Storia di Elena Givone, la fotografa dei sogni

foto di Elena Givone |


Un’idea geniale per far sognare i bambini che vivono in realtà difficili. Un’idea che porta Elena ai quattro angoli del pianeta a conoscere storie e desideri di bimbi e ragazzi. Un esempio di fotografia «umana» e umanitaria al tempo stesso.

È il 2011 quando Elena decide di andare in Sri Lanka ospite di una residenza per artisti: il suo progetto è quello di insegnare la fotografia ai bimbi di One world foundation, un’associazione senza fini di lucro che garantisce ai ragazzi delle zone rurali più povere di poter studiare. Si tratta di bambini e adolescenti che non possono permettersi nulla, spesso un solo pasto al giorno e, in ogni caso, non certo grandi sogni. Elena pensa alla fotografia come forma di emancipazione e possibilità di lavoro. Si tratta di una sfida, un’utopia, forse, che Elena, come dimostrerà più avanti, realizzerà.

Scuola di fotografia

Elena istituisce la prima scuola di fotografia in Sri Lanka. Il diploma che i ragazzi conseguono consente loro di accedere a finanziamenti per proseguire gli studi, iscriversi all’università e costruirsi un futuro.

Arrivata per stare qualche mese, la fotografa si ferma per quattro anni. Oltre a insegnare fotografia, infatti, inizia a elaborare un’idea. Vivendo a stretto contatto con i ragazzi e i bambini, comprende che la cosa più difficile per loro è qualcosa di scontato da altre parti del mondo, quasi banale: sognare, immaginare. Realizza così il progetto «Dream from my magic lamp».

Si tratta di una serie di ritratti dei bimbi, dei ragazzi e degli operatori che vivono, studiano e lavorano all’interno di One world foundation. Ognuno di loro viene fotografato sul medesimo sfondo azzurro con una lampada in mano. Un colore che richiama il volo, la fantasia, la libertà. Tutti debbono chiudere gli occhi e immaginare quale sia il proprio sogno. Il progetto è un successo: la fantasia non ha limiti, non conosce fame, né povertà, né disperazione. Ne nasce un libro e un lavoro che varca i confini dello Sri Lanka e arriva in Myanmar, dove Elena decide di portare avanti il proprio lavoro che sempre più si incanala nella direzione umanitaria: c’è un’idea di restituzione dell’infanzia, della bellezza, della leggerezza che anima questa giovane donna e che la spinge a cercare e infine a trovare la bellezza anche nei luoghi più dolorosi. In Myanmar Elena non utilizza più una lampada, ma una coppia ci civette scolpite nel legno, un oggetto simbolico per questa parte del mondo. In questi luoghi conosce l’estrema povertà e la solitudine: sono molti gli orfanotrofi popolati di bimbi che i genitori non possono permettersi di mantenere.

Dal Myanmar Elena parte per l’Ucraina. Qui collabora con La matrioska Onlus.

Il suo progetto sul tema del sogno cresce ancora e raggiunge i bimbi vittime dell’incidente nucleare di Chernobyl.

L’oggetto del sogno è proprio una matrioska: un simbolo di protezione, di maternità. Ogni matrioska infatti ne contiene un’altra fino a quella più piccola, che è il seme, il simbolo del bambino.

Per questi bambini, infatti, che una mamma non l’hanno mai avuta, poter raccontare il proprio bisogno di tenerezza e protezione assume un valore di liberazione.

Rifugiati

Il sogno di Elena non si ferma e anzi, è solo all’inizio. Dopo Sri Lanka, Myanmar e Ucraina, è la volta dei bambini siriani di Aleppo, che si trovano in un campo profughi in Grecia a Ritsona, una penisola a circa 70 km da Atene. Qui il progetto si arricchisce ancora: viene realizzato un libro «Rafi the refugee rabbit», una storia illustrata con protagonista un coniglietto che racconta il suo viaggio pericoloso e disperato, insieme alla propria famiglia, alla ricerca di una nuova casa.

È un libro che racconta il trauma della guerra e della fuga con immagini delicate, ma allo stesso tempo reali, e che cercano di mostrare anche ai bimbi nati in una parte del mondo non afflitta da guerre e povertà, cosa significa dover fuggire, perdere tutto e poi provare a ricominciare.

Sarà dunque un coniglio il simbolo di questo nuovo sogno: ogni bimbo stringe fra le mani un coniglietto in plastica trasparente che s’illumina, a rappresentare la fiamma della speranza. Con questo oggetto fra le mani, i bimbi chiudono gli occhi e raccontano i propri desideri.

Desideri semplici come avere una casa, mangiare un gelato, o un sacco pieno di caramelle.

Elena crea un laboratorio dei sogni: i bambini disegnano, raccontano la propria storia e ricevono in dono la fotografia che li ritrae proprio nel momento della loro massima felicità, mentre desiderano e ricominciano a sperare.

Uno dei sogni più belli che Elena ricorda è quello di Akhmed, un bimbo di Aleppo.

Stringendo fra le mani il coniglietto, il bimbo racconta di desiderare un elicottero così da poter salvare tutti i bimbi che hanno bisogno.

Se è pur vero che ci sono i traumi della guerra da elaborare e che il dolore, in posti come il campo profughi di Ritsona, sembra coprire ogni altro sentimento, è altrettanto vero che la bellezza sa farsi strada ovunque.

Questo è l’insegnamento più grande infine: la tenerezza resiste, nonostante tutto.

Il percorso

Bisogna però riavvolgere il nastro e tornare indietro, a quando Elena inizia a pensare un percorso nel mondo della fotografia.

Uno dei suoi primi ricordi legati a quello che diventerà dapprima passione e poi lavoro è una scena ben precisa che risale all’infanzia: il padre con una macchina fotografica in mano, a esplorare il mondo per poi riportarlo a Elena impresso su pellicola.

Elena racconta di aver «rubato» la macchina fotografica al padre per provare come fosse possibile far uscire da quella scatola magica tante immagini meravigliose. Il primo rullino è un disastro: foto mosse, sgranate, sfocate. Il padre decide così di insegnarle i rudimenti.

Mano a mano che cresce però, Elena si rende conto che di donne fotografe non ce ne sono poi così tante e così decide di essere «La fotografa». La spinta è prima di tutto quella di voler raccontare il mondo e, se possibile, fare qualcosa per darne una visione ampia, diversa e, sì, anche femminile.

Nonostante le reticenze dei genitori, che non vedono la fotografia come un lavoro, Elena non abbandona il proprio sogno, continua a studiare e sperimentare, ma intanto si iscrive all’Università, facoltà di  scienze internazionali e diplomatiche.

Qui incontra un uomo che diventerà il suo maestro e mentore: Luigi Gariglio. Assiste a una lezione di sociologia della comunicazione e comprende, senza più dubbio alcuno, di voler raccontare il mondo tramite l’immagine. Diventa l’assistente personale del professore, e vince una borsa di studio in fotografia allo Ied (Istituto europeo di design) di Torino.

Porta avanti entrambi i percorsi e decide, dopo il diploma allo Ied, di recarsi ad Amsterdam, in Olanda per studiare presso la prestigiosa Gerrit Rietveld Academie.

Il progetto di tesi che la porterà a destinare definitivamente la sua professione alla fotografia umanitaria con tema centrale l’infanzia, è un lavoro sulle mine antiuomo a Sarajevo.

È il primo progetto fotografico di Elena: con la sua fotografia racconta i bimbi nati fra il 1992 e il 1994. Non hanno quasi vissuto la guerra ma ne portano nella mente i segni devastanti. Le conseguenze meno evidenti forse, ma non meno lesive di un’infanzia che non si può definire tale.

Questi bambini e adolescenti, non hanno spazi dove giocare, e spesso i genitori sono mutilati e invalidi a causa del processo di sminamento avviato dal governo serbo che elargisce denaro in cambio di persone che si rechino a sminare i campi.

Il progetto «Pazi Mine» vince il premio Fnac e fa incontrare Elena con un’artista olandese: Hetty Van Der Linden. Hetty porta avanti da anni un laboratorio con bambini, dal nome Paint a Future. Attraverso la pittura, questa artista chiede ai bambini e agli adolescenti di dipingere il proprio futuro.

Elena comprende la forte valenza terapeutica dell’arte e decide di fare lo stesso con il proprio lavoro.

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Brasile

Elena continua il suo viaggio. Grazie al bando Movin’ Up finanziato dal Gai (Giovani artisti italiani) raggiunge Florianopolis, capitale di Santa Catarina (Brasile).

Qui conosce la povertà delle favelas ma anche il valore reale dell’arte: grazie al lavoro di Hetty e alla sua onlus «Paint a Future», infatti, sono stati raccolti fondi e sono state costruite delle case nelle quali gli abitanti delle favelas possono provare a costruire una vita migliore.

È a Florianopolis che Elena incontra per la prima volta, a tu per tu, dolore, violenza, povertà e disperazione.

Dapprima non sa come dare una mano e inizia a fare volontariato, ma presto capisce che portare cibo e abiti non basta, e che può aiutare con la sua arte corpo e mente. Decide che vuole provare a dare ai bambini che incontra la possibilità di volare via.

Elena si procura un tappeto e inventa una storia: un mago, che aveva girato il mondo con il proprio tappeto volante su cui aveva fatto salire tanti bimbi, poteva aiutare a visitare mondi meravigliosi perché i sogni sono infiniti e gratuiti.

Elena si muove nelle favelas con il suo tappeto magico e il desiderio di regalare uno scampolo di bellezza a questi ragazzi che vivono ai confini della società.

Posiziona il tappeto per terra, racconta loro la storia del mago e chiede dove vorrebbero andare. Nel mondo del racconto, Elena scatta una fotografia.

Il progetto «Flyng Away» si sposta più a Nord, nelle carceri minorili di Salvador, Bahia, dove ogni settimana vengono incarcerati circa 40 bambini e adolescenti tra i 9 e i 18 anni.

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In carcere

In carcere avviene uno di quegli incontri che Elena non dimenticherà più: è quello con Emmesson, un adolescente recluso per furto. «Quel tappeto non vola, non ha la benzina», è la prima frase di Emmesson, a cui segue la risposta di Elena: «La benzina è la tua mente, se tu vuoi, puoi».

Dapprima restio a lavorare con la fotografa, diventa uno dei suoi più fidati assistenti, e la aiuta a muoversi nel mondo della prigione minorile e a raccogliere i sogni e le speranze di altri ragazzi come lui.

Una volta uscito dal carcere, Emmesson continuerà a scrivere alla fotografa dicendo che l’incontro con lei gli ha cambiato la vita e gli ha fatto capire quanto conti la bellezza, e quanto anche per lui è possibile immaginare una vita migliore.

Ma sono tanti gli incontri meravigliosi e le testimonianze durante il lavoro nelle carceri: bambini che fermano la fotografa durante il suo lavoro per dirle «ieri ho volato di nuovo, non ho bisogno del tappeto per volare: ho chiuso gli occhi e sono andato a trovare la mia famiglia».

Mali

Un altro lavoro importante è quello realizzato con la Onlus Alì 2000 in Mali, un progetto nato per raccontare i problemi legati alla siccità.

Esistono luoghi nei quali il bene primario, l’acqua, manca e con essa manca anche tutto ciò che all’acqua è connesso. Se è pur vero che molti progetti umanitari mirano a costruire pozzi, quasi nessuno pensa a come da quei pozzi l’acqua verrà raccolta. I bimbi non chiedono alla fotografa cibo o abiti, ma un contenitore, una bottiglia. Ecco l’idea: fotografare ogni bimbo con il proprio recipiente improvvisato. Chi una zucca svuotata, chi un bidone, chi un secchio malandato, chi una vecchia e usurata bottiglia in plastica recuperata chissà dove. Qualcuno, più fortunato, una borraccia.

I primi mille giorni

Dopo aver girato il mondo è il momento di tornare a Torino.

Nel 2016 Elena inizia, con la Onlus Legal@rte, un progetto che continua tutt’ora, «Profumo di Vita #neldirittodelbambino», per accendere i riflettori su un argomento che pochi conoscono: la violenza assistita da minori.

Come è riconosciuto che musica, lettura, tranquillità fanno bene al bimbo nei primi mille giorni di vita, è altresì riconosciuto che assistere a scene di violenza in un periodo così delicato può condizionare la crescita. Per affrontare il tema, l’artista torinese ha scelto la fotografia Newborn: gli scatti sono realizzati all’interno dei reparti maternità di ospedali italiani, nei primissimi giorni di vita del bambino, cogliendo al meglio il momento magico e irripetibile del sonno profondo del neonato nella sua fragilità, protetto dall’abbraccio dei genitori.

Il progetto ha successo e, nel 2021, non potendo più lavorare all’interno degli ospedali a causa del Covid, si sposta in una cornice d’eccellenza: la Reggia di Venaria. Qui la fotografa ritrae neo e future mamme comunicando così la bellezza possibile abitandola.

Una parte delle immagini del progetto sono protagoniste di un calendario giunto alla quinta edizione, destinato a diffondere capillarmente la conoscenza del fenomeno della violenza assistita attraverso un importante contributo didascalico.

Valentina Tamborra

 




Brasile. Vita di favela (con o senza virus)

testo e foto di Gianluca Uda |


Nella favela chiamata Che Guevara vivono circa 30mila persone. In condizioni abitative, igieniche e sociali difficili. Oggi peggiorate a causa dell’arrivo del nuovo coronavirus.

Belém. Il cielo nuvoloso oggi è il campo dove aquiloni colorati lottano tra di loro. Trapezi che sfrecciano con i loro stemmi di Batman, Superman o altri personaggi legati alla fantasia dei più piccoli. Questa è la guerra aerea dei bambini della favela che, con i loro fili di nylon tesi, si scontrano nel cielo con gli aquiloni rivali.

In realtà è un gioco considerato illegale: i fili di nylon che tengono legati gli aquiloni colorati vengono infatti cosparsi di minuscoli frammenti di vetro (in genere si usano quelli delle lampadine). Quando due aquiloni arrivano allo scontro, succede che uno venga tagliato dal filo rivale ed eliminato.

È un gioco illegale perché potenzialmente pericoloso. Il filo trasparente, soprattutto per chi passa in moto o in bicicletta, può provocare ferite. Inoltre, molto spesso cavi della luce o linee internet vengono recisi. Tuttavia, quando entra in favela, la polizia ha cose ben più gravi da risolvere.

Nel complesso urbano di Belém, capitale dello stato del Parà nel Nord Est brasiliano, questo gioco costa al municipio ogni anno diverse riparazioni di fili elettrici troncati. Oggi però non è tanto il problema del gioco degli aquiloni a preoccupare il municipio, quanto l’assembramento di bambini lungo le strade periferiche.

La pandemia legata al Covid-19 è entrata nelle vite del popolo brasiliano. E tristemente le zone più colpite sono le aree suburbane delle grandi città come Belém, divenuta questa l’epicentro della diffusione del virus nella zona Nord Est della nazione.

Una mamma con i suoi quattro figli; il marito della donna lavora come taglialegna in Amazonia un lavoro considerato illegale; l’uomo rientra a casa ogni sei mesi circa. Foto di Gianluca Uda.

Favela Che Guevara

Il complesso suburbano di Belém è composto da piccole città, luoghi poveri dove gli abitanti difficilmente riescono ad arrivare a fine mese, soprattutto ora che, a causa della pandemia, molte attività sono state chiuse.

Che Guevara è una favela di circa trentamila abitanti. Oggi è registrata come barrio Almir Gabriel e si trova nella periferia della città di Marituba che dista circa dieci chilometri da Belém, ma per tutti rimane favela Che Guevara.

