(La Chiesa è) Un salone di bellezza


Il missionario prima o poi deve partire. E lasciare così la sua gente. Ma si porterà nel cuore mille storie. Padre Sandro è appena rientrato dal Mozambico, dove ha costruito una chiesa e, soprattutto, una comunità. Lo abbiamo incontrato.

Padre Sandro Faedi cammina veloce. Parla veloce. Agisce. È un uomo operativo, oltre che di grande intelletto. Ma è anche un organizzatore nato. Missionario della Consolata dal 1967, è tornato in missione in Mozambico nel 2013 dopo una prima esperienza tra il 1998 e il 2008. Prima ancora era stato missionario in Venezuela dal ‘74 al ‘98.

Negli ultimi quattro anni della sua presenza nel Paese lusofono ha lavorato a Tete, capoluogo dell’omonima provincia, nel Nord Ovest, con il vescovo, monsignor Diamantino Guapo Antunes, anch’egli missionario della Consolata.

Tete è una città di 450mila abitanti, fondata dai portoghesi nel XVIII secolo a ridosso del grande fiume Zambesi. All’inizio degli anni duemila fu scoperta una miniera di carbone a Moatize, a circa 20 chilometri. Da allora aspiranti minatori sono arrivati dalla provincia e da tutto il Mozambico, per lavorarci.

La chiesa in cosruzione

Un nuovo quartiere

La parte destra del fiume che era pietrosa e, in parte, selva, è stata occupata dai nuovi arrivati dove è cresciuto un quartiere che conta oggi 150mila abitanti, e continua a espandersi.

Diverse imprese multinazionali stanno sfruttando il carbone della miniera. Inizialmente sono state Rio Tinto, Vale, adesso è Vindal, un consorzio indiano. Intanto, il prezzo del carbone è sceso e, inoltre, la qualità del sito non è quella sperata.

Dalla miniera, i treni portano il materiale al porto di Beira, e da qui, via nave, raggiunge l’India, dove è usato in prevalenza nelle acciaierie.

«Intorno al 2010 c’è stato un boom di arrivi – ci dice padre Sandro che incontriamo nella Casa madre dei Missionari della Consolata – seguito poi da una diminuzione. Molti avevano iniziato a lavorare e si erano costruiti una casetta di mattoni. Poi sono rimasti senza lavoro.

In questa vasta area c’era una parrocchia dedicata ai Martiri d’Uganda, e tenuta dai missionari Comboniani. Questi avevano costruito varie cappelle nel quartiere. Una, in particolare, era intitolata a san Daniele Comboni. Ogni tanto i padri celebravano messa in queste cappelle interne».

Ricorda padre Sandro: «Monsignor Diamantino ha avuto l’idea di farne una parrocchia e ha chiesto a me di seguirne la fondazione.

Ho subito pensato che la zona fosse a mia misura perché sono vecchio, e non si tratta di quelle parrocchie africane disperse su territori enormi. È concentrata, ha circa 50mila abitanti, una casa a ridosso dell’altra, in una zona pietrosa. Questo, tra l’altro, rende problematico lo scolo dell’acqua. Si trattava di un quartiere piuttosto povero e avrei dovuto aiutare a costruire la comunità».

«Padre, facciamo la chiesa»

Padre Sandro prende in mano la parrocchia proprio quando inizia la pandemia da coronavirus. La comunità aveva a disposizione solo una piccola cappella, venti metri per dieci.

«La domenica la cappella si riempiva. Poi si è sparsa la voce della presenza di un prete, e arrivava sempre più gente. Allora abbiamo iniziato a celebrare la messa sotto un grande baobab. Intanto le scuole erano chiuse e io ho approfittato per visitare tutte le famiglie. Con due animatori, armati di mascherina, andavamo casa per casa. Sono piccole abitazioni, la gente vive fuori: la fontana è all’esterno, così come la cucina. Mi sono fatto conoscere».

«La gente ha cominciato a dire: “Padre cosa facciamo? Non ci stiamo in questa chiesa. Quando finisce il coronavirus facciamo una chiesa nuova”. Intanto, dentro la cappella pioveva.

Abbiamo fatto il disegno, con il vescovo. Io volevo una chiesa rotonda, senza colonne nel mezzo, per vedere la gente, e affinché loro vedessero il celebrante. Doveva essere capiente, almeno per cinque o seicento persone».

Dopo quasi due anni di lavoro, la nuova chiesa, una costruzione di 1.100 metri quadrati, rotonda con un diametro di 38 metri, era pronta. E al suo interno stavano comodamente 850 sedie di plastica.

la chiesa piena di fedeli durante un giorno di festa.

