Argentina. Meno populismo, più lavoro e responsabilità


Per anni ha operato negli Stati Uniti, in Venezuela e in Argentina, con un breve ma interessante intermezzo a Cuba. Ha visto democrazie e autocrazie, ricchezza e povertà. Le Americhe sono il suo cruccio ma anche il suo pane e per questo, a dispetto dell’età, padre Luigi – oggi in Italia per cure mediche – vuole tornarci.

È un classe 1936. Dunque, l’età c’è, ma lo spirito e l’intraprendenza sono molto più giovani di quanto non dica il dato anagrafico. Padre Luigi Inverardi, bresciano, Missionario della Consolata dal 1970, ha attraversato le Americhe da Nord a Sud: Stati Uniti, Venezuela, Argentina. «Sono stato alcuni mesi anche a Cuba», precisa prima di raccontarsi in un simpatico mix d’italiano e spagnolo. Lo incontriamo a Torino, ma è nelle Americhe che vuole tornare. «Però, vorrei trascorrere in Italia gli ultimi anni», chiosa con naturalezza.

La vicepresidente argentina Cristina Fernandez de Kirchner con il presidente Alberto Fernandez (giugno 2022); lo scorso aprile, Fernandez ha annunciato che non si ripresenterà alle elezioni di ottobre 2023. Foto Juan Mabromata – AFP.

Dagli Stati Uniti alla dittatura argentina

«Appena ordinato missionario, desideravo andare in Africa. Come tutti, in quel tempo. I superiori mi mandarono invece negli Stati Uniti. In pratica, nel luogo opposto per definizione. Tuttavia, negli Usa ho lavorato con entusiasmo sia nell’animazione missionaria che nel lavoro pastorale». Negli Usa padre Inverardi trascorre oltre vent’anni, divisi in due periodi, tra New York, California e Pennsylvania.

Nel 1977 arriva per la prima volta in Argentina, dove da un anno è al potere una giunta militare. Va a Tartagal, nella provincia di Salta, estremo nord del paese, ai confini con la Bolivia. «Era – ricorda – un tempo molto difficile, complicato, un tempo doloroso. Perché il Paese era retto da una dittatura. I militari combattevano l’opposizione di sinistra con persecuzioni, arresti e sparizioni di persone.
Finalmente, nell’ottobre del 1983, si tennero le elezioni che furono vinte dal partito radicale (di centrosinistra, ndr). Il primo presidente fu Raúl Ricardo Alfonsín. Era un uomo onesto, capace, intelligente, un uomo che conosceva bene la realtà argentina». Una realtà, però, difficile da governare, soprattutto a causa di una situazione economica esplosiva.

«Quando arrivai in Argentina già si parlava d’inflazione. Ho sperimentato cosa significa vivere con aumenti dei prezzi giornalieri. L’inflazione è il cancro della vita economica, il cancro del paese, ma i politici non fanno che litigare invece di affrontare la questione. Il presidente Alberto Fernández ha annunciato (lo scorso 21 aprile, ndr) che non si ripresenterà alle elezioni del prossimo ottobre, forse perché ha capito che la maggioranza della popolazione lo considera un incapace. Sono trascorsi quasi 50 anni, eppure nel 2023 il problema argentino rimane sempre lo stesso». Affermazione veritiera: l’inflazione supera il 102 per cento annuo (una delle più alte al mondo), la povertà interessa 17 milioni di persone (circa il 43 per cento della popolazione argentina).

Daniel Ortega con un Fidel Castro anziano e malato, nel 2014.. Foto Alex Castro – Cubadebate.

Cuba e la libertà

Dopo la dissoluzione della giunta militare, padre Inverardi non fa in tempo a seguire il ritorno alla democrazia e le contorsioni economiche del paese latinoamericano perché viene destinato nuovamente negli Stati Uniti (1983-2000). Le scelte dei superiori gli offrono, quindi, l’opportunità di conoscere realtà sociali, politiche ed economiche molto diverse. E non occorre pregarlo per farsi raccontare la propria opinione.

«Tanto il populismo latinoamericano quanto il capitalismo nordamericano – spiega – hanno grandi difetti. Però, ragionando in base alle mie esperienze e al mio pensiero, io preferisco il capitalismo, anche se spesso è esasperato. Nel 1997 i superiori della Consolata del Nord America pensarono di aprire una missione a Cuba. Per questo mi mandarono in visita all’isola dove rimasi per cinque mesi. Quando vi arrivai, subito gli amici mi avvertirono: “Padre, non dica assolutamente niente contro Castro”. Ecco, per me è importante che l’uomo sia libero di pensare e dire ciò che pensa e non essere obbligato dal governo. Per questo preferisco il capitalismo, perché, nonostante i suoi problemi, ti dà la possibilità di gridare, di manifestare la tua opinione personale».

Il populismo è un’ideologia di sinistra

Nicolas Maduro, presidente del Venezuela. Foto: Xavier Granja Cedeño/Ministerio de Relaciones Exteriores Comercio e Integración.

Forse per i molti anni trascorsi negli Usa, forse per la possibilità di fare un confronto in base alle proprie esperienze in luoghi tra loro molto diversi, forse semplicemente per avere idee diverse, padre Inverardi vede il populismo latinoamericano come una piaga assoluta e contesta le modalità in cui nei paesi dell’America latina è stata portata avanti la lotta alla povertà. Il missionario ritiene che esista soltanto un populismo di sinistra: «Non considero il populismo di destra un’ideologia assoluta com’è stato quello di Chávez e Castro e oggi quello di Ortega e Maduro».

Lui ha vissuto in Venezuela dal 2000 al 2005 negli anni in cui il Venezuela di Hugo Chávez era diventato uno spartiacque nella politica latinoamericana.

Il comandante Chávez ha diviso senza colori intermedi: in genere, o si amava o si odiava. Padre Inverardi non fa eccezione.

«Il populismo è un’ideologia che dice di aiutare i poveri, ma lo fa sempre nell’ottica di interessi particolari (di un partito, di un governo, ecc.) e non per migliorare. I populisti aiutano i poveri, perché, al momento delle elezioni, questi votino per loro. Per esempio, all’inizio della presidenza Chávez, i poveri erano molto aiutati. Allo stesso tempo, però, erano obbligati a partecipare alle riunioni, alle manifestazioni. Quando i poveri sono dominati, non si tratta di un vero aiuto».

