnata nell’aiutare i rifugiati.

Lubieszów

24/07/2023. Di buon mattino ci mettiamo in viaggio insieme a don Paolo, il vicario del vescovo, in direzione nord, verso Lubieszów, a 130 km da Lutsk.

Lubieszow è una cittadina di circa 10mila abitanti posta a soli venti km dal confine con la Bielorussia. Lo scopo di questo breve passaggio è quello di visitare una chiesa e il convento adiacente che il vescovo vorrebbe dare al nostro Istituto, per una possibile futura presenza di lavoro missionario.

La chiesa dedicata ai santi Cirillo e Metodio fu costruita dai Cappuccini nel XVIII secolo. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale e l’inizio dell’occupazione russa, i frati dovettero abbandonare tutto e il convento divenne la stazione della polizia locale. La chiesa una palestra.

Dopo la caduta del muro di Berlino e il ritorno della democrazia in Ucraina, nel 1992, il complesso fu restituito alla diocesi locale. La comunità cattolica è oggi formata da circa trenta fedeli che la domenica partecipano alla santa Messa presieduta da un parroco polacco che vive a 60 km da qui.

L’intero edificio ha bisogno di importanti lavori di manutenzione, già iniziati con il cambio del tetto. Vedremo se in futuro il discernimento che faremo con i superiori ci porterà forse un giorno a lavorare in questo luogo.

Dopo questa breve visita, ci dirigiamo verso Kiev, che raggiungiamo con circa sei ore di viaggio per alloggiare in Nunziatura e riprendere il viaggio il giorno successivo in direzione di Cherson.

La sera faccio una passeggiata nel centro della città per sgranchire le gambe dopo le lunghe ore di viaggio e per gustare le bellissime chiese e palazzi illuminati.

Cherson

25/07/2023. La distanza che separa Kiev da Cherson è di quasi 600 km passando per la strada più diretta e sicura. Il GPS la mostra chiusa, ma in realtà è percorribile. Il viaggio ci regala dei paesaggi suggestivi. La giornata calda e soleggiata fa brillare intensamente le sconfinate distese di coltivazioni di girasoli che spesso incontriamo.

Sono abbastanza numerosi i grandi camion che viaggiano in direzione sud carichi di cereali e frumento per essere imbarcati nelle gigantesche navi cargo nel grande porto di Odessa e, da lì, partire per tutto il mondo.

Purtroppo, i magazzini portuali sono diventati ultimamente obiettivi sensibili e spesso sono stati colpiti causando la perdita di tonnellate di prodotti.

Anche il mancato accordo sul grano contribuisce a far lievitare i prezzi a livello mondiale di queste materie prime così importanti per sfamare tante povere popolazioni nel mondo.

Torniamo a Cherson per la seconda volta dopo essere stati qui a marzo. La situazione non è cambiata. La città, prima occupata e poi liberata, è continuamente sotto tiro, giorno e notte. Il fiume è la linea naturale del confine.

Abbiamo con noi aiuti sanitari. In particolare, abbiamo raccolto pastiglie che disinfettano l’acqua. Il sei giugno a circa 100 km da qui in direzione nord fu fatta saltare la diga sul fiume a Kakhovka. L’esplosione della diga riversò l’acqua del bacino artificiale che travolse e allagò villaggi e città. A Cherson il parroco don Massimo ci indica le pareti delle case con il segno lasciato dall’acqua.

Sui fili della corrente sono rimaste appese delle scarpe trascinate dalla corrente.

Molte case sono state invase dall’acqua e quelle più fragili distrutte, come quella che abbiamo visitato. Il proprietario, che ci mostra ciò che rimane e che prova a salvare, è ospitato in parrocchia.

Cherson è una città disabitata. Prima del conflitto contava circa 300mila abitanti. Oggi si stima che ve ne siano tra i 20 e i 25mila.

Nella zona più lontana dal fiume al mattino ci sono pochi negozi aperti e qualche mercato. Vicino al fiume, dove abitiamo, non si vede quasi nessuno per tutto il giorno. I mezzi pubblici, dove è possibile, svolgono ancora il loro servizio. Accanto a ogni stazione dell’autobus è stato posto un bunker: nel caso di improvvise esplosioni, la gente può così trovare un rifugio.

Già nel primo pomeriggio le strade dell’intera città si svuotano e i mezzi si fermano. Dalle nove di sera alle cinque del mattino c’è il coprifuoco. Durante la notte c’è il divieto di accendere la luce nei piani più alti dei palazzi. Sono tuttavia molto poche le persone che abitano su quei piani ritenuti troppo pericolosi.

26/07/2023. La mattina visitiamo l’ospedale pediatrico della città accompagnati dalla dottoressa responsabile. Ci racconta che prima della guerra qui nascevano annualmente circa 1.500 bambini. Oggi 20, 22 al mese.

Arriviamo poco dopo la nascita di un bambino. Tutte le attività dell’ospedale sono state trasferite al piano terreno.

Il quarto piano è stato colpito da un razzo. Lo visitiamo rapidamente arrivando fino al balcone più alto dell’edificio da cui si vede la città.

Facciamo diverse foto ma ci viene chiesto di non pubblicarle perché c’è il divieto di salire fino lassù.

La sala parto è una semplice stanza con l’occorrente. A fianco un’altra stanza attrezzata dell’essenziale: è la sala operatoria.

Ci affacciamo durante un intervento in corso.

Scendiamo nelle cantine dove si trovano i locali più sicuri. Qui ci sono delle brandine con i sacchi a pelo. Durante gli allarmi questo è il luogo di riparo. A fianco si sta lavorando per organizzare una vera sala operatoria.

All’esterno dell’ospedale vediamo un grande generatore di corrente ancora imballato, arrivato come dono umanitario. La dottoressa ci racconta che sarebbe molto utile, ma purtroppo non ci sono i cavi di collegamento. Ci impegniamo a interessarci della cosa per attivare la macchina.

La parrocchia del Sacro Cuore, dove abitiamo, è uno dei pochi centri di distribuzione di aiuti agli abitanti. Il giorno precedente al nostro arrivo è stata organizzata la distribuzione. Circa mille persone hanno ricevuto cibo.

Questa distribuzione è rischiosa. Ogni assembramento costituisce un potenziale obiettivo. È sufficiente che questa informazione arrivi dalla parte opposta del fiume e si potrebbero avere conseguenze gravi. Per questo motivo il giorno e l’ora della distribuzione non sono mai gli stessi.

In questo momento gli aiuti arrivano abbastanza regolarmente. Senza di essi sarebbe difficile sfamare i cittadini.

Oltre a quella della parrocchia in città è stata aperta anche una mensa organizzata dai Domenicani che, pur non vivendo qui, assicurano il cibo e ciò che occorre per la distribuzione. Ogni giorno vengono preparati mille pasti. Si possono consumare sul posto oppure una rete di volontari li consegna nelle case.

Anche la parrocchia greco cattolica della città, guidata dai padri Basiliani, è impegnata nella distribuzione degli aiuti.

Fedorivka

Nel pomeriggio di questa intensa giornata ci rechiamo in un villaggio fuori città, Fedorivka, a poche decine di chilometri a nord di Cherson.

Fedorivka è uno dei tanti villaggi colpiti dall’inondazione avvenuta a causa della distruzione della diga. Per arrivare qui occorre passare diversi check point dei militari.

Ne vediamo alcuni passare su una macchina. Hanno appena abbattuto un drone, e i resti caduti lontano sono ancora visibili e fumanti nei campi.

Siamo accolti nel villaggio dal responsabile con la sua moglie.

Portiamo un generatore di corrente perché qui gli abitanti hanno mediamente solo due ore di elettricità al giorno, un tempo insufficiente per tenere carichi i telefonini. Il generatore sarà messo a disposizione nella chiesetta del villaggio.

Siamo accompagnati a visitare l’abitato. Ci raccontano che l’acqua dell’inondazione, qui è rimasta per quasi tre settimane, perché il terreno è pianeggiante e quindi non favorisce il deflusso.

Molte case e fienili sono stati trascinati via insieme agli animali. Sacchi di cereali custoditi nei magazzini sono marciti. Chi è rimasto prova ora salvare il salvabile.

In questi villaggi è ancora vietato bere l’acqua dai pozzi a causa dell’inquinamento delle falde.

In tutti i campi attorno al villaggio persiste un cattivo odore di marciume. Per questo si cercano alternative come autopompe (una purtroppo si è guastata), acqua in bottiglia, pastiglie disinfettanti.

Portiamo del cibo a una coppia di anziani. La signora che ci accompagna ci racconta che durante il tempo dell’occupazione nella loro casa furono nascosti sei soldati ucraini in fuga. Quando arrivarono le forze speciali russe che li cercavano, la signora li nascose in un locale e diede loro il rosario dicendo: «Che ci crediate o no, usatelo!». I russi chiesero dei soldati. La signora disse che non li aveva visti e quelli se ne andarono. Allontanatisi i soldati russi, quelli ucraini poterono scappare a piedi fino a Mikolajow.

Tornati in città, trascorriamo la serata in parrocchia dopo aver fatto una breve passeggiata nei dintorni. Il quartiere è deserto e per tutta la notte si intensificano i colpi che spesso ci svegliavano insieme al suono delle sirene.