Una grande partecipazione

Il missionario ci spiega come ha finanziato l’opera. «Iniziai a dire alla gente: “Di chi è la chiesa? Di padre Sandro, che poi, quando partirà, prenderà mattone su mattone e se la porta via?”. Rispondevano: “No padre non è così”. Allora abbiamo creato alcune commissioni, e abbiamo deciso che ogni famiglia si tassasse con 500 meticais al mese (circa 7,5 euro all’epoca, ndr). Chi poteva li dava, chi poteva darne di più meglio. Ogni mese raccoglievamo».

Padre Sandro diceva ai suoi parrocchiani: «Così domani potrete dire ai vostri figli: la chiesa l’ho fatta io, perché ogni mese ho contribuito».

I soldi raccolti non sono bastati a pagare la costruzione, anche se contribuirono quasi al 18%. Gli altri fondi sono stati trovati presso amici, finanziatori vari e la Santa Sede.

«Ho visto pagine molto belle. Persone che, con sacrificio, hanno partecipato.

Appena cominciata la costruzione, arriva una signora anziana, con i piedi e le mani gonfie. Avevo già pensato di darle qualcosa per aiutarla. Invece mi dice: “Anche io vorrei contribuire per la chiesa”, e mi consegna 500 meticais.

Un’altra signora che compiva 80 anni mi dice: “Padre Sandro, i miei figli vivono tutti a Maputo. Mi hanno chiesto che regalo volessi. Datemi i soldi, ho detto loro. Per che cosa? Per la chiesa. 20mila meticais, 300 euro. Il salario minimo mensile sono settemila.

Un altro: “Padre ho risparmiato 40mila per la mia vita, ma chiedo perdono al Signore, e li do alla chiesa”. Tra i ricchi ricordo solo un indiano, che mi ha donato 200 sacchi di cemento. Oltre a tante altre storie, che io non conosco, di persone che hanno dato, con generosità. Così abbiamo fatto la chiesa».

il coro Comboni durante una performance nella nuova chiesa parrocchiale.

Costruire la comunità

«Mentre costruivamo la chiesa in muratura, dovevamo fare la Chiesa delle persone, la cosa più importante».

Padre Sandro è soddisfatto quando racconta di questa esperienza. Parla di una comunità cristiana molto viva. «Ho organizzato la parrocchia in tre grosse comunità. Ognuna di esse costituita da nuclei (gruppi) di famiglie, con un piccolo spazio dove si riuniscono una volta al mese per la vita del gruppo e la catechesi».

I giovani non facevano parte nel nucleo. In esso si riunivano le persone adulte, i genitori. «In parallelo, abbiamo creato il gruppo giovanile, composto di una sessantina di persone, dei quali più di trenta adolescenti. Poi c’è il gruppo degli accoliti. Questi sono i ragazzi dal battesimo ai 22 anni. Si tratta di un cammino di formazione, una vita di gruppo tra di loro».

E ancora: «Poi abbiamo 36 catechisti, ed è prevista una formazione anche per loro».

Altri gruppi della parrocchia sono la Legio Mariae e l’Apostolato della preghiera. «Il primo è un po’ esigente – continua padre Sandro -, vogliono che le coppie siano sposate in chiesa. Perché poi devono essere apostoli. Nel secondo c’è la famiglia allargata: venite come siete. Molte signore e signori».

La messa della domenica dura due ore e mezza, anche tre. Ci sono infatti sempre feste che allungano la funzione. Inoltre, è molto partecipata.

«Perché tre comunità?», chiediamo a padre Sandro. «Sono tre per ragioni di territorio. È più facile, per le persone, ritrovarsi. Ogni comunità ha due donne come animatrici e un animatore, e poi un consiglio. Per tutte le questioni relative ai membri della comunità, sono interpellati loro, che conoscono le persone e il territorio. Se qualcuno si vuole sposare, o battezzare il figlio, il nucleo conosce e valuta la situazione. Così come se c’è qualche necessità particolare, è segnalata al nucleo che, se è il caso, ne parla anche al parroco. Ad esempio, se c’è un malato da visitare».

Nella parrocchia è attiva anche la Caritas, che fa distribuzione di alimenti ogni mese. Il cibo è raccolto dalla stessa gente. I bisognosi sono indicati dal nucleo delle comunità, che li ha visitati a casa, e ha verificato le necessità.

padre Sandro con il vescovo di Tete, monsignor Diamantino Guapo Antunes

Un’organizzazione di persone

Ogni comunità è, dunque, composta da nuclei, e le persone del nucleo fanno capo al responsabile di comunità, che poi riferisce al consiglio parrocchiale. Il sistema pare molto strutturato.