La favela è nata nel 1997 a seguito della più grande occupazione di massa di tutto il Sud America, quando un centinaio di persone, che non aveva né casa né un’impiego fisso, hanno occupato i terreni dell’attuale favela. Spinti da un ideale socialista di riscatto, hanno preso possesso di quegli spazi e da allora non se ne sono più andati. Oggi la storia dell’invasione è raccontata come una vera e propria leggenda anche perché sono ancora in vita pochi degli autori di quella piccola grande impresa.

La favela ha un’unica strada asfaltata, vero e proprio cuore pulsante della piccola comunità.

È la via commerciale, dove barbieri, piccoli mercati, pescivendoli e farmacie cercano a fatica di sopravvivere. Una linea retta, con l’asfalto che sembra sbriciolarsi nelle giornate di sole. Qui, oltre ai mercati, si trovano le scuole e le varie chiese, pentecostali, evangeliche e, in fondo, quasi nascosta, anche quella cattolica.

Tutte le altre stradine o traverse sono in terra battuta e le fogne corrono a cielo aperto lungo i lati di tutte le strade, anche di quella asfaltata, rendendo l’aria pesante e l’igiene della comunità incerta.

Ruth è una giovane ragazza mamma di due bambini; il marito è in carcere per violenza e aggressioni e la donna cerca di sopravvivere come può. Foto di Gianluca Uda.

In questo luogo le stagioni sono due e gli abitanti del posto scherzano su questo: «Qui nel Parà o tutti i giorni piove o tutto il giorno piove». Queste sono le stagioni.

Già da marzo il nuovo coronavirus è entrato nel complesso suburbano, ma gli ultimi mesi sono stati quelli più complicati. Il sindaco di Belém, Zenaldo Coutinho, ha ordinato un lockdown preventivo, ma quasi nessuno della comunità di Che Guevara vi ha prestato molta attenzione. Il 25 maggio hanno iniziato a riaprire quasi tutte le attività commerciali, anche se, in realtà, la diffusione del virus non era in calo. I timori della classe politica locale si sono però rivolti verso l’economia: sembrerebbe che, per molti, la paura maggiore sia la crisi economica che, in verità, già ha manifestato i suoi effetti.

Molte persone, soprattutto quelle che vivono ai margini, hanno perso il lavoro; i beni di prima necessità, come il riso e i fagioli, stanno drasticamente aumentando di prezzo.

Per tutto questo, le fasce più vulnerabili hanno iniziato ad avere timore per il loro futuro.

Gli ospedali e i posti di salute vicino alla favela Che Guevara sono tutti al collasso. Molti medici non operano più perché sostengono di aver contratto il virus. Secondo gli abitanti della zona, invece, non vogliono rischiare di ammalarsi, soprattutto se devono salvare le vite di qualche favelado.

Durante le prime settimane di quarantena preventiva, era quasi impossibile trovare mascherine o alcol gel, la nostra Amuchina. In favela, molte donne cucivano le mascherine a mano, per poi rivenderle a buon prezzo, ma oggi le esigenze sono cambiate dato che il virus ha stravolto la vita quotidiana.

Con la chiusura delle scuole, molte donne si sono trovate costrette a rinunciare ai loro piccoli lavori per dedicarsi ai figli.

Un’anziana signora piange ripensando alla sua vita sempre molto difficile; la donna vive in una sola stanza. Foto di Gianluca Uda.

Storia di Luiziana

Molte famiglie della comunità sono state contagiate dal virus. Come nel caso della famiglia di Luiziana. Il marito della donna lavora per una ditta che distribuisce carne di bovino nei mercati e negozi del centro di Belém. L’uomo, quarantenne, ha iniziato a sentirsi male durante le prime settimane di maggio e poco dopo ha contagiato tutta la famiglia.

I figli adolescenti non hanno avuto grandi ripercussioni, mentre Luiziana e il marito non riuscivano nemmeno a respirare. La donna aveva tutti i sintomi del Covid-19, ma non le hanno fatto alcun tampone. Dopo aver eseguito una radiografia ai polmoni, e vedendo che le condizioni si stavano aggravando, il medico le ha prescritto una serie di antibiotici che fortunatamente hanno scongiurato il peggio.

Luiziane è stata una delle prime persone ad ammalarsi di Covid-19 nella favela Che Guevara, fortunatamente si è salvata; le sue radiografia ancora mostrano problemi a livello polmonare. Foto di Gianluca Uda.

Lei, come il marito, hanno contratto il coronavirus, ma non sono stati inseriti nei conteggi nazionali. Questo avviene molto spesso anche per le morti legate al Covid-19, perché, non venendo fatti gli esami di accertamento, esse vengono classificate come morti comuni o morti per insufficienza respiratoria. Attualmente (13 luglio) il Brasile ha superato i 72mila decessi, ma la realtà potrebbe essere molto più tragica.

Il marito di Luiziana, una volta attenuatisi i sintomi della malattia, non ha fatto nemmeno i quattordici giorni d’isolamento preventivo ed è rientrato subito a lavorare per non perdere l’unica entrata sicura di cui la famiglia può disporre. Il suo datore di lavoro gli ha detto di non preoccuparsi. Sicuramente anche tutti i suoi colleghi avevano contratto il virus e quindi era meglio per lui rientrare se non voleva perdere il posto. L’uomo, padre di due ragazzi, non ha avuto altra scelta.

Luiziana lavorava part time come donna delle pulizie in una scuola vicino alla favela, ma con la chiusura di quest’ultima è stata licenziata. Lavorando senza contratto purtroppo non ha nessun tipo di garanzia.

Lo stato brasiliano ha stabilito di elargire 600 reais emergenziali per famiglie o persone in difficoltà. Una somma certo insufficiente ma fortunatamente Luiziana è riuscita almeno a farsi assegnare questo sussidio.

Non avendo un’assicurazione sanitaria buona, lei e il marito hanno dovuto pagare quasi tutto di tasca propria: le medicine per lei, il marito e i figli e poi le radiografie. Il tutto è venuto a costare come la somma di due mesi di lavoro suoi e del marito. Ora sono fuori pericolo, ma Luiziana sente ancora nel suo corpo i postumi del virus e ha qualche problema a fare sforzi.

George è un ragazzo con una grave patologia neurologica, i genitori sono stati costretti a creare un sorta di gabbia intorno al letto del ragazzo per evitare che si faccia male durante la notte. Foto di Gianluca Uda.

Chiese e famiglie

Nella comunità di Che Guevara, le chiese evangeliche e pentecostali non hanno mai chiuso. Solo alcune di esse hanno rispettato il distanziamento sociale. La chiesa cattolica invece ha riaperto a inizio giugno, ma può ospitare solo il dieci per cento della capienza totale e ogni fedele deve presentarsi alle funzioni con la mascherina.

La favela non poteva fermarsi, le persone più vulnerabili come gli anziani o quelle con problemi fisici hanno rispettato l’isolamento, mentre tutti gli altri dovevano in qualche modo portare a casa il pane o il riso.

Oltretutto la maggior parte delle abitazioni sono dei veri e propri tuguri, dove le famiglie vivono ammassate in una o due stanze. Case fatiscenti fatte con foratini e cemento, sprovviste di intonaco. Nella comunità ogni abitazione ha le grate in ferro ancorate a porte e finestre. Se non prendono delle precauzioni, quel poco che uno ha, potrebbe sparire.

La vita nella favela è poi resa più complicata, violenta e pericolosa a causa della presenza di un gruppo di narcotrafficanti appartenenti al Commando Vermejo (organizzazione criminale nata nel 1979, ndr). Sono loro che gestiscono ogni cosa.

In queste situazioni estreme molti bambini si ritrovano a passare gran parte del loro tempo in strada, giocando con gli aquiloni o pescando nelle fogne che costeggiano le strade.

Molti bambini della comunità vivono con i nonni che, tuttavia,  spesso non riescono a stare dietro ai loro nipoti.

La maggioranza dei nuclei familiari è disgregata e questo si deve a varie cause, ad esempio l’uso o lo spaccio di droga. Tante volte gli uomini della comunità non si prendono le loro responsabilità e le donne sono costrette a caricare su di sé tutto il peso della propria famiglia.

Accade però che anche loro, le donne, a volte decidano di vivere con altri uomini che ripudiano i figli delle loro vecchie relazioni, e questo costringe i nonni a farsene carico. Vite che camminano al limite, sempre in bilico, ostaggi di una società che non ha uno spazio adeguato per loro. Musica e miseria s’intrecciano nel dedalo delle viuzze in terra battuta, dove ogni bambino cerca un suo modo personale per poter sopravvivere in un luogo così difficile come la favela.

Tre fratelli sono costretti a dormire nello stesso letto; la madre dei ragazzi è da sola ad occuparsi dei figli; le loro condizioni sono peggiorate con l’avvento del Covid-19. Foto di Gianluca Uda.

Storia di George

Forse però il disagio più grande lo vivono le persone con problemi di disabilità. Come nel caso di George, un ragazzo di diciassette anni con una patologia neurologica. Il giovane ha anche una forma di asma molto grave e i genitori hanno dovuto costringerlo a casa durante la quarantena per evitare ogni rischio di contagio.

George è uscito con i genitori una sola volta, per farsi il vaccino dell’influenza comune. Gli assistenti sanitari non lo hanno nemmeno fatto scendere dalla macchina, ma gli hanno somministrato il siero direttamente nella vettura.

Le circa trentamila vite che popolano la comunità Che Guevara, ogni giorno debbono affrontare una loro piccola lotta personale. Oggi, con l’emergenza legata al coronavirus, ogni minima situazione di disagio sembra essersi amplificata a dismisura.

Fortunatamente quella grande anima latina che occupa il cuore delle persone sembra non cedere allo sconforto. La forza della vita è un suono dolce e profumato che ancora resiste.

Gianluca Uda*

(*) Nato a Roma nel 1982, Gianluca Uda ha lavorato come cooperante in paesi in via di sviluppo tra cui la Bolivia, il Bangladesh, il Kenya, l’Ecuador. Attualmente lavora in Brasile. Ha appreso la fotografia grazie al padre Francesco. Usa il mezzo fotografico come strumento di denuncia sociale.

Due bambini davanti all’entrata della loro casa, il frigorifero alle loro spalle e stato trovato per strada e il padre dei ragazzi lo usa come un’armadio per i suoi attrezzi da lavoro. Foto di Gianluca Uda.




«Gli indigeni, organizzati e perseguitati»


Testo e foto di Paolo Moiola


Dagli Ashaninka alla metropoli di Manaus, finora il percorso di dom Sérgio Eduardo Castriani si è svolto tutto all’interno dell’Amazzonia. Un mondo affascinante al quale oggi l’arcivescovo guarda con crescente preoccupazione. Disboscamenti, incendi, offensiva contro i diritti dei popoli indigeni. Tutte le problematiche da tempo esistenti si sono aggravate dopo l’avvento di Bolsonaro alla presidenza del Brasile.

Manaus. Dom Sérgio Eduardo Castriani, oggi arcivescovo di Manaus, conosce bene l’Amazzonia. «Sono quarant’anni che vi abito», ricorda con orgoglio. Iniziò nel 1979 a Feijó, in Acre, stato brasiliano confinante con Perù e Bolivia, dove lavorò a lungo con gli Ashaninka (Kampas). Un periodo ricordato con nostalgia. Tanto che, durante il nostro incontro, dom Sérgio – classe 1954 – si alza per andare nel suo studio a prendere una vecchia foto in bianco e nero: «Eccomi vestito da indigeno», dice indicandomi un giovane ritratto con una tipica tunica ashaninka.

Dall’Acre egli fu destinato al Nord, municipio di Tefé, stato di Amazonas dove ebbe la possibilità di conoscere molte altre etnie: Mayorunas (Matsés), Miranhas, Cocamas, Kambebas, Kanamaris, Kulina, Katukinas, Tikuna. Nominato vescovo, rimase a Tefé fino al 2012 quando divenne arcivescovo.

La metropoli amazzonica oggi conta oltre due milioni di abitanti ed è in continua e rapida espansione. «Ma – precisa dom Sérgio – risulta sempre più invivibile. Perché la qualità della vita in certi quartieri è di volta in volta peggiore. La questione della sicurezza di fronte al dominio delle bande rende la vita difficile alle persone comuni. Per parte loro, i ricchi sono sempre più chiusi in strutture abitative (condominios fechados) per accedere alle quali si possono incontrare più difficoltà che per entrare in un paese straniero».

Su Bolsonaro e il suo governo

Monsignor Castriani, dopo i primi mesi di governo Bolsonaro, lei è più pessimista o più ottimista?

«Sono più realista, perché si sta confermando lo scenario peggiore. Il Brasile sta cambiando in peggio, ma nulla che non sia stato detto durante la campagna elettorale».

Come mai i brasiliani hanno premiato un personaggio pericoloso come Jair Bolsonaro?

«Con l’elezione di Bolsonaro il popolo brasiliano ha dato una risposta alla crisi economica, etica e morale del paese. Bolsonaro significa quello che è nuovo, anche se è sbagliato. La gente è stanca dei politici. Il Partito dei lavoratori (Partido dos trabalhadores, Pt) ha avuto le sue opportunità per fare qualcosa di diverso. Personalmente ho partecipato alle due elezioni di Lula. Allora c’era molta speranza. Però hanno fatto tutto quello che facevano gli altri, a cominciare dalla corruzione. Con il Pt le banche hanno guadagnato molto denaro. In tanti hanno detto di no. Poi, al secondo turno dello scorso ottobre, molti hanno comunque votato Pt perché non volevano Bolsonaro ma non perché volessero il Pt. Io ho votato Pt perché non potevo votare un tipo come Bolsonaro. Disgustoso. Parla con il linguaggio che si sente dai barbieri. Detto questo, bisogna anche ammettere che molta gente buona lo ha votato. Il mio medico per esempio ha votato per lui. Eppure è un uomo intelligente. Il suo argomento era la ricerca del nuovo, il fatto di non volere più il Pt al potere».

Rimanendo in tema di elezioni, le chiese neopentecostali si sono schierate per il nuovo presidente.

«Già quattro anni fa Bolsonaro ha cominciato la sua campagna con le chiese pentecostali. Si tratta di chiese che hanno molti seguaci fedelissimi che obbediscono al pastore. E che portano avanti questo discorso moralista contro le persone Lgbt (Lesbiche, gay, bisessuali, transgender, ndr) e omofobico. Bolsonaro si diceva cattolico, ma è stato battezzato nel Giordano dai neopentecostali (nel maggio 2016 in Israele dal pastore – oltre che politico e imprenditore – Dias Pereira detto Everaldo della chiesa Assembleia de Deus, ndr). In ogni caso, lui fa il gioco dei pentecostali, come d’altra parte lo fece Dilma. All’inaugurazione del suo secondo mandato invitò Macedo davanti al quale s’inchinò, mentre il nunzio apostolico (della Santa Sede) rimase in secondo piano».

 

C’è una spiegazione a questa scelta di campo delle chiese evangeliche?

«Il potere. E poi esse dispongono di uno strumento in più. Tutto il mondo vuole salute e denaro. Sempre più denaro. Le chiese evangeliche danno un supporto teologico attraverso la “teologia della prosperità”. Con essa si può giustificare tutto, anche ruberie e corruzione, perché la ricchezza è considerata una benedizione di Dio. Se i loro uomini andranno al potere, per il Brasile questo sarà un pericolo molto grave. Non dimentichiamo che il presidente ha la possibilità di nominare moltissime persone in posti di responsabilità».