27-28/07/2023. Il viaggio di ritorno lo facciamo senza difficoltà, coprendo la lunga distanza che ci separa da casa in due giorni. Anche il passaggio della frontiera avviene con poche ore di attesa.

Come dopo ogni viaggio, anche questa volta ritorniamo con tanti ricordi. Abbiamo la consapevolezza che il conflitto sarà ancora lungo e per questo ci sentiamo sfidati, insieme a tante persone vicine a noi, a non stancarci nel portare consolazione e pace.

padre Luca Bovio


Il viaggio in immagini




Viaggio di solidarietà a Kherson e dintorni


La città di Kherson si trova nel sud del paese (foto 1). È costruita interamente sulla sponda occidentale del fiume Dnieper che lì vicino sfocia nel mar Nero. La città e stata occupata all’inizio della guerra alla fine di febbraio del 2022 e liberata l’11 novembre. La liberazione della città purtroppo non ha coinciso con la ritrovata pace. I soldati russi hanno arretrato sulla sponda orientale del fiume e da li costantemente colpiscono la città a poche centinaia di metri, separati soltanto dal fiume.

Foto 1

Qui vive don Massimo, parroco dell’unica parrocchia cattolica della città dedicata al Sacro Cuore, insieme al suo vicario anche lui don Massimo. Lì, con don Leszek Krzyża, direttore dell’ufficio di aiuto per le chiese dell’Est presso la conferenza episcopale polacca, abbiamo incontrati nell’ultimo nostro viaggio avvenuto tra il 17 e il 21 marzo. Don Massimo è giovane, ha solo 36 anni ed è nativo proprio di Kherson, guida la parrocchia nella quale e cresciuto da bambino. Abbiamo deciso di venirlo a trovare perché sappiamo che sono poche le persone che qui vengono, cosa da lui molto apprezzata. Ci diamo appuntamento in macchina fuori dalla città per essere da lui accompagnati. Occorre infatti passare diversi check point per entrare. Nell’ultimo controllo dopo aver mostrato i documenti e l’aiuto umanitario che trasportiamo: generatori di corrente e una stufa a legna, il soldato, indicandoci con un cenno che potevamo proseguire, ci dice in inglese «good luck», buona fortuna. La città di Kherson prima della guerra contava circa 300.000 abitanti, oggi ne ha circa 20.000. Il coprifuoco inizia alle 17.00 col divieto di uscire per le strade, ma in realtà ci spiega don Massimo già dalle 14.00 nessuno si vede più in giro. C’è un silenzio strano, profondo e triste, interrotto soltanto dai colpi sparati a pochi chilometri che risuonano nell’aria (video 2).

 

A distanza di un anno chi vive qui riesce a capire dal rumore chi e stato a sparare. Piu volte siamo tranquillizzati, non vi preoccupate questi sono i nostri.

Non potendo uscire, trascorriamo il pomeriggio e la serata nella casa parrocchiale (foto 3).

Foto 3

Facciamo lunghe chiacchierate alternando temi allegri che ci fanno sorridere a racconti più seri su quanto accade qui. Ci accorgiamo quanto sia importante l’esserci, l’ascoltarci e il guardarci, molto piu prezioso di tanti aiuti materiali che comunque, ringraziando il cielo, non mancano e che sono vitali per le persone che qui vivono (foto 4). In questo luogo anche la distribuzione degli aiuti e problematica. Il problema non è la mancanza di aiuti quanto il fatto che le persone si radunano insieme durante la distribuzione diventando cosi un possibile ed invitante bersaglio. Per questo motivo il giorno e l’ora vengono sempre cambiati. Nonostante la pericolosità e i divieti, alcuni, per essere tra i primi a ricevere gli aiuti, trascorrono la notte all’aperto aspettando.

Foto 4

Don Massimo ci accompagna nel solaio e ci mostra il buco lasciato dal razzo inesploso che è entrato nella soffitta a dicembre e oggi custodito come ricordo dopo essere stato messo in sicurezza lì vicino. Era il 23 dicembre. Le donne stavano preparando la chiesa per il Natale quando improvvisamente il rumore dal tetto. La notizia del “miracolo” aveva fatto velocemente il giro, amplificata dal web. E veramente inspiegabile quello che era accaduto. Tuttavia, la pubblicità fattasi attorno a questo ha preoccupato non poco chi abita qui perché il web e visto anche da coloro che sono dalla parte opposta del fiume…

Foto 5
Foto 5

La notte riusciamo a riposare e al mattino di buon’ora ci mettiamo in macchina per visitare la città. Qualche persona cammina per le strade principali per fare un po’ di spesa. Con sorpresa notiamo che funzionano gli autobus anche se non quelli elettrici perché i cavi sono stati tagliati. Tuttavia, l’impressione è quella di una citta vuota e triste. Andiamo sulla piazza centrale (foto 5) luogo prima di proteste e poi dei festeggiamenti. Il grande edifico del governatore ha sulla sinistra una parte completamente distrutta, centrata da un razzo, le finestre dell’ultimo piano che si affaccia sulla piazza sono tutte saltate e alcune penzolano nel vuoto. La parete laterale e stata centrata e distrutta (video 6).

 

Nel parco della città camminando con attenzione solo sui vialetti cementati colpiti dalle schegge dell’esplosioni (foto 7) ed evitando di calpestare l’erba dei giardini nascondiglio insidioso delle mine sparse dappertutto, ci avvinciamo alla grande torre televisiva che giace sul prato. Sarà lunga oltre 60 metri (video 8). Si avvicina a noi una macchina della polizia attirata forse del fatto che stiamo facendo fotografie, ma dopo pochi secondi prosegue oltre. Dai vialetti raccogliamo alcune schegge lasciate dai razzi, sono di metalli molto affilate e toccandole si può immaginare il danno che provocano lanciate all’impazzata dalla forza dell’esplosione.

Foto 7
Foto 7

 

Facciamo ancora un salto davvero breve fino alla sponda del fiume in una delle tante piazze della città che vi si affacciano. Si vede a poche centinaia di metri la sponda opposta coperta prima dai canneti che galleggiano sull’acqua e poi la terra ferma. Qui inizia la zona occupata (video 9).

 

Per motivi di sicurezza acceleriamo le operazioni, giusto il tempo di fare qualche foto e un breve video per poi tornare alla macchina e dirigersi in parrocchia. Essendo domenica mattina si celebra la Messa coi fedeli. Sono circa 20. Tra questi ci sono 3 bambini molto allegri e sorridenti quasi incuranti del luogo e delle condizioni in cui abitano (foto 10-11). Gli doniamo della cioccolata che apprezzano tanto. Quel giorno e la 4a domenica di quaresima chiamate laetare (gioire). La chiesa invita alla gioia nel cammino quaresimale perché le feste di Pasqua sono vicine. Un invito che anche qui risuona accolto nella fede e nella speranza.

Foto 11

Foto 10

Mikołajów

A poche decine di chilometri in direzione ovest quasi sulla sponda del mar Nero si trova la città di Mikołajów che raggiungiamo la domenica stessa. Qui si trova il Santuario di S. Giuseppe che oggi celebra la festa patronale. La città a differenza di Kherson non è stata occupata anche se porta i segni e le ferite dei tentativi di occupazione.

Dopo la celebrazione solenne, presieduta dal vescovo locale della diocesi di Odessa, a cui hanno partecipato decine di fedeli, ci troviamo coi sacerdoti. Tra loro siedono non solo i cattolici ma anche i greco cattolici e un prete ortodosso della chiesa ucraina. Il clima e piacevole e interessanti sono gli argomenti che scambiamo (foto 12).

Foto 12
Foto 12

È presente anche il «mer», il sindaco della città anche lui cattolico. Nella piazza principale della città si affacciano due grandi palazzi, uno del sindaco e l’atro opposto del governatore della regione. Il palazzo della regione si presenta con un gigantesco buco causato dallo scoppio di un razzo che lo ha centrato (foto 13).

Foto 13
Foto 13

Era le 8.30 di mattina quando avvenne lo scoppio. Per quel giorno era convocata una riunione di ufficio. Il presidente fece ritardo e si scusò mandando un messaggio. Nel frattempo, avvenne l’attacco che causò la morte di oltre 40 persone. Quel ritardo gli salvò la vita. Nel pomeriggio passeggiamo in centro recandoci in quel luogo. Il clima, a differenza di Kherson, è diverso. Sono molte le persone che passeggiano, giovani e bambini corrono con le biciclette in una domenica con le temperature già primaverili. Se non fosse per gli allarmi che di tanto in tanto risuonano, sembrerebbe quasi un ritorno alla normalità.

Fastow

Il giorno successivo sulla strada per Kiev ci fermiamo a Fastow, una cittadina a circa 100 km di distanza. Qui vive una comunità di Domenicani. Sono molto attivi. Lavorano con un gran numero di laici, giovani soprattutto. Ci accoglie padre Marco, ucraino. Dopo aver mangiato nel locale gestito dai giovani della comunità, visitiamo l’asilo e la scuola elementare. Quasi cento bambini provenienti dalle zone del fronte dove si combatte a Est, hanno trovato qui alloggio e l’accesso alla scuola. Le classi sono ben attrezzate e le insegnati garantiscono un ottimo lavoro (video 14).