«C’è poi la “vice parroca” – continua padre Sandro -. Io dico la messa, animo, da dietro, ma la macchina va avanti grazie a lei. Questa signora è una vedova, insegnante in pensione, figlia di catechisti. Conosce bene il suo ruolo e il mio ruolo. Lei era già animatrice quando sono arrivato io, poi abbiamo fatto le elezioni due volte, ed è sempre stata rieletta.

Quando ci sono problemi, io sono sempre uno straniero, la lingua la conosco poco. Lei va e cerca di risolvere. Devo dire che in questo quartiere ho trovato persone che avevano già un’esperienza profonda di vita cristiana. E questo è stato fondamentale».

«Ci sono tante attività: le formazioni, poi l’esame dei catecumeni, oppure fanno la maglietta per la tale festa. E non mi chiedono mai un centesimo. A livello economico facciamo la colletta la domenica e la raccolta all’offertorio. Abbiamo due persone incaricate dei soldi. È un sistema molto trasparente, non mi preoccupo».

È un tipo di organizzazione che padre Sandro aveva già visto altrove in Mozambico, ma che funziona solo se ci sono le persone giuste. Lo ha messo in piedi in questa nuova parrocchia.

«Si tratta di una chiesa ministeriale. Ovviamente organizziamo formazioni, ogni mese per i catechisti. È sempre importante formarli, motivarli. Faccio venire persone da altre parrocchie, come quella dei Comboniani, oppure mando i miei parrocchiani a formare i loro».

Inoltre, «Quando viene il vescovo per celebrazioni varie, a pranzo è invitato nella casa di qualcuno. Così conosce le persone. È meglio questo metodo rispetto a fare grandi pranzi in parrocchia. E costa di meno.

Abbiamo fatto anche l’asilo infantile, con 70 bambini. C’è la casa delle suore di San Vincenzo de Paoli, con 120 bambini orfani. Da loro mangiano, fanno i compiti, si lavano. Poi vanno a scuola e la sera a casa».

Faedi padre Sandro

Il missionario deve partire

Padre Sandro ha dovuto lasciare la parrocchia l’anno scorso: «La parrocchia era matura. Lasciarla non è stata la mia volontà, ma quella dei superiori. Ho trascorso quattro anni con quella comunità. Sono partito con molta tristezza. È molto doloroso, perché, per i missionari, andare via dalla missione vuole dire non tornare più. Non sei un funzionario, che fai andare avanti la macchina e quando hai finito vai a casa. La parrocchia è la nostra famiglia, la gente sono i nostri figli e figlie. Con molti di loro continuo a scrivermi».

Oggi il parroco è un sacerdote diocesano. «Ho detto alla gente: guai a voi se dite padre Sandro faceva, padre Sandro diceva. Avete il consiglio parrocchiale, direte: “Padre noi facciamo così ma ci dica lei come la pensa”».

Bisogna sempre avere il dubbio, dice il missionario, «soprattutto quando vai in un paese nuovo, ogni gruppo etnico ha una cultura diversa. Magari tu fai bene per una cultura, ma non per l’altra.

Ad esempio, a Tete la cultura di base è Niungwe, ma una parte sono Chewa che vengono da fuori. Questi ultimi hanno una cultura forte, con un cristianesimo antico e radicato. I loro canti sono bellissimi, mentre quelli niungwe sono più poveri. Ma bisogna fare i canti di tutti i gruppi etnici».

La Chiesa che fa belli

«Cosa ho fatto io a Tete? Il missionario deve promuovere lo sviluppo, annunciare il Vangelo per rendere più felice la vita oggi in attesa di una vita ancora più felice domani. Mi sono preoccupato perché ci fosse il pane per i poveri, un luogo per i bambini orfani. Ma noi perché facciamo la chiesa? Perché la Chiesa fa più belle le persone. Noi in Europa siamo già tutti belli, abbiamo un cristianesimo che da duemila anni ci sta alimentando, è la nostra linfa. Il mondo africano era molto segnato da paganesimo, divisioni e tribalismi. In questo contesto annunciamo il Vangelo che dice: siamo tutti fratelli, dobbiamo fare il bene, dobbiamo essere onesti, santi, preoccuparci per gli altri, quelli che non sono della tua etnia, i tuoi vicini.

Io dico, quando siamo in chiesa, siamo in un salone di bellezza. Con Gesù nel cuore, ogni domenica, la sua Parola ci fa più belli, ci fa migliori. Andiamo a casa, non posso essere il marito arrogante, maltrattare mia moglie. Non posso essere la donna pettegola che va in giro e non fa da mangiare. Neppure il ragazzo disobbediente. Se sono impiegato sarò il migliore impiegato. Il cristianesimo ci fa belli dentro.

