Ucraina. Angeli della gioia


Carissimi tutti
Un caro saluto a pochi giorni dal ritorno dell’ultimo viaggio fatto in Ucraina. Si è trattato di un viaggio breve di soli tre giorni dal 29 settembre al 1° ottobre, in compagnia di don Leszek e di Rika. L’obiettivo è stato quello di fare le riprese alle attività di suor Vittoria, impegnata in un progetto che da tempo organizza, chiamato Gli angeli della gioia.

La registrazione del video è la parte conclusiva di un progetto più grande, iniziato questa estate con la collaborazione del gruppo Eskenosen e Humane vitae, che si pone l’obiettivo di mostrare al mondo scolastico italiano (e non solo) storie di vita illustrative di come i bambini ucraini vivono la realtà della guerra.

La prima parte è stata registrata questa estate in Polonia, incontrando bambini che o si sono trasferiti temporaneamente nel paese oppure presenti brevemente per fare qualche giorno di vacanza. La seconda parte del video l’abbiamo realizzata durante questo viaggio andando ad incontrare i bambini sul luogo.

Suor Vittoria è una giovane suora ucraina che con l’aiuto di volontari organizza delle vere e proprie feste nei villaggi più dispersi del paese, con l’obiettivo di regalare un momento di gioia a bambini spesso provati duramente dalla guerra. I bambini a cui rivolge l’invito sono o abitanti di villaggi sperduti oppure bambini che provengono dal fronte e che in questi villaggi trovano riparo.

Per poter fare questo tipo di incontri è necessario essere riconosciuti dal governo locale, sempre attento a controllare le iniziative interne del paese. Suor Vittoria appartiene a una organizzazione cristiana riconosciuta dallo stato.

È curioso vederla indossare abbigliamento di colore militare (proprio dell’organizzazione) insieme a due grandi ali che le spuntano dalla schiena insieme ad una aureola sopra la testa. Lei appartiene alla Congregazione delle suore degli angeli e ha deciso di intitolare questi incontri – che avvengano sempre in luoghi diversi – l’Angelo della gioia. Incontrandola non sfugge a nessuno il suo sorriso e l’energia che trasmette.

Il primo passo che compie è quello di individuare un villaggio e di mettersi in contatto con il sindaco oppure con gli insegnanti. Poi si individuano le famiglie a cui rivolgere l’invito. Ci incontriamo in piccolo villaggio vicino a Zytmozier, una città a circa 150 km da Kiev.

Stabilito il giorno, nei locali della scuola del villaggio i volontari con suor Vittoria arrivano di buon mattino, organizzando la scenografia e addobbando la sala rendendola festosa e colorata. I bambini ricevono un invito scritto col loro nome all’entrata della scuola: tutto è pronto per dare inizio alla festa.

I bambini vengono presentati per nome e ricevono l’aureola dell’angelo che indosseranno tutto il tempo. L’età dei bambini varia a seconda dei villaggi, tra i 5 e i 14 anni. La festa trascorre tra canti e balli di gruppo che coinvolgono tutti, anche le mamme presenti. E’ una gioia contagiosa quella che si respira, una gioia che solo questi bambini riescono a trasmettere.

I bambini ricevono dello zucchero filato e dei dolci ben preparati. I volontari ci confidano che ha volte hanno incontrato bambini affamati non solo di dolci… per questo hanno deciso di offrire anche qualcosa di più sostanzioso. È facile immaginare le condizioni familiari di alcuni. A volte lo si capisce soltanto dal modo in cui sono vestiti.

Ad un certo momento i bambini sono invitati a firmare una bandiera del loro paese. Questa bandiera viene poi consegnata ai papà o ai parenti che si trovano sul fronte a combattere. Sono loro i loro angeli custodi che li difendono. La festa si conclude con la consegna dei regali. Ognuno riceve un simpatico peluche a ricordo di questa giornata, anche se è facile immaginare che il vero ricordo sarà la gioia che hanno vissuto in queste ore.