 

Nel seminterrato sono allestiti tre piccoli locali rifugio. La procedura impone che ad ogni suono di allarme i bambini devo essere qui condotti fino al termine del cessato allarme (video 15). Questo purtroppo spesso accade, come nella giornata odierna e alcuni di essi manifestano un disagio e una sofferenza ogni qualvolta che devono qui scendere.

 

Nel giardino è allestita una tenda da campo sotto la quale ognuno, gratuitamente e in ogni momento, può qui venire e ricevere qualcosa di caldo, scaldato dalla cucina di campo posta all’esterno (video 16). Sul fondo della tenda si trova un gran presepio che dà il nome alla tenda.

Questa comunità e impegnata non solo qui, ma anche organizza viaggi al fronte per raggiungere i villaggi e portare aiuti alle famiglie che ancora là vivono. La sfida, ci racconta padre Marco, e quella di poter ricevere sempre gli aiuti da distribuire, mensilmente circa 200 tonnellate. Ci impegniamo anche noi a organizzare un nuovo trasporto di aiuto che possa qui arrivare (foto 17).

Foto 17
Foto 17

A margine di questo viaggio ci raggiunge la notizia della arrivo del tir che abbiamo spedito alla citta di Zaporoze costantemente sotto attacco. Riceviamo un calso ringraziamento del Vescovo locale (video 18),

 

Ringrazia anche la comunità dei frati cappuccini (foto 19) a Dnieper ai quali abbiamo mandato un altro trasporto contente aiuti e sistemi fotovoltaici che dovrebbero assicura l’energia elettrica.

Foto 19


Preghiamo per la pace, costruiamo la pace.

padre Luca Bovio
23 marzo 2023




Come i Magi, portando doni


Le celebrazioni del Santo Natale avvengono rispettivamente il 25 dicembre per i cattolici e il 7 gennaio per le chiese ortodosse e i greco cattolici. Tra queste due date don Leszek Krzyża ed io siamo stati nuovamente in Ucraina per portare aiuti umanitari e incontrare le comunità.

Dall’Italia sono partiti due grandi tir con destinazione rispettivamente Odessa e Karkhiv per un totale di oltre 35 tonnellate di aiuti, raccolti con un progetto realizzato dall’Associazione Eskenosen di Como, il gruppo SOS emergenza Ucraina Cantú, la Caritas della comunità pastorale San Vincenzo di Cantù, la parrocchia di Rebbio-Como e il sig. Francesco Aiani e alcuni amici di Milano grazie ai quali sono state raccolte tavole di legno per chiudere le finestre degli edifici bombardati, e anche generatori di corrente elettrica, cibo, medicine oltre a una cospicua somma devoluta per acquistare sul posto piccole stufe casalinghe. Noi stessi abbiamo trasportato sulla macchina sei piccoli generatori e scatole di medicinali. Il programma del viaggio è stato creato giorno dopo giorno tenendo conto dei continui combattimenti in alcune zone del paese e rispondendo ai tanti inviti, ma anche ricevendo in diretta garanzie e suggerimenti sulle strade da percorrere. I nostri spostamenti sono stati sempre seguiti dall’Ambasciata italiana a Varsavia così come dalla Nunziatura apostolica in Ucraina.

1° gennaio

Il primo dell’anno arriviamo a Leopoli in serata. Leopoli è una grande città vicina al confine polacco. Qui vivono centinaia di migliaia di profughi provenienti dalle regioni più colpite. Purtroppo, anche qui sono avvenuti bombardamenti soprattutto sulle centrali elettriche della città e provincia. Don Leszek Krzyża, direttore dell’ufficio aiuto alla chiesa nell’Est presso la Conferenza episcopale polacca, con cui viaggio, ha contatti in tutto il paese. Telefoniamo alle Suore Francescane di frate Alberto (Fratelli Albertini e Suore Albertine), una congregazione polacca, per chiedere ospitalità per una notte. La notte trascorre tranquilla.

2 gennaio

Foto 1 – Fratelli Francescani di padre Alberto distribuiscono cibo ai poveri

Al mattino ci raggiunge Rika Itozawa assistente di don Leszek, che era già in Ucraina da qualche giorno in un orfanotrofio visitato nei viaggi precedenti. Prima di lasciare la città le suore ci mostrano il complesso in costruzione che prevede una nuova parrocchia e una casa di accoglienza per giovani madri coi loro bambini. Molte sono le donne che soffrono non solo a motivo della guerra, ma anche per gravi problemi familiari. Qui fra poco potranno trovare conforto e iniziare una nuova tappa di vita. A fianco di questo centro, sempre in città, incontriamo i fratelli della stessa congregazione che quotidianamente distribuiscono cibo ai senza tetto e ai rifugiati (foto 1). Li salutiamo lasciando un’offerta e anche un nuovo tabernacolo comprato in Polonia per la nuova cappella.

Lo stesso giorno il nostro viaggio continua in direzione di Kiev. Raggiungiamo la capitale in serata accolti nella Nunziatura Apostolica. Kiev si trova nel centro del paese ed è il crocevia per tutte le direzioni delle città più importanti. Fino la notte precedente al nostro arrivo a Kiev sono stati lanciati molti razzi e droni, quasi tutti intercettati dalla contraerea. Infatti, la difesa ultimamente è molto migliorata e le percentuali degli abbattimenti sono molto alte. Purtroppo, i detriti non si possono controllare e a volte causano danni. Su uno di questi lanciato la notte di Capodanno c’erano scritti ironicamente gli auguri di buon anno. A sera facciamo un breve giro della città. (foto 2).

3 gennaio – Odessa

Foto 3 – Don Leszek consegna due generatori al cancelliere del vescovo di Odessa (mons. Stanislav Šyrokoradjuk).

La mattina dopo, ristorati e riposati, partiamo per il Sud, destinazione Odessa, che raggiungiamo dopo poche ore di viaggio. La città che si affaccia sul Mar Nero è ricca di storia e di cultura, ed è il porto principale da cui partono gigantesche navi container che trasportano tonnellate di cereali per tutto il mondo. Da quando è scoppiata la guerra queste navi sono rimaste a lungo bloccate nel porto e questo ha innescato una gigantesca crisi con il rialzo dei prezzi in tutto il mondo. La zona del porto e la spiaggia sono minate, non sono accessibili e non si possono fotografare. Odessa deve difendersi dal tentativo di occupazione, vero obiettivo che garantirebbe il totale controllo del traffico marittimo. La nostra visita è breve. Incontriamo il vescovo locale mons. Stanislav Šyrokoradjuk, a cui lasciamo due generatori di corrente e una somma di denaro per gli aiuti da acquistare sul posto (foto 3). Qui deve arrivare a giorni uno dei due tir provenienti dall’Italia con un carico di generatori e di assi di legno. Vediamo solo velocemente la piazza centrale dove al posto della statua della zarina Caterina II oggi sventola la bandiera ucraina (foto 4). Questa città, infatti, come le altre vicine sulla costa, come Mykolaiv e Kherson, sono state costruite dai russi e ancora oggi la lingua più parlata qui è il russo. Queste premesse però non sono bastate alla popolazione locale per accettare l’occupazione, al contrario ci si difende con tutte le forze.

Da Odessa ci muoviamo per raggiungere in serata Mykolaiv, che è anche sulle sponde del Mar Nero. Sono molti i camion che incontriamo durante il viaggio che termina dopo due ore. Ci accoglie un confratello di don Leszek, don Alessandro, giovane prete ucraino parroco del Santuario di san Giuseppe, una delle due chiese cattoliche della città. Con don Alessandro vivono due suore benedettine. Questa zona e duramente provata dalla mancanza di corrente e di acqua. Il danneggiamento della struttura idrica obbliga l’uso della acqua salata marina che a causa dell’acidità del sale rovina spesso le condutture. Durante la notte suonano le sirene di allarme senza conseguenze. Qui è la quotidianità.

foto 4 – Odessa, piazza centrale, dove al posto della statua della zarina Caterina II oggi sventola la bandiera ucraina

4 gennaio – Kyselivka

Il giorno successivo don Alessandro ci accompagna nel villaggio di Kyselivka, dove c’è la chiesa a lui affidata oltre al santuario dedicato a Maria Immacolata. Il villaggio di Kyselivka si trova a 40 km chilometri da Mykolayiv nell’oblast di Kherson. Lo spettacolo che incontriamo è desolante: tutto qui è distrutto. (foto 11) Dopo un’occupazione durata qualche settimana i russi sono indietreggiati per alcuni chilometri e da lì hanno lanciato in continuazione missili che hanno devastato tutto, chiesa compresa. Passeggiamo tra le rovine delle case incontrando solo cani magri e spaventati che scappano al vederci. La chiesa, che don Leszek venti anni fa aveva rinnovato, oggi è un ammasso di rovine essendo stata colpita da quattro razzi (foto 5-6). Un quinto razzo inesploso lo troviamo nei pressi. Avvertiamo i soldati presenti di modo che si adoperino per mettere in sicurezza il luogo. Sono tanti i colpi inesplosi così come le mine lasciate e che gli artificieri fanno brillare bonificando la zona (foto 12-13). In questo villaggio vivono pochissime persone che incontriamo con le suore e don Alessandro. Lasciamo a loro un generatore e dei vestiti invernali. (foto 7-8) Poi siamo invitati per una cena durante la quale cantiamo i tradizionali canti natalizi. Incontriamo una bambina sorridente che si avvicina. Ai piedi ha un solo pattino a rotelle. Le chiediamo dove sia l’altro pattino e lei ci risponde divertita: «a casa». (foto 9) Siamo accompagnati a vedere gli effetti dell’esplosione di un magazzino di concime altamente combustibile, il razzo che lo ha colpito a provocato un cratere largo decine di metri. (Foto 10)

La sera concludiamo la giornata con una cena. Ci raggiunge il parroco di Kherson, la città sul fiume a poche decine di chilometri da Mykolayiv. Don Massimo è un giovane sacerdote diocesano parroco dell’unica chiesa cattolica di Kherson. La città liberata a novembre si trova sulla sponda sinistra del fiume Dnieper (o Dnipro), lì dove il fiume sfocia nel mar Nero. Dopo la liberazione l’esercito russo si è ritirato sulla sponda opposta del fiume e da lì continua incessantemente e colpire la città e i dintorni.