Il contributo della Chiesa è fare belle le persone. Domani avremo una società migliore se le persone sono più belle. Cosa è che ci fa soffrire? Quando manca da mangiare? No, quando ci maltrattiamo, quando siamo ingiusti, quando i figli sono ribelli, quando si tradiscono le relazioni. Noi ci ammaliamo per il male che abbiamo, Gesù ci salva dentro. La ricchezza di un Paese non è la ricchezza economica. Non è la ricchezza materiale che ci fa felici, ma è una società di persone coscienti di un dovere civico, che comincia da se stessi.

Il male di fuori viene da dentro. Noi non facciamo il miracolo della prosperità, ma questa è la Chiesa della bellezza. Qui dentro la gente viene per essere più bella. È il brutto che si abbellisce.

Io ho cercato di fare capire questo alla mia gente».

Marco Bello

padre Sandro con due giovani sposi della comunità.




Certosa missionaria. In alto e in profondità


Tra le realtà belle dei Missionari della Consolata in Europa c’è n’è una speciale: la Certosa di Pesio. Un luogo di preghiera nato 850 anni fa e abitato fino al 1802 da monaci certosini. Da quasi novant’anni è parte del patrimonio dei figli del beato Allamano: casa di spiritualità che irradia il Vangelo nel mondo.

Quando l’istituto dei Missionari della Consolata è nato nel 1901, la Certosa di Santa Maria, più nota come Certosa di Pesio, aveva già 728 anni.

Posta a 859 metri di altitudine nell’alta Valle Pesio, sulle Alpi Marittime in provincia di Cuneo, non distante dal confine francese, per diversi secoli era stata il punto di riferimento spirituale e materiale per l’intera valle.

Dal 1802, a causa della soppressione degli ordini monastici da parte di Napoleone, non era più un luogo di preghiera, ed era diventata per alcuni decenni un centro idroterapico, ospitando personaggi come Camillo Benso di Cavour, Giovanni Giolitti, Massimo d’Azeglio, ma cadendo poi gradualmente in disuso.

Quando la sua lunga storia si è intrecciata con quella dei Missionari della Consolata era il 1934: le sue imponenti strutture sviluppate su tre lati del grande chiostro centrale e aperte in direzione della montagna, i 250 metri di porticato con le sue colonne romaniche sul quale si affacciavano le celle dei monaci, le sue due chiese abbaziali, e il resto delle costruzioni sorte dal grande lavoro dei certosini, erano in stato di abbandono.

Oggi è un luogo aperto a tutti che accoglie centinaia di persone per esperienze di silenzio, ricerca di Dio e riscoperta della bellezza dell’annuncio del Vangelo.

Piemonte, Kenya, Mongolia

Incontriamo in videochiamata padre Daniele Giolitti, superiore della comunità Imc della Certosa. È fine aprile: il freddo dell’inverno inizia a mollare la presa, e i colori della primavera, ci dice, si mostrano luminosi.

Classe 1974, alto e snello, barba castana brizzolata, occhiali dall’esile montatura in metallo. Voce calda. Lo sguardo tranquillo e, all’apparenza, un po’ timido. Padre Daniele ha l’aspetto e il modo di fare di un «vero muntagnin» cuneese. Nello schermo lo vediamo vestito con camicia e maglione di pile. Per il resto, lo immaginiamo come tutte le volte che lo abbiamo incontrato: jeans e scarponi.

Padre Daniele è originario di Verzuolo, in provincia di Cuneo. Ha conosciuto i Missionari della Consolata a Torino durante gli studi da ingegnere civile.

Nel ‘98 ha compiuto il suo primo viaggio in Kenya per lavorare alla tesi di laurea sul noto acquedotto di fratel Giuseppe Argese.

Dopo quel viaggio ha fatto il noviziato a Rivoli (To), poi due anni di filosofia a Roma e quattro di teologia a Nairobi. «L’ordinazione diaconale è stata nel 2007 a Wamba – racconta -: una bellissima esperienza con i nomadi samburu nel nord del Kenya».

L’ordinazione sacerdotale nel 2008, proprio alla Certosa di Pesio. «Qui ho ricevuto la destinazione della Mongolia, dove poi sono stato per sei anni. Un’esperienza ricca con l’attuale cardinale Giorgio Marengo.

Poi sono rientrato in Italia, e nel 2014 mi hanno destinato alla Certosa. Sono contento di essere tornato, dopo 12 anni fuori dall’Italia, per un po’ di tempo, alle mie montagne del Piemonte».

