La fine dell’acqua


Consumi eccessivi, inquinamento, cambiamenti climatici. L’acqua è una risorsa sempre più scarsa. Già oggi, oltre due miliardi di persone non ne dispongono a sufficienza. Senza immediati cambi di direzione la situazione è destinata ad aggravarsi.

Fino a ieri ci preoccupavamo per la fine del petrolio, oggi ci preoccupiamo per la fine dell’acqua. Con una differenza: i servizi resi dal petrolio possono essere sostituiti da altre risorse, quelli forniti dall’acqua sono unici.

Secondo il World resources institut (wri.org),17 nazioni, ospitanti un quarto della popolazione mondiale, si trovano in una condizione di altissimo livello di stress idrico, in quanto agricoltura, industria e abitazioni assorbono ogni anno più dell’80% dell’acqua disponibile. Fra essi la Tunisia, la Turchia, perfino la Spagna. Altri 40 paesi, che ospitano un altro terzo della popolazione mondiale, sono ad alto livello di stress idrico, in quanto consumano più del 40% delle loro disponibilità di acqua. Fra essi anche l’Italia, gli Stati Uniti, l’Australia, la Cina, l’India. In conclusione, metà della popolazione mondiale vive una severa scarsità d’acqua per almeno una parte dell’anno.

Visibile o nascosta

Di per sé l’acqua è una risorsa rinnovabile che, in teoria, non dovrebbe scarseggiare. Ma, come ogni altra risorsa, ha anch’essa i suoi ritmi e le sue regole che, se violate, mandano in crisi l’intero equilibrio. Quando parliamo di acqua dolce il nostro immaginario corre ai fiumi e ai laghi, ma il 99% dell’acqua dolce presente sul nostro pianeta è nascosta: per il 69% si trova nelle calotte polari e nei ghiacciai di montagna, ed è praticamente inutilizzabile. Un altro 30% si trova nel sottosuolo, ed è da lì che estraiamo gran parte dell’acqua che consumiamo. Ad esempio, le acque sotterranee forniscono il 49% di tutta l’acqua impiegata a livello mondiale per usi domestici e il 25% di quella utilizzata per l’irrigazione dei campi. Anche in Italia le acque del sottosuolo giocano un ruolo fondamentale, dal momento che forniscono l’85% dell’acqua potabile.

Anche sotto il Sahara esistono vaste riserve di acqua fino a ora inutilizzate perché poste a grande profondità. La loro formazione risale a migliaia di anni fa quando, per varie ragioni, rimasero intrappolate in mezzo a strati di materiali impermeabili. Per questo sono dette falde fossili che né crescono né diminuiscono di livello in quanto prive di comunicazione con la superficie terrestre. Quelle che invece utilizziamo per i nostri consumi, oltre a trovarsi a minori profondità, hanno una conformazione geologica che permette il loro continuo ricarico con acque di superficie, siano esse piogge o acque percolanti da fiumi e laghi. Ma i tempi di ricarica solitamente sono piuttosto lenti, per cui bisogna fare molta attenzione a quanta acqua si preleva. Quanto ai fiumi e ai laghi, i tempi di ricarica sono più veloci ma, in caso di fenomeni meteorologici avversi, la loro situazione può farsi critica da un mese all’altro perché il loro livello è direttamente dipendente dalla quantità di piogge che cadono e da come si comportano le nevi.

Oggi la sete di acqua da parte dell’umanità è più che raddoppiata rispetto agli anni Sessanta come conseguenza dell’aumento della popolazione e del desiderio di crescita economica. E mentre l’agricoltura assorbe il 70% di tutta l’acqua prelevata, e l’industria il 19%, anche l’acqua consumata in ambito domestico sta crescendo considerevolmente.

Secondo il World resources institut dal 1960 al 2014 l’aumento sarebbe stato del 600%, pur registrando ancora due miliardi di persone senza accesso ad acqua sicura e quattro miliardi di individui senza adeguati servizi igienici. Foto di un mondo attraversato da disuguaglianze a ogni livello. Tant’è che, mentre in America il consumo medio di acqua in ambito domestico è di 370 litri pro capite al giorno e in Europa di 124 litri, in Africa subsahariana arriva a malapena a 15 litri.

La siccità si espande e aggrava. Foto Jody Davis-Pixabay.

Inquinamento e clima

Il consumo è solo uno degli aspetti che incidono sulla disponibilità di acqua. Un altro è l’avvelenamento di fiumi, laghi e falde. Al primo posto sul banco degli imputati c’è il nostro assetto produttivo, sia di tipo industriale che agricolo. Un dossier pubblicato nel 2020 da Legambiente, dal titolo «H2O la chimica che inquina l’acqua», rivela che, dal 2007 al 2017, in Italia è stato immesso nei corpi idrici un totale di ben 5.622 tonnellate di sostanze chimiche riconducibili a metalli pesanti, sostanze organiche clorurate e pesticidi. Non c’è regione d’Italia che non abbia da raccontare la propria storia di avvelenamento. Il rapporto di Legambiente ne cita 46 relative agli ultimi 30 anni. Di particolare peso l’inquinamento da pesticidi (erbicidi e antiparassitari) che, essendo cosparsi direttamente sui suoli e nell’aria, finiscono più facilmente nei corsi d’acqua e nelle falde, grazie alla percolazione e all’effetto dei venti.

L’indagine condotta dall’Ispra nel 2020 su 4.388 punti di campionamento, ha trovato la presenza di pesticidi nel 55,1% delle acque superficiali monitorate e nel 23,3% delle acque sotterranee. Le sostanze rinvenute sono 183, rappresentate per la maggior parte da erbicidi. Fra essi anche l’atrazina, proibita già dal 1992, a dimostrazione di come gli inquinanti persistano a lungo nell’ambiente.

Intanto nuove minacce si affacciano all’orizzonte. In particolare la contaminazione da microplastiche che non riguarda solo i mari, ma anche i fiumi e le falde sotterranee. A questo riguardo la legge non ha ancora assunto iniziative significative forse perché non sa cosa fare.

Tuttavia, la minaccia di ultima generazione che più preoccupa si chiama cambiamenti climatici. Com’è noto, a causa dell’accumulo di anidride carbonica in atmosfera provocato dal nostro consumo eccessivo di combustibili fossili e dal numero spropositato di allevamenti animali che rilasciano enormi quantità di metano, negli ultimi 100 anni si è avuto l’aumento della temperatura terrestre di 1,1 gradi centigradi con ripercussioni sui venti, sugli spostamenti di aria fredda e aria calda e quindi sulle piogge. Nel 2015 tutti i paesi del mondo firmarono lo storico accordo di Parigi per impegnarsi ad agire per non fare crescere la temperatura terrestre oltre il grado e mezzo centigrado. Ma, a distanza di sette anni, non si vedono ancora passi significativi ed è alta la paura che il limite venga oltrepassato facendo avverare ciò che i climatologi hanno sempre pronosticato. Ossia il verificarsi di eventi estremi con zone del mondo che andranno incontro a inondazioni per eccesso di piogge e zone che invece andranno incontro a processi di desertificazione per assenza di precipitazioni. La zona del Mediterraneo, assieme all’Africa subsahariana e a vaste aree delle Americhe, sono le aree in cui le piogge si diraderanno sempre di più, come del resto l’Italia sta già sperimentando.

Senza pioggia, senza neve

L’Istat certifica che, nel 2020, la precipitazione totale annua nei capoluoghi di provincia è stata pari a 769 mm, in media 94 mm in meno sul valore medio 2006-2015. Differenze negative si registrano in 79 città con in testa Napoli (meno 423,5 mm), Catanzaro (meno 416), Pordenone (meno 401,3).

Sull’arco alpino, sopra il nord est e sulla pianura Padana, non cade seriamente acqua da oltre due anni. Nell’inverno appena trascorso la neve si è ridotta del 75% rispetto alla media degli ultimi dieci anni. Le temperature medie si sono alzate di oltre tre gradi e i ghiacciai si stanno squagliando.
Secondo il Comitato glaciologico italiano, negli ultimi 50 anni la superficie dei ghiacciai del nostro paese ha registrato una perdita del 30% con gravi conseguenze per la ricarica dei fiumi, soprattutto durante la stagione estiva. In questo 2023, già a febbraio, il Po ha registrato un calo della portata del 70% a causa della riduzione massiccia di piogge.

Di fronte ai problemi di difficile soluzione, la politica ha la tendenza a mettere la testa sotto la sabbia e, quando proprio deve fare qualcosa, si limita ad aspetti contingenti. Ad esempio, nell’aprile 2023, di fronte a una crisi idrica che aveva già procurato milioni di euro di danni all’agricoltura, il governo italiano ha deciso di intervenire nominando un commissario straordinario fondamentalmente incaricato di aumentare le riserve ripulendo dighe e invasi di acqua. E volendosi spingere un po’ più in là, attivando altri desalinizzatori oltre quelli già esistenti. Ma basterà? E soprattutto: funzionerà? La ripulitura degli invasi non aumenta la disponibilità di acqua, piuttosto cerca di evitare carenze catastrofiche durante i mesi più siccitosi. Quanto ai desalinizzatori, essi aumentano senz’altro la disponibilità d’acqua, ma a quale costo? Per togliere il sale dall’acqua marina ci vuole energia elettrica, una risorsa energetica a cui si fa sempre più riferimento per qualsiasi tipo di attività: non solo l’illuminazione, l’alimentazione di elettrodomestici e delle attività industriali, ma anche il funzionamento dei computer, il riscaldamento, la mobilità. Un’energia elettrica che dovremo ottenere esclusivamente da fonti rinnovabili, ossia sole e vento, se non vorremo finire travolti dai cambiamenti climatici o vivere nell’incubo degli incidenti nucleari. Ma riusciremo a produrne abbastanza per un fabbisogno che cresce?

In Europa l’energia elettrica da sole e vento rappresenta appena il 22% del totale, dunque c’è ancora molta strada da fare anche solo per sostituire i consumi attuali. E quanti pannelli e quante pale eoliche serviranno quando l’energia elettrica dovrà sostituire anche il gas e la benzina che utilizziamo per il riscaldamento domestico e per i motori delle nostre auto? Nel caso dei desalinizzatori, poi, c’è anche il problema dei sali che accumulano dietro di sé. Dove buttarli? In mare è la prima risposta. Ma per quanto tempo vorremo continuare a fare scelte di cui non conosciamo gli effetti nel lungo periodo? Evidentemente, la lezione dei cambiamenti climatici non ci ha ancora insegnato nulla.

Il ghiacciaio del Denali in Alaska. Anche qui i ghiacciai sono in ritirata. Foto Joris Beugels-Unspash.

L’acqua persa per strada

In ogni caso, prima di scomodare il mare, faremmo bene a recuperare l’acqua che perdiamo. Quella delle tubature idriche, prima di tutto. L’Istat certifica che, a causa di tubature fatiscenti, in Italia perdiamo il 42,2% di tutta l’acqua immessa in rete. Il volume di acqua disperso nel 2020 soddisferebbe le esigenze idriche di oltre 43 milioni di persone per un intero anno. Secondo studi citati dall’Istituto Ambrosetti, l’ammodernamento del sistema idrico italiano richiede investimenti per 65 miliardi di euro, ma il Pnrr ne ha stanziati solo 2,9.

Fra le acque che perdiamo non dobbiamo dimenticare quelle piovane che scivolano sui nostri tetti e finiscono nelle fogne. Si tratta di enormi masse di acqua che potremmo recuperare dotando le case di cisterne. Una pratica che sta tornando in uso in vari paesi europei come mostrano i casi di Germania, Francia, Austria. Acqua utilizzata per annaffiare i giardini, per lavare le auto, ma anche per gli scarichi dei Wc.

Va comunque tenuto conto che nessun rimedio rispetto all’acqua può prescindere da un altro imperativo che è quello di ridurre, ricordandoci che consumiamo acqua non solo quando ci laviamo o cuciniamo, ma anche quando ci nutriamo, ci vestiamo, ci illuminiamo. Ci vogliono 1.500 litri di acqua per ottenere un etto di carne di manzo, 2mila litri per una maglietta di cotone, 14mila litri per un paio di stivali in cuoio. Se mettiamo insieme tutta l’acqua che sta dietro a ciò che consumiamo viene fuori una media giornaliera di 5mila litri al giorno pro capite per noi abitanti dell’emisfero benestante.

Il dopante della tecnologia

Dunque, l’acqua si salva anche accettando di produrre e consumare di meno in ogni ambito del nostro vivere civile. Ma da quest’orecchio non ci sentiamo, non solo perché siamo attaccati a un’idea di benessere che si misura solo in termini di consumi, ma anche perché la crescita è il motore di questo sistema, non solo da un punto di vista economico, ma anche sociale come mostra il tema dell’occupazione.

Non volendo affrontare il vero nocciolo della questione, ci arrampichiamo sugli specchi della tecnologia ormai elevata a livello di idolo: desalinizzare l’acqua marina, sequestrare l’anidride carbonica, riprodurre il sole in laboratorio.

Ma la tecnologia da sola non ci salverà. Al contrario, rischia di diventare il dopante che ci conduce alla morte. Meglio accettare il senso del limite e cominciare a chiederci come riorganizzarci in modo da garantire una vita dignitosa a tutti utilizzando meno risorse possibile, producendo meno rifiuti possibile e lavorando quanto basta. Dobbiamo affrettarci, il tempo stringe.

Francesco Gesualdi

In Italia, le tubature idriche sono un anello debole della distribuzione dell’acqua: troppo perdite. Foto Daniel Kirsch-Pixabay.

 




Stati Uniti. Alaska, l’ultima frontiera

Un’aquila calva in inverno nel National Kenai Fjords Park, in Alaska. Foto Jeff Carpenetti – NPS.

Sommario

Alaska, il pianto dei ghiacciai

Viaggio nello stato Usa più grande e spopolato

Nel 49° stato degli Usa – posto a ridosso del Circolo polare artico – il cambio climatico è molto più evidente che altrove. Come dimostra il rapido scioglimento dei ghiacciai con tutte le conseguenze che ciò comporta. Eppure, oggi si discute su come portare le trivellazioni petrolifere in altre aree dello stato. Aree ancora intonse e selvagge.

Seward (Kenai). È una fila di cippi in legno, ciascuno con segnato un anno: 1830, 1917, 1926, 1951, 2015… Distano qualche decina di metri l’uno dall’altro: più recente è l’anno, maggiore è la distanza tra un cippo e l’altro, una distanza che misura il regresso del ghiacciaio. I numeri parlano da soli. Tra il 1815 e il 2015, esso si è ritirato di 2,5 chilometri con una progressione costante: da 19,7 metri all’anno a 29,4 (2006-’10) a 44,5 (2011-’15). In questi ultimi anni poi, l’«eccezionale» (secondo la University of Alaska-Fairbanks) incremento delle temperature medie ha ulteriormente accelerato il ritmo dello scioglimento.

Quei cippi in legno sono come lapidi funerarie che rammentano, a chiunque voglia vedere, l’agonia di Exit, questo il nome del ghiacciaio, il più accessibile tra i 35 ospitati dall’altopiano di Harding, nel Kenai Fjords National Park, sulla penisola del Kenai, a Sud di Anchorage, la città più grande (290mila abitanti) dell’Alaska.

Il ritiro di Exit è impressionante, ma probabilmente il sentimento più forte è la tristezza di vedere una meraviglia della natura contrarsi, rattrappirsi come un corpo che invecchia. Exit è soltanto uno degli oltre 27mila ghiacciai (dato 2021) dell’Alaska, che, in totale, occupano circa il 5 per cento del suo territorio (costituito a Sud dalla taiga e a Nord dalla tundra).

Oggi l’Alaska – 49° stato ad aderire agli Usa (3 gennaio 1959), il più grande (quasi sei volte l’Italia) e il meno popolato (meno di 800mila abitanti) – è la rappresentazione plastica e tangibile dei mutamenti climatici.

L’Alaska sta sperimentando profonde alterazioni ambientali dovute a eventi meteorologici estremi e mutamenti nel clima storico. Le conseguenze – temperature più alte, perdite di ghiaccio marino, riduzione del manto nevoso, degradazione del permafrost, inondazioni, incendi, acque dell’oceano più calde e cambiamenti dell’ecosistema (sia marino che terrestre) – stanno producendo impatti sulla vita quotidiana degli abitanti dello stato.

L’innalzamento della temperatura varia notevolmente da regione a regione, con il riscaldamento nelle parti settentrionali e occidentali che è doppio rispetto al tasso riscontrato nell’Alaska Sudorientale. L’International Arctic Research Center (Iarc, Università di Fairbanks, 2019) ha, infatti, registrato temperature fino a 3,2 gradi Celsius più elevate nelle zone settentrionali, fino a 2,0 gradi Celsius nelle zone meridionali e fino a 1,1 gradi Celsius lungo le coste e negli arcipelaghi.

Lo sbocco finale di Exit, ghiacciaio da anni in drammatica ritirata. Foto Paolo Moiola.

Se crescono più alberi

Le poche strade dell’Alaska hanno caratteristiche precise: dritte, lunghissime e praticamente senza traffico, si addentrano tra la taiga o la tundra. La taiga è l’ambiente tipico dell’Alaska meridionale. Più si procede verso il centro e verso Nord, più gli alberi si riducono in dimensioni (diventano piccoli e sottili) e numero, fino a scomparire del tutto, dando origine alla tundra. Tuttavia, negli ultimi anni, a causa dei mutamenti climatici, questa ha mostrato una crescita verde (greening, più piante) maggiore rispetto alla media nel lungo periodo. Un fenomeno evidenziato anche nei parchi nazionali dall’innalzamento della cosiddetta «linea degli alberi» (treeline). Come nel parco del Denali dove il passaggio dalla taiga alla tundra si distingue nitidamente. «Guardate – ci fa notare Laurie, una guida del parco -, oggi gli alberi crescono più in alto. Con conseguenze a catena, in primis sulla fauna».

Per ammirare il parco dall’alto e in particolare il Denali (per quasi un secolo chiamato Monte McKinley), per prominenza la terza montagna al mondo (6.138 metri), il piccolissimo aeroporto di Talkeetna è la base di partenza migliore. Fondata nel secondo decennio del Novecento, con circa mille abitanti ufficiali, la cittadina è, a conti fatti, una strada fiancheggiata da una fila di ristorantini e negozietti.

Entriamo al Village Arts and Crafts, uno dei piccoli empori aperti a beneficio dei turisti. Alla cassa c’è Ruth Cook, la proprietaria, una donna anziana e minuta. «Sono qui da tutta la mia vita – racconta con voce amichevole -, e ho visto tante cose cambiare. Sono cresciuti i turisti, i rifiuti e la mancanza di rispetto. E, soprattutto, i mutamenti causati dall’aumento delle temperature».

Anche se oggi il cielo è molto coperto e la pioggia incombente, i piccoli velivoli decollano da Telkeetna: volare sulla catena montuosa del Denali è un’esperienza imperdibile perché permette di ammirare lo spettacolo delle vette e dei ghiacciai. E, infatti, le aspettative sono ampiamente ripagate. Tuttavia, ai nostri occhi inesperti la visione dall’alto non consente di distinguere i segni della malattia climatica. Segni che invece appaiono evidenti in un’altra zona geografica.

Will Popoli non ha ancora vent’anni e studia geologia e storia all’Amherst College, nel Massachusetts. A McCarthy-Kennicott, all’interno del vastissimo parco nazionale Wrangell St. Elias, sta facendo esperienza come guida con l’agenzia St. Elias Alpine Guide.

Mentre, con i ramponi ai piedi, camminiamo sul Root Glacier, ci spiega le cose essenziali del ghiacciaio: i detriti morenici, la colorazione blu del ghiaccio e, soprattutto, la sua progressiva riduzione. «Sì, penso che in Alaska stia accelerando la velocità con cui i ghiacciai si stanno sciogliendo. Questo è un fatto molto preoccupante». Il Root è un affluente del Kennicott, il ghiacciaio principale. Le ricerche degli scienziati confermano che questo continua a ritirarsi ed espandere l’area coperta da detriti.