«L’Argentina – aggiunge padre Inverardi – ha cercato di imitare le idee di Chávez. Quando Cristina (Fernández de Kirchner, ndr) ricevette il presidente del Venezuela (nel 2009 e nel 2011, ndr), lo accolse come se fosse il liberatore dell’America Latina. Fu un grave errore, perché un paese non può progredire senza diversificare le proprie alleanze. Per esempio, lo stesso Chávez criticava moltissimo gli Stati Uniti, ma allo stesso tempo vendeva a loro il petrolio del suo paese».

«Dopo cinque anni che stavo in Venezuela, io chiesi di essere trasferito altrove. Perché? Perché parlando con alcuni fanatici e con alcuni cristiani, capii che non si poteva dialogare con chi riteneva la Chiesa cattolica un avversario. Avevo lasciato il Nord America per portare un po’ di aiuto in Venezuela ma sentirmi accusare di essere un nemico del popolo per me fu una grave offesa. E così me ne andai».

Banconote di pesos argentini, sempre in lotta con il dollaro Usa e con un’altissima inflazione. Foto LuisX – Pixabay.

Povertà e responsabilità

«In America Latina manca il concetto della famiglia. Ci sono famiglie composte da 7-8 bambini, ma chi è il padre? Non si sa. Spesso i padri sono due o tre. Gli uomini non si occupano molto dei figli che mettono al mondo e questo crea la povertà. Io dico che essa è data non dalla mancanza di cibo, ma dalla mancanza di responsabilità.

Sono convinto che l’uomo sia l’artefice della propria storia: con il lavoro e il sacrificio può migliorare. L’ho visto in California, dove ci sono molti latinoamericani. Oggi hanno una casa, una macchina».

La povertà prolifera anche tra i popoli indigeni. Rispetto ai quali padre Inverardi ha una propria idea. «A Tartagal, mia ultima sede, vivono vari gruppi di indigeni (Wichi, Guaraní, ma anche Qom-Tobas, Chané, Chorotes, ndr), ma ammetto di aver lavorato poco con essi. Io credo nel loro diritto di vivere la propria cultura. Allo stesso tempo, però, sono convinto che se essi vogliono progredire, dovrebbero assumere la cultura argentina. Non possono difendere unicamente la “loro” cultura. Ci vuole un equilibrio. Se pretendi (una casa, un lavoro), devi anche conoscere bene lo spagnolo, studiare, lavorare. Soltanto in questo modo si migliora». Padre Inverardi crede ciecamente nell’etica del lavoro. «Sì, credo nel lavoro. Ho visto in che modo il Nord America è progredito: con il lavoro. Non c’è alcun paese che possa migliorare senza lavoro. E in Argentina sarà così, se vogliono, perché è un paese con molte risorse. Diversamente, rimarrà il paese di oggi: la povertà di troppa gente e la ricchezza nelle mani di alcuni».

Un cartonero per le strade di Buenos Aires; oggi in Argentina i poveri sono 17 milioni (il 43 per cento della popolazione). Foto Dan DeLuca.

Per una fede senza ideologia

In tema di religione, nel continente americano sono nate e cresciute due interpretazioni del cristianesimo, nuove e contrapposte: nei paesi latinoamericani la teologia della liberazione, in Nord America le nuove chiese evangeliche. «La teologia della liberazione – spiega padre Inverardi – può essere un mezzo con il quale possiamo aiutare i popoli a crescere nella fede, a crescere nella libertà e responsabilità. Allo stesso tempo, dobbiamo avere dei limiti chiari. Non possiamo confondere quella teologia con il comunismo. La teologia della liberazione deve essere presentata sempre alla luce di Cristo. È Cristo che è il liberatore. È Cristo che ci guida. Per me, una teologia non può mai trasformarsi in una ideologia umana».

«In America Latina, molti si dicono cattolici, ma praticamente non conoscono molto di Cristo. Hanno una conoscenza superficiale della dottrina cristiana. Chiedono qualcosa. Le Chiese neoevangeliche offrono ciò che piace loro e per questo sono ritenute più vicine alla gente. È così che si spiegano i passaggi da una religione all’altra. Al contrario, la Chiesa cattolica non può dire unicamente quello che piace agli uomini, quello che essi vogliono ascoltare».

Il papa in Argentina?

Papa Francesco ha annunciato di voler visitare l’Argentina nel 2024: sarebbe la prima volta durante il suo pontificato. Foto Annett Klingner – Pixabay.

Dal 2013, al Vaticano siede papa Francesco. Nei suoi dieci anni di pontificato il papa argentino non ha mai trovato modo di visitare il suo paese natale. Chiediamo una possibile spiegazione al nostro interlocutore. «Ci sono varie ragioni. Penso che la ragione fondamentale della sua mancata visita sia riconducibile al fatto di conoscere molto bene la complessa realtà politica dell’Argentina. Quando era cardinale di Buenos Aires, lui soffrì molto gli attacchi della politica. Oggi teme che il suo arrivo potrebbe creare dei problemi. Detto questo, a me personalmente farebbe molto piacere se si recasse in Argentina. Perché sono in tanti ad aspettarlo».

Il desiderio potrebbe essere presto realizzato: da poco, Francesco ha dichiarato (al quotidiano La Nación del 23 aprile 2023) di voler visitare il suo paese nel 2024. «Mi piace molto – continua il missionario – la semplicità di papa Francesco, la sua chiarezza e il suo pensiero teologico, la sua idea che la Chiesa debba essere una Chiesa povera. Tuttavia, allo stesso tempo, con alcuni suoi giudizi ha creato un po’ di confusione. Forse è la gente che non lo intende, però lui offre la possibilità di entrare in campi ambigui. Per esempio, sui temi dell’omosessualità e delle donne nella Chiesa».

Per concludere, chiediamo a padre Inverardi un giudizio sull’anima ambientalista di papa Francesco. «Mi è molto piaciuta la Laudato si’. Io credo nel progresso, ma esso è un autentico soltanto quando rispetta l’armonia della creazione. Quando questo non avviene, nascono i problemi».