Alla fine della festa ci viene segnalata una famiglia di quel villaggio. La mamma accudisce, in una casa modesta di campagna, ben 12 figli. La figlia maggiore, che vive insieme alla madre, ha già sei figli… lasciamo a loro vestiti e cibo per bambini e veniamo ricompensati per questo con del miele di loro produzione.

Sulla via del ritorno, percorrendo una strada di campagna sterrata con pietre appuntite, riusciamo a bucare ben due pneumatici consecutivamente. Per fortuna i volontari sono ancora con noi e ci aiutano a risolvere la difficoltà, dei veri e propri angeli custodi. Cosi possiamo già il giorno successivo agevolmente ritornare a Varsavia. La registrazione dell’incontro e l’intervista a suor Vittoria le ha fatte un cameraman professionista giunto da Kiev. L’intero video tra breve sarà pronto e ve lo manderemo.

Luca Bovio

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Venuta da lontano

testo di Marco Bello |


Nel cuore di Taipei opera, da 60 anni un centro che assiste bambini in difficoltà e famiglie in crisi. Il gruppo di cristiani che lo gestisce ha deciso di rilanciarlo, con una nuova struttura e una nuova visione. E ha chiamato una direttrice particolare.

La missionaria inglese Gladys Aylward (abbiamo raccontato la sua storia su MC ottobre 2021), dopo aver lasciato la Cina continentale nel 1949, avrebbe voluto tornarci nel 1957, ma si era vista rifiutare l’ingresso, nonostante fosse naturalizzata cinese. Si era quindi recata a Hong Kong, dove aveva lavorato per assistere i rifugiati cinesi, che in gran numero fuggivano dalla guerra civile, fondando con altri la Hope Mission.

Gladys si spostò poi a Taiwan (Formosa), dove nel 1949 il leader nazionalista Chang Kai-shek, in guerra con i comunisti di Mao, aveva ripiegato con le sue truppe, per quella che pensava sarebbe stata una ritirata temporanea. E invece sarebbe diventata la Repubblica di Cina, ancora oggi contestata dalla Repubblica popolare cinese.

«Non rimasi ad Hong Kong. Ancora una volta credevo di dover fare un passo successivo, e andai a Formosa. Ancora una volta, non sapevo perché vi stavo andando. Ma sapevo che era quello che dovevo fare», scrisse in seguito Gladys Aylward.

A Taipei (la capitale), dopo aver iniziato ad accogliere bambini orfani in un hotel che aveva preso in affitto nella zona di Beitou, Gladys Aylward venne aiutata dalla Ong statunitense World Vision ad acquisire un terreno nella zona di Muzha (1959). Lì iniziò la costruzione di un centro per bambini, chiamato Bethany nursey school.

Galdys morì il 3 gennaio 1970, ma i suoi collaboratori portarono avanti il progetto. Così, quello che dal 2010 venne rinominato Bethany children’s home (Bch), ha festeggiato i suoi primi 60 anni nel 2019 e continua a operare.

La chiamata

Ma sono tempi di grandi novità per l’opera fondata da Gladys Aylward. Da qualche anno erano iniziati i lavori per un nuovo edificio che corrisponde anche a una nuova «vision». Inoltre, nei primi mesi del 2020 da Taipei parte una telefonata, per l’altra parte del pianeta, che raggiunge Sharon Chiang a Seattle, negli Stati Uniti.

«Attraversavo un periodo di riflessione. Avevo passato la cinquantina e da venti anni lavoravo nella pastorale delle famiglie e dei bambini, per la Evangelical chinese church di Seattle (Ecc). Non avrei avuto altri vent’anni per lo stesso servizio, e volevo fare chiarezza sulla mia personale missione, per non avere rimpianti alla fine della vita». Ci racconta Sharon Chiang. La incontriamo tramite una piattaforma online: un viso solare, nel quale anche gli occhi sembrano sorridere dietro gli spessi occhiali.