Dominio conservatore

Va riconosciuto che i 16 parchi nazionali dell’Alaska, a cui vanno aggiunti i National wildlife refuges (rifugi nazionali per animali selvatici), hanno finora rappresentato una diga contro gli interessi dei politici repubblicani e le mire dei signori del petrolio. Ma cosa pensano gli alaskani della situazione ambientale del loro stato?

Nelle conversazioni, la sensazione è che nessuno neghi gli effetti della crisi climatica, ma – allo stesso tempo – sono in molti a ritenere i mutamenti ambientali come un fenomeno naturale negando o sminuendo le responsabilità umane. Una constatazione questa che trova spiegazione (anche) nella storia dell’Alaska.

Già dal 1867 (anno in cui gli Usa l’acquistarono – a prezzo di saldo – dalla Russia zarista), la regione è stata terra di conquista del Gop (Grand old party), il partito conservatore statunitense che, per Dna, considera il cambio climatico alla stregua di una fake news. Come hanno dimostrato anche le elezioni locali (sia primarie che suppletive) dello scorso 16 agosto (e quelle di mid-term dell’8 novembre), dominate da esponenti repubblicani, eccezion fatta per la performance della democratica Mary Peltola, candidata di etnia Yup’ik, il maggiore tra i popoli indigeni dello stato (che, in totale, rappresentano il 21% della popolazione). La Peltola ha sconfitto addirittura Sarah Palin, l’ex governatrice (ed esponente del Tea Party) sostenuta da Trump.

Per ironia della sorte, le votazioni alaskane di agosto si sono tenute nello stesso giorno in cui un redivivo Joe Biden firmava la legge nota con l’acronimo di Ira (Inflation reduction act of 2022), un piano in cui sono previsti 369 miliardi di dollari di investimenti per l’energia e il contrasto ai cambiamenti climatici.

Vista aerea di un tratto della catena del Denali.

Andare oltre Prudhoe Bay?

La crisi climatica che ha investito l’Alaska è certificata da decine di studi scientifici, eppure oggi non si discute su come contrastare o, almeno, mitigare la contrazione dei ghiacciai. No, si discute di come portare le trivellazioni petrolifere nel Nord dello stato, al di fuori di Prudhoe Bay (davanti al Mar Glaciale Artico), il sito dove, da 45 anni, si estrae il petrolio dell’Alaska. Lo stato è il sesto produttore statunitense, ma la produzione è in costante declino dal 1990, arrivando oggi a 448mila barili al giorno contro i due milioni di un tempo (dati Eia, 2020).

L’espansione avverrebbe sia a Nord Ovest (nella National petroleum reserve-Alaska) che a Nord Est, nella ragione al confine con il Canada e nota come Arctic national wildlife refuge, paradiso ancora incontaminato dei caribou (renne selvatiche), ma anche di orsi (compresi quelli polari), volpi artiche, alci, buoi muschiati e lupi grigi. Dopo il permesso di esplorazione petrolifera nell’area concesso da Trump già nel dicembre 2017, il presidente Biden è riuscito – almeno per ora – a fermare il progetto (ordine esecutivo del 20 gennaio 2021).

Tuttavia, la partita non è certamente chiusa, soprattutto nella National petroleum reserve-Alaska, dove – sotto la superficie della tundra – sono state individuate vaste riserve d’idrocarburi.

Qui il progetto di trivellazione della ConocoPhillips – noto con il nome di Willow project – è stato approvato da Trump nel 2020, fermato dai tribunali nel 2021 e ancora in corso di valutazione da parte dell’amministrazione Biden da luglio 2022.

In agosto, i cartelloni elettorali di Lisa Murkowski, senatrice repubblicana dell’Alaska (considerata moderata e ben vista anche da alcuni avversari perché anti trumpiana), erano visibili anche nei posti più impensabili e disabitati dello stato.

La senatrice ha ottimi rapporti con l’industria petrolifera e, in particolare, proprio con la ConocoPhillips, il principale produttore (con ExxonMobil e Chevron che seguono a distanza) dell’Alaska, compagnia da cui lei ha ricevuto anche fondi per la propria campagna elettorale. Non stupisce, pertanto, che la Murkowski appoggi il Willow project. «Produrrà – scrive la senatrice – fino a 160mila barili di petrolio al giorno e creerà oltre duemila posti di lavoro ben pagati per gli abitanti dell’Alaska». Ben diversa è la posizione degli scienziati e della Wilderness society: Willow è una bomba al carbonio (carbon bomb) che aggiungerebbe più di 250 milioni di tonnellate di CO2 all’atmosfera nei prossimi 30 anni e probabilmente stimolerebbe la costruzione di strade, oleodotti e impianti di lavorazione.

Come prevedibile, il progetto è altamente divisivo tra gli stessi nativi. L’Arctic slope regional corporation (Asrc), società degli Iñupiat (creata nel 1972 in seguito all’Ancsa, la legge sulle terre), lo appoggia, mentre gli indigeni ambientalisti (per esempio, quelli riuniti nell’Alaska climate alliance) lo contrastano con forza. Ma si tratta di una lotta impari perché l’industria petrolifera è «la vacca sacra della politica dell’Alaska» (the sacred cow of Alaskan politics), secondo la definizione dell’Earth island institute di Berkeley.

Disastri ambientali e dollari

Lo si capisce anche a Valdez, tra le penisole, i fiordi e i «ghiacciai di marea» (quelli che terminano nell’acqua del mare) dello stretto Prince William.

Il suo piccolo porto ha un fascino particolare, con i pescherecci, i battelli turistici e gli uccelli in attesa dei resti del pesce che, appena sbarcato sulla banchina, viene subito tagliato e ripulito da addetti rapidissimi. Più lontana e defilata, confusa nella nebbia, c’è un’altra banchina, molto anonima. Alla fonda c’è una lunga nave cisterna e sulla terraferma, posti in posizione sopraelevata, dei grandi serbatoi circolari e un lungo serpente di tubi. È la stazione finale del Trans Alaska pipeline system (Taps), l’oleodotto che, dal 1977 e per 1.300 chilometri, attraversa l’Alaska da Nord a Sud.

Le sue tubazioni, innalzate a un metro dal terreno (per questioni di permafrost), affiancano la strada da Prudhoe Bay a Fairbanks (seconda città dello stato, situata a circa 200 chilometri dal Circolo polare artico) fino al terminal di Valdez. È da qui che, nel marzo del 1989, partì una superpetroliera della multinazionale Exxon che s’incagliò poco dopo riversando nel golfo dell’Alaska milioni di litri di petrolio, producendo uno dei peggiori ecocidi (morirono, tra l’altro, balene, lontre marine, salmoni, uccelli marini, aquile) della storia moderna, con l’inquinamento di duemila chilometri di costa e 28mila chilometri quadrati di oceano: a 33 anni da quel disastro non si è ancora tornati alla normalità.

Eppure, nonostante problemi e rischi ambientali, il petrolio e l’oleodotto che lo trasporta continuano a foraggiare gran parte del bilancio dell’Alaska e sono anche un persuasivo strumento politico, come ben sa Mike Dunleavy, il governatore repubblicano dello stato. Già a luglio, con la dovuta enfasi accentuata dalla vicinanza delle elezioni (poi vinte), Dunleavy aveva annunciato che, dal 20 settembre, a ogni residente alaskano sarebbe stata pagata la somma di 3.200 dollari come dividendo derivante dallo sfruttamento delle risorse petrolifere e minerarie dell’Alaska. In realtà, il Pfd (Permanent fund dividends) non costituisce una novità, considerato che viene distribuito ogni anno dal 1976 rappresentando per molte famiglie una fonte di reddito importante in uno stato con un costo della vita elevatissimo.

Trivelle versus ambiente

Alla fine, anche in Alaska, il dibattito è sempre lo stesso: una visione economicista e di corto respiro (lo sfruttamento delle risorse petrolifere) ma molto ben pubblicizzata, contro una visione dell’esistenza più complessiva e più preoccupata del futuro della «casa comune».

«The last frontier», si legge sovente sulle targhe automobilistiche dell’Alaska. In verità, l’ultima frontiera territoriale è divenuta l’ultima frontiera climatica: luogo simbolico in cui i ghiacciai si sciolgono a un ritmo sempre più sostenuto, ma dove l’homo politicus prosegue con tracotanza su strade che, al di là delle circostanze attuali (guerra e tensioni internazionali), la natura e la storia hanno già bocciato.

Paolo Moiola

Uno scorcio dell’altopiano di Harding nel Kenai Fjords National Park. Foto Paolo Moiola.

Da Jack London ad Alex

Autobus 142, ultima fermata

Un elicottero della Guardia nazionale preleva il famosissimo autobus 142 dalla foresta del Denali (19 giugno 2020); oggi il mezzo è esposto all’Università di Fairbanks. Foto Alaska National Guard Public Affairs.

Jack London e Charlie Chaplin, ma anche il fumetto di zio Paperone. Personaggi diversi con storie diverse, ma con un elemento in comune: l’Alaska e la corsa all’oro che, a fine Ottocento, richiamò in quelle regioni almeno centomila cercatori. Il californiano Jack London aveva solo 21 anni quando – era il 1897 – sbarcò in Alaska per fare fortuna. Non trovò il prezioso metallo, ma trovò la fama scrivendo due piccole gemme della letteratura The call of the wild (Il richiamo della foresta) e White Fang (Zanna bianca).

L’attore e regista Charlie Chaplin in realtà non girò The gold rush (La febbre dell’oro) in Alaska, ma ricreò quei luoghi in maniera stupefacente considerando che correva l’anno 1925. Sia la versione muta del film che quella sonora (uscita nel 1942) sono considerati capolavori del cinema mondiale.

Nel 1947 arrivò anche zio Paperone (Uncle Scrooge), i cui ideatori fanno risalire la sua immensa fortuna all’oro trovato nel fiume Klondike, nella regione canadese dello Yukon, ai confini con l’Alaska.

Non cercava l’oro, ma una diversa esperienza di libertà il giovane Alex Supertramp (soprannome di Chris McCandless) che, nell’agosto del 1992, morì di fame e di stenti in un vecchio autobus – verniciato di bianco e verde e segnato con il numero 142 – abbandonato dal 1961 nelle foreste dell’Alaska, vicino al Denali National Park. La sua storia, tanto straordinaria quanto tragica, è stata raccontata in un libro (di Jon Krakauer) e poi in un film (di Sean Penn) dal titolo Into the wild. Il 19 giugno 2020 l’autobus 142 (conosciuto come «Magic bus») è stato trasportato all’Università dell’Alaska, a Fairbanks. Ultima fermata per una moderna icona di libertà.

Pa.Mo.

 

Non chiamateli Eschimesi

I popoli nativi

In Alaska, ci sono oltre centosettantamila indigeni (alaskan natives) divisi in una decina di gruppi principali. Il loro destino non è dissimile da quello dei popoli autoctoni di altre regioni del mondo: la difficile lotta per la terra e per preservare la propria cultura. Con un problema in più: la cooptazione nel sistema dei bianchi attraverso una legge del 1971.

Anchorage. Nel buio della stanza, i volti illuminati dei nativi risaltano sul grande schermo interattivo. Ognuno racconta la propria storia. Una storia incredibile, a lungo tenuta nascosta e ancora oggi poco conosciuta.

«Durante gli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta – si legge -, i nativi del Nord dell’Alaska furono deliberatamente esposti a radiazioni senza esserne a conoscenza o senza il loro consenso. Gli esperimenti inclusero la somministrazione di pillole ad alta radioattività di iodio (I-131) per studiare come l’ambiente freddo influisse sulla ghiandola tiroidea. I rifiuti radioattivi furono bruciati vicino ai villaggi per testare come le radiazioni si diffondessero nell’Artico».

Gli esperimenti rientravano nell’ambito del «Project Chariot» della Commissione statunitense per l’energia atomica il cui obiettivo dichiarato era la creazione di una baia per costruire un porto a Point Hope, un piccolo e isolatissimo villaggio Iñupiaq, attraverso l’utilizzo di ordigni atomici.

L’installazione – chiamata «cold treatment» (trattamento a freddo) – si trova nello spazio Alaska Exhibition all’interno dell’Anchorage Museum, il moderno e interessantissimo museo della più grande città alaskana.

La vicenda del Project Chariot e quanto raccontato nella sala dedicata ai popoli nativi dell’Alaska (Smithsonian arctic studies center gallery) porta ad affermare che la storia dei nativi dell’Alaska è identica a quella di tanti altri popoli indigeni invasi, uccisi, conquistati o schiavizzati dai bianchi.

Un Athabascan con i propri cani da slitta (1936). Foto esposta all’Anchorage Museum.

Cittadini di seconda classe

Il quattordicesimo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che prevede la cittadinanza a chi nasca sul territorio nazionale, risale al 1868. Incredibilmente ne rimasero esclusi i nativi americani. Non avendo la cittadinanza statunitense, non potevano vantare diritti sulla terra, a tutto beneficio dei bianchi. Essi furono cittadini di seconda classe per ben 56 anni. Infatti, soltanto nel 1924 il Congresso emanò l’«Indian citizenship act» che concedeva la cittadinanza (e, quindi, il diritto di voto) anche a loro. Tuttavia, alcuni stati vietarono ai nativi di votare ancora per decenni. L’ultimo a conformarsi al dettato costituzionale fu il Maine nel 1954.

Per vedere posto un limite al processo di assimilazione e riconosciuto il diritto all’autodeterminazione, i nativi dovettero però attendere fino al 1934, quando il presidente Roosevelt firmò l’«Indian reorganization act». Ancora più lunga fu l’attesa per la completa libertà religiosa che arrivò soltanto nel 1978 con l’«American indian religious freedom act».

I nativi dell’Alaska e l’Ancsa

Era comune riferirsi ai popoli nativi dell’Alaska e delle altre regioni artiche (Siberia, Nord del Canada e Groenlandia) con il termine di «Eschimesi» (Eskimo, in inglese). L’etimologia non è chiara, spaziando da «fabbricanti di racchette da neve» a «mangiatori di carne cruda» a «scomunicati» (perché non cristiani). Introdotto dai colonizzatori bianchi, il termine andrebbe evitato essendo considerato razzista e dispregiativo, oltre che generico, visto che si riferisce a etnie con tratti fisici e culturali (ad esempio, la lingua) diversi.

La riscossa indigena iniziò il 5 novembre 1912 quando undici nativi (del gruppo dei Tlingit) e una nativa fondarono la Fratellanza dei nativi dell’Alaska (Alaska native brotherhood, Anb), seguita nel 1914 dalla Sorellanza (Alaska native sisterhood, Ans).

Le due organizzazioni si prefiggevano la promozione della solidarietà tra le popolazioni autoctone, il raggiungimento della cittadinanza statunitense (ottenuta nel 1924), l’abolizione del pregiudizio razziale e il riconoscimento dei diritti economici attraverso l’attribuzione dei titoli sulla terra e sulle risorse minerarie, nonché la difesa del salmone, loro alimento essenziale.

Dopo l’ammissione nell’unione statunitense come 49° stato, avvenuta il 3 gennaio 1959, l’Alaska divenne ancora di più terra di conquista.

Nel 1966, Willie Hensley, un Iñupiaq nato poche decine di chilometri sotto il Circolo polare artico, fondò la Federazione dei nativi dell’Alaska (Alaska federation of natives, Afn) allo scopo di difendere le terre indigene.

La questione fondiaria divenne esplosiva nel 1968, quando la Atlantic-Richfield Company (Arco, oggi Bp Amoco) scoprì ingenti riserve di petrolio a Prudhoe Bay, sulla costa artica dello stato, e, successivamente, propose la costruzione fino al porto di Valdez di un oleodotto (il Trans Alaska pipeline, Tap), che transitava su territori indigeni.

Una soluzione fu trovata con la legge sulla risoluzione dei reclami dei nativi dell’Alaska (Alaska native claims settlement act, Ancsa), firmata da Richard Nixon il 18 dicembre 1971. «Una pietra miliare nella storia dell’Alaska e nel modo in cui il nostro governo tratta i nativi», commentò il presidente. Per essi la legge stabilì un’assegnazione di terre (44 milioni di acri, pari a circa il 13 per cento dell’intero territorio), una compensazione monetaria (quasi un miliardo di dollari) e un’organizzazione dei nativi in società a scopo di lucro (corporations, 12 più una nata in seguito) e villaggi (200) attraverso cui gestire le terre da loro occupate e i profitti derivanti dallo sfruttamento delle risorse minerarie (petrolio, in primis). L’impatto dell’Ancsa sulle popolazioni autoctone fu enorme dando loro potere e influenza, ma non fu privo di conseguenze negative su stili di vita e cultura.

Una famiglia di nativi in una foto esposta al Museo di Anchorage. Foto Anchorage Museum.

Chi sono, quanti sono

Stando agli ultimi dati (U.S. Census bureau, 2020), oggi in Alaska si contano 172.712 indigeni, pari al 21,86 per cento della popolazione, la percentuale più alta tra gli stati americani.

Secondo l’Alaska federation of natives (Afn), si distinguono una decina di gruppi principali distribuiti in specifiche regioni del paese: Iñupiaq e Yup’ik di San Lorenzo (Alaska Nordoccidentale, Mare di Bering e isola di San Lorenzo); Yup’ik e Cup’ik (Alaska Sud occidentale); Athabascan e Dena’ina (Alaska interna); Alutiiq (o Sugpiaq; nel Kenai, Kodiak, Prince William Sound) e Aleut (o Unangax, sulle isole Aleutine); Eyak, Tlingit, Haida, Tsimshian (Alaska Sud orientale). Per consistenza i gruppi maggiori sono gli Yup’ik (34mila), gli Iñupiaq (20.800) e i Tlingit (14mila).

Le comunità native più isolate, quelle non raggiungibili via strada (chiamate «bush communities»), vivono ancora oggi della pesca (salmone e halibut, soprattutto) e della caccia di animali selvatici (renne-caribou e alci-moose, in primis).

Mary Peltola: «I am pro fish»

Per i popoli indigeni dell’Alaska una buona notizia è arrivata lo scorso agosto (e ribadita l’8 novembre nelle elezioni di mid term) con l’entrata di una loro rappresentante nel Congresso degli Stati Uniti. Lei – Mary Peltola, democratica di etnia Yup’ik – è la prima nativa alaskana eletta deputata a Washington.

Nata a Bethel, sul fiume Kuskokwim, cinquanta anni fa, la donna è un avvocato e una politica specializzata nella difesa della pesca in Alaska. Tanto che, sul suo sito, lei dichiara: «I am pro fish» (Sono a favore del pesce) e «Fighting for our fish is critical to preserving our Alaska way of life» (Lottare per il nostro pesce è fondamentale per preservare il nostro stile di vita alaskano). Non sono affermazioni esagerate. In effetti, la pesca – quella del salmone, in particolare – è un’attività vitale per le popolazioni autoctone. La stessa Peltola racconta di aver iniziato a pescare con il padre all’età di sei anni.

Oggi la pesca è un’attività in grave rischio, soprattutto la pesca del salmone, il pesce più pregiato e richiesto. Nella loro migrazione fiume-oceano-fiume, i salmoni tornano indietro in numero sempre minore. Tra le possibili cause vengono annoverati i cambiamenti climatici, l’acidificazione degli oceani e i troppi pescherecci stranieri. Per i molti nativi che ancora vivono di questa attività il problema è diventato una questione di sopravvivenza.

Paolo Moiola

Strumenti di assimilazione

I nativi e la trappola del petrolio

«Appartenevo – ha raccontato Willie Hensley, Iñupiaq, tra i fondatori dell’Alaska federation of natives – a quella generazione che stava ancora cacciando e pescando e vivendo in tende di zolle e usando i cani per muoversi. C’erano pochissimi soldi allora e abbiamo dovuto lottare davvero. Ricordo di avere avuto molti denti marci fino alle gengive e nessuno che si prendesse cura di essi. Abbiamo davvero lavorato sodo. Era una vita normale; era solo una vita dura. Semplicemente non avevamo reti di sicurezza».