Paolo Moiola

 




Le briciole dei ricchi e la giustizia sociale


Sul mercato gli individui non sono tutti eguali. La soluzione non è però il «capitalismo compassionevole». È compito dello stato correggere le distorsioni con l’imposizione fiscale. Soltanto così è possibile perseguire la giustizia sociale.

La generosità è un valore, ma quanto è sano affidare la soluzione dei problemi sociali alla libera generosità dei cittadini? È una domanda che vale la pena porsi perché si fa sempre più marcata la tendenza a trasformare la solidarietà in un optional.

L’optional ci piace, ci dà un senso di libertà che ci imprime leggerezza. Del resto, questo è il sogno che il mercato ci trasmette: i mercanti offrono, i consumatori scelgono. In piena libertà. Se vogliono prendono, altrimenti lasciano. Almeno così va l’adagio. In realtà, c’è anche la situazione in cui si vorrebbe comprare, ma non si può perché non si hanno i soldi per farlo. Questo tipo di impossibilità materiale, al mercato non interessa. Eppure, è proprio questa non libertà, altrimenti chiamata miseria, che dobbiamo prefiggerci di eliminare tramite ciò che Rousseau ha chiamato «Contratto sociale»: la rinuncia da parte di tutti di un frammento di libertà individuale per costruire una libertà collettiva più ampia. La libertà più ampia si chiama «giustizia sociale». Il frammento di libertà individuale ridotta si chiama «imposizione fiscale».

Ricchi e poveri

L’umanità, almeno quella occidentale, ci ha messo qualche millennio per guardare ai poveri come a persone ferite nella loro dignità. Fino a qualche secolo fa eravamo talmente barbari da considerare legittima la schiavitù e la servitù della gleba. Complici le espressioni religiose, compresa quella cristiana, che per vari secoli ha avallato l’ordine costituito comprendente la schiavitù.

È famoso l’invito contenuto nella terza lettera di Paolo ai Colossesi: «Voi, schiavi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni: non servite solo quando vi vedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore». Posizioni riprese da importanti esponenti ecclesiastici successivi che invitavano i poveri ad accettare con rassegnazione la propria posizione di sofferenza. Nel contempo, però, si rivolgevano anche ai ricchi affinché sapessero essere caritatevoli.

Una combinazione comportamentale poco comprensibile sul piano sociale, forse con una sua giustificazione escatologica se concepiamo la miseria, e più in generale la sofferenza, come un’opportunità di prova al servizio di un tribunale celeste la cui funzione principale è quella di giudicare l’umanità. Ognuno secondo la propria posizione: i miseri messi alla prova rispetto alla capacità di accettare la sofferenza, i benestanti messi alla prova rispetto alla capacità di attivare sentimenti di pietà. Da cui l’imperativo ai miseri di accettare la propria condizione di sofferenti e ai benestanti di destinare parte delle proprie fortune in beneficienza per sollevare le sorti dei miseri. Impostazione che, nel Medioevo, permise la crescita di ospedali, mense, ricoveri, gestiti dalla Chiesa con i soldi messi a disposizione dalla nascente classe mercantile che aveva incluso la beneficienza nei propri bilanci economici sotto la voce «conto di messer Domeneddio». Primordi di quel capitalismo compassionevole che la tradizione protestante rafforzerà ulteriormente.

È un mondo costruito attorno ai soldi. Foto Pixabay.

L’affermazione dei diritti

L’idea di liberazione totale dalla miseria, e più in generale dalla sofferenza, inizia a farsi strada a fine Settecento quando l’illuminismo introduce il concetto di diritto. Una condizione positiva e inviolabile che deve essere garantita ad ogni essere umano per il fatto stesso di esistere. Un principio che, essendo stato coniato dalla classe borghese, inizialmente era limitato ad alcuni diritti civili: libertà di pensiero, proprietà privata, tutela giuridica. Più tardi, però, i movimenti socialisti riuscirono ad estendere il concetto di diritto anche ad aspetti sociali. E la completezza si raggiunse nel 1948 con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo da parte dell’Onu che all’art. 25 recita: «Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà».

Affermati i diritti, la domanda che dobbiamo porci è chi deve garantirli. Di sicuro, non la solidarietà individuale per sua natura incerta e precaria. I diritti si pretendono dalla comunità, la quale deve farsene carico attraverso un patto di solidarietà collettiva. Esattamente come prevede la nostra Costituzione, che nello stesso articolo, il numero 2, richiama i diritti e istituisce il dovere di solidarietà: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». E poiché viviamo in un sistema basato sul denaro, uno degli strumenti cardine della solidarietà è quello fiscale a cui «tutti devono concorrere in ragione della propria capacità contributiva».

Così afferma l’articolo 53 della Costituzione, che aggiunge: «Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Un criterio che potrebbe essere riassunto con la massima: quanto più guadagni, tanto più devi essere disponibile a pagare aliquote più alte.

Nel secondo dopoguerra, quando la scena era dominata da un forte movimento operaio, in tutta Europa venne raggiunto un alto livello di welfare finanziato da un sistema fiscale che colpiva in maniera particolare le classi ricche. Perfino negli Stati Uniti nel 1963 l’aliquota oltre i due milioni di dollari (rivalutati ad oggi) era al 91%. In Italia la riforma fiscale del 1974 organizzò l’imposta sui redditi delle persone fisiche (Irpef) su 32 scaglioni con l’ultima aliquota al 72% oltre i 258mila euro. Ma non passò molto tempo che già si cominciò ad attenuare la progressività riducendo gli scaglioni e modificando le aliquote fiscali con innalzamento di quelle sui redditi medio bassi e riduzione su quelli alti.

Patrimoniale? «Sì, grazie»

Ormai stava soffiando un nuovo vento, il vento neoliberista, riassumibile in tre parole chiave: più mercato, più profitti, meno stato. E se nel 1983 gli scaglioni erano già diventati nove, con l’aliquota più bassa al 18% e quella più alta al 65%, nel 2007 gli scaglioni li troviamo a cinque con l’aliquota più bassa al 23% fino a 15mila euro e la più alta al 43% oltre 75mila euro.