Il Consiglio indigenista missionario (Cimi) e la Commissione pastorale della terra (Cpt) sono due organismi della Chiesa cattolica brasiliana che fanno un lavoro straordinario. Adesso avranno più problemi?

«Senza alcun dubbio: il primo per il discorso delle terre indigene, il secondo per la questione della proprietà privata. D’altra parte, problemi ne avevano avuti anche con Dilma. Ricordo che un uomo pacifico come dom Roque Paloschi, presidente del Cimi, subì una persecuzione giudiziaria nel Mato Grosso do Sul.

In ogni caso, Bolsonaro si è presentato dicendo che il Cimi e la Cnbb (la Commissione dei vescovi brasiliani, ndr) sono “la parte marcia della Chiesa cattolica”. Il problema è che, in questo momento storico, non abbiamo soltanto un presidente siffatto, ma anche un apparato giudiziale conservatore e un congreo conservatore dominato dallo schieramento Bbb».

Già, Bbb: Biblia, boi, bala («Bibbia, vacche, pallottole»). D’altra parte, anche lo slogan elettorale di Bolsonaro è stato Brasil acima de tudo, Deus acima de todos («il Brasile sopra tutto, Dio sopra tutti»). Non le pare un uso improprio della religione?

«Sì, è stato un utilizzo strumentale della fede per affermare che Dio sta con lui, con il presidente eletto. Dio gli ha dato il mandato. Un discorso neopentecostale. Pericolosissimo perché così si può giustificare tutto».

I governi del Pt

Torniamo a parlare di ambiente. L’Amazzonia come può essere salvata?

«La situazione dell’Amazzonia è urgente. Negli ultimi 40 anni ho visto cambiare tutto: dalla foresta al clima alle città. Tuttavia, il Brasile ha una buona legislazione ambientale. Se fosse applicata, ci sarebbero pochi problemi. Purtroppo, anche sotto il Pt – in particolare durante il secondo mandato di Dilma – è andata male perché ha distrutto l’Ibama (Instituto Brasileiro do Meio Ambiente e dos Recursos Naturais Renováveis) e gli altri organi di controllo».

Monsignore, lei ha votato per Haddad, ma mi pare sia molto critico verso il Pt.

«Sì, è vero ho scelto Haddad, ma sono molto severo verso il Pt. Se lei va a leggere gli editoriali degli ultimi anni della rivista Porantin, edita dal Cimi, sono tutti critici verso quei governi. Ricordo che la Cnbb non è mai stata consultata o ricevuta da Dilma».

Durante i governi del Partito dei lavoratori è stato fatto qualcosa per l’Amazzonia e i suoi abitanti?

«Quando iniziò, io vidi che all’interno dell’Amazzonia per la prima volta ci furono famiglie che ebbero dei soldi. Fu una liberazione. Anche se si dice che il denaro è lo sterco del diavolo, tuttavia senza soldi non può esserci libertà. La bolsa familia è stata uno strumento importantissimo come lo è stata l’arrivo dell’elettricità. Queste sono state conquiste del governo di Lula nei suoi primi anni. Però dopo le cose sono cambiate perché è entrata la corruzione e, con il potere, il partito è diventato elitista. Il mio ideale è stato il Pt dei primi tempi».

Il Pt di Lula, dunque. Però ora lui è in prigione, condannato a una lunga pena detentiva. Se lo aspettava?

«Non me lo aspettavo. Un presidente deve essere giudicato dalla storia. Per il paese Lula ha fatto cose buone. Le accuse nei suoi confronti erano troppo poco per condannarlo. Io credo che lui non abbia fatto nulla di male. Il problema è il sistema che vige nel Brasile. Tutti i partiti fanno lo stesso e il Pt non è stato diverso».

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«Sono diversi. Per fortuna»

Lasciando da parte il governo presente e quelli del passato, come descriverebbe la situazione dei popoli indigeni?

«Nel 1979, quando arrivai in Acre, un ministro dell’Interno disse che gli indigeni sarebbero spariti in 10 anni. Invece sono la popolazione che più è cresciuta nel paese. Io penso che i popoli indigeni siano i poveri più organizzati del Brasile e che, al tempo stesso, siano i più perseguitati proprio perché organizzati».

Monsignore, ha senso parlare d’integrazione?

«La cultura indigena è completamente diversa. Io ho conosciuto molti indigeni sia nell’entroterra che in città. Di solito, a un certo punto delle nostre conversazioni, io debbo ricordare loro: “Io non sono indio. Non lo sono”. Questo per spiegare che non arrivo a capire tutto ciò che mi dicono. Attenzione però, questa è una ricchezza per il Brasile: sarebbe terribile perdere questa diversità. Per fortuna, i popoli indigeni hanno una grande resistenza».

A proposito di cultura, risponde al vero che gli indigeni sono più rispettosi verso l’ambiente?

«Sì, in generale. E questo vale anche per ribeirinhos (comunità che vivono in prossimità dei fiumi, ndr) e caboclos (meticci nati dall’unione di un indio con un bianco, ndr). Ma tutto dipende da quanto sono entrati in contatto con noi bianchi».

Lei è passato da due piccole città – Feijó e Tefé – a una metropoli come Manaus. Qui come vivono i cosiddetti «indigeni urbani»?

«Con tutti i problemi di chi vive nelle periferie. In più essi non sono considerati indiani dal governo, ma c’è una grande resistenza culturale con un buon numero di organizzazioni indigene. Il pregiudizio è ancora grande tra la popolazione bianca. A volte, inoltre, anche coloro che discendono da indigeni tendono a non accettare le loro origini».

(Official White House Photo by Tia Dufour)

Bolsonaro e il Sinodo

È cosa nota che il governo Bolsonaro guardi con sospetto e timore al Sinodo Panamazzonico del prossimo ottobre. Lei come se lo spiega?

«Il Sinodo è esattamente l’opposto di tutto quello che il governo Bolsonaro e i suoi pensano: partecipazione popolare, valorizzazione dei popoli originari, preservazione dell’ambiente. Si tratta di concetti la cui comprensione negli uni e negli altri è diametralmente contraria. Come la lettura che essi fanno dal momento della loro conquista del potere: la Chiesa cattolica sta cercando di riconquistare il potere perduto in favore delle chiese pentecostali e del mondo laico».

Nonostante tutte le difficoltà, lei pensa che il Sinodo sarà un successo?

«È già un successo nella misura in cui è iniziato un processo di riflessione che certamente avrà anche delle conseguenze pratiche».

Paolo Moiola


Riflessioni sull’etnoturismo

Un selfie con gli indigeni?

Due città amazzoniche importanti: Manaus in Brasile e Iquitos in Perù. Due comunità indigene – i Bora (originari della regione del Rio Putumayo) a Iquitos, i Desana (della regione del Rio Uaupés) a Manaus – che, indossando vestiti tradizionali e con i volti dipinti, accolgono nella maloca gruppi di turisti davanti ai quali si esibiscono in danze e canti.

I turisti si mostrano entusiasti dello spettacolo offerto, scatenati con le loro macchine fotografiche, le telecamere e soprattutto con gli immancabili smartphone.
Difficile dire se, per questi indigeni, sia giusto o sbagliato mostrarsi così. Difficile dire se sia una scelta volontaria o soltanto dettata da questioni di sopravvivenza. Difficile capire se, dopo queste visite, i turisti avranno una conoscenza più approfondita del mondo indigeno e una maggiore empatia con esso oppure soltanto una foto o un selfie da mettere su Facebook, Instagram o su altri social network. Alcune ricerche suggeriscono che scattare selfie faccia bene allo spirito di chi li fa. Sarebbe bello che facesse bene anche all’esistenza di chi – volente o nolente – li subisce.

Paolo Moiola

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Consiglio indigeno di Roraima: «Per la terra e per il rispetto»


Il Consiglio indigeno di Roraima (Cir) riunisce nove etnie. In Brasile, è considerato una delle organizzazioni indigene più attive. Come testimonia anche la vittoria ottenuta per il riconoscimento e la difesa della terra indigena Raposa Serra do Sol. Abbiamo incontrato il coordinatore generale del Cir, Enock Batista Tenente, un Taurepang di 29 anni.

Testo e foto di Paolo Moiola

Boa Vista. Sul murale, al centro del disegno con le piume colorate, è posta la sigla Cir. Sta per «Conselho indígena de Roraima» (Consiglio indigeno di Roraima), la principale organizzazione indigena dello stato amazzonico brasiliano. Formalmente essa esiste dal 1990, ma in realtà è operativa dagli anni Settanta.

Il Cir ha come obiettivo la lotta per garantire i diritti e l’autonomia dei popoli indigeni di Roraima, uno stato che conta (almeno) nove etnie: Macuxi, Wapichana, Ingarikó, Patamona, Sapará, Taurepang, Wai-Wai, Yanomami e Yekuana.

Questa varietà di soggetti fa sì che la struttura organizzativa del Cir sia improntata alla massima partecipazione. Ogni anno si tiene una grande assemblea generale che costituisce il maggiore organo deliberativo. L’ultima – la 48ª – si è svolta al lago Caracaranã, nella terra indigena Raposa Serra do Sol, dall’11 al 15 marzo.

Per parlare del consiglio indigeno e dell’attuale situazione politica brasiliana, nella sede del Cir, a Boa Vista, capitale di Roraima, incontriamo Enock Batista Tenente, che da due anni riveste il ruolo di coordinatore generale, in questo aiutato dal vice Edinho Batista de Sousa e da Maria Betania Mota de Jesus, in rappresentanza del movimento delle donne indigene.

Enock, 29 anni e 3 figli piccoli, ci accoglie nel suo ufficio «da bianco» indossando però un copricapo di piume colorate.

«Senza terra non esistiamo»

Enock, a chi è venuta l’idea del Conselho Indígena de Roraima?

«Il Cir è stato creato dai nostri leader con una partecipazione importantissima della Chiesa cattolica. Oggi esso coordina 237 comunità in 11 regioni dello stato di Roraima».

Quali etnie sono rappresentate nell’attuale coordinamento generale del Cir?

«La giunta è composta dal sottoscritto Taurepang e da due Macuxi, Edinho e Maria Betania».

Taurepang e Macuxi, dunque. L’organizzazione però abbraccia altri gruppi indigeni.

«Certo. Il Cir raggruppa nove diverse etnie sotto una sola bandiera e con tre obiettivi: terra, educazione e salute. È una lotta dura visto che l’attuale congiuntura politica non è favorevole per i popoli indigeni. Anche se, per la prima volta, abbiamo eletto una deputata federale, Joênia Wapichana».

La terra rimane sempre la vostra priorità?

«Il nostro territorio è per noi il bene più prezioso. Senza territorio non possiamo avere né salute, né educazione. In una parola non esistiamo. Per questo siamo sempre pronti a dare la vita per la terra».

In che modo? Percorrendo quale strada?

«Non tirando le frecce, perché occorre sempre rispettare la vita del prossimo, sia esso un indigeno o un non indigeno.

Noi chiediamo che ci vengano assicurati i diritti garantiti nella Costituzione federale del 1988. Abbiamo persone preparate in legge per aiutarci in questo.

Noi non abbiamo invaso la terra di nessuno: chiediamo soltanto rispetto. Di essere rispettati nel diritto a vivere nel nostro territorio. Di essere rispettati come società, come esseri umani e come indigeni. E qui intendo dire Macuxi, Wapichana, Ingarikó, Patamona, Sapará, Taurepang, Wai-Wai, Yanomami, Yekuana».

È corretto dire che la diversità indigena è anche una diversità tra indigeni?

«Il Cir non ha una sola identità. Per questo è stato capace di unire le identità di nove popoli differenti. Perché non va dimenticato che noi siamo differenti: un Taurepang è differente da un Macuxi, un Macuxi è differente da Wapichana e così via. Eppure questa organizzazione è capace di unirci tutti in un luogo, in una sala per discutere della nostra vita. Il Cir è un’università e un tribunale: è tutto per noi».

Da fuori, cioè dal mondo non indigeno, vengono i garimpeiros e le grandi opere. Che ne pensa il Cir?

«Che non vogliamo i grandi progetti che distruggono la natura. Non vogliamo estrazioni minerarie nei nostri territori. Se il grande Creatore ha messo il petrolio sotto la terra è per lasciarlo lì».

Vi accusano di non volere il progresso, la civiltà, il futuro.

«I governanti ci dicono che siamo arretrati. Ma costoro non si sono mai seduti con noi per chiederci cosa vogliamo come società, popoli e individui. Noi non chiediamo cose che vengano da fuori: non ci occorrono quelle per essere felici. Vogliamo valorizzare ciò che esiste nelle nostre comunità: la nostra cucina, le nostra medicina, i nostri canti, le nostre danze. Soltanto questo e nulla di più».

Ci dica di Joênia.

«Nella elezione della dottoressa Joênia si è riflessa la nostra forza e unità. È un risultato ottenuto con molta lotta, ma soprattutto senza comprare voti e senza corruzione. Lei è la nostra deputata. La sua elezione è una cosa molto buona per noi».

Come la quasi totalità dei leader indigeni, anche lei pare avere una pessima opinione dei politici brasiliani. Adesso anche Joênia è un rappresentante politico.

«La tratteremo non come una politica, ma come una donna indigena. Lei non ha il profilo, la parola o i sorrisi di un politico. I politici hanno ingannato non soltanto la società indigena ma anche quella bianca. Per questo chiediamo a Joênia di comportarsi come un leader indigeno e non come un leader politico. Lei è nata nel movimento indigeno. È stata la prima donna indigena a difenderci nel Supremo tribunale federale nel giudizio sulla Raposa Serra do Sol. Ha appena vinto lo stesso premio che ricevette Martin Luther King» (Enock si riferisce allo United Nations prize in the field of human rights assegnatole il 25 ottobre 2018, ndr).

Enock, con un presidente come Bolsonaro e un Congresso così anti indigeno Joênia non avrà vita facile.

«Joênia è figlia del movimento indigeno di Roraima. E proprio per questo la gente crede nel suo lavoro. Lei non sarà mai sola. Perché noi siamo Joênia».

Paolo Moiola


Joênia Batista de Carvalho Wapichana

Donna, indigena, deputata

© Carlo Zacquini

Molti anni dopo Mario Juruna Xavante, un altro indigeno entra nel congresso brasilano. E, per la prima volta, è una donna.

Mario Juruna

Nata nel 1973, l’avvocata Joênia Batista de Carvalho detiene una serie di primati. Appartenente al popolo Wapichana, nel 1997 è la prima indigena del paese a ottenere la laurea in diritto (prima all’Università federale di Roraima e, anni dopo, anche all’Università dell’Arizona, negli Stati Uniti). Nel 2008 è la prima a difendere un caso davanti al Supremo tribunale federale, il massimo organo giudiziale del Brasile.

Nel 2018 si presenta alle elezioni per il congresso federale con la «Rede sustentabilidade», il partito fondato dalla candidata presidenziale ed ex ministra dell’ambiente Marina Silva. Nonostante lo scarso successo del suo partito, Joênia Wapichana ottiene 8.267 voti, un numero sufficiente per diventare la prima deputata indigena nella storia del Brasile. In precedenza, a Brasilia era arrivato solamente un indigeno: Mario Juruna del popolo Xavante, in carica dal 1982 al 1986.

Per la neodeputata il 2018 si conclude in bellezza: il 25 di ottobre le viene infatti assegnato dalle Nazioni Unite il prestigioso premio per i diritti umani (United Nations prize in the field of human rights), per la sua attività in difesa delle comunità indigene.