Oggi, per i nativi dell’Alaska le «reti di sicurezza» ci sono, ma anche altre cose sono cambiate e non per il meglio. Dopo la scoperta dei giacimenti petroliferi, nel 1971 la legge del Congresso statunitense, nota con l’acronimo di Ancsa (Alaska native claims settlement act), ha in gran parte eliminato le rivendicazioni sulla terra da parte dei popoli indigeni a favore della creazione di società a loro affidate (Alaska native regional corporations e Alaska native village corporations). Queste società – create sulla base di zone geografiche ed etnicamente connotate – sono nate come entità private orientate al profitto.

Tra le 13 società regionali, le principali sono la Arctic slope regional corporation degli Iñupiat, la Nana regional corporation, anch’essa con azionisti Iñupiat, la Aleut corporation degli Unaganx, la Doyon corporation degli Athabasca, la Calista corporation degli indigeni Yup’ik, Cup’ik e Athabasca. Sui siti web di queste compagnie sono magnificati i benefici arrivati alle popolazioni locali, ma non tutti sono d’accordo.

Già negli anni Settanta, anche prima della costruzione della Trans Alaska pipeline, Eben Hopson (1922-1980), leader iñupiaq e politico democratico, aveva avvertito dei pericoli insiti nel denaro derivante dal petrolio. In un suo discorso pubblico, affermò: «La politica dell’Artico non è più la politica delle persone, ma è la politica del petrolio». E aggiunse: «La politica del boom petrolifero crea dipendenza».

In questi anni sono aumentati i nativi preoccupati per uno sviluppo fondato su petrolio e gas, sviluppo che implica inevitabili impatti ambientali (e culturali) in uno stato già colpito duramente dagli effetti del cambiamento climatico. Vanno menzionati, per esempio, il Native movement, l’Alaska climate alliance, l’Alaska native oil and gas working group.

Questi gruppi si oppongono ai nuovi progetti petroliferi e propongono di puntare sulle energie rinnovabili diversificando l’economia dello stato. Tuttavia, al cospetto delle società dei nativi e delle compagnie petrolifere, la loro voce è ancora un sussurro. Almeno per il momento.

Pa.Mo.

Un tratto dell’oleodotto Tap, che attraversa taiga e tundra dell’Alaska per 1.300 chilometri. Foto U.S. Geological Survey.

Cacciatori di pellicce e missionari

Religione e chiese in Alaska

I primi non indigeni s’insediarono in Alaska all’inizio del 1700. Dopo di loro, arrivarono anche i missionari, prima gli ortodossi russi, poi gli anglicani e i cattolici.

Hope (Kenai). A lato della strada forestale, ad alcuni chilometri da Hope, villaggio che in inverno non raggiunge i cento abitanti, c’è una chiesetta in legno. Al momento non è aperta, ma le evidenze esteriori dimostrano che è funzionante. A parte quelle di Anchorage, Fairbanks e Jeneau – le tre principali città dello stato – la maggior parte delle chiese (di tutte le confessioni) dell’Alaska sono strutture isolate, solitarie, in apparenza abbandonate.

Questo non significa che in questo territorio la religione non sia una presenza importante. Al contrario, anche qui l’offerta religiosa – se così possiamo chiamarla – è molto ampia, anche se relativamente recente.

Fino alla fine del 1600, la regione era abitata esclusivamente da popoli indigeni, stimati attorno alle 80-100mila persone che seguivano religioni sciamaniche. Fu all’inizio del 1700 che, dalla confinante Russia, arrivarono i primi esploratori, cacciatori e commercianti attratti dal business delle pellicce. Il più famoso fu Grigory Shelekhov, che nel 1784 massacrò centinaia di indigeni dell’arcipelago di Kodiak, salvo poi chiedere all’imperatrice Caterina di Russia l’invio di missionari ortodossi. La prima missione fu fondata nel settembre del 1794 sull’isola di Kodiak dal monaco Herman (Germano d’Alaska) che subito e fino alla sua morte (nel 1837) si distinse nella difesa della popolazione indigena, schiavizzata dai mercanti russi.

Nel 1799 Nikolaj Petrovič Rezanov e lo stesso Shelekhov fondarono la Compagnia russo americana (Rac), una compagnia commerciale partecipata da molti esponenti dell’impero russo, con sede nell’attuale Sitka. I nativi, esperti cacciatori, venivano arruolati con la forza. È per la loro difesa che si battè una parte importante della Chiesa ortodossa russa in Alaska.

Di essa va ricordata soprattutto la figura e l’opera di padre Ivan Veniaminov (in seguito, Innocenzo d’Alaska). Nato in Siberia nel 1797, arrivò in Alaska (prima in Analaska sulle isole Aleutine e poi nell’attuale Sitka) nel 1824 assieme alla famiglia, e vi rimase, con alcune interruzioni, fino al 1867, quando venne nominato metropolita di Mosca. Persona eclettica, primo vescovo ortodosso dell’Alaska, Veniaminov si distinse subito in quanto, al contrario dei colonizzatori, instaurò un rapporto paritetico con i popoli nativi (prima Aleuti, poi Tlingit), rispettandone tradizioni e lingua.

Un totem, simbolo culturale di Eyak, Tlingit, Haida e Tsimshian. Foto Wikimedia.

Politica coloniale e missionari

Dopo gli ortodossi russi, nell’Ottocento, dal confinante Yukon inglese (canadese dal 1869), arrivarono sparuti gruppi di missionari anglicani.

La situazione cambiò con la vendita – avvenuta con il trattato sottoscritto il 30 marzo 1867 (la Russia zarista si riteneva proprietaria di quei territori senza considerare i suoi veri abitanti) – dell’Alaska agli Stati Uniti.

I primi cattolici ad arrivare nella regione furono gli Oblati attorno al 1871, viaggiando sullo Yukon, il fiume artico divenuto scenario della corsa all’oro alla fine dell’Ottocento. Furono gli Oblati a fondare, nel 1879, la prima chiesa cattolica: Santa Rosa di Lima, sull’isola di Wrangell.

All’epoca del passaggio agli Stati Uniti, l’Alaska era abitata soprattutto dai popoli nativi. Come sempre accade durante i processi di colonizzazione, all’inizio l’idea guida fu quella dell’assimilazione: gli indigeni sarebbero dovuti diventare come i colonizzatori, abbandonando la propria cultura, incluse le credenze religiose.

Come affermava il rapporto annuale del Consiglio dei commissari indiani per il 1869, «Si ritiene che la religione del nostro benedetto Salvatore sia l’agente più efficace per la civiltà di qualsiasi popolo». Per lungo tempo ancora la politica coloniale degli Stati Uniti in Alaska si fondò sull’idea che gli indigeni dovessero «essere portati sotto l’influenza cristiana dai missionari».

L’Università dell’Alaska-Anchorage (Uaa) ha analizzato una foto del 1914 scattata alla scuola della St. Mary’s Mission ad Akulurak (delta dello Yukon-Kuskokwim, sul mare di Bering). In quella immagine si vede un gruppo di studenti nella sala mensa e, sulla parete dietro di loro, un poster con la scritta «Please, do not speak eskimo» (Per favore, non parlare eschimese).

Fu John Collier, commissario per gli affari indigeni dal 1933 al 1945, a iniziare a battersi per la libertà religiosa degli indiani d’America, mettendo in discussione i divieti locali e regionali alle cerimonie e alle pratiche tradizionali. Tuttavia, soltanto con l’American indian religious freedom act (Airfa) dell’agosto 1978, legge firmata dall’allora presidente Jimmy Carter, venne formalmente riconosciuta la piena libertà religiosa dei popoli indigeni. Nel firmare la legge, il presidente ammise che, a dispetto del primo emendamento della Costituzione Usa, «in passato, agenzie e dipartimenti governativi hanno occasionalmente negato ai nativi americani l’accesso a siti particolari e interferito con pratiche e costumi religiosi».

Una piccola chiesa cristiana tra i boschi di Hope (Kenai). Foto Paolo Moiola.

Le Chiese in Alaska, oggi

Le statistiche più affidabili sulle fedi religiose in Alaska risalgono a uno studio del Pew Research Center (The 2014 U.S. Religious landscape study). Secondo i ricercatori dell’istituto, i cristiani sarebbero il 62% della popolazione adulta. Questa percentuale si dividerebbe in: 22% di evangelici (cioè protestanti non tradizionali), 16% di cattolici, 12% di protestanti (storici), 5% di ortodossi (di cui 4% di ortodossi russi). La Chiesa cattolica dell’Alaska conta su due diocesi: quella di Anchorage-Juneau e quella di Fairbanks. Entrambe hanno uffici che si dedicano alle relazioni con i popoli indigeni dello stato.

Al riguardo, va ricordata l’esperienza di Stan Jaszek, missionario polacco arrivato in Alaska nel 2002. Padre Jaszek, appartenente alla diocesi di Fairbanks (la più estesa degli Stati Uniti), ha lavorato per 15 anni nei villaggi del delta dello Yukon-Kuskokwim, tra i Yup’ik, lo stesso popolo nativo cui appartiene anche Mary Peltola, prima indigena dell’Alaska eletta al Congresso Usa. «Il popolo Yup’ik è profondamente radicato nella natura, quindi comprende intuitivamente la connessione tra il mondo fisico e quello spirituale», ha spiegato padre Jaszek.

Paolo Moiola

Natale e Babbo Natale

La festa e il business

North Pole, agosto. Il nome di questa cittadina può trarre in inganno. In realtà, a dispetto di esso, il North Pole (Polo Nord) dista ancora 2.700 chilometri e il Circolo polare artico più o meno 200. La cittadina di North Pole – meno di tremila abitanti, a circa 20 chilometri da Fairbanks, seconda città dell’Alaska – ospita una base militare, ma è conosciuta soprattutto per la presenza della Santa Claus House, il negozio di Babbo Natale, fondato nel 1952.

La rivendita è in posizione commercialmente strategica, sorgendo accanto alla Richardson Highway. Colore bianco candido con geometrie rosse e, sui muri, tanti disegni di renne, slitte, Babbi Natale, folletti. Detto questo, la struttura esterna non ha nulla di memorabile: forse dipende dai 20 gradi di questo caldo agosto, forse il tutto si dovrebbe vedere con la neve. Entrando, però, il giudizio non cambia.

Alberi di Natale, addobbi per alberi di Natale, maglioni con le renne, pantaloni, cappellini, tazze dipinte, dolci in tema. È un tripudio dell’inutile, dell’eccessivo e del kitsch.

E tutto, o quasi, pare essere più per un pubblico di adulti che di bambini. Il sito internet del Santa Claus racconta delle sue lettere intestate e personalizzate spedite (a partire da 9,95 dollari) a bambini di tutto il mondo e delle migliaia di lettere ricevute da ogni dove (a cui però – viene precisato – «non è possibile rispondere»).

In un recinto poco distante dal negozio, a lato del grande parcheggio, ci sono anche le renne, quelle vere. Probabilmente non sono contente di essere lì, con una temperatura inusuale e non libere di «volare» come vuole la tradizione.

Nessuna ragione per non credere alla felicità natalizia in offerta speciale, ma che la Santa Claus House sia soltanto una redditizia trovata commerciale è ben più di un’impressione.

Pa.Mo.

Un’entrata della Santa Claus House, a North Pole, nei pressi di Fairbanks. Foto Paolo Moiola.

Ha firmato questo dossier:

Paolo Moiola
Giornalista redazione MC; ha viaggiato in Alaska lo scorso agosto.

Fonti principali

Per la storia dei popoli nativi e dell’Alaska: Harry Ritter, Alaska’s History, West Margin Press, 2020; Steve J. Langdon, The Native People of Alaska, Greatland Graphics, Fairbanks 2022.

Per clima e problemi ambientali, per i parchi nazionali, per i nativi, per le istituzioni statali:
https://uaf-iarc.org/
https://www.nps.gov/
https://www.alaska.gov/
https://www.anchoragemuseum.org/

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La crisi dell’acqua ora è globale


I fiumi dell’Amazzonia sono inquinati dal mercurio, in Africa orientale quattro stagioni delle piogge consecutive non hanno avuto precipitazioni sufficienti. Di siccità e di lotta agli sprechi idrici si parla da almeno sessant’anni, ma ora la crisi è davvero planetaria.

«L’Africa orientale è in agonia, flagellata dalla più avara siccità degli ultimi 15 anni. Da Gibuti attraverso l’Etiopia fino al Sudan meridionale, lungo la Somalia, il Kenya e l’Uganda, la terra è una fornace bianca, come ossa decrepite». E ancora: «L’inclemenza delle stagioni che, da qualche anno in Kenya e da due anni in Tanganyika non accenna a finire, ha gettato intere popolazioni nella terribile condizione di non potersi sfamare. Lunghi periodi di siccità hanno bruciato i raccolti; successive piogge torrenziali hanno travolto ogni cosa nella loro furia. […] le stagioni hanno perso quella regolarità propria dei paesi tropicali».

Ognuno di questi virgolettati potrebbe riferirsi alla difficile situazione in cui si trova l’Africa orientale in questo momento; invece, il primo è preso da un articolo del Newsweek, The grim famine of 1980, apparso nell’agosto del 1980 e pubblicato in una libera traduzione su Missioni Consolata nel dicembre dello stesso anno, mentre il secondo viene da un articolo pubblicato su Missioni Consolata nell’aprile del 1962, sessanta anni fa.

Ma le assonanze con l’oggi non si limitano al Corno d’Africa: anche in Italia, chi ha almeno quarant’anni potrebbe avere avuto un déjà vu ascoltando le raccomandazioni diffuse dal ministero della Transizione ecologica su come evitare lo spreco di acqua@  nei mesi della scorsa estate, in cui l’Europa ha vissuto la più grave siccità degli ultimi 500 anni.

Le indicazioni, infatti, ricordavano quelle delle campagne degli anni Ottanta, che erano spesso promosse dagli enti locali: «Potabile, non sprecabile», recitavano ad esempio i poster affissi lungo le strade di una città emiliana. Addirittura del 1977 era la campagna di Pubblicità progresso «A difesa dell’acqua»@ che mostrava – proprio come l’articolo su MC del 1962 – i due opposti volti della crisi idrica: l’eccesso e la scarsità di acqua.

Questi precedenti non servono a ridimensionare il problema, al contrario: danno la misura del suo aggravarsi dopo decenni di azioni poco incisive. Se le emergenze idriche erano già tali decenni fa, quando il cambiamento climatico non era, come ora, un fenomeno conclamato con effetti planetari e la popolazione mondiale era la metà di quella odierna, è chiaro il motivo per cui oggi tante fonti istituzionali, accademiche e giornalistiche parlano senza mezzi termini di crisi idrica globale.

Siccità in Kenya, dove anche gli elefanti muoiono di sete. Nei dintorni d Isiolo, Nord del Kenya.

I numeri della crisi

Secondo il più recente rapporto di UNWater, il meccanismo di coordinamento delle agenzie Onu che si occupa di acqua e sanificazione, sono 2,3 miliardi gli abitanti del pianeta che vivono in zone con stress idrico, nelle quali cioè si estrae il 25% o più delle risorse rinnovabili di acqua dolce. Di questi, 733 milioni abitano in territori in cui lo stress idrico è alto (fra il 75 e il 100% delle risorse rinnovabili estratte) o critico (oltre il 100%). Le persone che vivono in aree dove si registra una grave scarsità fisica di acqua per almeno un mese all’anno sono quattro miliardi, poco meno di metà della popolazione mondiale@.

Il rapporto cita le stime di Acquastat, il portale statistico dell’agenzia Onu per l’alimentazione e l’agricoltura, Fao, secondo le quali «il prelievo globale di acqua dolce era probabilmente di circa 600 chilometri cubi all’anno nel 1900 ed è aumentato a 3.880 chilometri cubi all’anno nel 2017. Il tasso di aumento è stato particolarmente elevato (circa il 3% all’anno) durante il periodo dal 1950 al 1980, in parte a causa di un maggiore tasso di crescita della popolazione e in parte per il rapido aumento dello sfruttamento delle acque sotterranee, in particolare per l’irrigazione. Il tasso di incremento è oggi di circa l’1% annuo, in sintonia con l’attuale tasso di crescita della popolazione» mondiale e, mentre esso si è stabilizzato nei paesi sviluppati, continua ad aumentare nelle economie emergenti e nei paesi a medio e basso reddito.

UNWater raccoglie anche i risultati dei monitoraggi sull’obiettivo di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite che riguarda l’acqua, cioè l’Obiettivo 6, che mira a garantire a tutti l’accessibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e dei servizi igienico sanitari@.

Secondo questi monitoraggi@, sul pianeta una persona su quattro non ha accesso a servizi di acqua potabile gestiti in maniera sicura e 2,3 miliardi di persone non hanno a casa propria servizi ai quali lavarsi le mani con acqua e sapone.

Inoltre, mancano dati sulla qualità dell’acqua a cui accedono tre miliardi di esseri umani: questo significa che tutte queste persone sono potenzialmente a rischio, poiché la salubrità dei fiumi, laghi e bacini sotterranei da cui attingono l’acqua che usano non è verificata e l’utilizzo di queste risorse idriche potrebbe esporle a inquinanti come batteri fecali, metalli pesanti, pesticidi, solventi e altre sostanze chimiche contaminanti.

Garimpo Rio Madeira / © Alberto César Araújo – Amazonia Real

Il mercurio nei fiumi dell’Amazzonia

Fra i metalli pesanti responsabili dell’inquinamento di laghi e fiumi vi è il mercurio utilizzato nell’estrazione dell’oro: esso si amalgama all’oro separandolo dalla pietra e viene poi vaporizzato per lasciare libera la pepita.

Secondo il rapporto del 2018 dell’agenzia Onu per l’ambiente, Unep@, le attività artigianali e su piccola scala di estrazione dell’oro erano nel 2015 a livello globale il settore da cui derivava la quota più ampia delle immissioni di mercurio nell’aria (838 tonnellate su 2.220, il 37,7%). In America Latina, la quota era più che doppia: sul totale di 409 tonnellate per il continente, 340 tonellate venivano dalle attività minerarie artigianali su piccola scala, raggiungendo l’83%@.

L’Amazzonia vive una situazione particolarmente difficile da questo punto di vista: nel giugno 2021, le Nazioni Unite condannavano in un comunicato stampa@ gli attacchi dei minatori abusivi alle comunità indigene Munduruku, nel Pará, e Yanomami di Palimiú, in Roraima, ed esprimevano preoccupazione per gli alti livelli di contaminazione da mercurio registrati nella zona, specialmente nel pesce, che fornisce l’80% delle proteine nell’alimentazione delle popolazioni locali@.

«Per i popoli indigeni dell’Amazzonia», spiegava padre Jean-Claude Bafutanga, missionario della Consolata che lavora a Baixo Cotingo, Roraima, in un articolo sulla rivista Missões lo scorso marzo@, «la sopravvivenza stessa dipende dall’acqua dei fiumi e degli igarapé», cioè i piccoli corsi d’acqua tributari del Rio delle Amazzoni. Negli ultimi tempi, si legge nell’articolo, con l’invasione dei minatori in Amazzonia, l’acqua del fiume Catrimani e degli altri fiumi della regione si è inquinata, creando problemi di salute alle popolazioni autoctone che bevono continuamente le acque di questi fiumi e mangiano il pesce che in essi vive. Si registrano oggi nei villaggi indigeni malattie e condizioni prima molto più rare: «Cancro, dolori di stomaco continui, impotenza, bambini nati con malformazioni, morti premature per cause non chiare».

Per questo, conclude il missionario, le comunità della zona tengono così tanto a raccogliere fondi per scavare pozzi artesiani, che garantiscono un’acqua più pulita di quella dei fiumi.

In cerca di acqua nel Baxio Cotingo, Roraima, Brasile

Il Kenya e la sua siccità pluriennale

L’Integrated food security phase classification (Ipc) è un’iniziativa che riunisce agenzie governative, agenzie Onu, Ong e altri partner per monitorare le crisi alimentari sul pianeta. Per indicare la gravità della situazione Ipc usa una scala con cinque fasi che descrivono la difficoltà dei nuclei famigliari a soddisfare il proprio bisogno di cibo.