La conclusione è che su un reddito di 3 milioni di euro (secondo il valore di oggi) nel 1974 lo stato si sarebbe preso 1 milione e 713mila euro (57,1%), oggi se ne prende solo 1 milione e 283mila (42,7%). Da una ricerca condotta da Cadtm (Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi), si apprende che fra il 1983 e il 2017 i favori accordati alle classi ricche hanno procurato allo stato un mancato incasso stimabile in 146 miliardi. Ammanco che ha prodotto due risultati: aumento del debito pubblico e meno diritti.

Ad esempio, nel suo rapporto Bes (Benessere equo e sostenibile) del 2021, l’Istat certifica che «tra il 2010 e il 2018, l’offerta ospedaliera è andata modificandosi, con una riduzione delle strutture e dei posti letto. In particolare, il numero di questi ultimi è diminuito in media dell’1,8% l’anno, fino ad arrivare, nel 2018, a una dotazione di 3,49 posti letto – ordinari e in day hospital – ogni 1.000 abitanti».

A giudicare dall’intensità con cui si raccolgono fondi, la ricerca sembra uno dei settori meno sostenuti dalla mano pubblica. Ogni anno la Rai indice la settimana di raccolta fondi per Telethon, la fondazione che finanzia la ricerca a favore delle malattie rare. Identicamente anche la fondazione Firc-Airc s’inventa ogni sorta di iniziativa per raccogliere fondi a favore della ricerca sul cancro. La rivista Vita che elabora i dati forniti dal ministero dell’Economia e delle Finanze sulle detrazioni e deduzioni per erogazioni liberali, stima che nel 2019 l’insieme delle donazioni versate dagli italiani, ammonti a 5,3 miliardi di euro, che rappresenta quasi il 3% del gettito Irpef incassato dallo stato.

Basterebbe aumentare di qualche punto l’aliquota sui redditi alti e lo stato potrebbe incassare ciò che serve per garantire i fondi ad attività essenziali come la ricerca, il miglioramento della sanità, l’assistenza a fasce fragili oggi lasciate alla benevolenza. E ancora di più potrebbe essere raccolto se si introducesse una patrimoniale, ossia una tassazione sull’insieme della ricchezza posseduta. Che è una proposta fatta nel dicembre 2020 da alcuni parlamentari di Leu e del Pd che prevedeva l’introduzione di quattro scaglioni d’imposta. Partendo da un’aliquota dello 0,2% su un patrimonio complessivo di 500mila euro, l’aliquota sarebbe dovuta salire allo 0,5% al raggiungimento di un milione di euro, per andare all’1% sopra i 5 milioni e finire al 2% oltre i 50 milioni. Percentuali tutto sommato modeste, che però non hanno trovato il consenso del parlamento che ha bocciato l’intera proposta.

Dollari. Foto Rabe-Pixabay.

Paradisi e perdite fiscali

Perfino l’Ocse, l’istituto dei paesi occidentali addetto alle analisi economiche, ammette che disuguaglianze e dissesto sociale sono fenomeni aggravati da un sistema fiscale sempre più accomodante con i ricchi. E cita al riguardo la tassazione dei redditi d’impresa scesa mediamente dal 32,5% nel 2000 al 23,9% nel 2018. Non contente molte imprese globali ricorrono ai paradisi fiscali per occultare i propri guadagni e non avere da pagarci sopra un bel niente. Tax justice network stima che lo spostamento di profitti e ricchezze nei paradisi fiscali abbia provocato agli stati una perdita fiscale di 427 miliardi di dollari nel 2020. E in prima fila, fra i furbetti dell’evasione (tax avoidance, per dirla all’inglese), si trovano i colossi del web, gli stessi che permettono ai propri amministratori delegati di comparire ai primi posti per donazioni: Jeff Bezos patron di Amazon, MacKenzie Scott moglie dello stesso, Jack Dorsie patron di Twitter, Charles Schwa patron di Netflix. Aziende queste che, tra l’altro, non brillano neanche per rispetto dei diritti dei lavoratori.

Strana logica quella di arricchirsi alle spalle dei lavoratori e delle casse pubbliche e poi mostrarsi buoni versando qualche briciola in beneficienza. Strana in una prospettiva morale, ma perfettamente coerente in una prospettiva di potere. Perché, alla fine, di questo si tratta: mostrare un po’ di bontà di facciata con il duplice scopo di ottenere consenso attorno a uno dei peggiori sistemi economici che l’umanità abbia partorito e controllare punti strategici del sistema.

Tipico quello dei vaccini, su cui la fondazione Bill Gates (ex patron di Microsoft) ha investito somme altissime, e quello delle Nazioni Unite finanziata a piene mani da privati fra cui Ted Turner (cofondatore della Tv globale Cnn). Del resto, il secondo finanziatore dell’Organizzazione mondiale della sanità è proprio la Fondazione Bill Gates che contribuisce per il 10% circa. «Dopo tutto – per dirla con le parole di Nicoletta Dentico, autrice di Ricchi e buoni? (si veda Dietro la bontà del capitalismo, MC gennaio-febbraio) – una mano lava l’altra. La ricchezza delle aziende permette la filantropia, la filantropia apre nuovi mercati alle aziende. Il filantrocapitalismo non ci rimette mai. La democrazia, sì».

Francesco Gesualdi

 




Carta d’identità: taiwanesi

Testo Mirco Elena |


La grande maggioranza degli abitanti della «provincia ribelle» (come Pechino definisce l’isola) si sente taiwanese. E il dato è ancora maggiore tra i giovani. Tuttavia, sono una minoranza coloro che vorrebbero l’indipendenza dalla Cina, opzione giudicata troppo rischiosa, e pochissimi quelli che vorrebbero l’unificazione. Per il momento, a Taiwan pare meglio il mantenimento dello «status quo»: né unificazione, né indipendenza.