La comunità di missionari che abita in Certosa e la tiene viva, oggi è composta da sei confratelli: oltre a padre Daniele, «fratel Gaetano Borgo, nato nel 1939, ha fatto 44 anni in Kenya; padre Lino Tagliani, del 1943, che arriva dalla Colombia; padre Beppe Cravero, del 1956, anche lui dalla Colombia; padre Ermanno Savarino, del 1977, dal Portogallo e, infine, arrivato da poco, fratel Gerardo Secondino, del 1959, che è stato in Mozambico e poi, ultimamente, in Portogallo».

Spalatura della neve dai tetti, febbraio 1972, dopo nevicata eccezionale. Per l’occasione sono venuti anche dal seminario di Torino a dare una mano.

Luogo di ricerca

Quest’anno ricorrono gli 850 anni dalla fondazione della Certosa. Per i Missionari della Consolata, ci dice padre Daniele, è una gioia celebrarli e, allo stesso tempo, una responsabilità che chiede loro un grande lavoro.

«La Certosa di Pesio è uno dei luoghi più insigni del Piemonte e monumento nazionale. Per noi rappresenta anche una parte importante della nostra identità: qui, infatti, si sono formate generazioni di miei confratelli. La Certosa è stata sede del noviziato fino agli anni ‘80. Poi, negli ultimi 30 anni, è diventata una casa di spiritualità aperta a tutti: giovani, famiglie, religiosi.

La nostra missio oggi è quella di ospitare e accogliere persone bisognose, alla ricerca di Dio, del silenzio, della meditazione.

La frenesia e i ritmi accelerati della vita spingono molti a cercare luoghi come questo. Abbiamo bisogno di decelerare e di cercare le cose essenziali della vita, quelle che contano e che riempiono di senso il cuore.

Questo è uno spazio pieno, uno spazio dello spirito nel quale la gente percepisce che c’è Dio».

Gruppo di novizi anni Sessanta

Cemento e cazzuola

La Certosa di Pesio è stata terza tra le molte a essere fondate dai Certosini di san Bruno. «Questo luogo – spiega padre Daniele – è nato nel 1173 da un gruppo di monaci provenienti dalla Gran Certosa di Grenoble.

Posero la prima pietra lungo il fiume Pesio quando la valle era quasi disabitata, e realizzarono il monastero che divenne un polo di vita religiosa, culturale e sociale importantissimo.

Oltre alle strutture proprie della Certosa, il monastero comprendeva anche alcune grange (fattorie legate all’abbazia, ndr) sia in montagna che in pianura. Oggi si potrebbe dire che i monaci hanno trasformato l’ambiente della valle in modo sostenibile.

Dopo la soppressione degli ordini monastici, la Certosa è rimasta vuota, poi è stata trasformata in uno stabilimento idroterapico, infine è stata di nuovo abbandonata. Nel 1934 l’Imc acquistò un edificio fatiscente».

I primi missionari che l’hanno abitata e che hanno iniziato a ristrutturarla sono stati i fratelli Imc. D’estate andavano ad aiutarli anche i seminaristi del liceo, della filosofia e della teologia.

Negli anni ‘41 e ‘42 il governo l’ha sequestrata per ospitare anziani in fuga dalla guerra.

Dopo di che, i lavori di ricostruzione sono ripresi, e il primo anno di noviziato è stato il ‘49.

I Missionari della Consolata, oltre a pregare e studiare, quindi, hanno usato cemento e cazzuola. Padre Daniele sottolinea che quegli stessi missionari, dopo l’esperienza in Certosa, sono poi partiti per i quattro continenti dove hanno costruito scuole, ospedali, acquedotti. «È bello che da questo antico luogo di spiritualità monastica si sia diffusa la missione nel mondo». Poi, tornando alle esigenze pratiche, lancia un piccolo appello: «Ancora oggi, le sfide nella Certosa, non mancano: ora sono in cantiere il progetto di rifacimento delle facciate e il restauro dell’affresco di San Bruno. Per sostenere le spese di gestione abbiamo realizzato, cinque anni fa, una centrale idroelettrica, installando una nuova turbina sull’impianto dell’antico mulino certosino: energia pulita dall’abbon-
dante acqua del Pesio che ci aiuta a coprire una parte delle spese da affrontare. Ma da soli non ce la facciamo: tanti lavori sono stati fatti e verranno fatti solo grazie all’aiuto dei benefattori».

Missionari della Consolata nel 2012 celebrano nell’antica chiesa abbaziale.