Don Massimo ci racconta di quando la vigilia di Natale due razzi hanno colpito la sua chiesa uno entrando dal tetto il secondo nella cantina. In chiesa cerano le donne che stavano preparando le feste natalizie. Miracolosamente i razzi non sono esplosi. Tuttavia, vediamo la preoccupazione del parroco nel diffondere questa notizia nel web con filmati che potrebbero essere vista dagli occupanti. Ci spiega infatti che se non è successo questa volta potrebbe accadere nuovamente con esiti ben peggiori. Anche a lui doniamo un generatore di corrente e un’offerta.

5 gennaio

Il mattino dopo ci rimettiamo in viaggio per attraversare il paese da Sud a Est con direzione Karkhiv. La strada che ci consigliano passa per le città di Krzywy Róg e di Dnieper, lasciando sulla destra la linea del fronte che passa per Zaporizhzhia.

Foto 14 – Cucina inviata dalla protezione civile italiana alla comunità dei Salettiani

Il viaggio è tranquillo. Ci fermiamo per un saluto a Krzywy Róg presso la comunità dei Salettiani. In questa città di miniere lunga ben 50 km, è stata aperta una mensa con l’aiuto della Protezione civile italiana che ha inviato una cucina. (foto 14)

La pausa è breve. Riprendiamo il viaggio per arrivare a Dnieper, la città che dà il nome al più grande fiume ucraino. Qui pranziamo presso la comunità dei frati Cappuccini. Sono molto ospitali. La città è senza energia elettrica. Neanche i semafori funzionano e questo rende il traffico caotico. Ci raccontano che da tempo stanno aspettando un generatore che mai arriva. Cogliamo l’occasione per lasciarne uno a loro dalla nostra macchina. Grande è la soddisfazione per questo dono, infatti l’unica illuminazione erano le lampadine di Natale collegate a delle normali batterie stilo. (Foto 15)

In serata, stanchi per il lungo viaggio sotto una pioggia battente, arriviamo a Kharkiw o meglio ci ritorniamo dopo due mesi. Siamo ospitati da don Wojciech, sacerdote polacco direttore diocesano della Caritas locale. Qui è previsto l’arrivo del secondo tir di aiuti umanitari.

Foto 15 – Dono di generatore alla comunità dei frati cappuccini

6 gennaio

La mattina del 6 gennaio concelebriamo in cattedrale la messa dell’Epifania, festa che esprime l’università della salvezza portata da Gesù omaggiato dai Magi (foto 16). Tra i fedeli presenti c’è anche un soldato. Durante il pranzo con il vescovo locale siamo interrotti da alcune lontane esplosioni che solo il vescovo sente e che ci fa notare, essendo lui abituato da mesi. Con un mezzo sorriso, ci dice qui è la quotidianità. La città si trova a soli 30 km dal confine con la Russia.

Nel pomeriggio siamo accompagnati in macchina nei villaggi vicino al confine con persone che hanno l’autorizzazione a portare aiuti umanitari. Rapidamente la temperatura scende in poche ore fino a -20°. Lungo la strada che si dirige verso il confine vediamo i resti dei combattimenti. I russi infatti erano arrivati fino alla periferia della città per poi essere respinti al di là del confine. Il nostro autista, un volontario della Caritas, ci racconta molti dettagli. Tra questi ci mostra con orgoglio la foto del figlio pilota dei caccia ucraini, morto a 24 anni a soli due mesi dal matrimonio. Il papà lo ricorda senza emozionarsi mostrandoci le sue foto, facendo trasparire l’orgoglio per suo figlio che è stato premiato come eroe nazionale per aver evitato la caduta sulla città del suo aereo colpito, rinunciando a salvarsi la vita catapultandosi. (foto 17-18-19) (20-21-22)

Visitiamo due famiglie tra le pochissime che ancora qui abitano. Ci raccontano che sono senza corrente dal febbraio scorso. Per scaldarsi usano una stufetta di ghisa mentre una batteria della macchina fornisce un minimo di energia per una lampadina (foto 23 e 24). Ci mettiamo alla ricerca di persone rimaste da sole nelle case. Per trovarle osserviamo se dai camini esce del fumo, segno della presenza in casa di qualcuno. Troviamo un uomo che dopo alcuni minuti apre la porta in risposta al nostro clacson e riceve così del cibo in scatola e, cosa importante, lascia il suo numero di telefono per mantenere un contatto coi volontari.

Ritorniamo al calar del buio, che arriva molto presto in questa stagione, per celebrare la vigilia del Natale ortodosso. Siamo invitati da delle famiglie che abitano nelle cantine dei palazzi colpiti, le stesse famiglie che avevamo incontrato a novembre. Si rallegrano molto della nostra presenza e tra un canto e una preghiera consumiamo la cena che hanno preparato secondo la tradizione. (Video 25)

7 gennaio

Il giorno successivo arriva il tir con gli aiuti spediti dall’Italia e dalla Polonia. Una gioia per il giorno di Natale. La temperatura e molto rigida. L’autista polacco Michele è riuscito ad arrivare in tempo prima del nostro rientro in Polonia. Sono pochi gli autisti che arrivano fino a Karkhiv. (foto 26)
Dopo questo possiamo finalmente metterci sulla strada del ritorno passando solo a salutare le suore Orionine che fuori città si occupane di giovani mamme.

Foto 26 – Camion di aiuti inviato dall’Associazione Eskenosen di Como

Sul tragitto, una inaspettata sorpresa. Incontriamo tre bambini che passano di casa in casa cantando i canti natalizi, tradizione presente in diversi paesi del centro Est Europa. Ci fermiamo per dargli della cioccolata. Ci sorridono e ci ringraziano. (Foto 27) Siamo noi a ringraziarli per portare l’annuncio della buona novella in situazioni così difficili.

Foto 27 – i tre piccoli cantori

Il viaggio di ritorno prenderà due giorni a motivo della lunghezza e dei controlli. L’ultima notte la trascorriamo di nuovo in nunziatura a Kiev dove il personale ci attende per la cena che consumiamo in allegria. (foto 28) Le suore che qui lavorano, di rito greco cattolico, cantano i canti tradizionali di Natale.

Alla fine di questa lunga cronaca mi sento di ringraziare il Signore per averci guidato, le tante persone che ci hanno sostenuto con la loro preghiera e le loro offerte. La pace purtroppo e ancora lontana. Per questo senza scoraggiarci continuiamo a pregare per la pace e a costruirla attorno a noi. (Foto 29)

padre Luca Bovio, IMC

Foto 28 – Cena in nunziatura a Kiev

Foto 29 – Padre Luca Bovio con don Leszek e Rika

 




A Charkiv, un Natale speciale


Con padre Luca Bovio a Kharkiv in Ucraina il 6 e 7 gennaio 2023, per celebrate il Natale secondo il rito greco-cattolico e ortodosso.


Ed ecco alcuni semplici video che aiutano a vivere con padre Luca questi momenti speciali.

I ringraziamenti del direttore della Caritas di Kharkiv.




In Ucraina, dove Caritas è speranza


foto di padre Luca Bovio


Con l’avvicinarsi dell’inverno, con don Leszek e Rika, un gruppo ormai ben collaudato e affiatato, mi metto in viaggio per l’Ucraina per portare aiuti e raccogliere testimonianze. Con l’auto piena di aiuti umanitari e con i permessi della Caritas passiamo la frontiera senza grandi difficoltà. Appena entrati in Ucraina ci colpisce immediatamente la mancanza di luce, non solo di quella naturale per le giornate ormai molto corte, ma anche e soprattutto di luce elettrica. Le strade sono buie. Ci raccontano che il 40 % della produzione di energia in tutto il paese è fuori uso a seguito degli ultimi attacchi avvenuti alle centrali elettriche nel mese di ottobre. Il carburante e i generi alimentari, invece, si trovano senza difficoltà, soltanto a prezzi raddoppiati.