La scala va dalla fase 1, in cui la difficoltà è minima o non c’è, alla fase 5, denominata «catastrofe», in cui è impossibile per le famiglie procurarsi cibo sufficiente. Le fasi intermedie sono:
– la 2, fase di stress,
– la 3, di crisi, e
– la 4, di emergenza.

Secondo Ipc, lo scorso settembre in Kenya 3,5 milioni di persone si trovavano in una condizione di insicurezza alimentare acuta, con 2,7 milioni di persone in fase 3 e poco meno di 800mila in fase 4. (Vedi su Nigrizia  il testo «Kenya: alla Cop 27 l’eco del dramma climatico»).

L’insicurezza alimentare, si legge nell’analisi pubblicata da Reliefweb, il servizio informazioni dell’Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari@, è causata da un combinarsi di diversi shock, primo fra tutti la quarta stagione delle piogge consecutiva con precipitazioni insufficienti. Si aggiungono poi i conflitti locali per le risorse e l’aumento dei costi del cibo a causa della guerra in Ucraina. Le contee più colpite sono Isiolo, Turkana, Garissa, Mandera, Marsabit, Samburu, Wajir e Baringo, zone in cui vivono prevalentemente popolazioni che si dedicano alla pastorizia. Per i mesi da ottobre a dicembre, Ipc prevede un ulteriore peggioramento, con una proiezione che stima a 4,4 milioni le persone in fase di crisi, emergenza o catastrofe.

«Gli ultimi due anni sono stati pessimi», riporta da Isiolo, nel centro del Kenya, padre Joseph Kihwaga, missionario della Consolata, «non ha piovuto per niente. Molti animali sono morti, le persone hanno fame. Anche gli animali selvatici soffrono per questa situazione. Abbiamo dovuto allontanare degli elefanti che, attirati dall’acqua del nostro pozzo, sono arrivati dentro al complesso della missione distruggendo recinto e campi coltivati. Finora sono due le persone uccise da elefanti che vagavano fuori dal parco di notte. C’è paura anche per i bambini, che escono quando è ancora buio per andare a scuola e rischiano di incontrarli».

Loyangallani, El Molo Bay, Ol Molo Village. L’isola di Komote nel 2009.

Padre Mark Githonga, missionario della Consolata a Loyiangalani, sul lago Turkana (Nord del Kenya), scrive confermando che il governo ha imposto il coprifuoco a causa dei conflitti tribali locali. «Qui non piove da quattro anni», riferisce, «eppure il lago Turkana si è ingrandito@, inondando le zone costiere dalle quali le comunità locali, specialmente di etnia El Molo, erano solite pescare».

Sullo sfondo l’isola di Komote come è oggi, 2022

Il cibo, continua padre Mark, arriva qui portato da commercianti provenienti dalla zona centrale del paese. I prezzi però sono proibitivi a causa dei costi di trasporto e di stoccaggio e per le condizioni di insicurezza legate ai conflitti tribali. Le comunità che vivono sull’isola di Komote (nelle due foto qui sotto del 2009 e del 2022, ndr) sono fra quelle più in difficoltà, perché non c’è più abbastanza acqua pulita da incanalare negli impianti idrici che raggiungono l’isola dalla terraferma.

Non va meglio ad Adu, vicino a Malindi, città costiera bagnata dall’Oceano Indiano: «Nei sei anni dal 2016 a oggi, solo nel 2018 abbiamo avuto precipitazioni sufficienti», scrive padre Urbanus Mutunga. Le soluzioni tentate dal governo e da diverse Ong non sono bastate: ci sono vasche per raccogliere l’acqua piovana, ma sono vuote dal 2018, mentre il programma nutrizionale nelle scuole non esiste più, e così i tassi di abbandono scolastico aumentano. «C’è una migrazione di massa dai villaggi verso le città di Malindi, Lamu e Mombasa, le persone vanno a cercare lavoro e cibo ma spesso si trovano costrette a fare lavori umili o a prostituirsi per sopravvivere».

Chiara Giovetti


Acqua dolce

Sulla terra ci sono in totale 1,4 miliardi di chilometri cubi di acqua: un volume che possiamo immaginarci come una sfera dal diametro di 1.400 chilometri, la lunghezza del Madagascar.

Di quest’acqua il 97,5% è salata, il 2,5% è acqua dolce.

Solo l’1,2% di questa acqua dolce è facilmente fruibile (in superficie) per l’uomo, il resto è sottoterra (30,1%) oppure in forma di ghiaccio (68,7%).

Il 70% dell’acqua dolce disponibile è usata per l’agricoltura, il 19% per l’industria e l’11% per l’uso domestico.

Vedi il video, in inglese con sottotitoli in italiano, realizzato dal World water assessment programme (Wwap)@, programma dell’Unesco finanziato dal Governo italiano e con sede a Perugia@.

 

 




Siccità, fame e guerra: il mondo a un bivio


Dal punto di vista climatico, l’estate 2022 è stata complicata. La siccità si è aggiunta alla guerra in Ucraina, spingendo quasi 50 milioni di persone, specialmente nel Corno d’Africa, sull’orlo della carestia. Intanto, le negoziazioni per il clima in vista della Cop27 non fanno progressi e il Programma alimentare mondiale fatica a trovare i fondi per assistere chi è in difficoltà.

La Cop27, o Conferenza delle parti aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, si svolgerà a Sharm El-Sheikh, in Egitto, dall’8 al 17 di novembre@. Purtroppo, le premesse non sembrano per il momento incoraggianti.

Qualcosa di più potrebbe uscire dai lavori preparatori della Pre-Cop27 previsti questo mese, magari sulla spinta dei dati pubblicati a settembre dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (Ipcc, nell’acronimo inglese) nel Rapporto di sintesi del suo sesto ciclo di valutazione@, ma anche la Conferenza sul clima di Bonn dello scorso giugno si era conclusa con pochi progressi.

Quella di Bonn è stata la prima occasione di incontro per le parti dopo la Cop26 di Glasgow del 2021. Uno dei suoi obiettivi principali era quello di definire un programma concreto per realizzare i tagli alle emissioni decisi dai paesi del mondo a Glasgow. Invece, riferiscono diverse fonti, fra cui la Bbc, la negoziazione ha subito uno stallo: sul tema delle perdite e dei danni, infatti, le parti non hanno trovato un accordo.

I paesi in via di sviluppo chiedono che Unione europea e Stati Uniti mettano loro a disposizione i fondi necessari a contrastare i danni che il cambiamento climatico sta già provocando nei loro territori. Essi ritengono le due potenze mondiali le principali responsabili delle emissioni che hanno portato all’attuale situazione. Dal canto loro, Usa e Ue respingono queste richieste, temendo che se accettassero di pagare per le emissioni storiche, potrebbero trovarsi costretti a farlo per decenni, se non secoli@.

A complicare il quadro vi è poi la posizione della Cina, oggi principale responsabile delle emissioni con dieci miliardi di tonnellate all’anno, un quarto del totale globale@. La Cina, infatti – ricorda Ferdinando Cotugno sul quotidiano Domani -, per la Convenzione Onu per i cambiamenti climatici, risulta ancora nell’elenco dei paesi in via di sviluppo, come nel 1992, e da quella posizione conduce le trattative sul clima «come (presunto) campione dei paesi in via di sviluppo».

Hunger map 2020 del World food programme

Il cambiamento climatico è già qui

«Il sistema», riporta il pezzo di Cotugno citando le parole dell’esperto della rete Climate action network, Harjeet Singh, «ha i soldi per te, paese in via di sviluppo, se vuoi mettere i pannelli solari, ha i soldi per te se vuoi migliorare l’efficienza termica della tua casa, ma non ha i soldi per te se invece i cambiamenti climatici distruggono la tua casa. Parliamo di azione per il clima, ma le persone stanno soffrendo già oggi, stanno annegando, e noi gli diciamo: non vi possiamo aiutare, ma se sopravviverete, forse vi aiuteremo a prepararvi meglio per la prossima volta»@.

Oggi, a essere distrutte, sono sempre più anche le «case» europee e statunitensi: nel nostro continente, l’estate scorsa è stata la più calda degli ultimi 500 anni@, mentre uno studio della rivista Nature, già a febbraio scorso, indicava il ventennio 2000 – 2021 come il più secco da 1.200 anni a oggi per gli stati sudoccidentali degli Usa@.

Quanto all’Africa, fra Etiopia, Kenya e Somalia, lo scorso agosto erano 22 milioni le persone che avevano difficoltà a trovare sufficiente cibo. Un numero quasi doppio rispetto ai 13 milioni in difficoltà a inizio anno, mentre le persone che non avevano accesso ad acqua pulita erano passati dai 9,5 milioni di febbraio ai 16,2 milioni di agosto.

La maggior parte degli abitanti del Corno d’Africa, riporta Unicef@, dipende dall’acqua fornita da venditori che la trasportano su camion o carretti trainati da asini, e nelle zone più duramente colpite dalla siccità molte famiglie non possono più permettersi di comprarla: ad esempio, il prezzo dell’acqua in Kenya ha subito fra gennaio 2021 e lo scorso agosto aumenti fino al 400% a Mandera, nel Nord del paese, e del 260% a Garissa, città a poco meno di 400 chilometri a Est della capitale Nairobi.

Angola, nel territorio di Luacano

Le difficoltà del Wfp

La regione del Corno d’Africa sta sperimentando la peggiore siccità degli ultimi quarant’anni perché, per quattro volte consecutive, la stagione delle piogge è stata troppo scarsa di precipitazioni e, secondo le previsioni, sarà così anche la prossima. «Ancora non si vede la fine di questa crisi», ha avvertito lo scorso agosto David Beasley, direttore esecutivo del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (World food programme, Wfp), «perciò dobbiamo trovare le risorse che servono per salvare vite umane e impedire alle persone di arrivare a livelli di fame catastrofici».

Le risorse che servono sarebbero circa 418 milioni di dollari per i prossimi sei mesi, ma ottenerli è più difficile anche a causa della guerra in Ucraina, che sta avendo conseguenze dirette sulla capacità del Wfp stesso di ottenere il cibo da distribuire nelle emergenze umanitarie, innanzitutto, in termini di forniture. Nel rapporto sull’approvvigionamento di cibo del 2021@, infatti, si legge che sia Ucraina che Federazione Russa erano fra i primi dieci fornitori dell’agenzia Onu: su 4,4 milioni di tonnellate di cibo, quasi un quinto – principalmente grano e piselli – venivano dalla prima e il 5,5% dalla seconda, che forniva grano, farina di grano, olio vegetale e legumi.

Inoltre, il Wfp prevedeva a marzo scorso che l’incremento dei prezzi del grano causati dalla guerra avrebbero determinato su base mensile un aumento di circa 23 milioni di dollari nei propri costi di approvvigionamento, che si aggiungevano ai +6 milioni di dollari al mese per maggiori costi di trasporto e ai +42 milioni di dollari di costi in più che l’agenzia già stava registrando rispetto al 2019, per un totale di 71 milioni di dollari al mese di aumento@.

Per questo la partenza dal porto di Odessa della prima nave con 23mila tonnellate di grano diretta in Etiopia, resa possibile dall’accordo Black sea grain
initiative sottoscritto da Ucraina e Russia con la mediazione di Turchia e Nazioni Unite, è stata accolta con sollievo@.

«Per fermare la fame nel mondo non basterà l’uscita delle navi dall’Ucraina – dice Beasley -, ma con il grano ucraino di nuovo sul mercato globale abbiamo la possibilità di impedire a questa crisi di aggravarsi ancora».

Borodjanka

La guerra in Ucraina e l’insicurezza alimentare

Ma le conseguenze della guerra in Ucraina vanno oltre le difficoltà del Wfp, e si traducono in insicurezza alimentare per molti paesi in via di sviluppo. Alcuni di questi, riportava l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, Fao, in una nota informativa di giugno@, hanno una significativa dipendenza dal grano russo e ucraino. L’Eritrea, ad esempio, importa tutto il proprio grano dai due paesi, la Somalia dipende da questi per circa il 93%, il Pakistan importa circa la metà del suo grano dall’Ucraina e circa un quinto dalla Russia.

Al di là della dipendenza diretta dalle importazioni di cibo, che peraltro alcuni commentatori come Ibrahima Coulibaly, della Rete coltivatori dell’Africa occidentale (Roppa), giudicano irrilevanti@, le conseguenze del conflitto riguardano l’aumento dei prezzi e l’inflazione in generale.

La riduzione della produzione agricola e i blocchi nella zona del Mar Nero, si legge in un aggiornamento pubblicato dal Wfp a giugno@, insieme alle restrizioni commerciali, hanno portato a una ridotta disponibilità di prodotti essenziali e a un forte aumento dei prezzi globali dei cereali: rispetto ai prezzi di gennaio 2022, a maggio l’incremento era stato del 48,6% per il grano, del 28,7% per il mais e del 9,3% per il riso, con implicazioni sui prezzi in tutta l’Africa orientale.

L’aumento dei prezzi del carburante e dei generi alimentari ha, inoltre, spinto al rialzo il tasso di inflazione, riducendo il potere d’acquisto delle famiglie, soprattutto di quelle più povere.

Sempre a causa di sanzioni e aumenti dei costi di produzione, i prezzi globali dei fertilizzanti sono aumentati di quasi il 30% dall’inizio del 2022. Si è così ridotta la quota di fertilizzanti importati in Africa orientale, in coincidenza, fra l’altro, con il picco della principale stagione di semina, quella di marzo-aprile-maggio. Secondo le stime del Wfp, questo potrebbe determinare una diminuzione dei raccolti del 16% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

La pandemia da Covid-19 aveva già fatto aumentare di 161 milioni il numero di persone che soffrivano la fame e, secondo la Hunger Map 2020 (mappa della fame) del Wfp, se l’attuale tendenza continua, nel 2030 le persone affamate saranno 840 milioni@.

Questi calcoli non tengono però in considerazione la guerra, il cui impatto può essere per ora solo stimato: nelle simulazioni della Fao, considerando il calo nelle esportazioni previsto dall’Ucraina e dalla Federazione Russa nel 2022 e 2023 e ipotizzando che la disponibilità globale di cibo non verrà compensata con derrate prodotte altrove, nel 2023 il numero di persone denutrite nel mondo potrebbe aumentare di quasi 19 milioni@.

Funerale di tre fratelli uccisi dalla guerriglia in Colombia

Clima e guerre, un nodo sempre più stretto

La guerra in Ucraina, spiega Champa Patel, che si occupa del futuro del conflitto con il gruppo di ricerca International crisis group, nel suo podcast War & peace@, spiega che la guerra ha anche un impatto negativo sulla lotta al cambiamento climatico, perché il ritorno parziale di molti paesi occidentali a fonti di energia fossili per liberarsi dalla dipendenza dal gas russo, rallenta il cammino verso il raggiungimento degli obiettivi climatici, a cominciare dalla riduzione delle emissioni.

Raggiungere questi obiettivi, spiega Patel, è a sua volta «necessario per evitare che il cambiamento climatico abbia effetti catastrofici, soprattutto in quei paesi che sono già fragili o in conflitto». Il clima non provoca le guerre in modo diretto, ma agisce da «moltiplicatore della minaccia e contribuisce al conflitto esacerbando tensioni che esistono già».

C’è poi un aspetto della guerra e del suo incidere sul clima che a oggi è misurato in modo impreciso: le emissioni del settore militare. Axel Michaelowa, fondatore dell’agenzia di consulenze tedesca Perspectives climate group, ha spiegato all’emittente pubblica Deutsche Welle che le emissioni militari possono raggiungere centinaia di milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno. «Le emissioni annuali dirette dei comparti militari in grandi paesi come Stati Uniti e Regno Unito raggiungono l’1% del totale nazionale», la maggior parte per il funzionamento di aerei da combattimento. Altre derivano anche dalla distruzione delle riserve di carbonio durante le guerre, mentre le emissioni indirette per ricostruire città e infrastrutture dopo un conflitto possono facilmente superare i 100 milioni di tonnellate di CO2: circa un quarto dei gas serra emessi dall’Italia@.

Chiara Giovetti

Campo di girasoli in Ucraina




Il mondo al pronto soccorso


Il clima, la pandemia, la situazione in Ucraina precedente alla guerra. Tre film documentari sulle tre emergenze che, in modi diversi, stanno scuotendo il mondo. Quando il linguaggio cinematografico aiuta a guardare le cose per farsene carico.

A riveder le stelle

Emanuele Caruso, classe 1985, è un regista di cui si parla parecchio da alcuni anni, e non a caso.

Di origini siciliane e radici albesi, Caruso rappresenta, sia nella forma che nella sostanza, una sorta di piccola nuova frontiera della produzione cinematografica di casa nostra. Ha prodotto, tra il 2014 e il 2018, due film (E fu sera e fu mattina e La terra buona) finanziati interamente da compagne di crowdfunding di grande successo e, nonostante lo scetticismo che accompagna spesso chi ha il coraggio di buttare il cuore oltre l’ostacolo, anche nelle sale cinematografiche il pubblico ha risposto con un entusiasmo che ha di molto superato le attese.

Il 2 marzo, a Domodossola, è stata la volta della prima nazionale del suo nuovo film: A riveder le stelle, prodotto di nuovo con la sua Obiettivo Cinema.

Questa volta Caruso si è cimentato su un terreno già frequentato in gioventù: il documentario d’autore. Un gruppo di sei persone che non si conoscevano prima, tra cui gli attori Maya Sansa e Giuseppe Cederna, e il medico Franco Berrino, fondatore dell’associazione «La grande via», per sette giorni hanno macinato molta strada e scoperto la Val Grande, al confine tra Piemonte e Svizzera, 150 chilometri quadrati di natura selvaggia. A guidare il loro cammino c’era una semplice riflessione, che per il regista rappresenta il filo rosso che lega tutto il racconto: «Stiamo distruggendo il pianeta e nessuno fa niente. Nessuno, sono io».

Sulla pagina web dedicata al film, Emanuele Caruso scrive: «Quando, nei prossimi anni, il cambiamento climatico provocherà la più grande crisi che l’uomo dovrà mai affrontare, volgeremo il nostro sguardo al passato. Guardando indietro, ai tanti errori che con consapevolezza abbiamo commesso negli anni, ci porremo allora un’unica domanda: “Come abbiamo potuto permetterlo?”».

Il film è in distribuzione in alcune sale del Nord Italia, ma è possibile organizzare ovunque si voglia proiezioni per scuole e associazioni.

Tutti i dettagli sono sul sito www.obiettivocinema.com.

Ogni 90 secondi

Restando nell’ambito delle emergenze che ci riguardano tutti direttamente, va segnalato che il 31 marzo, giorno della fine ufficiale dello stato d’emergenza sanitaria in Italia, alle ore 23,30 su Rai1 è andato in onda Ogni 90 secondi. Storie di pronto soccorso tra emergenza e urgenza, un film documentario prodotto dalla Simeu, Società italiana medicina d’emergenza urgenza, firmato dal regista televisivo Davide Demichelis.

Il lavoro è un tributo a quei luoghi – sono 650 i pronto soccorso attivi in Italia -, che nel marzo del 2020 sono stati travolti dalla pandemia.

Uscendo dalla retorica dell’eroismo, Davide Demichelis viaggia da Nord a Sud alla scoperta della prima frontiera della sanità italiana e di chi, con dedizione e una professionalità altissima, permette che i pronto soccorso funzionino al meglio delle loro possibilità.

La forza del film è anche la rinuncia al catalogo delle debolezze del sistema. Quelle le conosciamo. Ciò che non conosciamo abbastanza, invece, sono le storie dei medici, degli infermieri, dei professionisti della medicina d’emergenza.

Li abbiamo scoperti a causa della pandemia, ma loro c’erano prima e ci saranno dopo. Certo per chi ha lavorato settimane di fila senza staccare mai, ha iniziato il turno a febbraio del 2020 e lo ha finito a maggio, nulla sarà davvero più come prima.

Quando la competenza e l’esperienza si fanno servizio e si mettono a disposizione, tutto sembra possibile. Il senso del dovere prende il sopravvento e il pronto soccorso diventa casa e famiglia, il luogo in cui rimarrai fino a quando sarà necessario. Non un minuto di meno.