Le porte si aprono

Nel settembre 1982, ci dice ancora padre Daniele per concludere l’excursus storico, la Certosa ha smesso di essere sede del noviziato Imc, ed è diventata casa di ospitalità per gruppi parrocchiali, scout, associazioni, anche laiche, campi scuola, ciascuno con il suo programma.

Nel 1995 la direzione generale l’ha destinata in modo più specifico alla spiritualità missionaria. È proseguita, quindi, l’ospitalità per gruppi, ma i missionari hanno iniziato anche a offrire proposte proprie: incontri mensili, ritiri estivi, convegni, esercizi spirituali, settimane bibliche. Allo stesso tempo, però, la Certosa non ha smesso di avere una funzione anche «interna», continuando a essere un luogo nel quale i confratelli di padre Daniele vanno per periodi di riposo e preghiera, proprio nell’ottica del nutrimento fisico e spirituale necessario per annunciare il Vangelo nel mondo.

Certosa «in uscita»

Negli 850 anni della sua storia, a parte la parentesi laica dal 1802 al 1934, la vita della Certosa è stata quasi sempre interna, di clausura. L’apertura data dai missionari della Consolata, soprattutto con l’avvio delle accoglienze, che ha fatto passare l’antico monastero da una dimensione contemplativa a una missionaria e attiva, ci sembra una vera rivoluzione.

«A volte gli opposti si toccano – continua padre Daniele -. Apparentemente, la vita contemplativa, quella di clausura dei monaci, e quella dei missionari in uscita, che girano per il mondo, sono agli estremi opposti, ma in realtà sono in continuità tra loro. E questo a me riempie il cuore dando un profondo significato a ciò che sto facendo.

L’ora et labora dei monaci, anche noi missionari lo viviamo nei progetti, nella promozione umana, e in una spiritualità che ogni giorno è da rinnovare.

La continuità si potrebbe vedere anche nello specifico carisma dei monaci certosini. Il loro fondatore San Bruno li aveva pensati eremiti, ma nella vita di un cenobio. Erano, e sono, eremiti con un senso di comunità.

Il cenobio consisteva nel ritrovarsi una volta al giorno per l’eucaristia, e una volta alla settimana per il cosiddetto spaziamento, una passeggiata a due a due nei boschi qui intorno.

Tutti siamo chiamati a riscoprire questa dimensione di vita: chi riesce a vivere bene da solo, riesce a vivere anche con gli altri e, viceversa, chi vive bene con gli altri deve ritagliarsi momenti di solitudine e di silenzio per portare avanti la propria missione.

Con i Missionari della Consolata le porte della Certosa si sono aperte. Il nostro compito, bello per me, è di offrire questi spazi a chi fatica a trovare profondità. Questo è un luogo che parla al cuore dell’uomo e offre non delle risposte, ma delle domande di senso, sul senso della vita».

Bellezza, via di missione

In occasione degli 850 anni, i Missionari della Consolata, insieme a vari enti, tra cui la provincia di Cuneo, il comune di Chiusa Pesio, la regione Piemonte, l’Ente di gestione aree protette Alpi Marittime, hanno ideato a un nutrito calendario di eventi: giornate spirituali e trekking meditativi, concerti, convegni, escursioni e visite guidate.

A giugno è previsto il convegno intitolato «Bellezza come via di evangelizzazione». Chiediamo a padre Daniele il motivo di questo tema: «La bellezza è lampante in questo contesto dove l’arte e la natura si esaltano a vicenda. Come dice papa Francesco in Evangelii gaudium: “Annunciare Cristo significa mostrare che credere in lui e seguirlo non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace di colmare la vita di un nuovo splendore e di gioia”. Noi crediamo che la bellezza vera può toccare le corde profonde del cuore e aiutare a seguire il Vangelo come una cosa bella. Non solo come uno sforzo volontaristico, ma scoprendo quella dimensione di gioia e bellezza che, a volte, dimentichiamo. La bellezza ci porta in alto e in profondità nella nostra vita. E quindi diventa via di evangelizzazione».

I bisognosi dell’Europa

Nell’immaginario collettivo, quando si parla di missione, normalmente si pensa ai missionari che aiutano i poveri, bisognosi dal punto di vista materiale. Padre Daniele, all’inizio di questa chiacchierata, ha detto che in Certosa i missionari accolgono bisognosi, riferendosi però a bisogni di altro tipo: di spirito, profondità, senso.