Trascorriamo la prima notte nella città di Lutsk, a meno di due ore dal confine con la Polonia. Siamo ospitati dal vescovo della diocesi, S.E. Vitalij Skomarovs’kyj. Durante la cena ci racconta circa la situazione attuale dalla sua diocesi. Lutsk, pur trovandosi lontano dai territori dei conflitti che avvengono ad Est e a Sud del paese, è stata colpita le scorse settimane per danneggiare la centrale elettrica causando così la perdita parziale di corrente. Oltre a questo, il problema più grande che qui si deve affrontare è l’accoglienza dei profughi arrivati dall’Est del paese. Ogni settimana presso il centro della Caritas della diocesi vengono distribuiti aiuti per oltre 300 nuclei familiari. Grazie alla generosità di diversi benefattori possiamo lasciare una somma che aiuterà l’acquisto di generi alimentari e di beni di prima necessità.

Con il vescovo di Lutsk, mons Vitalij Skomarovs’kyj

Il giorno successivo, di buon mattino, ci mettiamo in macchina per raggiungere la capitale Kiev, dove, negli ultimi giorni, il numero degli attacchi è diminuito. A differenza di luglio, quando arrivammo qui l’ultima volta, notiamo un minor numero di controlli stradali. La città mostra ancora le ferite degli attacchi precedenti ai palazzi e alle infrastrutture. Facendo una passeggiata alla sera vediamo nel centralissimo parco della città il nuovo ponte distrutto da un razzo poche settimane fa. Gli abitanti della città vivono normalmente, ci racconta il nunzio apostolico, mons. Visvaldas Kulbokas, che gentilmente ci ospita. La corrente elettrica è collegata solo per poche ore al giorno e i grandi quartieri della città devono fare a turno per riceverla. Sono tantissimi i palazzi popolari molto alti, a volte di 30 piani, dove vivono migliaia di persone. La mancanza di energia interrompe l’uso degli ascensori obbligando a raggiungere a piedi il proprio appartamento. Il giorno successivo, prima di lasciare la città, visitiamo brevemente una parrocchia in costruzione dei padri Pallottini.

Dopo alcune ore di viaggio e dopo esserci assicurati sulla situazione raggiungiamo Charkiw, la seconda città per grandezza dell’Ucraina. La città è all’estremo Est del paese a soli 30 km dal confine con la Russia. Prima dello scoppio del conflitto, Charkiw contava più di 3 milioni di abitanti, oggi poco più di un milione. Qui gli attacchi sono quasi ininterrotti da febbraio e la città, così come la provincia, mostra tutte le sue ferite.

Arriviamo in serata avvolti da una nebbia molto fitta. La città è completamente al buio non solo a motivo del razionamento elettrico, ma anche e soprattutto per non dare riferimenti agli aggressori che sono stati respinti fino al loro confine a soli 30 km. A settembre erano arrivati a soli 10 km dal centro città per essere poi respinti di nuovo dietro al confine. Don Wojciech, sacerdote polacco che lavora qui da 6 anni, è il direttore diocesano della Caritas, attraverso la quale gli aiuti vengono distribuiti alla popolazione.

Dopo l’arrivo siamo accompagnati da due volontari della Caritas in una zona popolare della città pesantemente colpita. In quei palazzi vivono centinaia di persone nelle cantine. Lì le incontriamo. Scendendo una scaletta illuminata dalla torcia del telefonino, incontriamo le prime famiglie che qui vivono da ormai otto mesi. Sono nuclei familiari grandi, composti dai nonni, dai genitori e da bambini, a volte anche molto piccoli. I locali sono scaldati o dai tubi del sistema principale di riscaldamento ancora intatto, oppure da alcune stufette a legna. I letti sono costruiti sopra dei bancali di legno usati per le merci e ammorbiditi da materassi o da coperte. Quello che colpisce è la semplicità con cui vivono queste persone che riescono a sorridere incontrandoci e ringraziano continuamente per tutto quello che facciamo. Una tra queste ci dice: «Padre ci sono persone che stanno peggio di noi». Siamo guidati per i corridoi delle cantine. Su ogni porta con un gessetto ci sono scritti i cognomi e il numero della famiglia che in quella cantina vive. Una cantina è attrezzata con un wc rialzato da dei bancali e serve per decine di famiglie.

Una famiglia ci spiega che nella propria cantina hanno l’accesso a internet grazie a un vicino che abita al pian terreno e che ha messo il router in una posizione favorevole affinché il segnale arrivi. Un’altra cantina è organizzata come spazio di incontro per i bambini. Chi vive in queste condizioni in varie parti della città sono coloro che hanno la casa completamente distrutta o gravemente danneggiata. Una signora ci spiega che il suo appartamento al sedicesimo piano è del tutto senza finestre distrutte dall’onda d’urto delle esplosioni. Se anche le finestre fossero intere o riparate, lei sceglierebbe comunque di stare in cantina perché i piani alti dei palazzi sono quelli più esposti alle esplosioni.

Dopo questa toccante visita, conclusasi con abbracci e con la promessa che non li avremmo dimenticati, andiamo a trovare un parroco in un quartiere periferico della città. Ci racconta che nella sua parrocchia c’erano circa mille cattolici. Ora solo 4 o 5 vengono ancora per la Messa domenicale, tutti gli altri sono scappati. Nelle sale della parrocchia vivono alcuni anziani che qui si sentono più al sicuro che nelle proprie case. Nel garage ci mostra i resti di alcuni razzi caduti nei pressi della chiesa che per fortuna non è stata seriamente danneggiata. Ci fa vedere un mucchio di schegge affilate come rasoi delle bombe a grappolo. Colpiscono tutto nei dintorni dell’esplosione.

La notte, nonostante le allerte che arrivano sui telefonini, trascorre tranquilla e finalmente il giorno successivo alla luce del giorno possiamo vedere la città coi nostri occhi. Siamo accompagnati dal giovane vescovo Pavlo Hončaruk. I grandi palazzi centrali della città sono quasi tutti senza finestre a motivo delle esplosioni. Alcune sono riparate con dei pannelli di legno, altre sono distrutte e senza vetri.

Scuola bombardata a Korobochkyne

Ci dirigiamo rapidamente nei villaggi fuori città in direzione Sud Est. Raggiungiamo un villaggio, Korobochkyne, accompagnati da una troupe televisiva polacca che avendo saputo della nostra presenza ci ha raggiunto per fare delle registrazioni. Andiamo in una scuola pesantemente colpita. La direttrice ci dà il benvenuto e ci mostra i danni dell’edifico. Ci racconta che i soldati russi hanno portato via anche le scarpe degli alunni più grandi lasciando solo quelle piccole. Alla domanda di che cosa più urgente ha bisogno, ci risponde che i suoi bambini possano ritornare al più presto nel paese e a scuola. Oltre alla distruzione degli edifici il problema più grande, ci spiegano due soldati, è quello delle mine. Nei campi attorno alla città sono state collocate molte mine che rendono impossibile e molto pericoloso ogni tentativo di coltivazione. Riceviamo un appello affinché l’esercito si possa occupare della messa in sicurezza del territorio. Ora capiamo inoltre perché nei campi tantissimo granoturco e frumento sono rimasti non raccolti.

Nel pomeriggio abbiamo ancora la possibilità di vedere in città dove vengono distribuiti gli aiuti dalla Caritas. La fila di persone è impressionante. Ci raccontano che mediamente in un pomeriggio distribuiscono aiuti a più di 2000 persone, 30mila in due settimane. Per aiutare il numero più grande possibile di persone la distribuzione è regolarizzata con un sistema di tagliandi per cui i beneficiari possono ritirare i beni una volta ogni due settimane. Ognuno riceve 1 kg di pasta, latte, conserve di carne. I bambini in fila sono invitati a fare dei disegni e per questo ricevono cioccolata, caramelle e quaderni. Non solo gli anziani ricevono questi aiuti, ma anche adulti rimasti senza lavoro, una vera piaga lasciata dalla guerra. Tra questi un insegnante ci dice che con vergogna deve ricevere questo aiuto per sopravvivere, ma preferirebbe lavorare e pagare di tasca sua la spesa. Sono 4 i punti di questo tipo organizzati dalla Caritas nella città Charkiw.

Alla fine della giornata ritorniamo a Kiev prima delle 23.00 appena in tempo per evitare il coprifuoco che dura fino alle 5 del mattino.

Il penultimo giorno del nostro viaggio lo viviamo in una casa di bambini orfani gestita dalle suore Benedettine in un villaggio nel centro ovest del paese di Balyn. Per raggiungerli passiamo vicino alle città di Zytomyr e di Vinnica. Nella casa vivono 9 bambini dai 3 ai 12 anni senza genitori oppure con difficolta che non permettono loro di vivere in un normale clima familiare. L’attesa per il nostro arrivo è trepidante. Riceviamo durante il viaggio video e messaggi dai bambini che ci incoraggiano a raggiungerli al più presto. Alla sera siamo accolti con una grande festa. Una squisita cena preparata dalle suore, e il dono di bellissimi vestiti ricamati a mano secondo la cultura tipica di quelle regioni, fanno da contorno alla compagnia festosa e rumorosa dei bambini.