Un recente studio, pubblicato dal quotidiano United Daily News1, sostiene quanto segue: il 73% della popolazione dell’isola dichiara di sentirsi taiwanese, mentre cinese solo l’11%2. Un’analoga inchiesta effettuata vent’anni prima, trovava valori rispettivamente del 44% e del 31%. Se ne può quindi dedurre come un certo spirito indipendentista si sia molto rafforzato. Ancora più impressionante appare il cambiamento se si considera che, nella fascia d’età 20-29 anni, questo dato sale addirittura all’85%. Per completare il quadro, si noti che il 10% della popolazione si sente sia taiwanese che cinese, mentre il 6% delle persone si è rifiutato di rispondere alle domande dell’indagine. Una domanda più politica ha infine riguardato l’indipendenza del paese, con il 46% della popolazione che si è dichiarata in favore della prosecuzione indefinita dell’attuale situazione, mentre il 19% preferirebbe muovere velocemente verso l’indipendenza e solo il 4% vorrebbe invece una rapida unificazione con il continente. Il 17% è infine a favore dell’indipendenza, ma preceduta da un lungo status quo. Considerando tutti quelli in vario modo a favore dell’indipendenza, si nota infine che il loro numero è aumentato dell’8% rispetto all’anno precedente.

Essendo chiaro a tutti che il processo di distacco formale dall’idea di una Cina unificata potrebbe comportare gravi rischi, l’indagine ha anche esaminato il prezzo che i cittadini sarebbero disposti a pagare, pur di ottenere l’indipendenza formale. Ne è risultato che il 43% della popolazione complessiva taiwanese potrebbe accettare un drastico calo dei turisti provenienti dalla Cina; per un 20%, l’isola potrebbe sopportare la perdita della maggior parte dei suoi circa 20 alleati diplomatici all’Onu, e addirittura una guerra. Il 16% affronterebbe un blocco economico. Infine poco più del 20% della popolazione pensa invece che l’indipendenza dell’isola non meriti alcun sacrificio.

Tsai Ing-wen, prima donna presidente di Taiwan, osserva l’addestramento dell’esercito taiwanese (25 maggio 2017/ AFP PHOTO / SAM YEH

Più giapponesi che cinesi

Quando si arriva a Taipei, capitale di Taiwan, ci si potrebbe attendere di trovarsi in un ambiente tipicamente cinese. Certamente lo è, per gli ideogrammi presenti ovunque, per la simbologia religiosa, per le decorazioni, ma basta poco per rendersi conto che ci sono alcune notevoli differenze rispetto alla Cina continentale. Se la popolazione di quest’ultima è, per certi aspetti e modi di fare, molto simile a quella italiana3, i taiwanesi sono in un certo senso molto più «tedeschi» (ma, per ragioni geografiche e storiche, meglio sarebbe dire «giapponesi»). La capitale taiwanese è più pulita rispetto alla media cinese; la gente ha un maggior civismo e senso dell’ordine.

Da quanto detto in precedenza, risulterà facile capire come questa differenza si possa probabilmente far risalire all’effetto del mezzo secolo di colonizzazione giapponese, durata dal 1895 al 1945. Con tipica efficienza nipponica l’amministrazione isolana di quel periodo operò in modo da inculcare nella popolazione locale i modi ed i valori propri dell’arcipelago del sol levante: pulizia, ordine, efficienza, senso del dovere. Quando subentrarono i nazionalisti cinesi di Chiang Kai-shek, questi portarono con loro alcune tradizionali caratteristiche cinesi antitetiche a quelle giapponesi: burocrazia arrogante, familismo, corruzione diffusa, disorganizzazione, individualismo anarcoide ed egoistico. Non proprio quello cui erano stati abituati i taiwanesi. Aggiungiamoci l’esercizio della violenza per reprimere ogni protesta e dissenso ed ecco che l’origine dell’insoddisfazione di molti taiwanesi diventa comprensibile. Se ciò non bastasse, ricordiamo come un ruolo non trascurabile debba averlo giocato anche la notizia delle atrocità e delle distruzioni perpetrate dalle guardie rosse al tempo della rivoluzione culturale scatenata da Mao sulla terraferma.

Taipei, © Tsaiian

Piccoli esempi di quotidianità taiwanese

Quanto ancor oggi ci sia di «giapponese» nella società taiwanese lo possiamo dedurre da qualche episodio, successo direttamente all’autore di queste righe o riferitogli da fonti affidabili. Iniziamo da quel che capita un sabato quando alle quattro di mattina mi trovo a dover attraversare una strada cittadina a quattro corsie per prendere l’autobus che avrebbe dovuto poi portarmi all’aeroporto di Taipei. Traffico zero. Nessuno in giro. O quasi. Quando arrivo al semaforo che regola l’attraversamento pedonale c’è lì un signore che disciplinatamente attende che diventi verde. La tentazione di attraversare, pur col rosso, è forte. Mi pare illogico e inutile aspettare in quelle condizioni; oltre a noi due non c’è anima viva né traccia di autoveicoli nei dintorni. Lui, tranquillo, aspetta; io fremo. Mi dà però fastidio l’idea di mostrarmi un ospite cafone, che arriva in una nazione e ne viola le regole. Allora attendo anch’io. Il silenzioso e paziente signore, forse senza nemmeno volerlo, mi ha dato una lezione di civismo.

La disciplina dei taiwanesi appare chiara anche al momento di salire su un mezzo di trasporto pubblico, o di avvicinarsi ad uno sportello. Anziché gettarsi all’assalto, come tende ad avvenire sulla terraferma, i cittadini dell’isola si dispongono in fila e pazientemente attendono il loro turno. Come gentlemen inglesi.

Cyril, un francese stabilitosi sull’isola dopo aver sposato una ragazza locale, mi racconta che qui tantissime persone usano moto e motorini. Ma non era necessario che me lo dicesse lui; me ne ero già accorto, girando per la città. Quel che mi sorprende è invece la sua assicurazione che tutti usano lasciare il casco (che si deve obbligatoriamente indossare quando si è sul mezzo) semplicemente appoggiato sulla moto, quando questa viene parcheggiata; anche quando la si lascia per la notte a lato della strada. Nessuno lo fissa con un lucchetto, dato che non c’è chi pensi di rubarlo. O quasi. Cyril mi confessa che, in dodici anni di permanenza sull’isola, gliene hanno involato solo uno, nuovissimo e rosso brillante, proprio il giorno in cui lo aveva comperato. Il commento del filosofico Cyril è semplicemente «era troppo bello, avrebbe fatto gola a chiunque!». Ancora in fatto di furti, mi dice che, per la sua esperienza di insegnante di lingue, se uno scolaretto trova per terra una banconota da cento dollari, la prima cosa che fa è andare dalla polizia o da un vigile a consegnarla. Non proprio il tipo di comportamento che ci si aspetta di trovare in Cina continentale (ma nemmeno in Italia, a essere sinceri).