Joênia proviene dalla Terra indigena Raposa Serra do Sol, omologata dal presidente Lula nel 2005. Per oltre dieci anni il suo lavoro di responsabile legale del Conselho indígena de Roraima (Cir) ha riguardato la difesa della demarcazione e l’uscita da quei territori dei fazendeiros (arrozeiros, produttori di riso, per la precisione). Oggi si ritrova a difendere quella conquista dalla volontà del nuovo presidente Bolsonaro e del nuovo Congresso di rimettere tutto in discussione.

Paolo Moiola


Governo Bolsonaro, popoli indigeni e Cimi

«Il maggior latifondista del paese è l’indigeno»

In tutte le sedi le posizioni circa i diritti indigeni appaiono inconciliabili.

All’apertura della 40a sessione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (Ginevra, 25 febbraio 2019) Damares Alves, ministra brasiliana della donna, della famiglia e dei diritti umani, ha affermato che i popoli indigeni avranno «uno sguardo speciale» («um olhar especial») dal governo Bolsonaro. Volendo apparire credibile la ministra ha precisato di essere «madre socioaffettiva di una giovane indigena dell’etnia kamayurá».

Le affermazioni della ministra sono state molto criticate dalla delegazione del Consiglio indigenista missionario (Cimi) durante il suo incontro con Michelle Bachelet, alta commissaria dell’Onu per i diritti umani. «Sottolineiamo che le popolazioni indigene non vogliono una relazione socioaffettiva con lo stato brasiliano. I popoli indigeni non vogliono essere portati a casa alla fine della giornata. Vogliono una relazione (con lo stato) che riguardi i loro diritti», ha detto il responsabile degli affari internazionali del Cimi, Flávio Vicente Machado.

L’onorevole Ms. Damares Regina Alves, Ministero per le Donne, la Famiglia e i Diritti Umani | © UN/Violaine Martin

Il clima che si respira con il governo di Jair Bolsonaro è ben esemplificato da quanto detto da un funzionario della ministra dell’agricoltura Tereza Cristina, proprietaria terriera ed ex presidente del gruppo parlamentare degli agricoltori e allevatori (Frente parlamentar agropecuária). Il suo segretario speciale per le questioni fondiarie, Luiz Antonio Nabhan Garcia, latifondista e presidente dell’Unione democratica ruralista (l’associazione dei grandi proprietari terrieri del Brasile), ha affermato che «il più grande latifondista del paese è l’indigeno» («o maior latifundiário do país é o índio», 22 febbraio 2019).

Potrebbe essere una semplice opinione se non fosse che il ministero dell’agricoltura ha ricevuto dal presidente Bolsonaro (con Medida provisória n. 870 del 1 gennaio 2019) l’incarico per «l’identificazione, la delimitazione, la demarcazione e le registrazioni di terre tradizionalmente occupate da popolazioni indigene». Pertanto, quella di Nabhan Garcia è da considerarsi non tanto un’affermazione personale quanto piuttosto una vera e propria minaccia ai diritti costituzionali dei popoli indigeni del Brasile.

Paolo Moiola

 




Brasile: Al mercato vince Bolsonaro


A Manaus, capitale dello stato di Amazonas, dove Bolsonaro ha raccolto il 65% dei voti (50,28% nello stato, 55,2% a livello nazionale), era chiara la sua vittoria già prima dell’apertura dei seggi. In piazza e al mercato stravinceva proprio lui. Mentre i seguaci di Haddad e del Pt, pochi e timorosi, sembravano ancora crederci. Cronaca di tre giornate in strada, a cavallo delle ultime elezioni brasiliane che hanno incoronato presidente l’esponente dell’ultra destra, conversando con tassisti, venditori, professori, studenti e molti altri.


Testo e foto di Paolo Moiola


Manaus, 26 ottobre 2018. Nella città storica, quella che sorge attorno al teatro Amazonas, non ci sono manifesti elettorali ed è una rarità calpestare volantini sui marciapiedi. Non so se sia perché il risultato del secondo turno delle elezioni presidenziali è dato per scontato o perché la campagna si fa ormai soltanto sui social e su Whatsapp, che in Brasile è diffusissimo.

Qui, nello stato di Amazonas, il più vasto del Brasile, domenica 28 si voterà per il presidente e anche per il governatore. Questa è una terra di confine, coperta dalla foresta amazzonica, attraversata dal grandioso Rio delle Amazzoni (Rio Amazonas) e dai suoi affluenti, poco abitata se si esclude la capitale Manaus, un’isola urbana con oltre due milioni di abitanti (ufficiali). Una terra ricca, affascinante e fragilissima. Una terra da sempre dominata dalle destre, un tempo per motivi militari, oggi per questioni legate allo sfruttamento delle risorse naturali e alla lotta contro i popoli indigeni, gli unici legittimi proprietari di questi luoghi.

Ieri, giovedì 25, girovagando per la metropoli amazzonica, ho raccolto opinioni contrastanti. La sensazione è che il Brasile potrebbe scegliere Bolsonaro, a dispetto di un curriculum zeppo di aggettivi pesanti (o vergognosi) e di una campagna virulenta nei confronti di avversari e giornalisti. Al mattino, ho parlato con molti taxisti dell’aeroporto internazionale: tutti – nessuno escluso – hanno risposto che voteranno Bolsonaro perché il paese ha bisogno di un cambio. I taxisti costituiscono però una categoria particolare, soprattutto qui in Brasile dove Uber sta facendo razzia del mercato.

I professori di Haddad

Nel tardo pomeriggio, quando la temperatura era scesa un po’ sotto i 40 gradi toccati (e superati) nel corso della giornata, nella Plaça da Matriz, la piazza che sta tra la cattedrale (Nossa Senhora da Conceição) e il grande porto fluviale (Estação Hidroviaria do Amazonas) della città, ho notato un piccolo gruppo – non più di 6-7 persone – che si alternavano al microfono davanti a un manifesto di Fernando Haddad con alle spalle Manuela d’Ávila, la giovane candidata alla vicepresidenza. A lato dell’oratore, due sbandieratori. Nessuno dei passanti, però, si fermava per ascoltare. Soltanto alcuni passeggeri di autobus, che hanno una fermata proprio davanti alla piazza, gridavano qualcosa dai finestrini.

Forse anche per questo i manifestanti si sono interessati a me, unica persona a fermarsi ad ascoltare l’improvvisato comizio. Si sono presentati tutti con mano tesa e sorriso. Erano insegnanti di varie scuole e diverse materie. Alcuni giovani, altri sulla cinquantina. La professoressa Mariene Pantoja de Lima si è subito dichiarata militante socialista, spaventata da Bolsonaro, definito – senza giri di parole – candidato fascista, che farà marcire in galera non soltanto Lula ma tutti gli esponenti del Pt. Amaral, docente universitario, ha espresso timore per l’educazione pubblica. Una giovane insegnante di sociologia delle scuole superiori, più timida, assentiva a ogni affermazione dei colleghi. Due altre giovani professoresse hanno voluto farsi fotografare con la maglietta che recitava: «Scienze sociali, una via per la democrazia».

Ho chiesto: Haddad che possibilità ha di battere Bolsonaro che, al primo turno, ha ottenuto 16 punti percentuali in più? «Stiamo recuperando», hanno risposto all’unisono, mettendomi in mano l’adesivo «Haddad é Lula». E poi scrivendo – sul retro di un manifesto – i loro numeri di Whatsapp per restare in contatto e magari presenziare alle ultime riunioni del comitato di sostegno di Manaus.

La voce del mercato

Questo è accaduto ieri. Oggi, venerdì 26 ottobre, raccolgo opinioni al mercato coperto. Anzi, ai due mercati coperti, molto vicini ma diversi. Entrambi stanno sul lato sinistro del porto fluviale ed entrambi guardano al Rio Negro che scorre una ventina di metri oltre la strada. Il primo – Mercado municipal Adolpho Lisboa (Mercadão) – è ospitato in una storica struttura in ferro battuto, risalente alla favolosa epoca del caucciù (borracha) che portò Manaus nel mondo. Il mercato è stato ristrutturato anche – o forse soprattutto – per favorire l’accesso dei turisti. Tutto infatti pare un po’ da cartolina, soprattutto nella parte che ospita i gazebo dei prodotti dell’artigianato locale. La signora Rosi vende farine e bibite. È giovane e molto gentile: «Voto Bolsonaro perché sento di avere più affinità con lui. Il Pt è il passato». Un paio di metri più avanti c’è un banco del pesce: «Nessuno dei due. Tutti ladri sono», mi grida il venditore mentre con un coltello affilato pulisce un grosso tambaqui. E conclude: «Io voterò in bianco e metterò anche la firma».

Ben diverso è il mercato che sta un centinaio di metri più avanti, popolarmente conosciuto come il «mercato delle banane». La struttura è minimale e quasi non si nota, ma dentro si muove un universo di umanità. E di prodotti alimentari: dalla carne al pesce, dalla frutta alla verdura, dalle patate alle granaglie. Il reparto più affascinante è quello del pesce, forse perché questo viene pulito e tagliato in loco. È proprio qui che inizio la mia piccola indagine elettorale.

Il banco sull’angolo della fila porta una chiara firma evangelica: sopra il pesce, appese una accanto all’altra, ci sono le riproduzioni dei Salmi 21 e 23. «Bolsonaro o Haddad?», chiedo senza troppi preamboli alla fila di venditori in camice bianco. Quasi tutti – almeno sei persone – rispondono Bolsonaro, anche un giovane diciannovenne. Uno soltanto dice di non avere ancora deciso. Un altro precisa: «Se il Brasile fosse ben amministrato. Sarebbe un paese da primo mondo. Al pari degli Stati Uniti».

Nella foga di riprendere con la telecamera e, al tempo stesso scrivere, la penna mi cade tra i pesci pacu. Impossibile recuperarla senza portarsi dietro anche l’odore. Viene in mio soccorso una coppia di clienti. Lei raccoglie la penna e chiede che venga pulita. «Non con le mani. Con uno straccio», dice ridendo al venditore.

Lei si chiama Waldeniza Bessa ed è professoressa di architettura e urbanistica presso l’Università privata Nilton Lins. «Bolsonaro o Haddad?», chiedo imperterrito. «Bolsonaro, senza dubbi», risponde lei. E il suo accompagnatore, Valdir Rodrigues Bessa, insegnante di educazione fisica a San Paolo, dice che anche lui è per Bolsonaro.

Dal Venezuela… all’armatura di Dio

Lascio i banconi del pesce per quelli della frutta e delle verdure. Al banco segnalato con i numeri 45-47 ci sono due giovani. Faccio la consueta domanda. «Non votiamo perché siamo venezuelani», spiegano Almilcue Moreno e l’amica Kenneliz Zapata. Sono arrivati a Manaus un anno fa perché in patria la situazione economica era ormai insostenibile. Parlano molto male di Maduro, ma riconoscono che Chávez è stato un buon presidente. «Anche se era un militare», precisa la ragazza.

Mi fermo presso un altro banco evangelico, anche questo ben riconoscibile. Sulla parete, un manifesto della chiesa Paz e Vida dal titolo di «Armadura de Deus»: in esso è ritratto un uomo con un’armatura sulla quale, per ogni parte del corpo, è evidenziata la forza di cui i credenti evangelici sarebbero forniti. Denir, il proprietario, ha poca voglia di parlare di politica, ma non l’amico che è con lui, Deuti Barreto: «Bolsonaro è pericoloso per vari motivi. In primo luogo, perché è un militare e poi perché non ha un vero progetto di governo. Vince perché parla della violenza, un argomento molto sentito tra la popolazione». Approfitto della loquacità di Deuti per chiedere anche un commento su Lula: «Non è un corrotto. Lui avrebbe vinto di sicuro al primo turno e con il 70 per cento dei voti», esclama con convinzione.

Quando esco dal mercato è passato mezzogiorno e il caldo è soffocante. È tempo di rientrare in albergo. Lungo la strada, a lato della Plaça do Relogio, la piazza dell’Orologio, riparati sotto un albero, ci sono tre persone che distribuiscono volantini per Wilson Lima, candidato governatore per lo stato di Amazonas e sostenitore di Bolsonaro. «Per la presidenza abbiamo già vinto. Adesso dobbiamo vincere anche per il nostro stato», mi dicono Mauro Cezar, Roberto Carlos e Jacivania. Di lì a poco al gruppo si aggiunge un loro amico che difficilmente passerebbe inosservato dato che indossa maglia e pantaloni con i colori sgargianti della bandiera nazionale. Si chiama Paulo Goés, giornalista che fa campagna per i candidati vicini a Bolsonaro.

La speranza nel numero 13

La speranza arriva quando è già buio, dopo le 18.00. Prima, dentro al Teatro Amazonas, incontro Deilane, una giovane ventenne, studentessa di turismo che fa tirocinio come guida all’interno della struttura, l’unica vestigia storica di rilievo (risale a fine Ottocento ed è il simbolo dell’epoca del caucciù) di Manaus e dunque molto visitata. Le chiedo se sia vero che gli evangelici – che costituiscono circa il 30% dei brasiliani – votino in massa per Bolsonaro. «Tanti di loro votano per quel signore, ma non tutti. Qualcuno non ha gradito l’uso strumentale che lui fa della Parola di Dio. Io sono cattolica e così la mia famiglia: noi votiamo Haddad senza alcun dubbio». A dispetto della sua giovanissima età, Deilane è preparatissima: «Bolsonaro è un ex capitano ma per 29 anni è stato al Congresso. Il suo vice, il generale in congedo Antonio Hamilton Mourão, è più pericoloso di lui».

Poco dopo, in una via dietro allo stesso teatro, m’imbatto in una manifestazione pro Haddad. Con musica e cibo, e un buon numero di persone, soprattutto giovani, tutti con il numero 13 – l’identificativo di Haddad – appiccicato sul petto. Come Renan Feitosa, 31 anni, e Yara di 26, entrambi laureati in chimica e attualmente studenti di dottorato all’Università federale (pubblica). Sulle loro magliette è attaccato un foglio scritto a mano: «Scienza sì! Silenzio no! Per l’educazione, per la democrazia». Renan commenta: «Bolsonaro non conosce il discorso democratico. È un vero fascista». E Yara, più timida ma egualmente decisa: «È semplicemente orroroso».

La lunga giornata termina con Silvania Farias, 35 anni, psicologa, e Rosane Pinheiro, 47 anni, impiegata amministrativa. Agguerrite e fiduciose nella rimonta. Racconto loro del plebiscito pro Bolsonaro riscontrato, al mattino, tra i banchi del mercato. E loro mi danno un’interpretazione che io non avevo considerato «Al mercato tutti debbono dire Bolsonaro perché le licenze dipendono dalla municipalità (prefeitura) e l’attuale sindaco (prefeito) appartiene a un partito suo alleato».

Ecco perché si dice che la speranza sia l’ultima a morire.


Manaus, domenica 28 ottobre

La speranza dei votanti di Haddad – «Ha ormai recuperato tutto lo svantaggio», dicevano in piazza citando non ben identificati sondaggi – ha avuto vita breve, poco più di una notte. Alle cinque del pomeriggio, appena chiuse le urne (elettroniche), mi reco al centro stampa allestito presso il Tribunale regionale elettorale di Amazonas, già affollatissimo di giornalisti in fila per approfittare del buffet e di telecamere schierate davanti al grande schermo interattivo. L’istogramma delle sezioni ricevute cresce molto velocemente. I risultati affluiscono con rapidità anche dai luoghi più lontani e isolati. Alle sei, appena un’ora dopo la chiusura della votazione, lo stato di Amazonas ha già il suo nuovo governatore (Wilson Lima), ma anche a livello nazionale la situazione è molto ben delineata. Alle sette, la sala stampa è ormai vuota per metà. Jair Bolsonaro ha vinto con oltre 57 milioni di voti (55%). Sarà lui il nuovo presidente del Brasile.