«Questa forse è una delle nuove dimensioni della missione nella nostra Europa, ma anche in tutto il mondo. Nella mia piccola esperienza, vedo che c’è un tremendo bisogno di essere ascoltati. Le persone hanno bisogno di qualcuno che stia con loro e che possa ascoltare le loro storie. Purtroppo, sono sempre meno quelli che hanno tempo o possibilità per farlo.

Una casa di spiritualità come questa è un luogo per l’ascolto.

Personalmente anche io sono stato aiutato qui alla Certosa dai missionari che c’erano all’epoca e che mi hanno offerto un accompagnamento spirituale.

Gli incontri oceanici sono importanti, ma non bastano.

Trovo più importante, invece, che le persone, i giovani, possano fare un cammino personale di dialogo nel quale, se c’è una certa sensibilità da ambo i lati, si può andare davvero in profondità, toccando anche punti difficili che ciascuno si porta dentro.

Questo accompagnamento crea una relazione che può diventare una vera amicizia spirituale.

Ritengo che l’apertura all’ascolto realizzi veramente lo stile missionario, uno stile che non dimentica i bisogni materiali, ma che è capace di guardare anche i bisogni del cuore, la solitudine, le ferite interiori che, a volte, sono più devastanti della povertà materiale. Solo con un dialogo profondo si possono affrontare.

Qui accogliamo anche persone fragili che a volte non trovano spazio nelle parrocchie o in forme di Chiesa troppo strutturate. Persone che hanno difficoltà a credere, ma anche che vivono traumi o fatiche particolari, come ad esempio una qualche forma di dipendenza».

Un luogo per tutti

Tra le attività proposte dai Missionari della Consolata in Certosa, ci sono corsi di preparazione al matrimonio, esercizi spirituali per laici e religiosi, trekking spirituali, la scuola di preghiera per giovani e giovanissimi, i fine settimana per famiglie e adulti, il deserto giovani, il ritiro di agosto per famiglie.

Il target di persone che frequentano l’antico monastero è ampio.

«La Certosa è aperta tutto l’anno. È bello accogliere persone che stanno compiendo una ricerca e che vogliono fare un cammino serio di vita cristiana.

Quest’anno stiamo facendo un cammino sugli incontri di Gesù, sottolineando che la spiritualità vera è vera umanità: siamo chiamati ad approfondire l’umanità di Cristo per umanizzare la nostra vita.

Poi ogni anno proponiamo iniziative come il capodanno, il triduo pasquale, una settimana biblica nella quale quest’anno affronteremo la missione tramite le lettere di san Paolo e l’inizio della comunità cristiana».

 

Un piccolo Tabor

Nel contesto del ripensamento che i Missionari della Consolata stanno compiendo sulla propria missione in Europa, il ruolo che la Certosa si ritaglia è molto particolare. «Possiamo citare alcuni documenti dell’Imc che ci invitano a essere sempre più una presenza significativa di ricerca di senso e spiritualità in funzione di una crescita nell’umano.

L’icona del monte è molto appropriata per questo luogo: la Certosa è un piccolo Tabor nel quale uno può raccogliersi insieme ad altri per fare l’esperienza di una trasfigurazione, l’esperienza di un Dio vicino. È un luogo abitato dove si respira una presenza secolare di preghiera.

Come i certosini avevano il motto di san Bruno che recitava “la croce resta fissa mentre il mondo ruota”, anche noi missionari della Consolata vogliamo costruire la nostra vita attorno a ciò che è essenziale (il Vangelo, il silenzio, la relazione con Dio e con gli uomini) e condividerlo con tutti».

Luca Lorusso


Per un tuffo nel passato

Dalla Certosa ai monti della Valle di Pesio, e tanto altro. Uno squarcio nella vita degli «apprendisti» missionari negli anni Quaranta.
Un eccezionale documentario in bianco e nero di padre Alfredo Deagostini, ora conservato e digitalizazto dall’l’Archivio Nazionale Cinema Impresa di Ivrea, e reso disponibile sul canale Youtube Cinemareligioso nel Fondo IMC-Istituto Missioni Consolata.

 




Ladakh, un viaggio dell’anima

Testo e foto di Daniele Romeo |


Il Ladakh è indiscutibilmente uno dei luoghi più belli in cui viaggiare e sperimentare sensazioni profonde. È un luogo che ha qualcosa da offrire a tutti, che si tratti di un appassionato di fotografia, un amante della natura o anche di qualcuno alla ricerca del vero significato della vita.

Nel grembo del maestoso Himalaya, il Ladakh è la terra della bellezza paesaggistica incontaminata, della spiritualità autentica e della natura umana più genuina.