Il giorno dopo rientriamo in Polonia, per fortuna senza essere fermati a lungo alla frontiera (la volta scorsa furono ben dieci ore di attesa). Durante il viaggio abbiamo ricevuto tante altre richieste di aiuto tra queste alcune dalla città di Kherson liberata pochi giorni fa. L’inverno e solo all’inizio ma siamo sicuri che tanti di voi continueranno ad aiutare. Qualcuno ci ha detto: «Padri, avete degli ottimi angeli custodi che vi hanno sempre protetto durante questo viaggio». È vero lo abbiamo avvertito. Tuttavia, agli angeli custodi ci proteggono ancora di più quando qualcuno li prega e per questo ringraziamo anche per le tante preghiere che non sono mancate e che non mancheranno.

padre Luca Bovio imc

Leggi anche:

Ucraina: la solidarietà sfida l’inverno

da https://www.ildialogodimonza.it/ucraina-la-solidarieta-sfida-linverno/

Campi minati attorno a Korobochkyne




Ucraina. Un balcone verde speranza a Borodjanka


Note di viaggio in Ucraina (18-22 luglio 2022)

Nella città di Borodjanka nella periferia di Kiev, c’è un piccolo balcone di un appartamento appena ristrutturato di colore verde all’ultimo piano di un edificio. Lo si nota perché il resto del palazzo che lo comprende è semidistrutto a causa dei pesanti bombardamenti avvenuti qui pochi mesi fa. Il balcone si fa notare come l’unica cosa normale attorno alla quale c’è solo distruzione. Questa immagine mi ha accompagnato durante il viaggio che ho compiuto nel centro dell’Ucraina per qualche giorno.

Balcone Borodjanka

Ho condiviso il viaggio con un sacerdote polacco, don Leszek Kryza, (profondo conoscitore del paese), con una sua giovane collaboratrice Rika, nata in Ucraina ma scappata anni fa a motivo della guerra, e con sr. Lucina, che lavora in Ucraina da più di 30 anni e che, trovandosi in Polonia, ha approfittato del nostro viaggio per tornare là dove lavora. Il nostro obiettivo era quello di portare degli aiuti economici oltre a tutto quello che potevano caricare nell’ampio bagaglio della macchina, cibo, medicine, ecc. e anche incontrare testimoni sul luogo e visitare luoghi colpiti dalla guerra.

Un viaggio di questo tipo richiede una grande elasticità nel fare i programmi, sempre pronti ai cambiamenti motivati dalle situazioni che possono improvvisamente presentarsi. In questi giorni di luglio il conflitto sta continuando in tutta la parte Est del paese e parte del Sud. Tuttavia, nel resto del paese dove si è combattuto prima, rimangono segni evidenti del conflitto, come edifici distrutti, macchine bruciate, mezzi militari abbandonati…

I check point sono un po’ dappertutto, soprattutto all’ingresso di ogni città dell’intero paese. Giovani militari osservano con attenzione ogni macchina che passa, talvolta chiedendo i documenti e controllando ciò che si trasporta.

Kiev

A Kiev

Ambasciatore italiano a Kiev, Pier Francesco Zazo

L’impressione a Kiev è che la gente provi a ritornare a una normalità di vita tanto desiderata. Incontrando l’ambasciatore italiano, Pier Francesco Zazo, e quello polacco nelle rispettive ambasciate ascoltiamo i loro racconti. La popolazione di Kiev, stimata attorno a quattro milioni di abitanti, si è dimezzata a causa della guerra. Tuttavia, c’è un continuo arrivo di profughi dai luoghi dove avvengono i bombardamenti. Grande è l’impegno della Polonia e dell’Italia nel portare aiuti e nell’accogliere i profughi. Quello che noi facciamo come missionari è una piccola parte di tutta questa grandissima macchina della solidarietà che non deve fermarsi.

I negozi della città sono aperti, i mezzi pubblici viaggiano regolarmente, da poche settimane anche il carburante si può trovare nei distributori, pur potendone comprare con dei limiti. Verso il tardo pomeriggio la città va come spegnendosi. Infatti, durante la notte è in vigore il coprifuoco con il divieto assoluto di circolazione e di uscita dalle abitazioni; tutti devono stare nelle proprie case. La disobbedienza a questo può essere pericolosa per i trasgressori. Solo una notte ha suonato la sirena di allarme senza tuttavia nessuna conseguenza.

Diversi sono stati gli incontri con persone impegnate sul posto nella distribuzione degli aiuti umanitari. Qui i padri Oblati di Maria che sono i responsabili della Caritas a Kiev, hanno organizzato tra le tante cose una distribuzione del pane cucinato da loro stessi per i poveri senza tetto. Anche noi ci rechiamo a distribuire, lasciando anche aiuti per l’acquisto di un forno un po’ più grande che dovrebbe aumentare la quantità del pane prodotto. Lo stesso pane è distribuito anche dalle suore di Madre Teresa di Calcutta che visitiamo nella loro casa.

Distribuzione Caritas Charchów

Incontri nel seminario

Nel seminario di Kiev incontriamo don Wojciech, direttore della Caritas a Charchów, la seconda città per grandezza a pochissimi chilometri dal confine con la Russia. La situazione là è ancora molto difficile. Da mesi si combatte senza sosta e ogni giorno si contano vittime anche e soprattutto tra i civili, tra questi anziani, giovani e bambini. Là beni come il cibo e i medicinali che arrivano con gli aiuti sono essenziali per la sopravvivenza di molte persone. Si guarda con preoccupazione al prossimo futuro, perché l’estate è breve e già con l’arrivo dell’autunno e poi dell’inverno la situazione, dal punto di vista umanitario, sarà ancora più difficile. A don Wojciech diamo una cospicua somma raccolta dai benefattori per provvedere alle emergenze sul posto.

Seminario di Kiev

Anche nel bel seminario diocesano di Kiev sono avvenuti a marzo esplosioni e saccheggi. L’edificio che si trova in una zona periferica della città è stato prima colpito da colpi di mortaio e poi occupato dai soldati russi che vi hanno qui abitato per una settimana, per poi abbandonarlo dopo averlo saccheggiato. I racconti che ascoltiamo dal padre spirituale Igor e dal vescovo Vitaliy Krivitskiy ci fanno capire bene cosa qui è successo. Durante lo scoppio del colpo di mortaio avvenuto nel cortile, le schegge hanno colpito l’edificio. Una di esse è passata dal vetro di una finestra e ha colpito una piccola statua della Madonna collocata su un tavolo. La testa della statua si è staccata. Tuttavia, esattamente una settimana dopo l’affidamento che tutta la chiesa ha fatto a Maria Santissima nel mese di marzo, tutti i soldati russi non solo hanno lasciato il seminario ma anche abbandonato il tentativo di invadere la città di Kiev, lì a due passi, ritirandosi a Nord. Da quel momento il seminario è diventato è un centro di distribuzione di aiuti per le famiglie locali.

Bucha, fosse comuni

Bucha

Dal seminario ci rechiamo lì vicino nella cittadina di Bucha tristemente famosa per il numero di civili uccisi, oltre 400. Incontriamo don Andrea un sacerdote ortodosso che vive nella chiesa dove sono state fatte le fosse comuni per seppellire inizialmente i defunti. Qui venne in visita a marzo anche il presidente dell’Unione europea Ursula Von der Leyer con il presidente Zelenski. Don Andrea ci spiega dettagliamene la cronaca di quei giorni mostrandoci anche filmati dal suo cellulare. Ha anche allestito una mostra fotografica all’interno della chiesa sulle atrocità qui commesse. L’esercito russo dopo aver per settimane provato a entrare a Kiev, non riuscendoci, aveva distrutto tutto quello che ha potuto, uccidendo in particolare i civili, per poi ritirarsi. Ci fermiamo a pregare in questo luogo.

Nella metropolitana di Kiev

Ancora a Kiev

La visita è stata anche un’occasione per conoscere la città di Kiev che mostra sia le decine di luccicanti cupole dorate delle chiese ortodosse che la famosa piazza di Maidan simbolo della resistenza ucraina nel cuore della città. Era il 2014 quando qui scoppio la rivolta arancione per protestare contro l’inizio del conflitto che ancora oggi continua. Lì vicino incontriamo il giovane Vescovo di Kiev, Vitaliy. Anche lui ci racconta quello che è avvenuto vicino alla cattedrale cattolica di san Alessandro, luogo di preghiera ma anche di rifugio per tantissime persone in cerca di riparo.

I mass media sono molto importanti non solo per l’informazione ma anche per raggiungere con la preghiera e la catechesi tante persone. Siamo stati invitati nella sede di Radio Maria Ucraina dove abbiamo commentato il Vangelo del giorno e poi celebrato la Messa. Qui lavora suor Lucina che ci ha anche ospitato nella sua comunità nel centro della città.

Cimitero nei pressi di Kiev

Rientro carico di memorie

Il viaggio di ritorno è stato impegnativo sia per la fatica sia per la pazienza che abbiamo dovuto dimostrare. Il viaggio ha richiesto più di 21 ore, di queste ben 10 trascorse alla frontiera. Le numerose macchine e i rigidi controlli ci hanno veramente sfiancato, ma tutto è andato bene e siamo tornati a Varsavia stanchi ma con una profonda consapevolezza di avere avuto il privilegio di ascoltare testimoni, di vedere luoghi e di portare in po’ di aiuto e di consolazione. Portiamo con noi non solo le immagini e i racconti della guerra, ma anche l’immagine degli sconfinati campi di girasole e di grano turco che ci hanno accompagnato durante il lungo viaggio. La bellissima giornata di sole ha fatto brillare gli sconfinati campi gialli di girasole e di frumento che con lo sfondo del cielo azzurro sono la base dei colori della bandiera ucraina.