Paolo Moiola

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Brasile: L’ex presidente Lula è in carcere

Testo su Lula e Brasile di GianfrancoGraziola |


Un paese che esautora una presidente – Dilma Rousseff – per sostituirla con Michel Temer, inviso ai più e coinvolto in gravi scandali. Un paese dove una giovane politica – Marielle Franco – è assassinata dalla polizia. Un paese dove un prete – padre José Amaro – è arrestato per ordine dei latifondisti. Un paese dove un ex presidente, in testa a tutti i sondaggi per le elezioni di ottobre 2018, è condannato a 12 anni senza prove. Un paese siffatto è una democrazia alla deriva.

In questi ultimi mesi il sistema dei media – le televisioni Globo, Sbt, Record, Band e le riviste come Veja, Epoca o Isto é – ha costruito e dato in pasto al popolo brasiliano il caso Lula. Attorno a lui ha tessuto una trama gigantesca che in realtà ha prodotto l’effetto contrario a quello sperato: l’ex presidente ha visto aumentare la propria popolarità e le intenzioni di voto in suo favore per le elezioni previste a ottobre 2018. Per capire bene la situazione, occorre partire dal 2016 con il colpo di stato orchestrato dal parlamento brasiliano (con la connivenza del potere giudiziario), che ha destituito la presidente Dilma (del PT, lo stesso partito di Lula, ndr) democraticamente eletta per sostituirla con Michel Temer, un fantoccio gradito e approvato dal mercato economico e capace di restituire il gigante brasiliano al controllo del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale.

La conferma del complotto sta nel fatto che alla presidente destituita lo stesso potere giudiziario, attraverso l’azione del presidente della suprema corte Ricardo Lewandowski, non ha cancellato né i diritti civili né quelli politici, tanto che Dilma Rousseff è candidata al senato per lo stato di Mina Gerais, un tempo roccaforte del senatore Aécio Neves, candidato sconfitto alle elezioni presidenziali del 2014 dalla stessa Rousseff.

Sostenitori di Lula davant ialal cattedrale di Sao Paulo, l’11 aprile 2018. (Photo by Cris Faga/NurPhoto)

Governo e parlamento BBB

Il governo Temer è sostenuto da un parlamento, la cui composizione riflette e esprime alcune tendenze fondamentaliste: sia in campo religioso, col gruppo chiamato della Bibbia (bancada da bíblia o evangelica), composto da evangelici e neopentecostali, sia in campo economico, col gruppo dei latifondisti e della monocoltura (bancada do boi o ruralista), che a sua volta si appoggia al gruppo militarista, chiamato bancada da bala, che vorrebbe risolvere tutte le questioni con la forza e gli interventi militari.

Le azioni concrete del governo Temer passano attraverso il suo piano di pseudo riforme, prima fra tutte quella del lavoro, seguita da quella – fortunatamente fallita – della previdenza e accompagnate dal discorso populista della modernizzazione del paese e della lotta all’inflazione.

Contemporaneamente all’azione governativa si sviluppa e prende sempre più corpo quella mediatica che fa dell’operazione lava jato (autolavaggio) del potere giudiziario la vetrina che esalta e incorona una immagine di giustizia al di sopra delle parti, etica e medicina contro la corruzione. In realtà ancora una volta, la poderosa macchina dei media, ormai consacrata nel ruolo di quarto potere, illude il popolo brasiliano esaltando una falsa immagine della giustizia che apparentemente è uguale per tutti, mentre in realtà non lo è affatto.

La giustizia brasiliana è responsabile di un sistema penitenziario sempre più sovraffollato e caotico e del dilagare della violenza, assieme all’impunità, agli abusi di potere delle forze dell’ordine, alla tortura, ai massacri e «genocidi» della gioventù che si susseguono giornalmente e di cui nessuno ha memoria. Non possiamo e dobbiamo avere dubbi: siamo davanti a un sistema giudiziario che ha fatto a pezzi la Costituzione e si è sostituito ad essa nel governo del paese.

(Brasília – DF, 19/04/2017) Il giudice Federale Sérgio Moro stringe la mano al presidente Michel Temer
(Foto: Marcos Corrêa/PR)

L’esempio eclatante che conferma questa realtà è proprio quello dell’ex presidente Lula, in cui la giustizia, trasformata in show mediatico, ha avuto il compito di demolire, con la complicità del giudice Sérgio Moro, la sua immagine e soprattutto di toglierlo dalla corsa alla presidenza. Naturalmente questo sarebbe il secondo atto del colpo di stato, dato che tutti i sondaggi già davano Lula nuovamente presidente senza rivale alcuno. Sta di fatto che, accecato da una sete legalista e irrazionale, lo stesso potere giudiziario ha finito per dimostrare ancora una volta la sua reale impotenza e fragilità trasformando quello che doveva essere la sua consacrazione in una sconfitta: l’esecuzione della carcerazione ha, infatti, trasformato un ex presidente e apparentemente comune carcerato in un eroe nazionale consacrandolo per sempre nella memoria e nell’immaginario simbolico del popolo.

Ma vi è un ulteriore elemento inquietante: la mancanza di prove concrete che possano mantenere in carcere sia Luis Inacio da Silva Lula come tanti altri personaggi (Antonio Palocci, Eduardo Cunha, Nestor Cerverô, etc.) dello spettacolo messo in scena a Curitiba (dove lavora il giudice Moro, ndr). Qualsiasi giurista serio sa bene che la cosiddetta delação premiada (confessione incentivata), copiosamente usata nella strategia anticorruzione, pur risplendendo di notorietà, ha però fondamenta fragili e inconsistenti.

Lula è stato condannato in due gradi di giudizio su quattro. Gli ultimi gradi spettano al Tribunale superiore di giustizia (Superior Tribunal de Justiça) e al Supremo tribunale federale (Supremo Tribunal Federal). Due anni fa la stessa corte stabilì che, dopo il secondo giudizio, il giudice può far eseguire l’eventuale ordine di carcerazione. Una decisione molto controversa e da vari giuristi considerata incostituzionale. Il problema si è riproposto oggi con Lula, arrestato subito dopo il secondo giudizio.

Per questo vi è chi oggi afferma, e lo stesso Lula lo ha denunciato pubblicamente, che il mandato di carcerazione per l’ex presidente sarebbe in realtà originato dalla Tv Globo, capitanata dalla famiglia Marinho, indispettita dalla sua forte popolarità che neppure i mezzi più moderni sono riusciti a scalfire. Prova di tale popolarità sono le manifestazioni che ancora oggi continuano in tutto il paese e si susseguono notte e giorno davanti alla sede della polizia federale a Curitiba dove Lula è carcerato. Vedremo cosa succederà quando – tra luglio e agosto – si deciderà sulla sua partecipazione o esclusione alle elezioni di ottobre.

Da Marielle Franco a padre José Amaro

Marielle Franco (© Mídia NINJA)

Oltre alla questione di Lula vi è una serie di altre questioni che hanno reso esplosiva la situazione e che fanno temere un possibile ritorno dei militari al potere. Come dimostra la situazione nello stato di Rio de Janeiro. Il governo federale ha mandato l’esercito e messo un generale come responsabile della sicurezza, esautorando di fatto il governo locale. Lo stato è diventato una trincea, un campo di battaglia, con una moltiplicazione folle della violenza. Una violenza che nasce dal braccio di ferro tra le mafie della droga e le stesse forze di sicurezza, anch’esse coinvolte nel gigantesco sistema corruttivo. A questo si aggiunge, come si dice da più parti, l’esecuzione (14 marzo 2018) ad opera della polizia della consigliera comunale e attivista Marielle Franco e del suo autista.

E ancora gli interventi, in più parti del paese, da Nord a Sud, da Est a Ovest, della Guardia Nacional – braccio forte dell’esercito noto per la sua violenza – a reprimere i popoli indigeni e tradizionali, a massacrare i piccoli proprietari di terra e i sem terra e a imprigionare i loro difensori. Come è accaduto a Altamira, prelazia di Xingu, stato del Pará, a padre José Amaro, compagno e continuatore dell’azione di Dorothy Stang (missionaria brasiliana di origine statunitense assassinata nel Pará da sicari dei latifondisti nel febbraio 2005, ndr).

E allora ritorna nuovamente la domanda: quale futuro aspetta il popolo brasiliano? Nessuno si azzarda a fare previsioni, ma il timore è grande anche perché vari generali dell’esercito (da Eduardo Villas Bôas a Luiz Gonzaga Schroeder), tra cui alcuni in pensione, hanno alzato la testa e fatto sentire la loro voce minacciando, senza mezze misure, una possibile sostituzione di Temer, presidente fantoccio, con uno di loro.

È un peccato che il presunto grande obiettivo dell’attuale governo e dello stesso potere giudiziario di sconfiggere e debellare la corruzione si realizzerà – forse – in un’altra era. Per ora ci si accontenta di essere al servizio del mercato e di controllare una società che continua a registrare forti e insostenibili diseguaglianze, vera causa della crescente violenza e insicurezza.

Gianfranco Graziola

L’autore: Padre Gianfranco Graziola, missionario della Consolata, vive a San Paolo e è vice coordinatore nazionale della Pastorale carceraria che conta circa 6 mila agenti volontari (sacerdoti, religiosi, religiose, laici di tutte le età) che settimanalmente visitano le carceri in tutti gli stati del paese.

 


La strategia: un golpe tira l’altro

Dietro gli attuali avvenimenti politici ci sono le trame del complesso imprenditoriale-finanziario-mediatico. L’esplicita lettura di due prestigiose istituzioni della Chiesa cattolica brasiliana: il Consiglio indigenista (Cimi) e la Pastorale della terra (Cpt).

Brasília – il deputato Jair Bolsonaro, famoso per le sue posizioni da ultradestra (Fabio Rodrigues Pozzebom/Agência Brasil)

È la strategia «dei grandi conglomerati impresariali, del capitale nazionale e internazionale, che cercano di dare continuità al processo neocolonialista di rapina dei diritti del popolo brasiliano e dei beni naturali del nostro paese». Non ha usato termini edulcorati il comunicato del Consiglio indigenista missionario (Cimi) per commentare l’arresto di Lula.

Il Cimi accusa parte del sistema giudiziario di essersi piegato agli interessi privati delle élite nascondendosi dietro uno «pseudo discorso anticorruzione». L’organismo della Chiesa cattolica brasiliana parla di violenza politica, nonché di persecuzione, criminalizzazione e repressione verso i leader e i movimenti di resistenza.

Egualmente netta, anche se con qualche puntualizzazione, è stata la difesa della Commissione pastorale della terra (Cpt). Questa ha ricordato di avere criticato i governi Lula soprattutto per le sue politiche agrarie, agricole e ambientali. Tuttavia, è innegabile che quei governi avessero ridotto le diseguaglianze sociali attraverso politiche di redistribuzione del reddito e di inclusione sociale.

Identicamente al Cimi anche la Cpt individua chiaramente i colpevoli, interessati a impedire il ritorno di Lula con ogni mezzo possibile, compresa «una falsa e ipocrita lotta alla corruzione sistemica» che – guarda caso – dimentica i leader di altri partiti, colpevoli di note attività criminali.

«Mettendo da parte gli interessi popolari, ciò che questo complesso imprenditoriale-finanziario-mediatico fa, con l’appoggio militare velato o esplicito, è nutrire – strategicamente – l’odio, l’intolleranza e il pregiudizio, espressioni del fascismo sociale, in cui solo l’individuo vale con i suoi interessi privati, non più la società e la condivisione collettiva di beni comuni e pubblici. L’avanzata della violenza impunita nelle campagne e nelle città è la sua faccia più crudele».

Anche dopo la sua carcerazione Lula, pur penalizzato nei numeri, ha continuato a guidare i sondaggi elettorali per le presidenziali di ottobre 2018: tutti i suoi possibili avversari – tra cui l’indomita Marina Silva e gli ultraconservatori Aécio Neves e Jair Bolsonaro – sono nettamente distanziati. Ma si tratta di esercizi teorici dato che, stando così le cose, molto difficilmente Lula potrà candidarsi.

Paolo Moiola

 




L’Odissea di Lula


Lula, il primo presidente di sinistra (e democratico) del gigante sudamericano, confermato per un secondo mandato, è oggi agli arresti. Contro di lui intrighi legati al petrolio, alla Confindustria brasiliana e ai vicini Usa. Lui aveva tentato di rompere la logica di dominazione e aveva varato il piano «Fame zero».

Quale sarà la conclusione della vicenda umana e politica di Luiz Inácio da Silva detto Lula, due volte presidente del Brasile (dal 2003 al 2010), a gennaio 2018 condannato senza prove a 12 anni di prigione (vedi articolo pag. 22) per un presunto affaire con Petrobras, la compagnia petrolifera di stato? Non si può negare che questo intrigo abbia tutte le fattezze del golpe. Una trama orchestrata da pezzi della Confindustria brasiliana, con la collaborazione delle famigerate multinazionali nordamericane e con l’appoggio vitale di Rede Globo, il più poderoso network radiotelevisivo del continente.

Questi potentati economici sempre al limite dell’onestà non avevano gradito il fatto che l’ex presidente brasiliano, dopo che la Petrobras aveva scoperto e messo le mani nella propria costa atlantica, sul più grande giacimento sottomarino del mondo, il Pre-Salt, avesse rifiutato di condividere la scoperta con gli Stati Uniti. Uno spettacolo già visto e messo in atto molte volte specie dal governo di Washington che, quando si tratta di petrolio, mette in cantiere guerre insulse e feroci come quella attuale in Siria, che va avanti, tra stragi, equivoci e menzogne, da più di 7 anni (vedi articolo pag. 58). Lula ha provato a rompere questa logica ed è stato punito.

D’altronde quel mondo che si autodefinisce civile e democratico, il mondo del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, aveva un conto da saldare con lui e Dilma Rousseff, che gli era succeduta nella presidenza.

(archio Gianni Minà)

Lula era stato il primo presidente progressista eletto, e anche confermato, dopo gli anni lugubri della dittatura militare, in quello che, con 207 milioni di abitanti, è lo stato più popoloso dell’America Latina.

Agli occhi del governo di Washington, Lula era stato il complice dell’ex presidente venezuelano Hugo Chávez nel ricambio progressista che il continente a Sud del Texas aveva avuto negli ultimi vent’anni. Anni in cui alcune nazioni si erano consociate in scelte libertarie arrivando a fondare, sull’esempio della Comunità europea, perfino una banca e una televisione continentale, la Telesur, per controbattere l’informazione scorretta della Cnn e di altri network privati normalmente proprietà di caciques abituati a dire sempre sì agli yankee.

Ho conosciuto Lula, prima che diventasse presidente, grazie ad Antonio Vermigli, un generoso ex postino di Quarrata (Pistornia) che tiene in mano la Rete Radié Resch (una rete della sinistra cattolica).

Lula veniva in Italia invitato dai vari sindacati e avevo imparato ad apprezzarlo proprio per essere riuscito nel miracolo di fondare il Pt (Partido dos Trabalhadores, partito dei lavoratori) che, insieme ai cattolici progressisti e al movimento dei Sem Terra (senza terra, ndr), lo avrebbe portato al governo del paese, smentendo chi aveva tentato di sostenere «che i comunisti stavano per prendere il potere in Brasile». Questo perché il Pt era diventato l’esempio del più efficiente movimento progressista in quella che all’epoca (dai primi anni 2000) è stata una vera e propria primavera dell’America Latina.