In chiusura, un medico denuncia chiaramente quanto pesi ancora ciò che (forse) ci siamo lasciati alle spalle, afferma: «Se per assurdo dovesse restare un solo medico al mondo, quel medico sarà un medico di pronto soccorso. Non c’è nessuna alternativa possibile».

Per poter seguire la programmazione del film o organizzare una proiezione, scrivere a ufficio.stampa@simeu.it.

Il documentario è visibile anche sulla piattaforma di Raiplay.

Winter on fire

L’ultima emergenza, dopo quella ambientale e quella sanitaria, con cui chiudiamo questo numero di Librarsi, è la guerra in corso in Ucraina.

Su Netflix dal 2016 è presente un film documentario che ora è tempo, per chi non lo avesse fatto, di vedere. O magari anche di rivedere, perché alla luce degli avvenimenti e dello strano dibattito che circonda il conflitto, la visione di Winter on Fire del regista russo Evgeny Afineevsky può rivelarsi illuminante.

Il film, del 2015, è il racconto di quanto avvenne a Kiev dal novembre 2013 al febbraio del 2014 in Piazza Maidan.

Rileggere quei fatti, che portarono alla fuga del presidente Victor Yanukovic in Russia, oggi ha un sapore diverso. Evgeny Afineevsky compone un puzzle che rende con grande chiarezza la drammaticità di quelle settimane: da una parte c’era una grande fetta di opinione pubblica che voleva avvicinarsi all’Europa per dare all’Ucraina una vera indipendenza da Mosca, dall’altra una politica troppo debole e corrotta per andare fino in fondo e recidere il vincolo con la Federazione Russa.

Il film è crudo. La violenza dei Berkut, i corpi speciali della polizia poi disciolti, sui manifestanti è impressionante. Le scene dei cecchini che sparano sulla folla, che prendono di mira coloro che soccorrono i feriti, riporta alle pagine più buie dell’assedio serbo di Sarajevo. Ciò che però oggi più colpisce di Winter on Fire è la consapevolezza che quella vittoria di piazza è stata tradita di nuovo. A distanza di soli otto anni è ancora la voglia del popolo ucraino di essere Europa a segnare il tragico destino della sua nazione.

Sante Altizio




Gli incendi bruciano anche il nostro futuro


In Italia, ogni anno, migliaia di ettari di aree boschive sono perse a causa del fuoco. Sei incendi su dieci sono di origine dolosa e criminale. In Siberia e Brasile la situazione è ancora peggiore.

Ogni anno, durante il periodo estivo, sono molte le regioni italiane nelle quali vaste aree boschive sono colpite da incendi. E la situazione sta rapidamente peggiorando. Nell’estate 2021, tra le regioni più interessate da incendi ci sono state la Sardegna, la Sicilia e la Calabria, che hanno registrato il maggior numero di danni, ma anche la Campania, la Basilicata, l’Abruzzo, le Marche, il Molise e la Toscana. Secondo il report di Europa Verde Incendi e desertificazioni, in Italia, dall’inizio dello scorso anno, sono bruciati circa 158mila ettari di boschi e di macchia mediterranea e questo ha ovviamente comportato la morte di migliaia di animali selvatici, nonché la perdita di oliveti e di pascoli. Nel 2021 l’Italia ha detenuto in Europa il record estivo d’incendi, che sono cresciuti del 256%, rispetto alla media storica 2008-2020, secondo i dati Effis (European forest fire information system). Secondo la Coldiretti, 6 incendi su 10 sono di origine dolosa.

Meno agricoltori e zero forestali

La situazione è aggravata dalla dismissione di parecchie aziende agricole, quindi dalla cospicua riduzione del numero di agricoltori, che hanno sempre esercitato un’azione di vigilanza e di gestione del patrimonio boschivo, che in Italia rappresenta un terzo della superficie, per un totale di 11,4 milioni di ettari (di cui il 32% fa parte di aree protette).

Un altro colpo alla sorveglianza e alla salvaguardia delle aree boschive in Italia è stato dato dalla riforma Madia del 2016, durante il governo Renzi, che ha riformato il Corpo forestale dello stato, sotto la spinta della spending review e sostanzialmente privatizzato la flotta dei canadair. Purtroppo in Italia, secondo il «Rapporto ecomafie 2020» di Legambiente, gli incendi scoppiano più frequentemente nelle regioni a forte presenza della criminalità organizzata, che spesso colpisce le aree naturalistiche sotto vincolo, come è avvenuto nella riserva dello Zingaro, in provincia di Trapani, nel Metapontino in Basilicata, nella riserva di Punta Aderci e nelle colline intorno a Pescara, nelle aree protette del Lazio, sulla costiera amalfitana, nella Sila e in provincia di Olbia. In Italia, la situazione è aggravata da due fattori: da un lato l’aumento delle temperature e la riduzione delle precipitazioni, che hanno caratterizzato gli ultimi anni con conseguente siccità sulle foreste, che risultano quindi meno resilienti nei confronti degli incendi; dall’altro gli errori nella scelta delle piante nelle attività di forestazione. Talora, infatti, vengono scelte, per la piantumazione di aree verdi, specie che soddisfano solo le ragioni estetiche, ma sono inadatte a resistere all’impatto climatico. Come capitò nel 2017 quando un incendio colpì le pendici del Vesuvio, dove erano stati piantati dei pini, che nulla avevano a che fare con la flora del territorio, cioè la macchia mediterranea, la quale ha una maggiore capacità di resistere alle temperature locali. In Italia, il pericolo d’incendi ha un andamento stagionale legato al fattore climatico, che influenza il grado di umidità della vegetazione, in particolare di quella erbacea del sottobosco.

Ci sono zone dove il pericolo d’incendio è maggiore che in altre. In base all’andamento meteorologico e climatologico, possiamo individuare due periodi di particolare pericolosità: quello estivo per le regioni del Sud e per la Liguria, e quello invernale per le regioni dell’arco alpino, quindi ancora la Liguria, il Piemonte, la Lombardia e il Veneto.

Ci sono, inoltre, diverse situazioni, che possono favorire lo scoppio di incendi boschivi come l’afflusso turistico, il già citato abbandono rurale delle campagne, particolari attività agronomiche e pastorizie, le vendette e le speculazioni. Queste ultime andrebbero sempre e comunque contrastate in base all’art. 9 della legge 1 marzo 1975, n.47, che vieta l’insediamento di qualsiasi tipo di costruzioni nelle zone boschive distrutte o danneggiate dal fuoco, impedendo così che tali zone assumano una diversa destinazione rispetto a quella avuta prima dell’incendio.

Non sempre però gli incendi sono di origine dolosa, seppure correlati alle attività umane. È stato, infatti, osservato che ad un progressivo aumento del numero dei veicoli circolanti e dello sviluppo viario, corrisponde un progressivo aumento degli incendi boschivi. Si è, inoltre, osservato che molti incendi hanno inizio ai bordi di strade e di autostrade. Anche le linee ferroviarie possono essere responsabili dell’innesco di incendi, quando nelle cunette e nelle scarpate c’è dell’erba secca, che può prendere fuoco per le scintille sprigionate dalle ruote dei treni. Da tutto ciò si evince che non solo è necessario ripristinare il Corpo forestale, rafforzando i nuclei investigativi con risorse umane e materiali adeguate, ma è indispensabile formare personale, che sia in grado di prevenire gli incendi con le tecniche più avanzate, tra cui quella degli incendi volontari controllati («fuochi prescritti»).

Nel resto del mondo

Se la situazione italiana quest’anno è stata drammatica, la mappa elaborata dal Fire information for resource management system della Nasa ci mostra che le fiamme hanno devastato i territori di molti stati nel mondo, soprattutto laddove le temperature estive sono state molto alte a lungo. Nel Sud dell’Europa, oltre all’Italia, sono state colpite la Grecia, la Turchia e la Spagna. Nel Nord Europa, la Finlandia e nell’Europa nord orientale, vaste regioni della Russia meridionale. Oltre oceano sono state interessate da incendi ampie zone del Nord e del Sud America. Nella zona centro meridionale dell’Africa, gli Stati più colpiti sono Zambia, Angola, Malawi e Madagascar. Le fiamme hanno inoltre colpito la penisola arabica e in Asia, le coste dell’India, la Siberia, la Cina e l’Indonesia.

In Siberia, il bilancio degli incendi da cui è stata colpita quest’anno, complici le insolite ed elevatissime temperature (intorno ai 39°C), che hanno interessato per giorni questa immensa regione russa, è superiore a quello disastroso del 2012, in cui aveva perso 181.100 Km2, infatti a metà settembre è stata registrata una perdita di 181.300 Km2 di foresta, ma se si considera che le fiamme hanno colpito anche praterie, canneti e tundra, l’estensione dei fuochi potrebbe essere superiore a 300mila Km2 (cioè un territorio di poco inferiore all’Italia). Gli incendi che colpiscono la taiga siberiana, cioè la più grande regione boschiva del mondo (comprendente quasi un quarto delle foreste del pianeta), sono estremamente dannosi perché non solo rilasciano enormi quantità di anidride carbonica (immagazzinata sia nella vegetazione, che nella torba del terreno) in atmosfera, ma riescono a sopravvivere all’inverno continuando a bruciare nel sottosuolo. Essi, pertanto, restano invisibili fino al rialzo delle temperature, pronti a tornare poi in superficie durante la stagione estiva. Il sistema di monitoraggio satellitare europeo Copernicus ha rilevato una quantità di 970 Mega tonnellate (Mt) di CO2 immessa nell’atmosfera tra giugno e agosto 2021 dovuta solo agli incendi siberiani. Tale quantità aumenta a 1.258 Mt a luglio e 1.384,6 Mt ad agosto, se si considerano le immissioni di CO2 dovute agli incendi, in tutto l’emisfero boreale.

Se in quest’ultimo la maggior parte degli incendi boschivi è legata a incuria, combustione di rifiuti, eventi accidentali, incidenti industriali e talvolta dolo, nelle regioni tropicali e subtropicali, gli incendi sono appiccati per lo più intenzionalmente con lo scopo di cambiare la destinazione d’uso dei terreni, che possono essere così utilizzati per la coltivazione e gli allevamenti intensivi.

Il decadimento dell’amazzonia

È evidente che il cambiamento climatico, con l’innalzamento delle temperature per lunghi periodi dell’anno, favorisce l’attecchimento degli incendi boschivi e la loro propagazione, ma la CO2 rilasciata in atmosfera dai roghi è essa stessa causa dell’innalzamento globale della temperatura, pertanto si instaura un circolo vizioso. Si stima che ogni anno gli incendi delle foreste immettano in atmosfera una quantità di CO2 equivalente a quella immessa dall’Unione europea e che vi siano circa 340mila morti premature causate da problemi respiratori e cardiovascolari attribuiti al fumo degli incendi.

Se da un lato la perdita di enormi quantità di foreste è dovuta agli incendi, dall’altro essa è legata al disboscamento illegale causato dall’agricoltura commerciale e dalla richiesta di legname. Secondo il rapporto Forest Trends 2021, il Brasile è il paese maggiormente responsabile di disboscamento illegale, insieme al Congo e all’Indonesia. Questi tre paesi, insieme, rappresentano il 50% del global logging (termine anglosassone che accorpa il taglio e il trasporto del legno). A sua volta, la Cina è responsabile del disboscamento illegale della taiga siberiana, essendo il più grande importatore di legname al mondo e avendo vietato il disboscamento delle proprie foreste.

Si stima che, tra il 2013 e il 2019, quasi 2/3 delle perdite delle foreste tropicali sia stata causata dall’agricoltura commerciale e che 3/4 della conversione agricola dei terreni sia avvenuta illegalmente.

Secondo i dati della Ong brasiliana Imazon, tra agosto 2020 e luglio 2021, il disboscamento dell’Amazzonia ha raggiunto 10.476 Km2, cioè una superficie grande il doppio di quella della provincia di Roma. L’ecosistema forestale amazzonico sta versando in condizioni critiche con 10mila specie dichiarate a rischio. Inoltre, con il 35% della superficie disboscata o degradata, uno studio decennale è arrivato alla conclusione che la foresta attualmente emette più CO2 di quanta ne assorba, per cui non può più essere considerata il polmone verde della terra.

Le promesse della Cop26

Durante la conferenza sul clima dell’Onu, la Cop26 di Glasgow (cfr. dossier in questo stesso numero), oltre 100 paesi hanno sottoscritto una dichiarazione sulle foreste e sull’uso del suolo, che dovrebbe limitare e invertire la deforestazione entro il 2030.

In pratica 114 paesi, che detengono insieme l’85% delle foreste mondiali, si sono impegnati a mettere a disposizione circa 16,5 miliardi di euro, tra fondi pubblici e privati, per il recupero dei terreni danneggiati, per la gestione degli incendi e per gli aiuti alle comunità che vivono in questi ambienti. La prima criticità di questo accordo è rappresentata dal fatto che i paesi partecipanti hanno avuto una richiesta, non un obbligo, a «rivedere e a rafforzare gli obiettivi sul clima al 2030 nei loro contributi nazionali entro la fine del 2022 di quanto è necessario per allinearli con l’obiettivo di temperatura dell’Accordo di Parigi, tenendo in considerazione le diverse circostanze nazionali», come recita il punto 29 del patto sul clima di Glasgow. Questo ha permesso ad Australia e Nuova Zelanda di affermare che non presenteranno contributi nazionali volontari prima della Cop27 del prossimo anno, perché si ritengono già allineate. Un’altra criticità emersa da Glasgow è il ruolo della piantagione di nuovi alberi (l’Unione europea si è impegnata a piantare 3 miliardi di piante entro il 2030), unitamente al contrasto alla deforestazione, nella lotta al cambiamento climatico. Di per sé, la piantagione di nuovi alberi sembra una buona soluzione, ma non può essere considerata fondamentale per la lotta al cambiamento climatico perché prima che, in un terreno distrutto da un incendio, essa sia in grado di ricostituire un bosco, devono passare almeno 15 anni, troppi per i danni all’ambiente e all’economia delle popolazioni locali.

È molto più importante perseguire politiche di prevenzione degli incendi e del disboscamento illegale, così come la lotta alla criminalità organizzata, piuttosto che correre ai ripari a cose fatte. È altrettanto importante un’azione di educazione delle popolazioni alla conoscenza e alla salvaguardia dei boschi e delle foreste, soprattutto perché le piante, con la loro organizzazione, hanno molto da insegnarci. Ogni singola pianta è infatti costituita da una rete di moduli e una foresta è una rete di reti, cioè un superorganismo. Dall’unione di tante unità emergono caratteristiche, che non esistono nel singolo individuo, ma permettono di superare le difficoltà presentate dall’ambiente. Le piante quindi ci insegnano la cooperazione, il senso di comunità e di rete, cioè che non vince il più forte, ma chi sa cooperare.

Rosanna Novara Topino


Una difesa naturale

Piante fuocoresilienti

Può sembrare strano l’utilizzo del fuoco per controllare gli incendi. Si tratta di una tecnica già utilizzata negli Stati Uniti dai primi anni del secolo scorso. Essa mira a sfruttare la capacità di resistenza di alcune specie di piante nei confronti del fuoco. Pertanto, la loro presenza può salvaguardare il bosco da un incendio più distruttivo. Un esempio è dato dal comportamento del Pinus palustris, che allo stadio giovanile è poco più di un ciuffo di aghi verdi su un esile fusto, che rimane a lungo in questo stato, se circondato e sovrastato da erbe e arbusti, che lo adombrano e gli tolgono spazio. Quando però un incendio colpisce il suo territorio, con l’eliminazione delle piante concorrenti, questo tipo di pino cresce molto rapidamente, diventando in breve tempo una delle piante più alte del bosco. Come ci riesce? Grazie alla protezione della propria gemma apicale con un mazzetto di aghi lunghi circa 20 centimetri, che bruciano se attaccati dal fuoco, lasciando la gemma intatta alla loro base. Anche il cisto e il pino di Aleppo utilizzano il fuoco per svilupparsi. Lo stesso discorso vale per la quercia da sughero, la cui spessa corteccia serve proprio a proteggere la pianta dal fuoco, oppure per i castagni, i corbezzoli e le robinie, tutte piante capaci di sopravvivere a un incendio emettendo nuovi fusti dai ceppi residui o dalle radici. La tecnica del fuoco prescritto sfrutta tutto questo: serve a selezionare piante resistenti e autoctone e nel contempo a eliminare il carico di combustibile presente nel territorio, in modo che un incendio incontrollato possa raggiungere le chiome degli alberi. È chiaro che, per poterla applicare, sono necessarie condizioni meteorologiche favorevoli (vento e umidità) e uno studio accurato del territorio. Nei terreni dove da lungo tempo manca un incendio, può verificarsi il cosiddetto «paradosso del fuoco» cioè l’accumulo di arbusti, legno e foglie secche diventa un pericoloso combustibile, che per un evento accidentale (fulmini, forte siccità, azioni umane) può dare origine ad un incendio devastante e incontrollabile. Per evitare tutto questo, se non si vuole ricorrere alla tecnica del fuoco prescritto, a cui non tutti sono favorevoli perché comunque essa può alterare la flora e la fauna del sottobosco, è necessario ricorrere a un’asportazione meccanica dei carichi d’incendio e quindi un controllo costante del patrimonio boschivo, che da anni in Italia è abbandonato a sé stesso. (RNT)




Viaggio in Norvegia: le scelte di Oslo

La ricetta norvegese


Testo e foto di Piergiorgio Pescali


Da molti anni la Norvegia si situa ai primi posti nella classifica dell’Indice di sviluppo umano. I suoi abitanti – poco più di 5 milioni – hanno un’elevata qualità della vita. Il Fondo sovrano norvegese – che gestisce i corposi proventi del petrolio – è ricchissimo, ma anche attento all’etica dei propri investimenti. Nonostante tutto questo, ci sono questioni aperte. Per esempio, anche a queste latitudini i problemi ambientali sono in rapido aumento. Inoltre, i norvegesi stanno cercando di porre un freno all’immigrazione, anche premiando partiti populisti anti immigrati. La ricetta complessiva rimane buona, ma oggi il paese deve trovare risposte adeguate alle nuove sfide.

«Guarda la mappa della Norvegia: un pugno con un dito indice che si allunga verso nord, quasi come a voler toccare l’inviolabile, le terre ostili che si frammentano nel Finnmark». Morten Andreassen mi mostra la cartina della Norvegia mentre è seduto su un masso addentando con gusto un panino. Sta studiando per ottenere un Master in Scienze della globalizzazione e sviluppo sostenibile all’Ntnu, l’Università norvegese di Scienze e tecnologia di Trondheim, l’istituto scientifico più prestigioso del paese dalle cui aule sono usciti cinque premi Nobel. Ogni anno l’Ntnu organizza il Big Challenge Science Festival, uno dei simposi scientifici più seguiti al mondo in cui, per quattro giorni, scienza e spettacolo si mischiano in una serie di eventi memorabili coinvolgendo moltissimi dei duecentomila abitanti di Trondheim e trasformando questa cittadina in una capitale della cultura scientifica, umanistica e artistica.

L’atmosfera tranquilla, ma al tempo stesso pregna di stimoli intellettuali di Trondheim, associata all’eccellente livello di insegnamento impartito nell’Ntnu ha fatto sì che i suoi ricercatori e studenti siano contesi da compagnie e centri di ricerca di tutto il mondo: «Potenzialmente abbiamo un tasso di disoccupazione inferiore allo zero», scherza Magnhild, la ragazza che viaggia con Morten.

Lei, dopo la laurea, è tornata a Tromso, la cittadina dove è nata, per lavorare in una compagnia che si occupa di energie rinnovabili. Magnhild è andata a Oslo a trovare la famiglia di Morten e quest’anno hanno deciso di tornare a Trondheim percorrendo a piedi i 643 chilometri del «Sentiero di Sant’Olav» (foto alle pagine 41-42), il cammino di pellegrinaggio che, partendo dalla Vecchia Chiesa di Aker ad Oslo termina alla cattedrale di Nidaros, dove nell’XI secolo fu sepolto Olav Haraldsson (995-1030), il Rex Perpetuus Norvegiae e patrono della nazione (nonché santo e martire per la Chiesa cattolica).