Vorrei tornare qui a quel balcone della città di Borodjanka ristrutturato e di colore verde come la speranza: è il simbolo della ricostruzione che già inizia. In mezzo ai continui segnali di guerra e distruzioni che provocano sofferenza e ingiustizia, quel piccolo balcone verde è un segno visibile di una ricostruzione che già deve iniziare, simbolo di una ricostruzione ancora più profonda che deve avvenire nel cuore degli uomini, cuori feriti dall’orrore della guerra. Il balcone e all’ultimo piano dell’edificio, e per raggiungerlo occorre salire in alto… questa salita è un invito a salire e a rivolgere lo sguardo verso Colui che abita più alto ancora nei cieli, per invocare il dono della pace e chiedere umilmente perdono per la stupidità umana. Preghiamo per la pace, costruiamo la pace.

padre Luca Bovio imc




Migranti ai tempi del Covid

testo e foto di Amarilli Varesio |


A Torino l’esperienza di un palazzo autogestito da migranti si fa strada. Non senza aiuti esterni, e con molto impegno degli occupanti. Ma con l’arrivo della pandemia le difficoltà sono aumentate.

Madonna della Salette potrebbe sembrare, a prima vista, una via della periferia torinese come tante altre, poco popolata, con palazzi bassi e spazi verdi lasciati incolti. Uno dei pochi elementi che nella strada, lunga qualche centinaio di metri, attirano l’attenzione, è l’insegna di un supermercato che si staglia oltre i campi dall’erba alta, rigogliosi di malva, verbena e tarassaco. Camminando per la via, un passante qualunque non potrebbe non notare l’andirivieni di giovani africani, prevalentemente uomini, che entrano ed escono da un palazzo di cinque piani, con la facciata ben ristrutturata di colore bianco e arancione. Spinto dalla curiosità, il nostro passante, aprendo il portone della struttura, rimarrebbe stupito dall’intreccio di lingue africane e dall’orchestra di profumi cosmopoliti di tè alla menta, tajine, banane fritte, attieké, poulet yassa, soupe kandja, jollof rice che invadono i corridoi.

Durante l’emergenza coronavirus, nessuno avrebbe potuto accorgersi di questo luogo singolare. Gli odori culinari raggiungevano una strada vuota e silenziosa, solcata giornalmente dalle auto della polizia che controllavano i movimenti del quartiere. Gli abitanti della palazzina non osavano uscire. L’immobilità significava la perdita o l’interruzione improvvisa del lavoro, l’impossibilità di percepire un reddito e la delicata convivenza in una casa collettiva dove gli spazi devono essere continuamente negoziati.

Nel 2016, ho avuto la fortuna di scoprire la «residenza transitoria collettiva» dell’ex occupazione di via Madonna della Salette. All’epoca, la frequentavo come volontaria per dare un supporto ai ragazzi nei corsi d’italiano e in quelli per la patente. Ricordo che un giorno mi presentai a un giovane del Ghana dicendo che mi chiamavo Ama. Lui rimase esterrefatto e poi scoppiò a ridere. Mi raccontò che nel suo paese tutti i bambini nati di sabato venivano chiamati Ama e da quel giorno mi battezzò «Ama Ghana».

Erano momenti semplici e intensi, nei quali la conoscenza reciproca e lo scambio culturale era alla base della condivisione.

Spesso, verso la fine delle lezioni, io diventavo la studentessa e imparavo a mia volta qualche termine in wolof o bambara. Questo luogo mi affascina da sempre per la sua complessità e peculiarità. Diversamente da altre esperienze per migranti, grazie alle regole e ai principi sui quali è basata la convivenza al suo interno, la Salette permette di osservare da vicino e andare incontro ai bisogni e alle priorità delle persone che ci vivono.

L’occupazione

La Salette era stato un pensionato per lavoratori e studenti, proprietà dei Missionari di Nostra Signora de La Salette, ed era diventata una struttura abbandonata finché non ha supplito alla necessità abitativa di decine di immigrati e rifugiati lasciati in strada da un sistema d’accoglienza poco efficace.

Il 17 gennaio 2014, in una notte piovosa, è scattata l’occupazione, in una mobilitazione per il diritto alla casa, promossa dal Comitato di solidarietà per rifugiati, costituito da volontari e militanti dei centri sociali torinesi, Gabrio e Askatasuna. I primi occupanti, una quarantina circa, erano un gruppo eterogeneo di famiglie italiane e immigrati provenienti dalle palazzine dell’ex Moi (il villaggio olimpico del Lingotto, costruito per i giochi invernali del 2006, cf. MC dicembre 2015), dove vivevano in camere sovrappopolate o negli scantinati. Quasi tutti avevano i documenti, ma non un tetto. Molti di questi immigrati erano approdati sulle coste italiane nel 2011, durante la cosiddetta «Emergenza Nord Africa». Quell’anno, quando scoppiò la guerra civile in Libia, le frontiere del paese arabo furono chiuse e gli immigrati che cercavano di tornare nei loro paesi non potevano farlo. Venendo a mancare gli accordi presi dal regime di Gheddafi con l’Italia per impedire alle persone di partire, gruppi di trafficanti approfittarono del caos e del vuoto di potere per organizzare le spedizioni verso le coste italiane. Molti immigrati subsahariani che lavoravano in Libia non avevano altra scelta se non quella di imbarcarsi.

«La dichiarata “Emergenza Nord Africa” è stata gestita con l’accoglienza in grandi centri e conseguentemente con forme di assistenzialismo inutili all’autonomia dei singoli. Nei primi mesi del 2013, il momento dell’uscita dai progetti per molti ha significato affrontare il problema dell’assenza di una casa», spiega l’antropologa Laura Ferrero, che per un anno ha svolto una ricerca all’interno della Salette. «Finito il progetto d’accoglienza, per qualcuno il passaggio alla Salette è stato immediato, per altri è stato intervallato con una permanenza all’ex Moi, altro punto di riferimento per immigrati di tutta Italia che cercavano una soluzione abitativa. Altri ancora stavano negli accampamenti formali e informali che si creavano attorno agli spazi del lavoro stagionale, come a Saluzzo o a Rosarno. Ognuno aveva attivato le reti sociali disponibili: amici conosciuti in Libia, durante la traversata o nei progetti. Ma il problema è stato che tutti si trovavano nelle stesse condizioni».

Mosso dai forti appelli del papa all’accoglienza, fin dai primi giorni dell’occupazione, l’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia è intervenuto creando un gruppo di soggetti eterogenei, fra i quali Pastorale migranti, Caritas, Cooperativa O.R.So., Luoghi Possibili, al fine di interagire con il comitato e gli occupanti di via Madonna de La Salette.

Un modello alternativo

Il progetto d’accoglienza alternativo proposto dal comitato e dagli occupanti al resto del gruppo prevedeva alcune condizioni precise: non doveva seguire tempistiche prestabilite, doveva includere tutti gli abitanti, prevedere attività di inserimento lavorativo, una gestione condivisa dai residenti secondo decisioni prese in assemblea e un processo di regolarizzazione e ristrutturazione dell’edificio secondo i principi dell’auto recupero e della manodopera di chi vi abitava.

Nicolò, membro del comitato, racconta: «Per i primi due anni non c’è stato giorno né notte. Eravamo sempre lì con i ragazzi per coordinare la situazione. Nonostante la struttura fosse solida, c’erano molti problemi. La corrente continuava a saltare per l’uso massiccio di piastre elettriche, allora si cucinava a turno, prima un piano e poi l’altro, l’acqua calda è mancata finché non abbiamo messo i boiler elettrici».

Nel 2015, l’edificio, costituito in ogni piano da camere, cucina e bagni comuni, è stato oggetto di ristrutturazione e riqualificazione energetica. Il coinvolgimento diretto degli abitanti del palazzo nei lavori di manutenzione aveva come obiettivo quello di promuovere il senso di appartenenza collettiva alla struttura e di contribuzione alla «residenza collettiva». Nel corso dei mesi si è costituito un comitato di cogestione, composto da un rappresentante per ogni piano, un rappresentante della cooperativa e uno del Comitato di solidarietà per i rifugiati. In seguito, il progetto ha ottenuto il comodato d’uso gratuito dell’immobile per 10 anni e, nel 2018, i suoi abitanti hanno ottenuto la residenza. L’obiettivo a lungo termine è che la comunità della Salette raggiunga l’autonomia. Ma la condizione di marginalità che accomuna la maggior parte degli abitanti inficia la loro possibilità di contribuzione economica per le spese della casa. Per cui, attualmente, i residenti pagano un 30% delle spese vive, mentre la diocesi mette il resto.

«La gente sta alla Salette fin quando ne ha bisogno, perché magari non ha alternative, o finché se la sente. Questa è la condizione necessaria per costruire un percorso lavorativo dignitoso. Nei centri d’accoglienza, invece, ti danno vitto, alloggio, assistenza legale e quando hai i documenti ti sbattono fuori. Ma se non hai la certezza di avere un tetto sulla testa mentre impari l’italiano e cerchi un posto di lavoro, non ce la fai. Ognuno ha i suoi tempi», continua Nicolò infervorato. «Non abbiamo creato un modello di accoglienza. Il modello sta nella modalità con la quale abbiamo affrontato la situazione concreta. E si sa che mettere al centro le persone ti crea un mare di problemi, bisogna avere una pazienza infinita».