L’entusiasmo e la sincerità di questo ex operaio della Volkswagen, che al suo mestiere di tornitore aveva sacrificato perfino due dita, aveva permesso ai brasiliani di sognare anche per iniziative come il piano «Fame zero», messo in piedi dal teologo della liberazione Frei Betto che, su incarico di Lula, era riuscito nell’impresa di assicurare a 50 milioni di abitanti, i più poveri, tre pasti al giorno.

Era un nuovo mondo che si scrollava di dosso la dittatura militare e incominciava a diventare un esempio politico, mettendo in crisi perfino pezzi di socialismo occidentale.

Non potrò mai dimenticare una sera in cui, per presentare un libro di Rigoberta Menchù sulle stragi in Guatemala, alla festa dell’Unità di Modena, ero riuscito a riunire con Lula, lo scrittore guatemalteco Dante Liano, scampato ai massacri previsti dal Plan Condor benedetto da Nixon e Kissinger (piano Usa di destabilizzazione delle democrazie in America Latina, ndr), insieme a Frei Betto, frate domenicano e teologo della liberazione, carcerato e torturato dalla dittatura brasiliana, ed Eduardo Galeano, il più acuto saggista del continente latinoamericano.

Tutti avevano toccato le corde dell’emozione, ma il più appassionato era stato proprio Lula che, qualche anno dopo, sarebbe diventato per la prima volta presidente del Brasile. Ci avevano invitato i ragazzi della Fgc (Federazione giovani comunisti) felici di ricevere così tante figure profetiche del continente, oltretutto scampate all’estinzione. Non avevano però lo stesso entusiasmo i militanti più avanti nell’età e gli organizzatori della festa.

«Minà questa sera nella sala grande abbiamo il confronto tra Vitali e Guazzaloca, forse sarebbe meglio che con i suoi ospiti andasse in un ambiente più raccolto» (Giorgio Guazzaloca fu il primo sindaco di Bologna non di area centrosinistra nel dopoguerra e succedette a Walter Vitali nel 1999, ndr). Era il dibattito tra il sindaco della tradizione progressista della città e quello conservatore che gli sarebbe succeduto. Ricordo che mi scappò una frase sarcastica: «Non solo rischiate di far vincere ai vostri avversari le elezioni amministrative a Bologna, città rossa, ma gli preparate anche il terreno adatto». Quella sera rimanendo nel nostro spazio concerti, assegnatoci dai ragazzi della Fgc, spaccammo in due la festa. Un migliaio di spettatori per la sfida Vitali-Guazzaloca, e altrettanti per noi. Rigoberta firmò 500 libri in poco più di mezz’ora.

Qualche mese dopo Massimo D’Alema invitò a Firenze quasi tutti i leader socialisti delle nazioni più importanti. A sorpresa, però, per il Brasile, non si ricordò di invitare Lula Da Silva, il leader di 50 milioni di brasiliani che votavano a sinistra. Preferì trasmettere l’invito a Fernando Henrique Cardoso, leader della coalizione di centro destra che governava in quel momento. La giustificazione? Cardoso in gioventù era stato un sociologo progressista che D’Alema probabilmente aveva letto. Lula che con bonomia mi ha raccontato questa gaffe, ha ricordato che, quando era già succeduto a Cardoso, D’Alema era volato a Rio con Piero Fassino per il summit dell’Internazionale socialista e la prima cosa che aveva fatto era stato chiedere una mozione di censura per Cuba. È stato lo stesso Lula, che pure è un moderato, a ricordare alla delegazione italiana che «per la maggior parte dei latinoamericani la Revolución è un esempio indiscutibile».

Ora io non so perché, dopo il successo, il Pt si sia disfatto in un pugno di anni. So però che se Lula potesse, rispettando le regole, presentarsi come candidato per le prossime elezioni del paese (a ottobre, ndr), vincerebbe, secondo i sondaggi, senza discussione. Per equità ricordo anche che, l’ex vice di Dilma Rousseff, il presidente sostituto Michel Temer ha venduto l’anima ed è attualmente uno degli uomini più indagati e discussi della storia moderna del Brasile.

Basta leggere il suo curriculum dal quale, per esempio, apprendiamo che nell’inchiesta Operaçao Castelo de Areia, sulla corruzione all’interno dell’impresa di costruzioni Camargo Correa, il suo nome è citato ventuno volte nella lista desunta dalla contabilità parallela dell’impresa. È dunque grottesco che Dilma sia stata sospesa e invece Temer possa governare in sua vece.

Quello che più intristisce è che, ancora una volta, un qualunque Temer, pronto a qualsiasi intrigo, possa, con un colpo di stato moderno (rappresentato da compagnie subdole d’informazione di dubbia provenienza o da trame di servizi segreti o da logge massoniche) impedire a un popolo di vedere trionfare le proprie idee, le proprie scelte e i propri diritti e che tutto questo avvenga con la benedizione di istituti come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e le sette sorelle multinazionali del petrolio. Golpe che noi, farisei occidentali, spesso definiamo grottescamente come «atti di democrazia».

Gianni Minà

 




Crateús, dove Dio è donna

Testi di Stefania Garini, foto cortesia CISV (Raffaele Giammaria, Viviana Pittalis e Marta Versaci) |


Nel Ceará, uno degli stati più poveri del Brasile e tra i più violenti al mondo, suor Erbenia de Sousa, responsabile della Caritas diocesana di Crateús, combatte da sempre a fianco degli ultimi: le donne vittime di abusi, i giovani, i contadini senza terra e le pescatrici senza acqua. Animata da una fede incrollabile nel Vangelo e nella capacità umana di riscattarsi.

suor Francisca Erbenia de Sousa a Crateús

«Ho deciso di farmi suora a 9 anni, il giorno in cui ho assistito allo stupro di una ragazza per strada. Sono corsa in cerca d’aiuto ma nessuno è intervenuto perché dicevano che era una prostituta. Quella ragazza è stata violentata e uccisa, ma non importava a nessuno. Per me è stato terribile, mi sentivo impotente, ho iniziato a pensare che consacrandomi avrei potuto aiutare le donne, le tante vittime di violenza che nel mio paese restavano “invisibili”». Racconta così la sua vocazione suor Francisca Erbenia de Sousa, nata 53 anni fa a Quixeramobim nello stato del Ceará, Nord Est brasiliano, e dal 2006 responsabile della Caritas diocesana di Crateús.

All’epoca, il papà fa il camionista trasportando il cotone delle piantagioni, mentre la mamma si occupa dei sette figli. «I miei genitori non erano religiosi. Mio padre era legato agli ambienti politici di destra, ultraconservatori, e ostacolava la mia scelta, così a 17 anni me ne sono andata di casa per farmi suora». Da allora questa religiosa dall’apparenza dimessa, ma tenace e combattiva, non ha mai smesso di battersi per i diritti degli ultimi, a cominciare proprio dalle donne: le prostitute e le vittime di abusi, le catadores che campano raccogliendo rifiuti, le abitanti delle favelas, le contadine senza mezzi e senza terre, le pescatrici prive di prospettive economiche e riconoscimenti professionali.

Abbiamo incontrato suor Erbenia durante il suo primo viaggio in Italia lo scorso novembre (2017), in compagnia di Antonio Adriano Leitão, responsabile dei progetti sociali della Caritas di Crateús, in visita a due associazioni con cui la Caritas brasiliana collabora, Cisv di Torino e WeWorld di Milano.

Teologia incarnata

Formatesi alla scuola del pedagogista Paulo Freire e della teologia della liberazione, Erbenia e la Caritas di Crateús promuovono una lettura critica delle disuguaglianze sociali, viste non come volontà di Dio cui ci si deve piegare ma al contrario come una violenza nella creazione divina. «L’esistenza di Dio si traspone nelle nostre esistenze e ci spinge a interrogarci sulla realtà che ci circonda: com’è possibile che molti di noi debbano vivere senz’acqua da bere, senza terra da lavorare, senza prospettive per i giovani? Il volto di Dio è quello che si mostra nell’Esodo: “Ho osservato la miseria del mio popolo […] conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo […] verso un paese nel quale scorre latte e miele” (Esodo 3,7-10). È un Dio capace di vedere e ascoltare gli affanni, le speranze, le perdite ma anche le potenzialità delle vite umane». Si tratta di una teologia incarnata, in cui la dimensione spirituale resta inseparabile dall’azione concreta: «La preghiera è per noi un’esigenza quotidiana, in chiave contemplativa: pregare significa contemplare la vita di ogni giorno, cercando di leggerla alla luce del Vangelo», spiega suor Erbenia. «Il nostro modo di considerarci figli e figlie di Dio ci porta spesso a unirci alla popolazione nell’occupazione delle terre rurali e urbane lasciate in abbandono, o prese indebitamente da imprese minerarie e fazendeiros» (cfr. MC novembre 2017). Iniziative che spesso sono costate aggressioni e intimidazioni. «Abbiamo subìto una forte repressione militare tra gli anni Sessanta e Ottanta, molti di noi sono stati vittime di violenze, persecuzioni, prigionia, abbiamo imparato a correre al buio per scappare. E oggi le occupazioni di terre continuano ad attirarci le “attenzioni” di fazenderos e polizia», racconta la suora senza tradire emozioni.

Pur essendo la nona potenza economica al mondo, negli ultimi due anni la situazione del Brasile è molto peggiorata, e oggi la Chiesa brasiliana si sta schierando sempre più apertamente contro il governo di Michel Temer. «Il nostro paese è un palcoscenico di corruzione, si è tornati a colpire le popolazioni indigene e gli afro discendenti, soprattutto i giovani. I diritti conquistati a fatica in 50 anni sono adesso andati perduti: pensate che i programmi d’intervento popolare sono stati tagliati del 92%», dice Erbenia, ricordando come il governo Lula avesse garantito case popolari, assegni familiari in base al numero di figli e la possibilità per i giovani poveri di accedere all’università. «Oggi, per la prima volta nella storia del Brasile, in parlamento c’è una presenza fortissima delle chiese pentecostali, che sono fautrici di una politica ultraconservatrice. E ciò favorisce un clima repressivo, violazioni dei diritti e violenza diffusa». Il Brasile è il quinto paese al mondo per femminicidi, e si calcola che più del 50% delle donne tra i 14 e i 50 anni abbiano sofferto una qualche forma di violenza. Il primo passo per cambiare questo stato di cose è «investire nella formazione, come insegnava Paulo Freire: l’oppresso ha bisogno di riconoscersi come tale per riuscire a liberarsi», spiega Adriano Leitão, responsabile dei progetti sociali della Caritas di Crateús, che come suor Erbenia fa parte della fraternità mista in cui vivono insieme suore, preti e laici. «Per affrancare le donne dalla violenza occorre renderle libere su un piano pratico, autonome dal punto di vista professionale ed economico». Ed è quanto fa la Caritas nel Nord Est brasiliano insieme ad altre associazioni, come Cisv e WeWorld.

Puntare sui giovani

La Caritas, che secondo le parole di papa Francesco è «la carezza della Chiesa ai poveri», nello stato del Ceará è organizzata in 800 comunità ecclesiali di base che condividono la lettura critica della realtà volta a emancipare la persona, attraverso un’educazione contestualizzata, cioè adattata al contesto in cui vive. «Nel nostro territorio i figli e le figlie delle famiglie contadine sono tradizionalmente i più esclusi dall’istruzione. Perciò una quindicina d’anni fa abbiamo occupato un terreno per fondarvi una scuola, così da poter offrire loro una formazione di qualità sulle tecniche agroecologiche, alla luce delle specificità ambientali e sociali del territorio semiarido brasiliano», spiega suor Erbenia. La scuola accoglie ogni anno oltre 100 ragazzi e ragazze che, secondo la pedagogia dell’alternanza, per 15 giorni al mese seguono le lezioni teoriche e pratiche (sull’agricoltura, sul commercio solidale ma anche sulla gestione dei conflitti), mentre negli altri 15 giorni vanno a casa ad applicare negli orti familiari ciò che hanno appreso. I giovani che escono dalla scuola di agroecologia sono poi aiutati a trovare un primo impiego e in seguito, sempre in una logica di alternanza, spinti a frequentare l’università.

Negli anni la Caritas di Crateús, che conta oggi circa 70 membri, ha creato 126 scuole e formato 17.000 studenti, che hanno potuto «imparare il rispetto della terra e la produzione di cibi sani, senza fare ricorso ai pesticidi o a pratiche tradizionali di incendio dei terreni, e impiegando tecnologie idonee per l’immagazzinamento dell’acqua. Tutto questo nella prospettiva del Bem viver (vedi sotto) e grazie all’opera gratuita di oltre 1.500 insegnanti, uomini e donne impegnati a titolo volontario». Erbenia non usa molto la parola provvidenza, ma ogni suo discorso trasmette piena fiducia e positività per il futuro.

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Il business della siccità

La maggior parte dei giovani che oggi beneficiano della formazione Caritas provengono da 2.600 famiglie di pescatori o pescatrici d’acqua dolce, che nel Ceará rappresentano i più poveri tra i poveri, isolati e ignorati dalle istituzioni. «La Caritas di Crateús, insieme al Cpp, Consiglio pastorale della pesca, e all’Ong Cisv, grazie a un progetto cofinanziato dall’Unione europea, lavora con queste famiglie alle prese con un’aridità cronica, aggravata dal fatto che qui non piove ormai da 6-7 anni».

Il problema non è solo ambientale ma politico, come ci spiega Adriano: «Il semiarido brasiliano è quello, tra tutti i semiaridi, in cui piove di più al mondo, quindi il problema non è solo la siccità ma la privatizzazione dell’acqua e l’assenza di politiche pubbliche». La siccità anzi per molti è un business: «Le imprese legate al governo producono cisterne per l’acqua in plastica, che costano attorno ai 5.000 reais (circa 1.300 euro), mentre noi le costruiamo in cemento, materiale più ecologico ed economico, che riduce i costi di un terzo».

La mancanza cronica di acqua e di pesci attenta alle risorse vitali delle numerose famiglie rurali, che vivono tradizionalmente di pesca. «Noi cerchiamo di creare opportunità alternative di reddito e spingere il governo a farsi carico del problema, perché la legge vieta, di fatto, a pescatori e pescatrici di integrare le loro entrate con altre attività produttive», spiega suor Erbenia. Anche qui, «le più discriminate sono le donne: a loro non è riconosciuto lo status professionale di pescatrici, perché vengono considerate semplici “accompagnatrici” dei mariti e “aiutanti” dei pescatori, quindi escluse dagli scarsi sussidi previsti per le aree depresse». Il Ceará è uno degli stati brasiliani dove è più radicata la cultura machista, «un modo di pensare che non è peculiare del maschio, ma impregna anche le donne, minando alla radice la loro autostima e la fiducia nelle proprie possibilità». Resta allora fondamentale intervenire con la (in)formazione, che permette di de-costruire i modi di essere dominanti e costruirne di nuovi. «Ma soprattutto all’inizio è stata dura mettere queste donne intorno a un tavolo per ragionare insieme sulla loro condizione e sulle alternative possibili. Gli uomini non volevano che partecipassero agli incontri e li sabotavano. Una donna ci ha raccontato che, quando il marito usciva di casa, la legava per i capelli al soffitto per impedirle di allontanarsi. Adesso, grazie al nostro lavoro di sensibilizzazione, alcuni uomini hanno iniziato ad aprirsi e spingono le mogli, che non si sentono all’altezza, a frequentare il centro».