Da questi piccoli esempi non possiamo certo trarre nulla di più che qualche modesta indicazione sull’animo, la cultura, i modi di fare dei taiwanesi. Resta il fatto che, come si è visto un poco anche alle ultime elezioni, l’insofferenza per Pechino è forte in ampi settori sociali.

© Mirco Elena

Preservare lo «status quo» (per evitare il peggio)

Come si esce da una situazione in cui potrebbe bastare un errore di valutazione, una dichiarazione azzardata, un intervento esterno mal progettato e peggio eseguito per scatenare uno scontro militare di ampie e imprevedibili proporzioni? Abbiamo già detto che gli Usa sono da tempo impegnati a difendere Taiwan nel caso venisse attaccata dalla Cina. Data anche la loro tendenza storica ad usare la forza per risolvere intricati problemi politici, questo potrebbe facilmente portare ad uno scontro tra le due grandi potenze4, che potrebbe sfociare in uno scambio nucleare. Nonostante la disparità di forze in campo (la Cina ha circa 300 ordigni, mentre gli Usa oltre 5.000, di cui «solo» 1.500 operativi) gli esiti sarebbero certo pesanti per entrambe le nazioni e l’intero quadrante geopolitico Est asiatico (se non addirittura quello mondiale) potrebbe venirne stravolto.

© Mirco Elena

La modalità più sicura per evitare problemi così seri sarebbe certo quella di ridurre la tensione e la probabilità del ricorso ai mezzi militari. Potrebbe risultare decisiva una ribadita adesione taiwanese all’idea di una sola grande Cina, immaginata, almeno in prospettiva, riunificata. In subordine potrebbe bastare, almeno per il momento, il mantenimento dello status quo, in cui Taiwan non si esprime chiaramente né a favore né contro l’unificazione o l’indipendenza.

Un utile passo avanti si potrebbe poi avere se lo speciale regime autonomo vigente a Hong Kong5 continuasse ad avere successo nel garantire le libertà politiche, economiche e sociali. In tal modo assicurando i taiwanesi che, anche nell’ipotesi di una riunificazione con Pechino, le caratteristiche fondamentali della loro democrazia sarebbero preservate e protette.

Positiva sarebbe anche una maggior comprensione da parte americana delle sensibilità della Repubblica popolare, così da evitare mosse interpretate come provocatorie ed offensive. Purtroppo, specie in epoca Trump, questo appare niente più che un evanescente sogno.

Non si dimentichi tuttavia che proprio la Cina ha bisogno di una situazione di perdurante pace, per poter continuare il proprio ambizioso programma di ammodernamento e di miglioramento degli standard di vita di tutta la popolazione. Inoltre la sua attuale forte inferiorità militare può e deve indurre Pechino ad essere prudente, anche nel caso debba ingoiare qualche indigesto rospo a stelle e strisce.

Sulla base di queste considerazioni, e ricorrendo abbondantemente all’ottimismo, possiamo confidare che, nonostante le periodiche tensioni e le loro accentuazioni, non si giunga a scontri militari potenzialmente in grado di portare a una situazione catastrofica. Questo detto, forse è meglio che chi ha fede, preghi che davvero sia così. E chi non crede, incroci le dita.

Mirco Elena
(seconda parte – fine)

 

Note

(1) Giornale che si caratterizza per una posizione fondamentalmente a favore dell’unificazione con la Cina.

(2) Rilevazione compiuta tra il 15 e il 19 febbraio 2016, su un campione di 1.019 persone, con un margine di errore dichiarato del +/-3,1%.

(3) Si veda il libro «Cina e Italia allo specchio», di Mirco Elena e Yu Jin, pubblicato nel 2015 dal «Centro studi Martino Martini per le relazioni culturali Europa-Cina» di Trento.

(4) Certo si potrebbe pensare che la promessa americana costituisca nulla più che un bluff, dato che la Cina ha la capacita di lanciare missili con testata nucleare in grado di raggiungere il territorio statunitense, con ciò disponendo di un potente strumento di dissuasione nei confronti degli statunitensi.

(5) Riassunto nel motto «Un paese, due sistemi».

© Mirco Elena


La situazione religiosa

La libertà è un mosaico

Dalle religioni d’origine cinese al cristianesimo, a Taiwan il mosaico religioso è composto di molti tasselli.

Al contrario che nella Cina continentale a Taiwan la libertà religiosa è assicurata. Questo ha generato un mosaico di fedi assai variegato.

L’ultima inchiesta pubblica – condotta dalla sezione affari religiosi del ministero dell’Interno – sulla situazione a Taiwan risale al 2005. Secondo questo studio, il 35% della popolazione taiwanese si considera buddhista e un 33% taoista. Di rilievo sono anche alcune religioni sincretiche di origine cinese come il Yiguandao (I-Kuan Tao), che attinge da buddhismo, taoismo e confucianesimo, ma anche dal cristianesimo. Questa religione è illegale nella Cina continentale.

La ricerca del 2005 evidenzia anche la presenza di circa un milione di aderenti al Falun Gong, la disciplina spirituale che utilizza elementi della cultura tradizionale cinese (ma che in Cina è fuorilegge dal 1999).

Il cristianesimo arrivò a Taiwan (allora nota come Formosa, dal nome affibbiato all’isola dai marinai portoghesi) con gli spagnoli (1626-1642) e con gli olandesi (1624-1662), che alla fine prevalsero. I primi vi portarono il cattolicesimo, i secondi il protestantesimo. Oggi si contano più di 900mila cristiani, di cui 600mila protestanti e 300mila cattolici. I cristiani – pari a circa il 3,9 per cento della popolazione totale – sono soprattutto tra le popolazioni aborigene (appartenenti queste al gruppo austronesiano) e tra gli immigrati filippini. Anche l’islam è presente, ma quasi esclusivamente tra gli immigrati indonesiani.

Pa.Mo.