«Non siamo credenti, anzi siamo atei convinti, ma abbiamo approfittato di trascorrere quattro settimane a stretto contatto con la natura per raccogliere dati sui cambiamenti climatici per le nostre ricerche».

Il Sentiero di Olav, l’università di Trondheim, la passione di Morten e Magnhild per la natura – espressione del friluftsliv[1] che accomuna i norvegesi – e il rispetto verso l’ambiente sono le basi da cui parto per cercare di comprendere quale possa essere stata la chiave che ha portato, in pochi decenni, un popolo povero e circondato da una natura ostile ad occupare oramai da diversi anni, le prime posizioni nelle statistiche dell’Indice di sviluppo umano[2].

Una tigre in Norvegia: la città contro la natura

La statua della tigre che ruggisce – realizzata da Elena Engelsen e dal 2000 posta fuori dalla stazione ferroviaria di Oslo – è forse l’emblema di una città e una nazione che sta cambiando più velocemente di quanto vorrebbe. L’artista voleva rappresentare la vivacità e lo sviluppo della Tigerstaden, la città della tigre, il soprannome con cui oggi è conosciuta Oslo, ma a molti norvegesi il felino ricorda i versi scritti nel 1870 dal poeta Bjornstjerne Bjornson, premio Nobel nel 1903 e autore delle parole dell’inno norvegese, il quale contrapponeva l’immagine pericolosa, violenta e aggressiva della città a quella bucolica, pacifica e genuina della campagna[3].

Sicuramente ai turisti orientali che sempre più numerosi affollano la capitale norvegese, quella statua ricorderà le «tigri asiatiche», le quattro economie dell’Asia (Singapore, Taiwan, Hong Kong e Corea del Sud) che negli anni Novanta bruciavano le tappe dello sviluppo crescendo a dismisura sino a diventare il simbolo di quella riscossa asiatica che, più tardi, avrebbe trovato nella Cina la sua locomotiva.

L’economia norvegese non viaggia quanto le tigri asiatiche (ormai anch’esse sedate) ma la crescita del Pil continua ad aggirarsi attorno ad un onorevole 2% ed Oslo – con circa 700mila abitanti – è considerata la città che si espande più velocemente tra le capitali dell’Europa[4].

Definire la capitale della Norvegia una bella città è una forzatura e il paragone con le «colleghe» scandinave è impietoso: la sua storia è sempre stata offuscata dalle più regali Copenaghen e Stoccolma, i cui regni si sono succeduti pressoché ininterrottamente alla guida della Norvegia dal IX secolo al 1905, quando la nazione trovò la sua indipendenza. Città prettamente operaia e industriale, Oslo non ha certo la grazia di Bergen o il fascino dell’art nouveau di Alesund. Al contrario, la città, che riacquistò il nome originario solo nel 1925 abbandonando il toponimo di Christiania affibbiatole dal re di Danimarca Cristiano IV, è sempre stata quella descritta, con un misto di sagacia e melanconia, da Luigi Di Ruscio, il poeta-operaio emigrato dall’Italia nel 1957 e morto ad Oslo nel 2011: «Poi ci sono i lunghi inverni gelati con le giornate cortissime e le lunghissime notti, le nevi che persistono per mesi e alla fine da bianche che erano diventano nere ed Oslo diventa la città dalla neve nera»[5].

Eppure, l’amministrazione locale è riuscita a realizzare quello che, sino a pochi anni fa, sembrava impossibile: conferire una fisionomia e una personalità unica alla metropoli. Sapendo di non poter competere sul piano monumentale e storico con altri centri scandinavi ed europei, si sono scelti altri campi per rendere Oslo città appetibile al turismo e alla finanza: l’architettura moderna, la cultura e la natura. Gli amministratori norvegesi, con la collaborazione di architetti provenienti da tutto il mondo, hanno trasformato una città anonima e grigia in un interessante esperimento di design urbanistico quasi senza stravolgerne l’assetto storico e valorizzando gli edifici esistenti. Le gru che si innalzano da numerosi quartieri stanno rivoluzionando lo skyline di Oslo che, dal 2020 si doterà di nuovi spazi abitativi, finanziari e culturali offrendo a turisti e abitanti un nuovo volto, più moderno e accattivante.

Accanto all’Opera House stanno sorgendo centri residenziali e lavorativi hi-tech: il Barcode, il Sorenga, il Museo Munch, la Biblioteca nazionale, mentre nell’Aker Brygge tra pochi mesi verrà inaugurata l’immensa Galleria nazionale che si affiancherà al Nobel Peace Centre. Al tempo stesso i polmoni verdi, vero vanto del rispetto ambientale di cui si fregia la città, sono stati mantenuti. Un efficiente e relativamente poco costoso sistema di mezzi pubblici collega 24 ore su 24, sette giorni su sette, anche i quartieri più periferici. In meno di un’ora è possibile raggiungere piste da sci, rifugi immersi nella natura, sentieri montani lasciando la propria auto nel garage. Oslo non è bella, ma è sicuramente la città ideale in cui vivere.

Le sfide ambientali: cambiamento climatico, petrolio, disboscamento, turismo

Quello norvegese è tradizionalmente un popolo culturalmente coeso, che ha fatto del rispetto per la natura uno dei suoi cavalli di battaglia.

«Se chiedi ad un turista medio cosa vorrebbe vedere andando in Norvegia ti risponderebbe “i fiordi”; un turista un po’ più accorto aggiungerebbe Capo Nord o Lofoten. Pochi si aspettano di vedere città come Oslo o Stavanger» mi spiega Gunn Wadzynski, attivista ambientalista di Greenpeace, che poi continua: «Lo stereotipo della Norvegia è che sia un territorio selvaggio, inesplorato, incontaminato e, soprattutto, non inquinato. Purtroppo, la realtà sta cambiando molto velocemente: l’ambiente soffre sempre di più e non solo per i cambiamenti climatici, ma anche per lo sfruttamento che noi norvegesi operiamo sul nostro territorio».

Ogni anno dieci milioni di turisti arrivano in Norvegia, di cui tre milioni su navi da crociera ed oramai il 4,2% del Pil dipende dal loro[6].

L’aumento del turismo è sicuramente una delle cause del degrado ambientale, ma il danno più evidente è dovuto ad un fattore esterno – i cambiamenti climatici mondiali – e uno interno, il continuo dissanguamento delle risorse naturali, causato in particolare dall’estrazione petrolifera e dal disboscamento.

Nel 2016 la temperatura media nelle Svalbard, il piccolo arcipelago situato più a settentrione del paese, è stata di 6,6°C superiore a quella normale[7]. Anche se i dati relativi a questa statistica sono stati contestati da molti ricercatori in quanto basati su una rilevazione effettuata presso l’aeroporto di Longyearbyen e quindi falsati dal microclima esistente in quella specifica parte dell’isola, è un dato di fatto che la coltre di ghiaccio in tutto il Circolo polare artico si sta assottigliando[8].

Per contrastare l’aumento di temperatura, la Norvegia si è data come obiettivo di ridurre entro il 2030 le emissioni di CO2 del 40% rispetto al 2005.

Uno studio preliminare ha individuato che il 74% delle emissioni di gas serra proviene da due settori: trasporti e agricoltura[9]. È quindi in queste due attività che il governo ha cercato di intervenire con più incisività.

Tra il 1990 e il 2013 sono stati disboscati 140mila ettari di foresta, cosa che ha contribuito per il 4-5% dell’emissione della CO2. Il 33% della deforestazione è stato effettuato per costruire nuove strade, ferrovie e abitazioni, l’11% per linee elettriche e impianti sciistici e il 31% per usi agricoli[10].

«Il 21% dell’abbattimento avviene prima che l’albero raggiunga lo stadio V, la fase oltre la quale il fusto ha ormai sorpassato il tasso di massimo assorbimento di anidride carbonica ed è pronto per la sostituzione», specifica Sigurd Sivertsen, del dipartimento di ingegneria ambientale all’Ntnu[11].

Durante il XX secolo la Norvegia ha implementato una politica di rimboschimento e nei prossimi anni le foreste piantate negli anni Cinquanta e Sessanta raggiungeranno la loro completa maturazione con una diminuzione del tasso di assorbimento di CO2. Per ripristinare la fotosintesi clorofilliana necessaria per mantenere l’equilibrio naturale, nel 2013 la Norwegian environment agency ha proposto la riforestazione di 100mila ettari di terreno per i successivi venti anni che, una volta completata, potrebbe rimuovere 1,8 milioni di tonnellate annue di CO2 nel 2050[12].

Per accelerare l’accrescimento del tronco fino ad un 10-15%, i laboratori di ricerca norvegesi hanno sviluppato un programma di modificazione genetica che, sommato alle tecniche di inseminazione, potrebbe permettere di stare al passo con il programma di assorbimento dei gas serra senza aumentare la superficie boschiva del paese.

Naturalmente questa tecnica invasiva ha riscontrato l’ostilità di numerose organizzazioni ambientaliste: Turid, dell’associazione radicale (e per molti versi cospirazionista) Green Warriors di Bergen afferma che «Il 75% dei nuovi semi utilizzati per la sostituzione degli alberi abbattuti in Norvegia sono geneticamente modificati. In questo modo le politiche ambientaliste del nostro paese sono un palliativo per permettere comunque alle compagnie che contribuiscono all’aumento delle temperature mondiali di continuare a operare le loro politiche distruttive». La critica di Turid ha un fondo di verità, ma la realtà norvegese ci offre una visione molto più variegata che è osservata con interesse da molti attori internazionali: nel 2015 le energie rinnovabili rappresentavano il 46% dell’energia totale fornita al mercato norvegese. Certamente la bassa densità di popolazione e la ricchezza del territorio (il 40% dell’energia utilizzata è idroelettrica[13]) gioca un ruolo determinante nel successo del modello Norvegia, che comunque è ancora lontana dall’escludere le fonti fossili dalla sua dipendenza energetica (il petrolio fornisce il 36,8% dell’energia e il gas naturale il 18,2%[14]).

Al tempo stesso l’utilizzo di fonti naturali permette alla nazione di avere un prezzo al consumatore tra i più bassi in Europa nonostante una tassazione del 38%: 38 euro/MWh (megawattora) contro i 54 euro/MWh che paga un italiano[15].

Così, nonostante un norvegese consumi 5,20 «Tonnellate di petrolio equivalente» (Tep) ogni anno contro una media europea di 4,11, l’impatto ambientale diretto è inferiore rispetto ai cittadini del Vecchio continente[16].

Elettrico sì, ma senza incentivi

Una delle principali azioni espresse dal governo di Oslo per contenere e ridurre l’impatto ecologico nella nazione è stata quella di sostenere l’uso dell’auto elettrica (Ev) mediante un programma di incentivi statali, introdotti sin dalla fine degli anni Novanta per aiutare lo sviluppo della Kewet, una macchina elettrica prodotta da una fabbrica danese che nel 1998 era stata venduta alla norvegese Elbil Norge As[17]. Nel 1997 le macchine Ev[18] hanno ottenuto l’esenzione completa dai pedaggi stradali, nel 1999 dal pagamento dei parcheggi (dal 2017 la gratuità è a discrezione di ogni municipalità), dal 2001 l’esenzione dell’Iva e dal 2009 vengono trasportate gratuitamente sui traghetti.

Qualcosa però sta cambiando anche nel paese: nel 2018 il 31,2% delle nuove auto vendute in Norvegia era Ev e Phev (auto ibride)[19], con queste ultime in costante ascesa[20]. Lungi dal rappresentare una coscienza ecologica popolare, le auto Ev vengono comprate per una questione economica più che ambientale: il 63% dei norvegesi che hanno un’auto completamente elettrica ha anche una seconda auto ibrida o a combustibile fossile.

I motivi sono diversi: in primo luogo lo sviluppo del sistema delle colonnine di ricarica che, pur essendo il più capillare d’Europa, è ancora insufficiente per rendere indipendente la circolazione sull’intero territorio. Al 2 aprile 2019 in Norvegia vi erano 12.612 ricariche (di cui 2.361 a carica veloce, 616 dedicate alla Tesla supercharges[21]); un incremento importante rispetto al 2011 (allora c’erano 3mila colonnine), ma che non segue quello delle vendite e questo ha disincentivato l’acquisto di auto esclusivamente Ev[22].

In secondo luogo, gli incentivi funzionano da motore per chi deve usare l’auto su strade a pedaggi e su traghetti: la più alta concentrazione di auto elettriche al mondo la si trova a Finnoy, un’isola di fronte a Stavanger. Qui il pedaggio del tunnel che connette l’isola alla terraferma costa 150 nok sola andata: un sondaggio della Neva (Norwegian Electric Vehicle Association) ha constatato che gli acquirenti hanno comprato le Ev per non pagare il pedaggio (300 nok al giorno).

Tutto questo, però ha un costo che comincia a diventare troppo ingente per l’economia norvegese: l’Istituto per l’Economia dei trasporti nel 2015 ha stimato che i mancati introiti per lo stato erano pari a 4 miliardi di nok, ancora sostenibili per l’economia norvegese, ma dovranno essere ben presto rivisti. Per ora il governo ha stabilito che le agevolazioni per l’acquisto di auto elettriche verranno mantenute fino al 2020 anche per permettere, entro quella data, alla città di Oslo di rispettare il programma di eliminare completamente i trasporti pubblici a carburante fossile utilizzando solo quelli elettrici.

Le prime voci di dissenso verso questa politica si fanno già sentire dagli scranni dell’opposizione parlamentare: «Non possiamo continuare a finanziare le macchine elettriche», dice Andreas Halse, portavoce per l’ambiente del Partito labourista. Anche le compagnie navali hanno cominciato ad alzare i toni della protesta, così come le società che gestiscono le infrastrutture stradali.

Paradossalmente gli stimoli economici hanno avuto un effetto deleterio sulla circolazione: oltre a non eliminare le macchine a combustibile fossile, disincentivano l’uso dei mezzi pubblici.

Oggi, dunque, il governo si trova di fronte al dilemma su come rendere il mercato delle auto elettriche appetibile al consumatore senza dover offrire promozioni.

Socialità e risparmio energetico

La Norvegia sta cercando di far fronte all’emissione di gas serra anche affrontando la questione del costo della vita che rende problematico per le giovani generazioni l’affrancamento dalle famiglie.

L’affitto medio mensile di un monolocale in centro a Oslo costa circa 1.000 euro, mentre l’acquisto varia da 4.000 euro al metro quadro per un appartamento fuori dal centro a 6.000 euro al metro quadro in centro[23]. Un salasso anche per uno stipendio medio norvegese che si aggira sui tremila euro netti al mese[24].

Dal 2020 le nuove costruzioni dovranno essere energeticamente completamente autonome così da risparmiare, entro il 2030, dieci TWh (terawattora) di consumo, mentre verrà vietato l’uso di riscaldamento fossile per tutti i restanti edifici (attualmente solo il 20% del parco immobiliare è dotato di riscaldamento con energia rinnovabile). Queste direttive (costose e impegnative) hanno indotto gli architetti norvegesi a cercare soluzioni alternative trovandole nelle abitazioni collettive, edifici in cui si cerca di coniugare l’indipendenza del nucleo famigliare con il taglio dei costi e la diminuzione dello spreco energetico. Il co-housing o collective-housing non è una novità nei paesi nordici essendo già praticato negli anni Settanta-Ottanta, ma con l’arrivo del benessere e della ricchezza era andato via via scomparendo. L’esigenza di una propria vita privata è stata preservata garantendo ad ogni famiglia un proprio spazio indipendente e riservato, mentre ci si affida alla gestione collettiva per quelle attività prettamente socializzanti, come una stanza comune per la mensa, le attività ricreative, il giardino.

Una trappola per l’anidride carbonica

Il governo, però, non si affida solo ai singoli cittadini per combattere l’effetto serra: dagli anni Ottanta la nazione ha intrapreso un percorso di ricerca e sviluppo nel campo del Ccs (Carbon capture and storage, Cattura e stoccaggio del carbonio), un processo che, dopo aver liquefatto l’anidride carbonica la inietta in una trappola geologica dove viene stoccata per centinaia di anni. È un metodo utilizzato per ridurre la quantità di CO2 liberata nell’aria, tanto che Oslo ha individuato nel Ccs una delle cinque priorità per contenere l’aumento di CO2 entro il 2030, ma il processo ha anche diverse problematiche evidenziate dagli ecologisti: il gas, che viene iniettato in sacche di terreno cavo (spesso dopo avere estratto petrolio o gas naturale), potrebbe liberarsi improvvisamente a seguito di terremoti avvelenando e asfissiando gli esseri viventi che stanno nelle immediate vicinanze.

Gli scienziati e tecnici norvegesi stanno sfruttando due siti offshore adatti al Ccs: Sleipner and Snøhvit, in cui la CO2 è insufflata a migliaia di metri di profondità (800-1.000 metri a Sleipner e 2.000 metri a Snøhvit), mentre un terzo giacimento esaurito (Troll, nel Mare del Nord) ha avuto il benestare del governo per il suo sfruttamento lo scorso gennaio[25]. «Sino ad oggi sono stati immagazzinati 21 milioni di tonnellate di CO2», spiegano alla Gassnova, l’azienda leader nella ricerca e sviluppo del Ccs, la cui esperienza ha permesso di esportare le tecniche Ccs maturate in Norvegia in diversi paesi (Cina, Indonesia, Sud Africa, paesi del Golfo Persico) e iniziare una collaborazione con molte istituzioni internazionali.

I centri di ricerca Ccs sono tre: il Tcm (Technology Centre Mongstad), Climit e il Norwegian Ccs Research Centre (Nccs). Tra questi il Tcm, operativo dal 2012, è il più grande al mondo ed è di proprietà di un consorzio di aziende guidate dalla Gassnova (77,5%), Equinor (7,5%), Shell (7,5%) e Total (7,5%)[26].

Il peso del petrolio sul Pil norvegese

In tutto questo bel programma ambientale il petrolio continua ad occupare una posizione rilevante nell’economia e nelle società norvegesi. Lungi dall’esserne indipendente, la Norvegia è ancora fortemente vincolata alle fonti fossili che contribuiscono per il 12% al Pil, per il 13% agli introiti erariali del governo centrale, per il 37% alle esportazioni e per il 21% agli investimenti nonostante la produzione sia diminuita del 40% rispetto al 2001 (due milioni di barili al giorno nel 2017 rispetto i 3,4 del 2001, ma nel frattempo la produzione di gas naturale è salita a 120 miliardi di metri cubi all’anno)[27]. E con riserve stimate in 90 miliardi di barili l’economia norvegese e i 200mila lavoratori impiegati nel campo petrolifero possono guardare con relativa tranquillità il proprio[28].

L’industria petrolifera norvegese è tra le più efficienti del mondo e viene vista come modello per altre economie.

Ogni anno si concedono licenze per esplorazioni già in atto e ogni due anni vengono messe all’asta licenze per esplorazioni in nuovi giacimenti. Nel maggio 2016 sono state vendute dieci licenze a tredici compagnie. Alla fine del 2015 la Equinor possedeva 259 licenze, mentre altri cinquantatré operatori ne avevano 182[29].

L’obiettivo a medio-lungo termine del governo non è solo quello di evitare il più possibile l’utilizzo delle fonti fossili nell’ambito nazionale, ma anche di rendersi paese trainante verso un programma etico e ambientale che coinvolga tutto il globo che escluda, nel limite del possibile, lo sfruttamento di energie provenienti da combustibili a base di carbonio.

L’industria petrolifera norvegese ha iniziato a decollare nel 1971, quando la Phillips Petroleum Company cominciò a sfruttare il giacimento di Ekofisk, nel Mare del Nord. Da allora l’oro nero ha rappresentato il carburante che ha alimentato lo sviluppo economico e sociale della nazione la quale, sebbene già relativamente più ricca rispetto al resto dell’Europa, ha cominciato letteralmente a essere inondata di denaro.