Pescatori su un laghetto nei dintorni di Crateús

La salvezza è donna

Come ci spiega Erbenia, il lavoro di empowerment delle donne si ricollega a una lettura della Bibbia in chiave «femminista» (vedi box) ispirata alle posizioni del Centro Ecumenico di Studi Biblici, in particolare alla teologia del Pés no chão, piedi per terra, che trae spunto dai lavori di Leonardo Boff e Ivone Gebara. Attraverso alcune figure chiave dell’Antico e del Nuovo Testamento – le ostetriche che disubbidiscono all’ordine di uccidere i neonati maschi; la sorella di Mosè che guida il passaggio dalla schiavitù d’Egitto alla terra promessa; Elisabetta che genera vita anche in tarda età; Maria che spinge Gesù al primo miracolo di Canaan – emerge il ruolo fondamentale della donna nella storia della salvezza. «L’atteggiamento di Gesù è sempre stato quello di domandare, piuttosto che insegnare. Sono state le donne da lui incontrate che, in vari modi, gli hanno mostrato come approcciarsi alla realtà, mettendo al centro la persona e il valore della vita». Una prospettiva non banale, in una cultura come quella brasiliana permeata di maschilismo e misoginia.

La teologia della liberazione e le pratiche sociali a essa connesse non sempre hanno incontrato i favori del Vaticano. Gli stessi vescovi brasiliani in passato si sono spesso schierati contro di essa. Ma oggi le cose stanno cambiando e nuove speranze per l’umanità, ci dice Erbenia, provengono dall’attuale pontefice che ha rappresentato una svolta rispetto al conservatorismo dei suoi predecessori: «Al di là delle dichiarazioni e degli scritti, è soprattutto il suo atteggiamento umano che stimola al cambiamento reale, nel segno di una Chiesa aperta dove il Verbo si fa carne». E del resto, conclude la suora con un sorriso, «non è un caso se papa Francesco ha vissuto molto tempo in America Latina».

Stefania Garini

suor Francisca Erbenia de Sousa su uno dei laghetti attorno a Crateús


La filosofia del Bem Viver

Anche oggi si può essere felici

Prendersi cura di chi si prende cura, occupandosi della terra e proteggendo la biodiversità. Non è possibile stare bene senza una dimensione comunitaria, senza un legame con l’ambiente.

«In Brasile siamo figli e figlie di un ventre violato, siamo discendenti di indigeni, africani, europei; un incrocio di popoli nato dalla violenza della colonizzazione». A questa violenza originaria, dice suor Francisca Erbenia de Sousa, responsabile della Caritas diocesana di Crateús, risale la dicotomia che permea la storia recente del Brasile, tra avere ed essere: «Abbiamo ereditato una malattia dello spirito, pensando di poterci realizzare solo se “abbiamo”. Siamo impregnati di consumismo e siamo schiavi di questo modello, schiavi dei cellulari, dei vestiti, pronti a tutto per ottenerli: a indebitarci, a rubare, a compiere violenze finendo ai margini della società. “Abbiamo”, ma siamo infelici, il nostro è tra i paesi con il più alto tasso di suicidi al mondo, soprattutto di giovani». Per superare questo modello distruttivo, molte iniziative della Caritas di Crateús si ispirano al concetto del Bem viver.

Sviluppato da Euclides André Mances, fondatore dell’Istituto di Filosofia della liberazione, il Bem viver «consiste nell’esercizio umano di disporre dei mezzi materiali, politici, educativi e informativi per soddisfare eticamente le necessità biologiche e culturali di ciascuno, ma anche per garantire eticamente la realizzazione di tutto quanto possa essere concepito e desiderato per la libertà personale senza negare la libertà pubblica». In opposizione all’appropriazione di conoscenze, ricchezze e accumulo – con lo scopo più o meno consapevole di dominare (l’altro, il tempo, la natura…) – il Bem viver si prende cura della Madre Terra e dei suoi ritmi: «Proteggo, coltivo e mi prendo cura di un ambiente dove la vita ha le proprie leggi e il proprio tempo», nota Erbenia. In questa prospettiva una dimensione importante è quella del cuidade curanderos, il «prendersi cura di chi si prende cura», ad esempio avendo riguardo per la terra, rispettandone la biodiversità, evitando di avvelenarla con pesticidi, prendendo da essa il necessario per vivere e non di più. Questo atteggiamento di curatori e protettori del Creato ci rende a immagine e somiglianza di Dio, ed è il percorso – indicato anche da papa Francesco nell’enciclica Laudato Si’ – che ci permette di superare il cancro del consumismo».

Esiste un forte legame tra il Bem viver di ciascuno e quello di tutti, in una prospettiva di promozione della libertà che si muove su un piano insieme concreto e utopico, e si riconnette alle parole di Gesù: «Sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10, 1-21). Come spiega suor Erbenia, «stare bene non può essere un fatto solo personale: non è possibile stare bene senza la dimensione comunitaria e senza un legame con la terra, senza che stiano bene la natura e chi la abita. È qualcosa che a Crateùs cerchiamo di realizzare anche simbolicamente attraverso la ciranda, una danza che si fa tutti assieme, in cerchio, cercando ognuno di rispettare i passi dell’altro e lasciando il giusto spazio per ciascuno. Il nostro sogno è espandere questo girotondo, per allargare il cerchio delle possibilità a sempre più persone e costruire una diversa realtà».

S.G.


La lettura femminista della Bibbia

Chi decide la storia

Le figure femminili nell’Antico e nel Nuovo Testamento hanno spesso un ruolo pedagogico e salvifico. Queste figure sono fondamentali per la vita.

Il Centro ecumenico di studi biblici segue una corrente della teologia della liberazione che valorizza il ruolo spirituale e salvifico della donna. Come spiega suor Francisca Erbenia de Sousa, si possono leggere in tal senso alcune figure femminili della Bibbia che «pur restando spesso senza nome, hanno avuto un ruolo pedagogico rispetto ai protagonisti maschili della storia della salvezza». Come le ostetriche egizie del libro dell’Esodo che, rifiutandosi di ubbidire al re e uccidere i neonati maschi ebrei, riescono a salvarli evitando uno scontro diretto contro il potere e ricorrendo a un abile stratagemma, dichiarando di non esser arrivate in tempo perché le madri avevano partorito troppo in fretta: «Le donne ebree non sono come le egiziane, sono piene di vitalità. Prima che giunga da loro la levatrice, hanno già partorito» (Es 1, 8-22). O come Miriam, la sorella di Mosè, che ha un ruolo significativo e guida le donne israelite nella danza e nei canti per festeggiare la liberazione dalla schiavitù quando le acque del Mar Rosso si chiudono sulle truppe egiziane (Es 15, 20-21). «Episodi come questi mostrano che chi decide la storia sono le figure femminili, che aiutano la vita: a nascere, a crescere, a sfuggire ai pericoli».

Emblematico è poi l’incontro tra Maria ed Elisabetta, che segna il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento (Lc 1, 39-45). «Elisabetta esprime la saggezza della donna che genera vita pur essendo avanti con gli anni, e accoglie una donna più giovane di lei in cui inizia ad affacciarsi la vita. È Maria qui a essere “accolta”, perché è in fuga dopo la scoperta di essere rimasta incinta. Le due donne rappresentano un Dio che si rivela tanto nella gioventù come nella vecchiaia». Analogamente, Giovanni Battista e Gesù rappresentano due modelli di umanità: il primo ha una relazione forte con la natura, vive nel e del deserto, per disintossicarsi dalle convenzioni sociali; Gesù invece ha una particolare sensibilità verso gli esseri umani, è più «prossimo» alle persone, più accogliente.

Nel Nuovo Testamento la Madonna spinge il figlio, ancora riluttante, a compiere il suo primo miracolo, insegnandogli che «bisogna agire quando è necessario» (Gv 2, 1-11). Mentre l’emorroissa che si fa strada tra la folla per toccargli un lembo del mantello gli insegna che la legge dev’essere al servizio della vita, e non viceversa (Lc 8, 40-48). «L’emorroissa è una donna impura per le perdite di sangue, non può avere contatti fisici con le altre persone, e il fatto di farsi strada in mezzo a molta gente la pone a rischio della sua stessa vita; ma il dolore e le discriminazioni le hanno insegnato ad alzare la testa, e Gesù non rimane insensibile a queste sofferenze».

Infine l’episodio dell’adultera che, in base alle leggi vigenti, deve essere lapidata (Gv 8, 1-11). «L’aspetto interessante qui è il gesto di Gesù che si china per terra, come a condividere con il suo corpo il movimento verso il basso, assumendo la sofferenza della donna e dando la propria vita in sua difesa. In questo modo è lasciata agli accusatori la responsabilità della decisione, mentre all’adultera – e a Gesù – non resta che riprendere in mano la propria vita».

S.G.

suor Francisca Erbenia de Sousa a Crateús




Questo Brasile non è un buon esempio

di Paolo Moiola |


Esaltato o vituperato, anche in Brasile si è chiuso il Carnevale 2018. Assieme al calcio, esso rappresenta la religione laica del paese. È una festa collettiva che esalta la voglia di vivere e divertirsi dei brasiliani, soprattutto di quelli delle classi più popolari. Ma il Carnevale è anche una rappresentazione tangibile di quello che gli antichi definivano «panem et circenses». Il Brasile vive infatti un periodo storico tra i più travagliati e pericolosi della sua storia recente. Il paese del futuro, del miracolo economico stenta a uscire da una recessione durata due anni (2015-2016).

Accanto alle problematiche economiche ci sono poi quelle della violenza, della corruzione e di una crisi politica che pare interminabile. Questioni ancora più difficili da risolvere perché non legate a cicli storici (com’è per l’economia), ma connaturate nel Dna del paese.

Sulla violenza è sufficiente una cifra: 786.870 persone sono state assassinate in Brasile tra gennaio del 2001 e dicembre del 2015, secondo dati ufficiali del ministero della Salute. In pratica, un omicidio ogni 10 minuti («A guerra do Brasil», O Globo).

Quanto alla crisi politica, essa è legata a doppio filo al cancro della corruzione, diffusa a ogni livello istituzionale ed economico. L’elenco è lungo: Mensalão (compravendita di voti parlamentari), Lava Jato (corruzione centrata su Petrobras, il gigante petrolifero nazionale), Carne Fraca (vendita di carne avariata da parte dei maggiori produttori ed esportatori brasiliani) e, da ultimo, la corruzione più grande, ramificata e internazionale di tutte, quello scandalo Odebrecht (la prima impresa di costruzioni del paese), che ha messo in guai seri anche i governi di molti paesi latinoamericani.

L’attuale presidente brasiliano Michel Temer, subentrato a Dilma Rousseff dopo un golpe parlamentare (agosto 2016), è finora riuscito a evitare di essere processato per varie accuse di corruzione.

Nel frattempo, lo scorso 24 gennaio 2018, un tribunale di Porto Alegre ha condannato in secondo grado l’ex presidente Lula (che ben governò il Brasile dal 2003 al 2010) a 12 anni e un mese di reclusione per corruzione. Le prove a carico del fondatore del Partito dei lavoratori (Pt) sono meramente indiziarie. Lula è nettamente in testa a tutti i sondaggi per le elezioni presidenziali dell’ottobre 2018. Ma non è affatto sicuro che potrà candidarsi.

Paolo Moiola




Brasile: La lotta per la terra


Pur essendoci una enorme disponibilità di terreni coltivabili, in Brasile la terra è un privilegio riservato a pochi. Mentre quattro milioni di famiglie senza terra («sem terra») debbono lottare per la sopravvivenza quotidiana, i latifondisti – grandi sostenitori del governo golpista di Temer – sono oggi più spregiudicati che mai. Secondo l’annuale rapporto della «Commissione pastorale della terra» (Cpt), nel 2016 i conflitti rurali sono stati 1.079. Ecco perché in Brasile, il paese più violento al mondo, per la terra si uccide e si muore.

Colniza, cittadina del Mato Grosso, 19 aprile 2017. Quattro pistoleri, assoldati da un impresario del legno (madeireiro), uccidono 9 contadini tra i 23 e i 57 anni che si erano insediati su un’area in disputa. Vari corpi vengono trovati legati e due con la gola tagliata: la perizia stabilirà che le vittime sono anche state torturate.

«Questo massacro – scrive il 21 aprile la locale prelatura di São Félix do Araguaia (guidata da dom Adriano Ciocca Vasino e dom Pedro Casaldáliga, vescovo emerito) – accade in un momento storico di usurpazione del potere politico attraverso un golpe istituzionale (la destituzione della presidenta Dilma e la sua sostituzione con Temer, ndr). […] Viviamo in una situazione di “terra senza legge”, una vera guerra civile nel nostro paese».

Pau d’Arco, cittadina del Pará, maggio 2017. Fazenda Santa Lúcia, 5.694 ettari di terra di proprietà della famiglia Babinski. Dal 2013, su un’area non utilizzata della fazenda, si susseguono varie occupazioni di piccoli gruppi di contadini senza terra (sem terra) e azioni di recupero del possesso da parte del (supposto)1 proprietario (ações de reintegração de posse). Il 24 del mese la situazione precipita. Le forze di polizia – civile e militare, 29 persone in totale -, in combutta con l’impresa di sicurezza della fazenda (la Elmo Segurança Especializada), uccidono 10 contadini sem terra, compresa una donna.

Nel silenzio delle istituzioni, la presa di posizione congiunta di cinque importanti organismi della Chiesa cattolica brasiliana2 è immediata e durissima: «La versione ufficiale degli organi pubblici dello stato – si legge nella nota pubblicata il 31 maggio – è stata che le morti sono avvenute in un confronto armato, in quanto gli agenti di polizia erano stati accolti a fucilate. Questa versione pretende di far credere che il popolo brasiliano sia imbecille e non abbia capacità di discernimento. Com’è possibile che, in un confronto armato, nessuno dei 29 poliziotti coinvolti nell’azione sia stato ferito? Perché la scena del crimine è stata smantellata, con gli stessi poliziotti che hanno trasportato i corpi in città?».

«È evidente – continua la nota – che questa esacerbazione dei conflitti agrari per numero e violenza è collegata alla crisi politica e al prevalere delle forze dell’agroindustria sui poteri dello stato brasiliano».

A parte i due episodi qui raccontati (i più eclatanti a causa del numero delle vittime), nei primi sette mesi del 2017 sono stati assassinati 48 contadini. Secondo Conflitos no campo Brasil 2016, il rapporto della «Commissione pastorale della terra», lo scorso anno nel paese ci sono stati 1.079 conflitti agrari e 61 persone assassinate, 5 al mese.

I conflitti legati alla terra sono una costante del Brasile, paese che, tra l’altro, detiene – con 60.000 omicidi all’anno – il (poco lusinghiero) primato mondiale nella classifica della violenza3.

Brasnorte, MT, Brasil: Área de plantação de soja próxima ao município de Brasnorte, noroeste do Mato Grosso. (Foto: Marcelo Camargo/Agência Brasil)

La concentrazione fondiaria e le terre improduttive

La causa prima della questione agraria in Brasile nasce dal latifondo e dalla concentrazione della terra in pochissime mani.