Comunita? filippina nella cattedrale di Hsinchu. © Ugo Pozzoli




Usa-Cina 2017:

Il capitalista e il comunista


A inizio aprile il presidente statunitense Trump e quello cinese Xi Jinping si sono incontrati per la prima volta. Hanno discusso soprattutto dei temi economici su cui Pechino e Washington (e i paesi occidentali) rimangono distanti. La Cina opera con successo sui mercati internazionali, ma è restia ad adeguarsi alle regole del commercio mondiale. Proprio durante i colloqui, Trump ha trovato il tempo per lanciare 59 missili contro una base siriana mostrando i muscoli ad amici e nemici.

Lo scorso 6 aprile per la prima volta il capitalista americano Trump e il comunista cinese Xi, a capo delle due nazioni più potenti al mondo, si sono stretti la mano, con al fianco le loro eleganti signore. Lo hanno fatto in una lussuosa villa-castello, la Mar-a-Lago Club, proprietà della famiglia Trump, sulla spiaggia delle palme in Florida, a un tiro di schioppo dal Mar dei Caraibi.

Figlia delle riforme di apertura economica che Deng Xiaoping avviò all’inizio degli anni Ottanta, con l’abbandono della dura autarchia maoista, la Cina contemporanea, entrata a far parte nel 2001 dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), si può sedere oggi allo stesso tavolo del presidente degli Stati Uniti, per trattare da pari a pari di commerci internazionali, di multinazionali, di tassi di cambio, pur continuando ad essere guidata dal più grande partito comunista della storia con i suoi 90 milioni di iscritti.

Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. UN-Photo_Evan-Schneide

Le tensioni esistenti

Oggi comunisti e capitalisti sembrano andare a braccetto. Sono remoti i tempi della crisi dei missili che nel 1962 contrappose, di fronte alle coste caraibiche di Cuba, l’arsenale nucleare statunitense a quello sovietico. Il mondo attuale per fortuna non è più lo stesso, la guerra fredda è finita, ma i comunisti cinesi, a differenza di quelli sovietici, sono ancora al loro posto.

Possiamo quindi parlare di vicinanza, ma non di alleanza. Infatti molti sono ancora i punti di attrito tra la potenza nucleare cinese e quella statunitense. Solo per citare quelli che rischiano di portare allo scontro i due paesi, possiamo elencare: crisi Nord coreana, tensioni tra Giappone e Cina sulle isole Senkaku/Diaoyu, ritorno di Taiwan alla Cina, contenzioso territoriale nel Mar cinese meridionale tra Cina e paesi rivieraschi.

Serve ancora tempo. Cina e America sono ormai una coppia di fatto, ma per nulla affiatata. Le moderne relazioni tra Stati Uniti e Repubblica popolare si sono riallacciate pienamente solo all’inizio degli anni Settanta, preparando le condizioni internazionali che avrebbero portato trent’anni dopo i comunisti cinesi nel Wto.

Dal ping pong al Wto (1971-2001)

Nella primavera del 1971, con la guerra del Vietnam in corso, il governo cinese fece invitare alcuni giocatori statunitensi di tennis da tavolo a Pechino, per giocare qualche partita con i colleghi cinesi. Da questa piccola iniziativa nacque quella che venne definita «la diplomazia del ping pong», che aprì le porte alle relazioni sino-americane interrotte dalla conclusione della seconda guerra mondiale.

Alla fine dello stesso anno gli Stati Uniti tolsero il veto e a Pechino venne assegnato il seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu al posto di Taipei.

Nel 1972 il presidente americano Richard Nixon fece visita al paese guidato da Mao Zedong. Nell’estate del 1981 Deng Xiaoping, erede di Mao al comando dei comunisti cinesi, tracciò una riga di condanna sugli errori del maoismo, avviando il paese verso un difficile e lungo percorso di riforme, non solo economiche, ma anche istituzionali, con alterne vicende e tensioni con Europa e Usa.

Infine nell’autunno del 1992 Jiang Zemin, al potere in Cina dopo Deng, lanciò la politica di internazionalizzazione dell’economia cinese, coronata dall’ingresso della Cina nel Wto nell’inverno 2001. Da quel momento in avanti e per tutto il decennio che ne seguì, la Cina, guidata da Hu Jintao, colse i frutti di questa nuova appartenenza al circuito dei commerci mondiali, si arricchì molto, anche se non sempre contribuì pienamente al rispetto delle nuove regole imposte dal Wto.

La classe dirigente americana ha sempre confidato nel fatto che la Cina, una volta aiutata a uscire dal regime di autarchia in cui l’aveva condotta il maoismo, con l’arrivo degli ingenti investimenti esteri, affluiti nel paese, dopo l’inizio della politica di apertura e delle riforme economiche, avrebbe con il tempo introdotto anche le riforme politiche, avviandosi ad essere un paese liberaldemocratico.

Mercato sì, comunismo anche

La Cina resta, e lo resterà a lungo, un paese socialista, che utilizza i meccanismi dell’economia capitalista per rafforzarsi, sotto l’aspetto economico e sociale, ma restando inamovibile sul controllo e la direzione che il Partito comunista deve esercitare sull’ideologia di governo, sulle istituzioni statali e sui settori strategici dell’economia.

Questa è anche l’accusa che hanno sempre mosso gli Stati Uniti alla Cina. Cioè quella di approfittare dei vantaggi offerti dal mercato internazionale, senza però consentire nel suo territorio una libera circolazione delle merci e dei capitali, attraverso pratiche protezionistiche e a volte truffaldine, come il furto di tecnologia e di proprietà intellettuale, lesive della libera concorrenza.

I cinesi sanno bene che il mercato perfetto è solo un’astrazione, buona per i manuali di economia, difficilmente però applicabile alle concrete relazioni internazionali. Le condizioni di sviluppo economico e la maturità tecnologica dei vari paesi non sono sullo stesso piano. La semplice applicazione meccanica di regolamenti astratti rischierebbe seriamente di compromettere le economie più deboli, invece di condurle verso il pieno sviluppo economico e sociale. Probabilmente anche in futuro i cinesi resteranno impegnati nella realizzazione delle riforme socioeconomiche necessarie, ma senza farsi dettare da nessuno l’agenda dei tempi e delle scadenze.

Ad esempio, è prevedibile che nei prossimi anni le industrie strategiche resteranno in mano pubblica, che i settori ad alta tecnologia nell’industria e nei servizi, prima di essere aperti alla concorrenza internazionale, verranno rafforzati, puntando ad essere credibili multinazionali leader nei vari settori commerciali. 