«Avevo sempre cercato di mettere insieme i concetti di benessere dei bambini e relazioni famigliari, molto legati tra loro, ma non sempre presi in considerazione in modo olistico. Mi era chiaro che, per il resto della mia vita, le mie priorità erano tre: la formazione degli insegnanti dei bambini, le relazioni famigliari e il recupero delle coppie di genitori che entrano in conflitto. Perché i divorzi nel mondo sono sempre più frequenti, e i bambini sono le principali vittime delle separazioni».

Sharon è originaria di Taiwan, e dopo la laurea in educazione infantile, nel 1991, ha avuto la possibilità di trasferirsi a Seattle per continuare la sua formazione in «educazione e relazioni famigliari». Ha poi fatto un master sugli stessi temi e ha iniziato a lavorare per la Ecc. Infine, anni dopo, ha conseguito un dottorato sulle stesse tematiche: «Non avrei mai pensato di fare un dottorato, pensavo fossero studi per gente intelligente. L’ho fatto per approfondire con una ricerca il mio lavoro sul campo», ci confida con modestia.

Poi arriva la telefonata di un suo ex capo da Taipei: le chiede di prendere la direzione del Bethany children’s home, che sta passando un periodo complicato.

Dopo trent’anni di vita a Seattle, un marito violinista nella filarmonica locale, la scelta non è facile: «Ho pensato alle mie capacità, le mie conoscenze, e valutato se sarei stata all’altezza. Non conoscevo nulla sulla direzione di organizzazioni. Inoltre il Bethany (così chiama famigliarmente il centro, ndr) aveva un nuovo palazzo, molto bello, che avrebbe potuto portare la gente a pensare “siete molto ricchi”, mentre invece era indebitato. E come si poteva fare raccolta fondi in quella situazione? Queste erano le sfide maggiori che mi hanno fatto esitare. Infine, penso che Dio mi abbia toccato: Lui sarebbe stato con me, mi avrebbe aiutato. Quindi, anche se sarebbe stata una grande sfida, una grande responsabilità, un grande cambiamento, dentro di me mi sentivo davvero in pace. Ho pensato di andare avanti, e siamo partiti per Taiwan».

E continua: «Poi ho imparato di più su Bethany, ho letto sulla fondatrice, Gladys Aylward. Ho pensato di essere privilegiata di avere questo incarico, perché, posso immaginare, per lei la missione fu molto difficile. Passò attraverso esperienze molto dure, nella Cina continentale. Ma anche a Taiwan, quando arrivò, era un momento storico complesso, c’era molta povertà, la gente non aveva risorse né servizi, c’erano molti orfani, e nessun fondo per aiutarli».

Famiglie in accoglienza

La direttrice ci spiega quali sono le attività che attualmente si svolgono al Bethany.

L’attività principale è l’assistenza famigliare dei bambini svantaggiati utilizzando un modello casa-famiglia residenziale. Questo avviene con coppie, che sono residenti nella struttura (il nuovo palazzo ha una serie di alloggi, ndr) e accolgono dai quattro ai sei bambini in difficoltà. Alcune coppie hanno i propri figli, per cui ne prendono di meno in accudimento, altre no e quindi ne accolgono anche sei. Uno dei membri della coppia è salariato e fa parte dello staff di Bethany.

«Nel modello di cura famigliare facciamo venire una coppia cristiana e le affidiamo alcuni bambini. Sono piccoli che magari non hanno mai avuto una famiglia o genitori che si occupano di loro. Più conosco questo modello, più mi sembra un sistema perfetto. Con esso ogni famiglia vive nella struttura, per cui ogni membro del nostro team può andare in loro appoggio rapidamente. Abbiamo professionisti dei diversi settori per seguire i casi uno per uno, e in maniera costante e ravvicinata».

Alcuni bimbi hanno gravi disabilità: «Sono bambini abbandonati e abusati, fisicamente, emotivamente. Ci sono anche orfani, cosa molto triste, ma il peggio sono quelli abbandonati. E dobbiamo fare attenzione quando c’è combinazione multipla di disabilità. Visiva, motoria, di apprendimento. Altri sembrano stare bene, ma hanno subito dei traumi, quindi sono emozionalmente complessi. Il 75% dei nostri bambini hanno bisogni speciali, il che vuol dire anche problemi mentali, emotivi, ecc. È una grande sfida».