Gran parte del paese si trova a un’altitudine superiore a 3.500 metri. Da molti è definito «Piccolo Tibet» per via della sua somiglianza morfologica, religiosa, culturale e architettonica con il Tibet. Costituisce la più grande provincia dell’India settentrionale ed è un centro spirituale del buddhismo tibetano. È anche sede di una larga comunità islamica.

Una bellezza mozzafiato

Spesso chiamato «la terra dei passi di montagna», si trova in India nella regione frastagliata del Jammu Nord occidentale e del Kashmir. La regione è circondata da catene montuose ed è nota per le sue splendide vedute himalayane. Il paesaggio arido, roccioso e aspro, è punteggiato da monasteri (gompas) e da strutture bianche a forma di cupola, chiamate stupa, contenenti reliquie buddhiste. Alberi e campi verdi e rigogliosi, sapientemente irrigati dal popolo Ladakhi con l’acqua dei torrenti glaciali, segnano gli insediamenti umani. Bandiere di preghiera tibetane pendono da ponti, cortili e recinzioni, mosse dal vento.

Il Ladakh è noto per essere autosufficiente, producendo gran parte del proprio carburante, cibo e acqua. Tuttavia, il recente rapido aumento del numero di visitatori ha minacciato questa regione ecologicamente fragile. Gli hotel di nuova costruzione consumano sempre più l’approvvigionamento idrico, già compromesso dal lento scioglimento dei ghiacciai; allo stesso tempo orde di turisti inquinano in maniera irresponsabile un’area incontaminata solo fino a un decennio fa.

Un regno Indipendente

Un tempo regno indipendente lungo la Via della Seta, il Ladakh è stato fortemente influenzato dalle vicine terre del Tibet e dai regni musulmani a Ovest (in particolare Kashmir e Turkestan orientale, ora provincia cinese dello Xinjiang). Come il Tibet, ha abbracciato il buddismo, introdotto da vari missionari indiani e monaci erranti. Mentre il Tibet è rimasto chiuso all’influenza straniera, il Ladakh ha svolto un ruolo importante nel commercio della regione. I suoi mercati erano un crocevia di mercanti che portavano con sé molte religioni e culture diverse. E sebbene lo stesso Ladakh abbia affrontato la sua dose di sconvolgimenti politici, oggi ospita anche oltre 3.500 rifugiati dal Tibet.

Un anno fa, nel 2019, l’India ha approvato un disegno di legge, noto come J&K Reorganization Bill, che ha riscritto la geografia dell’estremo stato settentrionale di Jammu e Kashmir, dividendolo in due territori indipendenti: il Ladakh e il Jammu e Kashmir. Questa decisione ha ricostituito il Ladakh come territorio autonomo, separato dal resto del Jammu e Kashmir. Nonostante questa mossa abbia raccolto critiche diffuse sia dall’interno che dall’esterno dell’India, è servita a garantire al paese una nuova identità che lo distingue geograficamente, amministrativamente e demograficamente dalle regioni vicine come uno dei territori, insieme a Sikkim e Arunachal Pradesh, con la maggior diffusione del buddismo in India.

Mentre le montagne del Ladakh collegano letteralmente terra e cielo, gli antichi monasteri forniscono un ponte spirituale tra il passato e il presente. La cultura e le tradizioni promuovono il concetto di interdipendenza e sostenibilità: due ragioni per cui le persone hanno prosperato per migliaia di anni in un ambiente pur ostile e difficile.

Il viaggio

Un viaggio in Ladakh non è per tutti. Ci sono centinaia di chilometri di terra arida e nessun segno di insediamento umano. Bisogna adattarsi costantemente al clima e imparare sul campo dopo ogni tornante.

Non si tratta semplicemente di raggiungere la meta. È come il viaggio della nostra vita, dove impieghiamo la maggior parte del tempo per raggiungere la destinazione finale ma se non ci piace il percorso, difficilmente può avere un qualche senso.

Un viaggio in Ladakh è fatto per godere del percorso, per innamorarsi delle strade, delle curve, dei sentieri sconnessi, delle difficoltà, del caos che provoca un solo camion che si incrocia, delle frane. Sbalordirsi nel vedere le strade ad altezze che si pensavano irraggiungibili, sentire la bellezza di paesaggi lunari.

Un luogo mistico. Infinite montagne rocciose, decine di monasteri, paesaggi spettacolari, temperature sotto lo zero, notti stellate, fiumi imponenti, laghi azzurri come se qualcuno li avesse dipinti, ma soprattutto persone straordinarie. Un paradiso in terra.

Ci sono emozioni che non si possono esprimere a parole. Conoscere culture remote è una di queste. Il Ladakh è un’altra, e per questo esiste la fotografia.

Daniele Romeo
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