La Cina per molti anni ha potuto definirsi un paese in via di sviluppo, così da richiedere maggiore indulgenza su tutte le sue documentate mancanze, nel campo della libera concorrenza, della politica monetaria, delle tariffe doganali, delle quote di importazione, della proprietà intellettuale, delle liberalizzazioni ecc… Ma la misura sembra essere colma, se la stessa Europa un anno fa, in linea con le valutazioni del Congresso degli Stati Uniti, ha rifiutato alla Cina lo status di economia di mercato. Fino a quando però le aziende americane ed europee fiuteranno la speranza delle immense possibilità di fare business in una società cinese più libera e orientata ai consumi, le relazioni tra Cina e Occidente resteranno tese, ma non si spezzeranno.

Stile Trump: la pistola sul tavolo

Tornando ad aprile. L’incontro al Mar-a-Lago Club è stato impeccabilmente organizzato dalle due delegazioni, almeno fino al dessert. Poiché a quel punto Trump ha deciso, prima di congedare ufficialmente i suoi ospiti, di fare un colpo di teatro, mettendo la pistola sul tavolo, come si usava fare nei vecchi film western tra giocatori di poker in un saloon, dando cioè l’ordine alle navi da guerra della sesta flotta, che incrociavano nel Mediterraneo, di lanciare una sessantina di missili sull’aeroporto militare siriano da cui erano partiti gli aerei del presidente Assad, sospettati di un precedente attacco chimico sulla città di Idlib, in mano alle milizie islamiste anti Assad.

Un paio di giorni dopo ha ordinato alla terza flotta, guidata dalla portaerei a propulsione nucleare Carl Vinson, di lasciare Singapore per dirigersi in assetto da guerra di fronte alle coste della Nord Corea, che nel frattempo aveva annunciato di voler condurre l’ennesimo test nucleare o l’ennesimo lancio di missili balistici. Infine, ancora pochi giorni dopo, ha ordinato il lancio, su una base del terrorismo islamico in Afghanistan, della nuova, e mai usata prima, potentissima bomba «Moab», in grado di distruggere i bunker più corazzati, un chiaro avvertimento al regime della Corea del Nord e indirettamente alla Cina. Gli antichi cinesi direbbero «far rumore a Est per colpire a Ovest». E i cinesi sono abituati a gestire i colpi di teatro statunitensi, siano essi ordinati da un presidente repubblicano o da un presidente democratico poco importa. Ricordiamo tutti nel 1999, sotto la presidenza del democratico Clinton, i missili che distrussero l’ambasciata cinese di Belgrado in Serbia durante la guerra del Kosovo. Errore o ennesimo avvertimento da cowboy?

Non c’è che dire, Trump ha il suo stile nel condurre gli affari di stato e lo fa in linea con gli obiettivi definiti da anni dal Pentagono come territori ostili agli interessi americani: Siria, Afghanistan, Corea del Nord. Ma è prevedibile che in futuro altri paesi entrino a far parte dell’elenco, a cominciare dall’Iran, a suo tempo anch’esso considerato da Bush figlio uno «stato canaglia».

La Cina e gli interventi militari degli Stati Uniti

Ai cinesi però non piacciono i colpi di teatro e le azioni unilaterali, soprattutto quando portano il caos e danneggiano i loro interessi. Nello specifico, la Siria, l’Afghanistan, l’Iran sono paesi a cui la Cina guarda con grande interesse, per aprire nuovi mercati di sbocco per le sue merci. Il grande progetto infrastrutturale, costituito dalla nuova «Via della Seta», prevede una serie di collegamenti commerciali, basati su strada, ferrovia, linea aerea, che mettano in contatto diretto, come avveniva nell’antichità, l’oceano Pacifico occidentale al mar Mediterraneo orientale, contribuendo allo sviluppo economico di tutti i paesi attraversati.

La pacificazione del continente euroasiatico è anche un interesse degli Stati Uniti? Agli occhi dei cinesi sembrerebbe proprio di no. Infatti il caos, cioè le tragedie sociali, economiche, umanitarie, create di fatto in Medioriente dalle politiche interventiste statunitensi degli ultimi venticinque anni e la maggiore diffusione del terrorismo, che ne è seguita, sono considerati dai cinesi una diretta conseguenza dell’avventurismo militare degli americani.

Così se guardiamo alla storia che segue la caduta del Muro di Berlino, si evidenzia da parte degli Stati Uniti un continuo susseguirsi di interventi militari (da Panama all’Iraq, dalla Somalia alla ex Jugoslavia, dall’Afghanistan alla Libia, dalla Siria forse alla Nord Corea), a conferma del fatto che gli obiettivi di politica estera e gli obiettivi economici dell’apparato militar-industriale degli Stati Uniti trovano sempre una sinergia funzionale.

Di fronte a questa consapevolezza la Cina non può far altro che ribadire in tutti gli incontri bilaterali e in tutte le sedi diplomatiche, come ripetuto anche recentemente riguardo alla crisi nord coreana, che l’interventismo militare è foriero di disastri e non di soluzioni, che è una sconfitta per tutti senza un reale vincitore. Così la Cina ritiene che, nonostante le difficoltà evidenti con gli Stati Uniti nel campo della sicurezza e della bilancia commerciale, continuino ad esserci molti più vantaggi da cogliere dalla reciproca collaborazione, a fronte degli infiniti disastri umani ed economici, anche a livello internazionale, che certamente scaturirebbero da un loro scontro aperto.

La variabile Trump

Nei rapporti con i comunisti cinesi il presidente Trump, da uomo d’affari tra i più ricchi del pianeta, non può essere considerato uno stupido. Se appare istintivo, ondivago nelle intenzioni, passando da dichiarazioni roboanti a marce indietro più diplomatiche, si ha l’obbligo, fino a prova contraria, di giudicare questo suo comportamento come la classica strategia che si adotta in una trattativa difficile, quando non conviene mostrare subito le proprie carte, così come non conviene mostrarsi alla controparte troppo prevedibili. Senza dimenticare che i cinesi la sanno lunga e da un cowboy si aspettano che, prima o poi, metta mano alla pistola.

Gianni Scravaglieri
(cinaforum.net)