La struttura attualmente accoglie 25 bambini, ospitati da sei nuclei famigliari, ma la capienza massima è di settanta minori.

«Siamo pronti a ospitare più bambini, perché con la nuova struttura abbiamo gli spazi, ma dobbiamo comprare i mobili per sistemare gli alloggi». Inoltre ci sono problemi di costi, perché più famiglie vuol dire più staff da pagare, oltre al cibo e le normali spese di funzionamento.

Viene da pensare a Gladys Aylward, quando negli anni ‘30 e ‘40 del secolo scorso, nel Nord della Cina, accoglieva bambini abbandonati, e faceva praticamente da mamma a tutti, senza disponibilità di fondi. Arrivò fino a un centinaio. Ma ovviamente erano altri tempi.

Formazione e recupero

Un secondo aspetto delle attività del Bethany è il counseling per bambini e giovani. Gli esperti dello staff seguono bimbi e ragazzi esterni al centro, sia di persona che tramite piattaforme online.

Inoltre, fondamentale per Sharon, c’è la formazione di insegnanti, soprattutto della scuola primaria, sulla pastorale dei bambini: «Occorre parlare loro di Gesù fin da piccoli, questo può influire molto sulla crescita». Il Bethany è anche un centro di formazione, con spazi per incontri in presenza, anche residenziali, ma oggi realizza una serie di corsi online. «Molti hanno chiuso le loro formazioni a causa della pandemia, ma c’è necessità di questo servizio. Noi abbiamo aperto una classe con 300 partecipanti a distanza, servendo diverse aree del paese e anche l’estero. Si tratta di una piattaforma per la formazione di insegnanti. È in cinese, ma che potremo farlo anche in inglese.

Un’altra attività è la sensibilizzazione di bambini, giovani e famiglie marginali.

Poi c’è il cosiddetto recupero di coppie in crisi: «Abbiamo inoltre spazi per accogliere coppie che vogliono fare un ritiro, nell’ottica di migliorare le relazioni famigliari. Lo scorso maggio era previsto un incontro per famiglie, ma a causa della pandemia, abbiamo dovuto rinviarlo».

Infine, c’è una parte di pastorale. «Vogliamo essere un centro missionario per bambini e famiglie. Abbiamo un settore specifico su questo, e una zona della struttura che si chiama “vieni”, come Gesù ci ha detto “venite a me, seguitemi”».

Organizzazione

Il Bethany è organizzato in settori, quelli operativi relativi a ciascuna attività (assistenza famigliare, formazione, counseling, ecc.), e quelli di servizio: amministrazione e comunicazione.

«Siamo attualmente 32 nello staff, comprese una persona per ogni coppia affidataria. Al di sopra di questa struttura c’è un consiglio di amministrazione (board), presieduto dal presidente e rinnovato ogni tre anni. Si tratta di 14 persone con diverso background, leader di organizzazioni cristiane, professori, tutte con ottima reputazione».

Sharon porta avanti un’altra attività legata alla sua personale missione. Quando viveva a
Seattle organizzava incontri per raccontare la Bibbia ai bambini. «Poi è iniziata la pandemia e, seppure tra mille difficoltà, ho iniziato a incontrare i bambini su piattaforme online. Quando sono partita, ho pensato di lasciare questo impegno. Ma i genitori e i bambini mi hanno chiesto di continuare, perché sentivano questi incontri molto preziosi. Ho dunque continuato anche da Taipei, e ho associato ai bambini di Seattle quelli del Bethany. I bimbi leggono la Bibbia insieme, gli uni in inglese, gli altri in cinese. Ma questo ha dato loro un’apertura particolare. Il mio sogno è che questi bambini possano un giorno incontrarsi fisicamente».