Basandosi sui dati (prudenziali)4 raccolti da Incra (Instituto Nacional de Colonização e Reforma Agrária) con riferimento al 2010, il 55,8 per cento delle terre disponibili è in mano al 2,5 per cento dei proprietari (i latifondisti). Il restante delle terre si divide tra: il 19,9 per cento in mano a medi proprietari (7% dei proprietari), il 15,5 per cento a piccoli proprietari (26%, pari a circa 1,3 milioni di famiglie) e 8,2% a proprietari di minifondi (64%, circa 3,3 milioni di famiglie). Anche se la definizione di grande, media, piccola e mini non è stabilita dal numero di ettari, ma dai cosiddetti moduli (unità di misura variabili che tengono conto di vari parametri)5, è evidente che la maggior parte dei proprietari di piccoli fondi o di minifondi hanno vita dura, spesso ai limiti della sopravvivenza. Al fondo di questa scala della diseguaglianza, ci sono circa 4 milioni di famiglie contadine, corrispondenti a 20 milioni di persone, che non hanno accesso alla terra: sono i cosiddetti sem terra. In questo quadro fondiario s’inserisce un altro dato essenziale, quello delle terre improduttive: il 72 per cento dei latifondi – pari a 2,3 milioni di chilometri quadrati – è considerato tale.

Delle terre improduttive si è occupata la Costituzione del 1988 – negli articoli 184 e 185 -, prevedendo la loro espropriazione per interesse sociale e per i fini della riforma agraria.

 

La riforma agraria e l’Incra

L’Incra, nata nel 1970, è l’organismo federale che ha il compito di attuare la riforma agraria. Come?

Stando alla prima delle sue cinque direttive strategiche, essa dovrebbe promuovere la democratizzazione dell’accesso alla terra attraverso la creazione di insediamenti rurali sostenibili e la regolarizzazione delle terre pubbliche; la sua azione dovrebbe inoltre contribuire allo sviluppo sostenibile, alla riduzione della concentrazione della struttura fondiaria e alla riduzione della violenza e della povertà nelle campagne.

Se facciamo riferimento ai numeri da esso divulgati, l’istituto avrebbe beneficiato con un lotto di terra quasi un milione di famiglie brasiliane, per l’esattezza 977.039. Non è dato tuttavia sapere quante di esse siano ancora sulla terra assegnata e quante l’abbiano abbandonata o venduta.

«So – racconta fratel Carlo Zacquini da Boa Vista – di molti terreni abbandonati perché gli agricoltori non potevano viverci; non avevano la possibilità di vendere i loro prodotti, o non avevano accesso ad assistenza medica. Insomma, dovevano scegliere tra la terra e la vita».

Si calcola che un 12% dei lotti assegnati tornino all’Incra. Gli esperti spiegano che il problema dell’abbandono dipende dalla mancanza di una politica agricola (ad esempio, incentivi per produrre) e di infrastrutture negli insediamenti rurali.

In ogni caso, in Brasile la questione agraria rimane più viva che mai. Anzi, in questi ultimi venti anni si è aggravata per l’entrata in scena di una nuova, potente variabile: l’agronegócio.

I costi sociali e ambientali dell’agrobusiness

Dagli anni 2000 il panorama agricolo brasiliano è radicalmente mutato: alle tradizionali monocolture di canna da zucchero, caffè e cotone si sono aggiunte le grandi monocolture industriali – piantagioni di soia, coltivazioni per biocombustibili (sia biodiesel che etanolo), miglio, foreste coltivate a eucalipto e pino – e l’allevamento estensivo, bovino e avicolo. L’agronegócio (agrobusiness, in inglese) vale oggi il 23% del Prodotto interno lordo del Brasile. È l’unico settore produttivo che, in questi anni di grave crisi economica per il paese, ha continuato a crescere.?Anche nel 2017, nonostante lo scandalo della carne adulterata6.

Detto del suo peso e della sua importanza in ambito economico, occorre enumerare le conseguenze negative che l’agrobusiness comporta: accaparramento delle terre e conseguente incremento della loro concentrazione; inquinamento ambientale da utilizzo intensivo di agrotossici; devastazione ambientale causata dalla deforestazione e dalla perdita di biodiversità; riduzione della forza lavoro agricola e sfruttamento di quella impiegata; emarginazione e morte dell’agricoltura familiare. A ben guardare, dunque, i benefici economici dell’agrobusiness sono di gran lunga superati dai costi sociali e ambientali che lo stesso comporta.

Come ha ricordato la Conferenza dei vescovi brasiliani in un documento del 2014 sulla questione agraria, il predominio politico e ideologico dell’agrobusiness ha trasformato la terra in una merce qualunque, in palese contrasto con la funzione sociale e ambientale stabilita dalle norme costituzionali del 1988.

Il Movimento dei sem terra, la Chiesa, le occupazioni

Qualche anno prima dell’88, nel gennaio del 1984, a Cascavel, nello stato del Paraná, era nato il Movimento dei sem terra (Mst), un’organizzazione contadina che in poco tempo sarebbe diventata una protagonista della storia brasiliana. Già nel suo primo congresso, celebrato nel gennaio del 1985, il Movimento adotta il principio dell’«occupazione della terra come forma di lotta» (a ocupação de terra como forma de luta).

«I latifondisti – scrivono le autrici del libro La lunga marcia dei senza terra – definiscono le occupazioni di terre “invasioni”, un attentato al sacro diritto di proprietà garantito dalla Costituzione, e lo dicono senza pudore, come se le loro sterminate proprietà non fossero il frutto dell’invasione di terre indigene, del furto di terre pubbliche e del grilagem ai danni di piccoli proprietari e posseiros. […] L’occupazione, evidenziano [i senza terra], è in perfetto accordo con la Costituzione, la quale stabilisce che tutte le proprietà improduttive devono essere espropriate»7.

Il Movimento dei sem terra ha trovato un modus vivendi anche con la Chiesa cattolica brasiliana, come racconta bene La lunga marcia dei senza terra: «Se, negli anni Sessanta, la Chiesa cattolica aveva sostanzialmente appoggiato la dittatura militare, l’orientamento, grazie allo sviluppo della teologia della liberazione, era in seguito cambiato, traducendosi nella nascita della Cpt e nella formazione di una schiera di vescovi progressisti. Così, [sottolinea João Pedro Stédile, leader dei sem terra] “se in precedenza la linea della Chiesa era stata: “Non preoccuparti, avrai la tua terra in paradiso”, il nuovo indirizzo diventa: “Considerando che hai già la terra in paradiso, lottiamo perché tu l’abbia anche qui”»8.

Assai meno comprensivi della Chiesa cattolica sono i media, in particolare Rede Globo, la prima rete televisiva del paese, e Veja, il principale settimanale brasiliano. Questi non perdono occasione per attaccare frontalmente l’Mst, accusato di ogni cosa, finanche di terrorismo.

Il Movimento però non arretra. Anzi, nell’attuale clima di grave crisi politica, economica e morale, da luglio 2017 esso ha accentuato le occupazioni. Al grido di «Corrotti, ridateci le nostre terre», gruppi di senza terra hanno occupato fazendas di persone importanti. O di politici. Come una fazenda di Rondonópolis, nel Mato Grosso, appartenente al gruppo Amaggi, impresa della famiglia del ministro dell’agricoltura Blairo Maggi, fazendeiro, uno dei più grandi produttori mondiali di soia (e uomo simbolo in tema di conflitto d’interessi).

Se il danno patrimoniale conta di più

Sotto il governo di Temer (persona indagata per corruzione, ma disposta a qualsiasi concessione alle lobbies parlamentari pur di rimanere in sella)9 la situazione sociale nel paese si è aggravata.

«La criminalizzazione e la destrutturazione di Incra e Funai (l’organismo che si occupa delle terre indigene, ndr) – si legge in un recente rapporto del Comitato brasiliano dei difensori dei diritti umani – sono utili per il proposito della bancada ruralista del Congresso nazionale di farla finita con le politiche agrarie che riguardano le lavoratrici e i lavoratori rurali sem terra, gli indigeni, i quilombolas10 e i restanti popoli della campagna, della foresta e delle acque»11.

Che il clima sia pesante per i diritti delle frange più deboli della popolazione lo si capisce anche dalla cronaca quotidiana. Lo scorso 9 agosto, a Belém, capoluogo del Pará, un giudice ha stabilito l’immediata liberazione degli 11 poliziotti militari e dei 2 poliziotti civili che erano stati incarcerati per il massacro del 24 maggio a Pau d’Arco, nel Sud dello stato, in cui erano rimasti uccisi 10 contadini (e di cui abbiamo parlato all’inizio).

Una decisione probabilmente avventata e incomprensibile, ma legittima, presa da un organo autonomo dello stato. Tuttavia, si fa notare, che i 22 contadini accusati di aver assaltato il 28 ottobre 2016 la Fazenda Serra Norte, a Eldorado dos Carajás (sempre nel Pará)12, sono ancora in carcere.

Davanti a questi fatti, si arriva alla conclusione che, nel Brasile del 2017, un danno patrimoniale è più grave di un omicidio. O almeno è così se la morte riguarda dei sem terra.

Paolo Moiola

Colniza, MT, Brasil: Área degradada no município de Colniza, noroeste do Mato Grosso. (Foto: Marcelo Camargo/Agência Brasil)

Note

  • (1) Sulla fazenda in questione circolano voci di grilagem. Con tale termine si definisce l’occupazione di terre a partire da una frode e da una falsificazione di titoli di proprietà.
  • (2) Comissão Pastoral da Terra (Cpt), Conselho Pastoral dos Pescadores (Cpp), Serviço Pastoral do Migrante (Spm), Cáritas Brasileira, Conselho Indigenista Missionário (Cimi).
  • (3) Fonte: Ipea-Fbsp, Atlas da violência 2017, Rio de Janeiro, giugno 2017.
  • (4) La classificazione di Incra è stata fatta con i dati dichiarati dai proprietari.
  • (5) Un modulo è un’unità di misura, espressa in ettari, che tiene conto non soltanto dell’estensione, ma anche delle condizioni geografiche e ambientali che caratterizzano quella proprietà rurale. Un modulo può quindi variare da regione a regione e da municipio a municipio. Per esempio, un modulo dell’Amazzonia ha una dimensione diversa da quella delle regioni del Nordest o del Sud. Per approfondire la (complessa) tematica si consulti il sito di Incra.
  • (6) Si tratta dello scandalo carne fraca («carne debole»). Riguarda l’esportazione di carne – sia di bovino che di pollo – adulterata con prodotti chimici. Ha coinvolto anche i giganti brasiliani del settore: JBS e BRF.
  • (7) In Claudia Fanti – Serena Romagnoli – Marinella Correggia, La lunga marcia dei senza terra, pag. 47.
  • (8) Ibidem, pag. 25.
  • (9) Pur coinvolto in uno scandalo di corruzione, il presidente golpista Michel Temer è stato salvato dal voto della maggioranza del Congresso nazionale (2 agosto). Un salvataggio che lo pone ancora più in balia dei gruppi parlamentari che lo sostengono. Ultimo dazio pagato è il decreto presidenziale che estingue la riserva amazzonica Renca, aprendo quel territorio incontaminato alle mire delle compagnie estrattive (23 agosto).
  • (10) Sono comunità etniche – quasi sempre costituite da popolazione nera – con tradizioni e pratiche culturali proprie. Si stima che nel paese siano oltre 3.000.
  • (11) In Vidas en luta, rapporto del «Comitê Brasileiro de Defensoras e Defensores de Direitos Humanos», 2017, pag. 20.
  • (12) Eldorado dos Carajás è la località tristemente famosa per il massacro di 19 sem terra, avvenuto il 17 aprile del 1996, a opera della polizia militare dello stato del Pará.

 

Bibliografia

  • Claudia Fanti – Serena Romagnoli – Marinella Correggia, La lunga marcia dei senza terra, Emi, Bologna 2014;
  • Conferência Nacional dos Bispos do Brasil (Cnbb), A Igreja e a questão agrária brasileira no início do séc XXI, 2014;
  • Comissão Pastoral da Terra, Conflitos no campo 2016, maggio 2017;
  • Comitê Brasileiro de Defensoras e Defensores de Direitos Humanos, Vidas em luta: criminalização e violência contra defensoras e defensores de direitos humanos no Brasil, 2017;
  • R.S.Caldart – I.B.Pereira – P.Alentejano – G.Frigotto (curatori), Dicionário da Educação do Campo, Rio de Janeiro – São Paulo 2012.

Siti web


Popoli indigeni e sem terra

Evitare una guerra tra poveri e defraudati

Colniza, MT, Brasil: Toras de madeira em pátio de serraria próximas ao município de Colniza, noroeste do Mato Grosso. (Foto: Marcelo Camargo/Agência Brasil)

La questione della terra riguarda sia i contadini che i popoli indigeni. Con differenze sostanziali.

Quali relazioni esistono tra la terra dei popoli indigeni e la terra reclamata dai sem terra? Sono soggetti in contrasto per uno stesso obiettivo? Un articolo pubblicato sul sito del Mst (25 aprile 2017) si concludeva così: «La alleanza tra sem terra e popoli indigeni è cruciale per affrontare il capitalismo e per combattere l’agrobusiness».

Al di là di una teorica alleanza (comunque non così scontata), ci sono situazioni che non possono non produrre contrasti, anche gravi: come comportarsi quando dei sem terra invadono e occupano un territorio indigeno? E se arrivano dei piccoli allevatori di bestiame? O dei contadini senza terra che si sono trasformati in garimpeiros (cercatori d’oro) o madeireiros (tagliaboschi)?

Detto questo, le differenze tra popoli indigeni e sem terra rispetto alla terra sono sostanziali.

Per l’aspetto socioeconomico e antropologico – I sem terra sono dei contadini che vedono la terra come elemento economico per il sostentamento loro e delle proprie famiglie. Essi praticano un’agricoltura di tipo stanziale. Per i popoli indigeni la terra ha in primis una valenza culturale e religiosa, mentre l’aspetto economico è secondario e anzi l’aggettivo «economico» risulta forzato. All’agricoltura stanziale gli indigeni preferiscono la caccia, la pesca e la raccolta dei frutti della foresta. È vero tuttavia che, dopo alcuni secoli di contatto (quasi sempre disastroso) con i non indigeni, alcuni popoli o singoli individui hanno acquisito abitudini occidentali e abbandonato usanze proprie.

Per l’aspetto giuridico – La politica agricola, quella fondiaria e la riforma agraria sono trattate dagli articoli 184-191 della Costituzione federale del 1988. Tuttavia, per i diritti dei sem terra occorre fare riferimento alla legge ordinaria. Per esempio, alla legge n. 4.504 del 30 novembre del 1964 che organizza la riforma agraria e la politica agraria. Per i popoli indigeni invece la fonte primaria dei loro diritti sulla terra è data dalla stessa Costituzione

del 1988, la prima tra le fonti del diritto. Gli articoli costituzionali 231 e 232 stabiliscono il diritto dei popoli indigeni al possesso permanente delle terre tradizionalmente occupate e all’uso esclusivo delle ricchezze del suolo, dei fiumi e dei laghi che su quella terra si trovano. I popoli indigeni non ne sono però i proprietari e dunque, per esempio, non possono vendere la terra. La proprietà della stessa è del governo brasiliano, il quale si riserva anche il diritto di sfruttarne il sottosuolo. A livello giuridico internazionale, per i popoli indigeni è importante ricordare anche la Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), che il Brasile ha sottoscritto.

Per l’aspetto istituzionale – I sem terra debbono fare riferimento all’«Instituto Nacional de Colonização e Reforma Agrária» (Incra). L’organo federale di riferimento per i popoli indigeni è invece la «Fundação Nacional do Índio» (Funai). Sia Incra che Funai sono oggi sotto attacco da parte del governo e del Congresso nazionale. Un ruolo molto importante riveste, infine, il «Ministério Público Federal» (Mpf), il guardiano della Costituzione del 1988.

Paolo Moiola