L’esportazione dell’oro nero frutta ogni anno alle casse di Oslo 210 miliardi di nok, ma la ricchezza derivata dall’estrazione off-shore non è mai stata ostentata dai protagonisti norvegesi che, in questo senso, si distinguono nettamente dai concorrenti arabi e asiatici.

A differenza della pacchianeria e della ridondante esibizione di questi ultimi, le compagnie petrolifere norvegesi si sono sempre distinte per il loro basso profilo comunicativo e la loro propensione sociale. L’esempio più evidente è visibile nell’eleganza e la linearità dell’enorme sede della Equinor, l’ex Statoil[30], la più grande e facoltosa azienda petrolifera del paese con un fatturato di 61 miliardi di dollari. L’edificio, a basso impatto ambientale, sorge a Fornebu, alla periferia di Oslo ed è stato costruito ad un costo di 1,5 miliardi di nok tra il 2009 e il 2012 dallo studio di architettura A-lab, lo stesso che ha realizzato l’avveniristico Barcode che si affaccia sul fiordo di Oslo[31].

Il Fondo pensioni norvegese, potenza finanziaria alla ricerca dell’etica

L’edificio della Statoil è l’esempio con cui la Norvegia ha amministrato i ricavi derivati dall’esportazione del petrolio. Sin dagli anni iniziali dello sfruttamento dei pozzi, il ministero delle Finanze pubblicava il documento «Il ruolo dell’attività petrolifera nella società norvegese» in cui si avanzava la domanda su come dovessero essere utilizzati i proventi dell’estrazione petrolifera[32].

Nel 1990 è stato fondato il Fondo petrolifero e il 1° gennaio 1998 lo stesso ministero ha affidato alla Banca di Norvegia la gestione delle azioni con la clausola che non si dovesse utilizzare una quantità di denaro superiore ai proventi degli investimenti, stimato nel 3% del capitale di 900 miliardi di euro distribuito in 73 paesi e in 9.158 compagnie[33].

Vi sono delle guide etiche che escludono dagli investimenti da parte del Fondo le ditte responsabili di violazioni di diritti umani, produzione di alcuni tipi di armamenti, produzione di tabacco, di carbone, inquinamento[34].

Così sono bocciate ditte come la Philip Morris, la Posco, Rio Tinto, la Loockheed Martin Corp. (ma la Norvegia è partner nella produzione dell’F-35[35]). Nel solo 2018 sono state escluse dal fondo ditte come l’Aecom, la Bae System, la Fluor Corp., l’Huntington Ingalls Industries Inc. (impegnate nella produzione di armi nucleari), la polacca Atal SA, la cinese Luthai Textile (violazione diritti umani), la Evergreen Marine Corp. Taiwan, Korea Line Corp., Precious Shipping Pcl, Thoresen Thai Agencies (violazione diritti umani e inquinamento ambientale), l’Evergy Inc. la PacifiCorp, Tri-State Generation and Transmission Association, Washington H. Soul Pattinson & Co Ltd (produzione di carbone), l’Halcyon Agri Corp. (inquinamento ambientale), la JBS South Africa (corruzione)[36].

Nel 2017 la Banca di Norvegia ha invitato il ministero delle Finanze a rivedere gli investimenti del Fondo pensioni consigliando di escludere azioni derivate da collocamenti petroliferi. Il consiglio del gestore è stato recepito dallo Storting[37] il quale ha deciso di eliminare 134 compagnie che hanno interessi nell’industria di esplorazione e estrazione petrolifera per un totale di settanta miliardi di nok.

Le critiche, però non mancano, a partire dalle organizzazioni anti Nato, che contestano il coinvolgimento norvegese nel progetto F-35, a compagnie private che si occupano di fondi d’investimento, come la Storebrand Asa, la principale agenzia norvegese che amministra 70 miliardi di dollari affidati da 1,2 milioni di norvegesi.

Jan Erik Saugestad, vice presidente della Storebrand Asa, è critico verso il pacchetto di investimenti effettuati dal Fondo nazionale. Secondo lui il Fondo dovrebbe impegnarsi con più incisività a convincere le compagnie petrolifere a promuovere maggiormente le tecnologie per energie rinnovabili escludendo completamente quelle che hanno ancora attività nel settore dei combustibili fossili. Nel suo ultimo rapporto, la Storebrand Asa ha individuato una lista di società su cui ha deciso di non investire[38].

Per la verità la lista è molto simile a quella del Fondo governativo, dato che la stessa Storebrand non esclude a priori queste società, ma solo quelle che, nel loro portafoglio, hanno guadagni provenienti da attività considerate critiche per l’ambiente superiori a una certa percentuale (ad esempio esclude compagnie che hanno entrate superiori al 5% in tabacco, al 25% in attività collegate al carbone, 20% in attività collegate a sabbie bituminose)[39].

La Storebrand, inoltre, ha recentemente accusato alcune compagnie petrolifere di boicottare le politiche di energie rinnovabili investendo milioni di dollari per impedire o rallentare la successione delle energie alternative da quelle petrolifere. Tra le società accusate vi sono la Bp (53 milioni di Usd – dollari Usa – annui per boicottare queste politiche), la Shell (49 milioni Usd), Exxon Mobil (41 milioni Usd), Chevron (29 milioni Usd), Total (29 milioni Usd). I metodi utilizzati dalle imprese includerebbero pressioni su politici, amministrazioni locali e sull’opinione pubblica[40].

Il rapporto della Storebrand, però, contrasta nettamente con quello di altre agenzie. La Reuter ha recentemente pubblicato una ricerca da cui si evince che le compagnie petrolifere, con in testa la Shell, hanno investito circa tre miliardi di dollari in acquisizioni di energie rinnovabili negli ultimi cinque anni, mentre uno studio della WoodMackenzie, una società di ricerca e consulenza energetica, ha evidenziato che Total, Shell e Equinor sono tra le compagnie petrolifere che investono maggiormente in energie rinnovabili. La sola Equinor investirà in questo settore entro il 2020, il 25% del suo budget di ricerca[41]41.

È stata ancora la Equinor ad aver sviluppato l’Hywind Scotland Pilot Park, il primo centro di produzione eolica mobile off-shore che si trova a venticinque chilometri dalle coste scozzesi di Peterhead, nell’Aberndeenshire. L’Hywind è un complesso di sei turbine eoliche con una capacità energetica di 30 MW (megawatt). Secondo la Windeurope, la Equinor fornisce con i suoi impianti eolici il 7% dell’intera capacità energetica eolica prodotta in Europa nel 2018[42].

La Norvegia e l’ondata migratoria: l’affermazione dei partiti populisti

Con la scoperta del petrolio in Norvegia sono iniziati ad arrivare immigrati estranei alla cultura scandinava: erano pachistani, iugoslavi, maghrebini che non hanno fatto fatica a essere assorbiti nella nascente industria petrolifera. Al tempo stesso, però, la caduta del Muro di Berlino, le crisi politiche ed economiche dell’Europa dell’Est, accompagnate dagli sconvolgimenti militari ed etnici del Centro Asia, Vicino Oriente e Africa hanno messo la Norvegia di fronte a un’ondata migratoria che ha contribuito a sviluppare scetticismo nei confronti all’Unione europea e sospetto verso i nuovi arrivati.

All’inizio del 2018 su 5.400.000 abitanti 746.700 erano immigrati stranieri a cui vanno aggiunti 170mila nati da genitori stranieri[43]43. In totale gli immigrati sono il 17,3% della popolazione e contribuiscono per il 58% all’incremento demografico della nazione[44].

«Il petrolio è stata la fortuna e, al tempo stesso, la sfortuna della Norvegia», sentenzia Bente, una ragazza di Tromso la quale ritiene, come molti suoi connazionali, che il paese dovrebbe porre un freno all’immigrazione.

Questa percezione è stata cavalcata con successo dai partiti populisti di destra e antieuropeisti, in particolare dal Partito del progresso (FrP, Fremskrittspartiet)[45] che, nato nel 1973 come movimento liberista per l’alleggerimento della tassazione con il nome di Anders Lange’s Party for a Drastic Reduction in Taxes, Fees and Public Intervention («Partito di Anders Lange per una drastica riduzione delle tasse e dell’intervento pubblico»), nel 1989, sotto la guida di Carl Hagen si è trasformato in partito anti-immigrati. Dal 2013 l’FrP, oggi capeggiato da Siv Jensen[46], è entrato a far parte della coalizione di governo guidata da Erna Solberg, del Partito conservatore (chiamato «Høyre», destra).

Da allora l’FrP, che nelle ultime elezioni parlamentari del 2017 ha ottenuto un consenso del 15,2%, ha sempre guidato il ministero della Giustizia, pubblica sicurezza e immigrazione (Mgpsi) gestendo la politica migratoria della Norvegia. Tutti i sondaggi effettuati dagli anni Novanta che chiedevano quale partito avesse la migliore politica migratoria, hanno visto la netta prevalenza del Partito del progresso. Uno dei politici più popolari nel paese è Sylvi Listhaug, ministro dell’Immigrazione fino al 2018, la quale ha dato una svolta alla politica norvegese definendo «tirannia del buonismo» l’approccio europeo verso l’immigrazione e dichiarando che sarebbe stato più cristiano e ragionevole aiutare più gente possibile nei loro paesi attraverso programmi di aiuto.

Per la verità la stretta sulla migrazione non è prerogativa solo della destra: il primo passo in questo senso è stato fatto dal governo laburista di Gro Harlem Brundtland che con l’Immigration Act del 1988 ha gettato le basi per un maggiore controllo frontaliero, facili respingimenti e rimpatri forzati.

Dove nasce la strage di Utoya

L’attentato di Anders Breivik del 22 luglio 2011, che colpì gli uffici del governo e poi portò alla strage di Utoya, non attenuò l’ondata di risentimento anti immigrati che, anzi, si andò rafforzando anche con l’aiuto di una classe intellettuale aggressiva e critica nei confronti della politica nazionale ed europea. Le idee di Peder Are «Fjordman» Nostvold Jensen che avevano nutrito la mente di Breivik sono oggi rappresentate da scrittori come Kent Andersen, che nel 2011 tacciò il Partito laburista di kulturquislinger («traditore della cultura norvegese») affermando che il governo aveva trasformato la Norvegia in una «Disneyland multiculturale»[47].

Tra i politici di destra si è fatto largo anche il concetto di Eurabia, mutuato dai libri di Bat Ye’Or (soprannome di Gisèle Littman) e di Bruce Bawer[48]. Secondo questa teoria l’Europa sarebbe al centro di una manovra islamico-progressista-comunista il cui fine ultimo sarebbe quello di trasformare il continente in una colonia islamica con l’aiuto della stessa Unione europea. Nel 2009 Per-Willy Amundsen, ministro della Giustizia tra il dicembre 2016 e il gennaio 2018, dichiarò che i musulmani sarebbero diventati la maggioranza in Norvegia entro un ventennio.

Nonostante la Norvegia non abbia aderito all’Unione europea, il paese ha comunque condiviso la Convenzione di Dublino generando critiche da parte di quella fetta di popolazione che vorrebbe un isolamento maggiore della propria nazione.

L’immigrazione: numeri e problemi

La Norvegia di oggi è dunque molto distante da quella che nel 1921 ha visto l’esploratore Fridtjof Nansen diventare il primo Alto Commissario per i rifugiati nella Lega delle Nazioni. Dall’inizio del nuovo secolo i governi che si sono succeduti alla guida del paese (qualunque fosse il loro orientamento) hanno adottato la politica della qualità piuttosto che della quantità accettando solo un determinato numero di migranti economici in base alle proprie esigenze e disponibilità di mercato del lavoro, scolastico e abitativo. Il parlamento ogni anno stabilisce un numero massimo di rifugiati che possono essere accolti nel paese, mentre il ministero della Giustizia, pubblica sicurezza e immigrazione (Mgpsi) identifica i paesi di provenienza e la tipologia di rifugiati escludendo a priori coloro che hanno comportamenti e attitudini indesiderate o problemi di tossicodipendenza.

Così nel 2018 il 28% delle domande d’asilo politico è stato respinto (in totale gli immigrati nello stesso periodo sono stati 49.800[49]) mentre 6mila persone senza permesso legale sono state espulse, di cui 5.400 costretti a rientrare a forza nei loro paesi d’origine (4mila per aver commesso un crimine[50]).

Una politica che rigetta l’idea che molti hanno di una Norvegia come paese aperto e accogliente verso chi cerca asilo. L’atteggiamento oggi prevalente è quello utilitaristico mischiato alla retorica dell’«aiutiamoli a casa loro». I migranti economici sono accuratamente scelti tra coloro che dimostrano di essere professionalmente preparati a svolgere determinati lavori perché, come ha detto nel giugno 2018 l’allora ministro dell’Immigrazione Tor Mikkel Wara: «L’immigrazione va a beneficio della comunità solo sino a certi livelli e certe composizioni. Lavoratori con competenze professionali, provenienti da società con valori moderni e liberali, con competenze che sono richieste dal nostro mercato del lavoro sono utili. Ma i benefici si tramutano in danni per i loro stessi paesi, se questi lavoratori professionalmente validi lasciano la loro terra, privando la loro stessa società di elementi validi»[51].

«La vita di famiglia perde ogni libertà e bellezza quando si fonda sul principio dell’io ti do e tu mi dai», scriveva il norvegese Henrik Ibsen[52].

Così la politica migratoria norvegese è dettata da due fattori: la consapevolezza che il welfare ha risorse limitate, ma al tempo stesso il diritto degli immigrati di godere degli stessi diritti e opportunità dei cittadini norvegesi. «Questo è il punto che ci distanzia da altri paesi dell’Europa», spiega Roger Jensen, teologo e direttore del Centro di pellegrinaggio del sentiero di Sant’Olav, a Oslo. «A differenza della Svezia e della Danimarca, che hanno ghettizzato gli immigrati, noi li abbiamo accolti e li abbiamo aiutati a inserirsi nella società diminuendo i fattori di rischio criminalità».

Un’affermazione, quella di Jensen, che non incontra l’appoggio di parte degli abitanti delle periferie cittadine.

In effetti, visitando alcuni quartieri di Oslo, sembra di sentire il già citato Luigi di Ruscio quando scriveva «Ovunque l’ultimo / per questa razza orribile di primi / ultimo nella sua terra a mille lire a giornata / ultimo in questa nuova terra / per la sua voce italiana / ultimo ad odiare / e l’odio di quest’uomo vi marca tutti / schiodato e crocifisso in ogni ora / dannato per un mondo di dannati»[53].

Nel sito document.no, uno dei tanti critici nei confronti dell’immigrazione e che raccoglie le idee degli intellettuali vicini al FrP, sono apparsi diversi articoli sulle baby gang. Un’area particolarmente critica è Drammen, un quartiere dormitorio alla periferia di Oslo dove opererebbero sette bande giovanili in cui «la maggior parte dei componenti è immigrata»[54].

È stato anche criticato il logo stilizzato di Oslo, dove, secondo il sito document.no, «non rimane molto né di St. Hallvard né del simbolismo cristiano (…) così i nostri nuovi connazionali (immigrati e musulmani, ndr) possono identificarsi con il nuovo simbolo. Nessuno si potrà offendere per un logo così anonimo»[55].

Per chi rimane: integrazione e diritti

Dalla fine degli anni Novanta si è introdotto l’obbligatorietà di partecipare a programmi di insegnamento della lingua e della conoscenza culturale, storica e sociale della Norvegia e nel dicembre 2018 il governo ha lanciato il programma Integration through education and competence il cui principale obiettivo è inserire gli immigrati nel mondo del lavoro e nella società attraverso l’istruzione pubblica, il lavoro, l’integrazione sociale e l’educazione civica.

Le nuove regole implementate dal governo impongono agli immigrati dei doveri tra cui la frequenza gratuita a 175 ore di scuola di lingua norvegese e a 50 ore di studi sociali, mentre ai rifugiati politici in possesso di un diploma scientifico e tecnologico dei corsi professionali che li indirizzino verso il mercato del lavoro. A tutti gli immigrati, dopo la schedatura e il test obbligatorio Tbc viene offerto un alloggio temporaneo (nel settembre 2018 c’erano circa 4mila residenti, nel 2016, 13.400). Una persona che aiuta uno straniero a entrare illegalmente in Norvegia rischia fino a tre anni di prigione, mentre chi sfrutta l’immigrazione per profitto rischia fino a sei anni. In cambio agli stranieri vengono garantiti gli stessi diritti dei norvegesi.

Ognuna delle 422 municipalità della Norvegia ha diritto di decidere il numero di rifugiati che ritiene di poter accogliere ogni anno. Nel 2018 meno di 250 municipalità hanno offerto la loro disponibilità (136 in meno rispetto al 2017). Il governo concede ai comuni una somma di denaro per ogni rifugiato accolto per 5 anni (nel 2018 era di circa 80.000 euro per ogni adulto e 75.000 per altri adulti famigliari[56]).

Dopo tre anni di soggiorno nel paese senza aver commesso crimini, dopo aver passato un test di lingua A1 (che richiede tra le 300 e le 600 ore di lezione a carico dell’utente) e uno di storia e legislazione norvegese, il candidato può ottenere la residenza permanente, mentre per la cittadinanza occorre risiedere ininterrottamente nel paese per sette anni senza aver commesso reati gravi e passare il test di lingua A2.

Le politiche di integrazione, da qualunque parte le si guardi, sembra comunque stiano funzionando: nonostante quello che molti esponenti della destra xenofoba vanno dicendo e scrivendo, il rispetto tributato dalla società norvegese verso culture provenienti dall’esterno è contraccambiato dall’amore per la nuova patria da parte degli immigrati. Lo dimostra anche un recente rapporto compilato da Statistics Norway in cui si evidenzia che il 76% dei figli di immigrati che sono nati in Norvegia parlano il norvegese oltre alla lingua dei genitori, ma la quasi totalità degli immigrati di seconda generazione sente come propria nazione e cultura più la Norvegia che il paese dei loro padri.

La lezione che la Norvegia può darci è quella di un paese che, in cambio del rispetto reciproco, è possibile che culture tanto diverse in ambito storico, politico, geografico, religioso possano convivere e progredire per lo sviluppo di una sola comunità dalle mille sfaccettature.

Piergiorgio Pescali


Note

[1] Il friluftsliv è l’abitudine dei norvegesi a spendere il proprio tempo libero all’aria aperta.

[2] Undp, Human Development Indices and Indicator, 2018 Statistical Update: Table 1, pag. 22 e Table 2, 1990-2017 pag. 26.

I versi di Bjornstjerne Bjornson sono tratti da Sidste Sang (L’ultima canzone): «Una volta ho sentito di una festa in Spagna: / Un cavallo brado venne lasciato libero nell’arena, / poi una tigre fuori dalla sua gabbia / si aggirò un po’ intorno di soppiatto, / poi si pose sulla pancia».

[4] Statistics Norway, Economic Survey 2019/1 – Economic Development in Norway, Main economic indicators 2007-2022, pag. 31.

[5] Luigi Di Ruscio (Fermo 1930 – Oslo 2011), La neve nera.

[6] Innovation Norway, Key Figures for Norwegian Tourism 2017, The importance of tourism for Norway, pag 6; pag 10; pag. 30.

[7] Nordli et al. (2014). Long-term temperature trends and variability on Spitsbergen: The extended Svalbard Airport temperature series, 1898-2012, Polar Research (http:// dx.doi.org/10.3402/polar.v33.21349).

[8] Norwegian Polar Institute, SvalGlac: Sensitivity of Svalbard glaciers to climate change, 2010-2016.

[9] Statistics Norway, citato. Vedi anche:
https://www.pre-sustainability.com/news/updated-carbon-footprint-calculation-factors.

[10] Norwegian Ministry of Climate and Environment, Norway’s Climate Strategy for 2030: a transformational approach within a European cooperation framework (2016-2017), 16 giugno 2017, pag. 104.

[11] In Norvegia gli alberi sono suddivisi in cinque categorie dalla I alla V. Solo quando le piante raggiungono la V categoria l’assorbimento di gas serra diminuisce repentinamente e sarebbe quindi necessaria la sostituzione.