L’antropologa Laura specifica: «Gli abitanti della Salette non sono un gruppo coeso, ma una somma di individualità e piccoli gruppi. La convivenza è un obiettivo che si costruisce nelle pratiche quotidiane, attorno alle quali nascono tanto collaborazioni, quanto tensioni». Uno degli abitanti, S., fa parte del comitato di gestione della Salette. Dal 2015 coltiva un orto in giardino dove crescono pomodori, insalata e zucche. «Io porto fuori la spazzatura tutte le sere, dò il bianco quando serve, taglio l’erba. Ma non tutti si interessano della casa. Al quarto piano, ci sono due stanze sovraffollate dove vivono in dieci, ma nessuno li butta fuori. Anche se questa è casa nostra, appena qualcuno ha le possibilità economiche se ne va di qui».

All’interno della Salette, la Cooperativa Orso avvia percorsi di accompagnamento per sostenere processi di autonomia lavorativa, abitativa e sociale, con un’équipe composta da tre persone. Silvia aiuta i ragazzi a conoscere e a usare i servizi che la città offre. «Il primo anno di lavoro, in modo informale, abbiamo cercato di conoscere le persone e di farci conoscere. Non è stato facile. Non si fidavano, erano usciti dai progetti con un bagaglio enorme di delusioni. Il nostro ruolo è quello di dare loro degli strumenti, offrire dei tirocini, dei percorsi di orientamento al lavoro e di specializzazione. Noi offriamo le opportunità che troviamo, poi sta alle persone decidere. La difficoltà principale è che molti fanno fatica a crearsi un percorso lavorativo stabile, a investire in un tirocinio, per esempio. Magari fanno poche ore e guadagnano poco, e visto che sono mossi dalla necessità di guadagno, perché in Africa hanno le famiglie da mantenere, preferiscono lavori che danno subito un reddito, come quelli stagionali».

Il lockdown della Salette

Con l’arrivo del coronavirus, il Comitato di gestione ha stabilito alcune regole: accesso proibito ai non residenti e distanziamento sociale. Misure che hanno creato molte tensioni tra gli abitanti che hanno dovuto impedire l’ingresso ad amici o parenti. Inoltre, la cooperativa Orso ha provveduto a creare una rete di solidarietà con la Caritas per la distribuzione di cibo e mascherine di cotone. D. è un giovane senegalese e da cinque anni vive alla Salette. Grazie alla diocesi, nel suo frigo non è mai mancato il cibo. Quando hanno imposto le misure di contenimento, la borsa lavoro di D. è stata sospesa. «Lavoravo come carpentiere per fare scale in legno. Lavoravo solo quattro ore al giorno, ma ero contento. Prima ancora facevo l’ambulante ma era un lavoro pericoloso. Compravo giubbotti e scarpe contraffatte a Napoli e li rivendevo a Nichelino, Trofarello, Moncalieri. Un giorno un poliziotto in borghese mi ha fermato e ha detto: “Se vendi poca roba, non ti diciamo niente”. Però, mi sono spaventato e allora ho provato a cercare un “capo” (datore di lavoro) a Saluzzo, ma non l’ho trovato. Allora sono andato in Francia, a Cannes, a vendere occhiali da sole, cappelli, orecchini sulla spiaggia».

K., un ragazzo maliano, ha avuto una storia più fortunata. Quando è arrivato il lockdown, aveva appena festeggiato la firma del contratto di apprendistato di tre anni che gli aveva fatto un’azienda edile di Grugliasco. L’hanno messo in cassa integrazione, ma non sa come avrebbe fatto, senza l’aiuto alimentare dato alla Salette. I soldi sono arrivati solo mesi dopo. K. voleva andare a trovare la sua famiglia in Mali, ma senza il passaporto non può farlo. Durante l’emergenza, fino al 18 maggio era impossibile accedere alle questure. «È da 10 anni che non torno a casa. Sono partito dal Mali quando avevo 15 anni, sono scappato alle 4 di mattina quando i miei dormivano. Da noi in alcuni villaggi non c’è neanche l’acqua per bere e così la vita è troppo complicata».

Tornare a casa

Nel caso di D., un giovane del Ghana residente alla Salette dai tempi dell’occupazione, l’emergenza coronavirus ha rafforzato la sua decisione di tornare a casa. «Mi alzo alle 4 del mattino, vado in giro e mi mandano a quel paese, mi chiamano negro. Tutti i giorni esce un nuovo decreto sugli immigrati. Per quanto tempo dobbiamo continuare a essere immigrati e non persone?». Da qualche anno, D. prepara il suo ritorno e fa coltivare un campo di anacardi e cacao che ha comprato a Kokooa, per vendere i prodotti sul posto.  «Non dipendere da nessuno è una grande libertà umana. Io sarei tornato in Ghana nel 2013, sedendomi sulla sedia col mio sacco di dollari guadagnati in Libia. Ma mi hanno obbligato a venire in Italia».

W. è della Guinea-Bissau. «Ho sempre lavorato nell’agricoltura. In Italia, per tre anni ho raccolto la verdura a Foggia. Il capo era cattivo, mi segnava sei ore quando ne avevo fatte nove. Poi nel 2014 sono arrivato a Torino, ho lavorato due anni a Saluzzo e lì raccoglievo pere, pesche. Nel 2019 sono arrivato alle Salette e ho lavorato in un’azienda per raccogliere la menta senza contratto. Adesso volevo tornare a Saluzzo, ma con questa emergenza, se non hai un contratto non ti puoi muovere».

W. è da cinque mesi che aspetta il rinnovo del permesso di soggiorno che vuole convertire da umanitario in lavorativo subordinato. Nei mesi precedenti al coronavirus avendo con sé solo la ricevuta della domanda di conversione, i datori di lavoro non si fidavano ad assumerlo. Inoltre, a marzo voleva andare a Saluzzo, ma il progetto Pas (Prima accoglienza stagionali) era chiuso per l’emergenza e senza un posto letto certificato non gli facevano il contratto.

«Durante l’emergenza coronavirus, le persone più vulnerabili erano quelle senza documenti e quelle che lavoravano in nero», racconta Eleonora Celoria, avvocata e socia Asgi (Associazione studi giuridici dell’immigrazione) che ha svolto un lungo periodo di volontariato alla Salette. «Loro non potevano spostarsi e, senza documenti, non potevano essere assunti, né dimostrare che si muovevano per esigenze di lavoro. Anche per quanto riguarda gli stranieri in regola con i documenti, la situazione non era facile: dal momento che molti svolgevano lavori precari, alcuni sono stati licenziati, ad altri non hanno rinnovato i contratti e anche chi era stato messo in cassa integrazione non aveva la sicurezza di poter tornare a lavorare a emergenza finita. Chi era titolare di permesso di soggiorno per motivi umanitari e voleva convertirlo in permesso per motivi di lavoro si trovava in difficoltà: per farlo bisogna presentare la documentazione legata all’attività lavorativa e, se avevi perso o, a causa del virus, non potevi trovare un lavoro, veniva meno la possibilità di chiedere la conversione».

I vantaggi del lockdown

«Per lo meno, le norme introdotte per affrontare l’emergenza hanno disposto l’estensione della validità dei permessi di soggiorno fino al 31 agosto, e questo ha consentito alle persone che avevano il permesso in scadenza durante questi mesi, di continuare a lavorare e di avere accesso ai servizi. Anche la proroga della carta di identità e della tessera sanitaria devono valutarsi in questo senso con favore. È fondamentale però che i migranti siano informati di questa estensione, per poter far valere i propri diritti».

M. è marocchino. Durante il confinamento, assieme agli altri ha creato una palestra sul terrazzo. «Su 70 persone, solo sette lavoravano durante l’emergenza. È stato difficile. Io lavoro in nero, mi chiamano per fare dei lavoretti in casa. Ma, per me, i veri problemi sono cominciati nel 2002. Quell’anno avevo fatto una manifestazione per il partito comunista davanti all’ambasciata marocchina a Parigi in difesa del popolo sarahawi. Per punirmi mi hanno tolto il passaporto. Da lì non ho più potuto rinnovare i documenti». M. è arrivato alle Salette dal Moi. «Volevamo creare una realtà autogestita dai migranti, era il mio sogno. Ma non ci siamo ancora riusciti. Quest’occupazione ci ha dato lavoro, dignità, tranquillità, un curriculum, una chiave, ma non siamo autonomi. Siamo quattro responsabili di piano, ma partecipiamo solo in due. Essere responsabili non vuol dire essere un libico (come un carabiniere che controlla le regole, ndr) o un ruffiano (che fa quello che vuole la cooperativa pur di mantenere un potere, ndr), solo voler mettere le cose a posto». Con la sanatoria Cura Italia Bis per regolarizzare i braccianti in agricoltura e in altri settori chiave, la sua clandestinità è terminata. «Ci regolarizzano solo per sfruttare il nostro lavoro. Noi immigrati siamo essenziali e questo è riconosciuto solo in un momento di crisi come questo».

Amarilli Varesio