Tutto questo fa parte della cosiddetta «Piattaforma missionaria per bambini e famiglie»: «Oggi possiamo essere più globali, siamo di fronte a una e-generation, è diventato facile incontrarsi a distanza e la gente si è abituata. Il modello è facilmente replicabile».

Fondi e sfide

Il Bethany si finanzia con donazioni di molti piccoli donatori e beneficia di una piccola sovvenzione dello stato. «Ma i costi sono notevolmente aumentati a causa del nuovo edificio e del personale».

Tra le nuove sfide che attendono Sharon c’è l’aumento del numero di bambini accolti, obiettivo che prevede, oltre all’acquisto di mobili e attrezzature, il pagamento di nuove persone incaricate dell’accoglienza. «Vorrei che Bethany potesse accogliere sulla base della massima capienza, ci sono molti bambini nel bisogno.

Ma la sfida principale è questa pandemia – dice la direttrice – che ci limita molto. Potremo ospitare molti meeting ma, per ora non possiamo. Voglio poi far partire i “gruppi di recupero” per adulti, ma anche bambini, fratelli, sorelle. Eventualmente li faremo online».

La missione continua

«Sono molto onorata di continuare la missione di Gladys Aylward, perché è stata una donna che ha dedicato la sua vita intera ai bambini meno fortunati. Con risorse limitatissime e in condizioni difficili. Ho constatato che ha lasciato un’eredità bellissima e forte, come Bethany. Sono qui da un anno, ma spesso parlo di lei con lo staff, racconto la sua storia per far loro coraggio. Quando eravamo in difficoltà, l’anno scorso, dicevo che in passato non avevano aria condizionata, né una struttura come questa. Per ricordare loro che Dio ci penserà, lo ha fatto per 60 anni, durante i quali abbiamo aiutato un migliaio di bambini, e continuerà ad aiutarci».

Marco Bello


La Consolata a Taiwan

Anche la Consolata ha una giovane, ma solida, presenza a Taiwan. Il 12 settembre 2014 sbarcarono sull’isola i primi tre missionari, i padri Eugenio Boatella, Mathews Odhiambo Owuor e Piero de Maria. Si stabilirono a Hsinchu, nell’omonima diocesi, a meno di un centinaio di chilometri a Sud Ovest della capitale Taipei. Qui iniziarono a studiare la lingua (che non è cosa da poco) e apprendere la cultura, mettendosi a disposizione del vescovo con il quale fu firmato un accordo. Nel 2017 arrivò il secondo gruppo, con i padri Jasper Kirimi e Gilberto Rodriguez da Silva. Allo stesso tempo, i missionari presero in consegna la prima parrocchia, il Sacro Cuore di Gesù a Hsinchu.
Nel novembre del 2019 arrivarono i padri Bernardo Kim e Emanuel Barnabas Temu, e circa un anno dopo la Consolata prese in consegna la seconda parrocchia, San Giuseppe, sempre nella contea di Hsinchu.
I due pilastri della presenza della Consolata in Taiwan, scrive padre Mathews Odhiambo, attuale superiore, sono: «Proclamazione del Vangelo, preferibilmente a non cristiani. Questo giustifica la nostra presenza in Taiwan, dove i cristiani sono poco meno del 4% della popolazione. Questa missione è realizzata attraverso vari metodi: animazione missionaria, dialogo interreligioso, lavoro in parrocchia, con i giovani, con i migranti, ecc».
Il secondo pilastro è la promozione umana, «per tutte quelle situazioni umane di dolore e sofferenza, come povertà, ingiustizie sociali, malattie, ecc. Per questo la congregazione è impegnata in tutte le attività e i progetti che possono migliorare lo standard di vita della gente e alleviare i loro dolori e sofferenze».
Oggi, a sette anni dal loro arrivo, i missionari presenti sono cinque (i padri Eugenio e Piero sono partiti per altre destinazioni) e aspettano rinforzi. Intanto i progetti di lavoro con le comunità indigene (popoli originari dell’isola) e con i migranti (latini di lingua ispanica e anglofoni) sono nel cuore dei missionari. Torneremo a parlare di loro.

Marco Bello