[12] Miljødirektoratet, Statens landbruksforvaltning og Nibio (2013) Planting av skog på nye arealer som klimatiltak [Afforestation of new areas as a climate mitigation measure], M26-2013.

[13] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, Capitolo 8. Renewable Energy, §Supply and Demand – Renewable energy in the TPES, pag. 126.

[14] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, 1. General Energy Policy, §Key data (2015 estimates) pag. 15.

[15] European Commission, Directorate General for Energy, Quarterly Report on European Electricity Markets, DG Energy, Vol 11, issue 1, first quarter of 2018, Capitolo 2, pag.7.

[16] International Energy Agency, Key world energy statistics 2018, Selected indicators for 2016, pp. 29-33.

[17] Oggi la Kewet e la sua successiva evoluzione, la Buddy, sono scomparse dal mercato. Avevano un’autonomia massima di 150 km, erano piccole, ospitavano al massimo tre adulti, non avevano bagagliaio e somigliavano ad un Sulky, una minicar squadrata degli anni Ottanta.

[18] Ev, «Electric vehicle», veicolo completamente elettrico che si differenza dal Phev, «Plug-in Hybrid Electric Vehicle», veicoli elettrici ibridi.

[19] https://ofv.no/bilsalget/bilsalget-i-2018

[20] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, citata, pp. 52-53.
L’ibrido (Phev) rappresenta il 40% delle auto elettriche vendute nel 2018, nel 2016 era il 35%.

[21] https://info.nobil.no/eng

[22] La direttiva europea consiglia una colonnina di ricarica ogni 10 Ev; in Norvegia la proporzione è di 0,65 colonnine/Ev.

[23] https://www.numbeo.com/cost-of-living/country_result.jsp?country=Norway

[24] https://www.numbeo.com/cost-of-living/country_result.jsp?country=Norway

[25] https://www.gassnova.no/en/the-government-has-granted-permission-for-co2-storage-in-the-north-sea

[26] http://www.tcmda.com/en/About-TCM/Owners/

[27] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, pag. 9

[28] Il Mar del Nord ha il 51% delle riserve petrolifere, il Mar di Norvegia il 23% e il Mar di Barents il 26%. Dal 2009 l’estrazione di petrolio del Mare del Nord è diminuita del 7%, mentre nel Mare di Barents è aumentata del 7%. La Norvegia aveva nel 2016 80 campi di produzione petrolifera off-shore: 62 nel Mare del Nord, 16 nel Mare di Norvegia e 2 nel Mare di Barents.

[29] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, pag. 66.

[30] Statoil è diventata Equinor il 15 maggio 2018 con la fusione della Statoil con la Norsk Hydro. Il principale azionista è il governo norvegese (67,0%).

[31] A-lab, Statoil Regional and International Offices, §Fakta.

[32] Hillmar Rommetvedt, The Rise of the Norwegian Parliament, Ed. Frank Cass and Company Limited, Londra, 2003, pp. 189-190.

[33] https://www.nbim.no/en/

[34] Guidelines for observation and exclusion of companies from the Government Pension Fund Global.

[35] https://www.f35.com/global/participation/norway

[36] Norge Bank Investment Management, Responsible Investment Government Pension Fund Global, 2018 – Divestments, §Ethical exclusions, p. 113.

[37] Il parlamento norvegese.

[38] Storebrand, Sustainable investments in Storebrand Q4 2018, Companies that Storebrand does not invest in.

[39] https://www.storebrand.no/en/sustainability/exclusions

[40] Niall McCarthy, Oil And Gas Giants Spend Millions Lobbying To Block Climate Change Policies [Infographic], Forbes, 25/03/2019

[41] https://www.reuters.com/article/us-shell-m-a/shell-buying-spree-cranks-up-race-for-clean-energy-idUSKBN1FF1A8; vedi anche:
https://www.theguardian.com/business/2017/nov/28/   shell-doubles-green-spending-vo ws-halve-carbon-footprint
https://energypost.eu/how-attractive-are-renewables-for-oil-companies/

[42] Windeurope, Offshore Wind in Europe-Key and trend statistics 2018, Capitolo 3 – Industry Activity and Supply Chain, §3.2 Wind Farm Owner, febbraio 2019.

[43] worldpopulationreview.com/countries/norway-population/

[44] Espen Thorud, membro OECD, Expert Group on Migration on Norway, Immigration and Integration 2017-2018, 2018, pag. 38 e pag. 6. – Al 31 dicembre 2017, in Italia la popolazione straniera residente era di 5.144.440 su un totale di 60.483.973 abitanti pari all’8,50% (fonte Istat).

[45] Il FrP rifiuta l’etichetta di partito populista.

[46] Siv Jensen è anche ministro delle Finanze nell’attuale governo Solberg

[47] http://www.aftenposten.no/meninger/kronikker/Drom-fra-Disneyland-6270375.html

[48] Ye’or Bat, Eurabia. Come l’Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita, Lindau, Torino 2007. Vedi anche: Bruce Bawer, While Europe Slept: How Radical Islam is Destroying the West from Within, Random House, 2006.

[49] Espen Thorud, citato, pag. 10.

[50] Espen Thorud, citato, pag. 7.

[51] EMN Norway Conference, Challenges – introduction by Tor Mikkel Wara, Oslo, 21 giugno 2018.

[52] Henrik Ibsen, Casa di bambola.

[53] Luigi di Ruscio, Ovunque l’ultimo.

[54] https://www.document.no/2019/03/30/gjenger-gjor-drammen-til-et-helvete-pa-jord/

[55] https://www.document.no/2019/03/31/ny-logo-for-oslo-kommune/

[56] Espen Thorud, citato, pag. 32.




L’anno più caldo di sempre


Si è svolta lo scorso novembre a Marrakech, Marocco, la ventiduesima Conferenza sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (Cop22). Essa ha fissato le procedure e i metodi per arrivare entro il 2018 al regolamento di attuazione degli impegni presi a Parigi alla precedente conferenza. La Cop21 del 2015, stabiliva fra le altre cose l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale sotto i due gradi di aumento rispetto ai valori dell’epoca preindustriale.

Sulla strada tra Loyangallani e North Horr, Kenya.

Il 2016 si avvia ad essere l’anno più caldo di sempre. Lo diceva lo scorso novembre l’Organizzazione Meternorologica Mondiale (Wmo) delle Nazioni Unite, lo aveva anticipato a luglio 2016 la Nasa, l’agenzia aerospaziale statunitense. Occorrerà aspettare l’elaborazione definitiva delle rilevazioni 2016, ma i dati pubblicati dall’agenzia meternorologica a novembre in occasione del Cop22, la ventiduesima conferenza Onu sul cambiamento climatico, indicavano una temperatura di 0,88 gradi Celsius superiore alla media registrata fra il 1961 e il 1990 e più alta di 1,2 gradi rispetto all’epoca preindustriale. Sempre secondo la Wmo, i dati preliminari di ottobre indicavano che le temperature continuavano a essere a un livello sufficientemente alto da restare ben sopra il valore annuale del 2015, che era stato di 0,77 gradi.

L’effetto di El Niño, che l’anno scorso veniva da alcuni studiosi indicato come fenomeno corresponsabile dell’innalzamento delle temperature, è terminato a maggio 2016 dopo aver lasciato una scia di episodi di siccità in Africa, Sudest asiatico, Sud America, India, Etiopia, Australia orientale e diverse isole del Pacifico occidentale tropicale.

Sempre lo scorso novembre il Washington Post riportava le segnalazioni di diversi osservatori secondo i quali le temperature all’Artico erano più alte della norma di circa venti gradi, mentre una vasta area di aria fredda si era spostata sulla Siberia. A questo si aggiungeva un più lento ricongelamento dell’acqua: la superficie della banchisa polare, infatti, normalmente raggiunge l’estensione minima a settembre, poi comincia a riformarsi. Ma quest’anno, almeno fino a novembre, lo ha fatto più lentamente del solito. L’area ghiacciata, riportava il quotidiano statunitense, era ancora più ridotta di quanto non fosse nel 2012, anno in cui l’estensione dei ghiacci aveva toccato i suoi minimi storici.

Fiume Kwanza, in Angola.

La situazione dei gas serra

Quanto ai dati sulla concentrazione dei gas serra nell’atmosfera, riportava ancora il comunicato del Wmo, sembravano mostrare a novembre una tendenza al rialzo: nel 2015 la concentrazione media di anidride carbonica – il gas serra ritenuto più «colpevole» del riscaldamento globale – aveva raggiunto le 400 parti per milione (ppm) e, sebbene le medie 2016 non siano ancora disponibili, l’agenzia meternorologica riportava valori registrati sino a novembre dell’anno scorso in diverse stazioni di rilevazione nel mondo. Quella di Mauna Loa (Hawaii) aveva rilevato a maggio 407,7 ppm, il più alto valore mensile mai registrato. Diverso invece il trend delle emissioni di anidride carbonica, che si attestano su livelli praticamente stabili per il terzo anno consecutivo, nonostante un aumento del Pil mondiale pari al 3,4 per cento nel 2014 e al 3,1 nel 2015. La Iea, Agenzia internazionale dell’energia, rimarca che nei tre precedenti momenti storici in cui si era registrata una diminuzione delle emissioni – nei primi anni Ottanta, nel 1992 e nel 2006 -, la riduzione era associata a una «frenata» dell’economia mondiale; il dato attuale invece sarebbe imputabile alla progressiva sostituzione di fonti di energia da parte di Cina e Stati Uniti, i primi due paesi al mondo per emissioni di CO2 e responsabili, rispettivamente, del trenta e del quindici per cento delle emissioni stesse. Per quanto riguarda la Cina, «la ristrutturazione economica nella direzione di industrie a consumo energetico più basso e gli sforzi del governo per produrre energia elettrica usando sempre meno il carbone ha spinto in basso il consumo di quest’ultimo. Nel 2015 il carbone ha generato meno del settanta per cento dell’elettricità cinese (nel 2011 ne produceva l’ottanta per cento) mentre le fonti energetiche che comportano meno emissioni di CO2 – in particolare energia idroelettrica ed eolica – sono balzate dal 19 al 28 per cento. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno visto una riduzione delle emissioni pari al due per cento principalmente a causa del passaggio dal carbone al gas naturale. In aumento risultano invece le emissioni da parte di altri paesi asiatici e di quelli mediorientali mentre anche l’Europa segna un lieve incremento.

Cop22, i risultati

Quella di Marrakech è stata una Conferenza delle Parti (Cop) della diplomazia e del lavoro preparatorio. E non poteva che essere così. L’accordo di Parigi (si veda MC 5/2016), risultato della precedente Cop, prevede fra le altre cose, di contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2° C rispetto ai livelli preindustriali – facendo tuttavia il possibile per non superare gli 1,5° C – e di supportare attraverso fondi ad hoc i paesi più esposti ai danni prodotti dal cambiamento climatico, che spesso corrispondono ai paesi più poveri. L’accordo, entrato in vigore il 4 novembre 2016 e ratificato da 112 paesi su 197, richiede tuttavia un piano per essere attuato. Ed è di questo che si è discusso a Marrakech, stabilendo che il 2018 è la scadenza per definire i dettagli e i regolamenti che metteranno in atto l’accordo.

Carbon Brief, sito britannico di informazione su clima e politiche energetiche finanziato dalla European Climate Foundation – del cui consiglio fa parte quella Mary Robinson che è stata inviata speciale Onu per El Niño e il Clima – descrive così l’effetto dell’elezione di Donald Trump alla presidenza Usa: «la più grande domanda che aleggiava sulla Cop22 era: [il nuovo presidente] deciderà di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo di Parigi? Potrà quest’ultimo sopravvivere a un così duro colpo? Gli stornici negoziatori hanno continuato il loro lavoro nonostante una minaccia sostanziale, sebbene non confermata, incombesse. E il ritornello della conferenza è presto diventato: l’accordo di Parigi è più grande di qualsiasi paese o di qualsiasi particolare capo di stato. Saranno i prossimi quattro anni a dimostrare se è davvero così».

Deserto del Chalbi vicino a North Horr, Kenya.

Le critiche: per chi troppo, per chi troppo poco

James Hansen è l’ex direttore del Goddard Institute for Space Studies della Nasa, l’attuale direttore del Program on Climate Science, Awareness and Solutions alla Columbia University ed è considerato uno dei padri degli studi sul cambiamento climatico. La sua valutazione dell’accordo di Parigi all’indomani della sua adozione alla Cop21 era stata tutt’altro che lusinghiera: «È una frode, un falso» aveva dichiarato in un’intervista al britannico Guardian. «È una stupidaggine dire: “diamoci l’obiettivo dei due gradi e poi incontriamoci ogni cinque anni per cercare di fare meglio”. Sono parole vuote. Non c’è azione, solo promesse. Finché i combustibili fossili continuano ad essere i meno costosi, si continuerà a bruciarli». A Parigi aveva proposto di mettere una «quota, perché la parola “tassa” fa scappare la gente a gambe levate», di 15 dollari per tonnellata di carbonio che aumenti di 10 dollari l’anno, generando introiti pari a 600 miliardi solo negli Usa. Ma nessuno, nemmeno i gruppi ambientalisti, ha accolto la sua proposta.

E se quella di Hansen è una critica al troppo poco che, a suo dire, si sta facendo, non mancano le critiche dall’altro versante: quello dei cosiddetti climate change deniers, i negazionisti del cambiamento climatico, per i quali il clamore (e il giro d’affari) intorno all’argomento è fin troppo.

Valle Susa, Salbertrand (To)

I negazionisti

Le posizioni negazioniste si possono (brevemente e non esaustivamente) riassumere così: i negazionisti «duri e puri» che sostengono non ci sia nessun cambiamento climatico; i negazionisti più morbidi, secondo i quali il cambiamento climatico c’è ma non è indotto dall’uomo o almeno non in maniera determinante né chiaramente quantificabile; un ultimo gruppo, che negazionista non è ma che appare scettico rispetto alla gestione del fenomeno e sostiene che il cambiamento climatico c’è, è indotto anche dall’uomo ma è diventato un business, uno strumento di controllo attraverso l’allarmismo o, addirittura, una specie di nuova religione.

Ai negazionisti del primo gruppo possono essere ricondotti i creatori del documentario Climate Hustle (Truffa climatica), uscito lo scorso maggio negli Stati Uniti, che sostengono che il film «toglierà la maschera alla propaganda sul riscaldamento globale, mostrando quel che veramente c’è dietro questo multimiliardario imbroglio». Marc Morano, il narratore del documentario è citato dal Washington Post «come uno dei principali responsabili di campagne di deliberata disinformazione». A fargli compagnia il quotidiano statunitense mette il commentatore di Fox News, Steve Milloy, che in comune con Morano ha anche legami professionali ricorrenti con colossi dei combustibili fossili come ExxonMobile. Fra i «disinformatori» cita poi l’ex governatore dell’Alaska Sarah Palin e il magnate delle comunicazioni Rupert Murdoch.

Posizioni più moderate, sebbene scettiche, ha espresso ad esempio il senatore e premio Nobel per la Fisica 1984 Carlo Rubbia. Nel 2012 ha sostenuto che «non è riscontrabile un rapporto tra i cambiamenti climatici e le emissioni di CO2» e nel novembre 2014, durante un’audizione al Senato ha affermato che «il clima della Terra è sempre cambiato». Pensare che tenendo la CO2 sotto controllo il clima resterà invariato è un errore. Nello stesso intervento, Rubbia ha anche precisato che dal 2000 si è registrato non una crescita bensì una diminuzione della temperatura media della Terra pari a 0,2 gradi nonostante il continuo aumento delle emissioni di CO2 e che negli ultimi cento anni cambiamenti climatici si sono verificati prima che il cosiddetto effetto antropogenico (cioè l’effetto derivato dalle attività umane) esercitasse un’influenza significativa sull’ambiente. Questo non toglie che le emissioni di CO2 vadano limitate, sostiene lo studioso, che però è critico rispetto ad alcune scelte di politica energetica come quelle europee, a suo dire coercitive e costose, mentre l’investimento tecnologico in settori come quello del gas naturale ha permesso agli Stati Uniti non solo di creare business e posti di lavoro ma anche di diminuire le emissioni.

Infine, i critici più o meno feroci del cambiamento climatico o della sua gestione hanno trovato pane per i loro denti allo scoppiare del cosiddetto Climategate del 2009, quando l’hackeraggio di un server della Climate Research Unit dell’Università dell’East Anglia, Regno Unito – una delle istituzioni più autorevoli per quanto riguarda gli studi sul clima – rese pubbliche migliaia di email che i ricercatori britannici si erano scambiati fra loro e con il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, l’ente che nel 2007 vinse insieme al vicepresidente americano Al Gore il premio Nobel per la pace per l’impegno sul clima. Le email rubate vennero poi caricate su un server in Russia e da lì diffuse; dai messaggi emergeva, secondo i detrattori, la consapevolezza da parte dei ricercatori di non disporre di dati certi sul riscaldamento globale e la decisione di manipolarli per mostrare, invece, un aumento brusco delle temperature che confermasse la tesi antropogenica.

Alla pubblicazione delle email e allo scandalo che ne derivò fecero poi seguito otto inchieste – fra le quali quella della Camera dei Comuni britannica, della statunitense Agenzia per la protezione dell’ambiente e di diversi altri enti governativi e di ricerca – le cui conclusioni scagionavano i ricercatori britannici dall’accusa di aver falsificato i dati.

Le due facce di Soros

Una delle più recenti polemiche che ha investito i sostenitori della tesi del cambiamento climatico dovuto all’uomo e della necessità di affrontarlo è quello della provenienza dei finanziamenti al gruppo ambientalista di Al Gore, la ex Alliance for Climate Protection oggi Climate Reality Project. Il sito DCLeaks a giugno scorso ha fatto trapelare documenti riservati della Open Society Foundations che dimostrano l’appoggio di questa alle organizzazioni di Gore. E la Open Society Foundations è di George Soros, potentissimo e discusso magnate della finanza che da diversi decenni è molto attivo come filantropo e finanzia, fra gli altri, prestigiosi think tanks come Inteational Crisis Group o lo European Council on Foreign Relations.

La notizia che Soros ha sostenuto i gruppi di Gore (e altri enti simili) non è nemmeno una notizia, per la verità, poiché la scelta del magnate in favore della lotta al cambiamento climatico era nota da tempo; tuttavia questa informazione si è poi raccordata con quella dell’appoggio dell’uomo d’affari sia alla campagna presidenziale di Hillary Clinton sia a quelle di Barack Obama, e ha scatenato gli scettici del cambiamento climatico nel sostenere che quella del clima è una battaglia orchestrata ad arte dai poteri forti intenzionati ad usare l’allarmismo sul riscaldamento globale causato dal CO2 per creare consenso su politiche energetiche ben precise. Non bastasse, è dell’agosto 2015 la notizia che Soros ha continuato ad investire proprio in aziende produttrici di combustibili fossili, aprendo la strada alle ipotesi più disparate sulle reali intenzioni del finanziere americano: vuole semplicemente far soldi sfruttando gli ultimi colpi di coda di industrie destinate a chiudere, sostiene qualcuno; vuole dare il colpo di grazia all’industria del carbone per accelerare il passaggio alle energie pulite, sostengono altri.

Insomma, il tema è difficile e va ben oltre la già non immediata comprensione da parte del pubblico di fenomeni complessi come quelli climatici e tocca interessi giganteschi. Ad oggi, diversi studi hanno analizzato le varie ricerche sul riscaldamento globale e il risultato è stato che nella comunità scientifica l’accordo sul fatto che il riscaldamento globale è causato dall’uomo è del 97 per cento.

Fra i tentativi di dare una forma divulgativa a ciò che è accaduto al pianeta nei secoli dal punto di vista climatico va segnalato quello del sito di fumetti on line Xkcd (xkcd.com) che cita fonti usate anche dal sito SkepticalScience (www.skepticalscience.com), attivo nel cercare di spiegare la letteratura scientifica sul clima nel modo più fruibile possibile.

Chiara Giovetti