Taita Agustín


Lo scorso novembre è mancato a Manizales, in Colombia, un missionario amante dei monti, della natura, della gente e soprattutto del Creatore e Signore di tutto. Un ricordo personale da un confratello che è vissuto tanto con lui.

Bogotá, gennaio 1992. Non erano passate ancora ventiquattr’ore dall’arrivo a Bogotá, che già i miei genitori si sentivano un po’ persi e disorientati. L’inevitabile «jet lag» li faceva appisolare anche se erano le undici del mattino, ma soprattutto c’era un altro continente sotto i loro piedi e, in più, mia mamma faceva fatica a respirare.

«È un tipico sintomo del mal di montagna, normale ai 2.500 metri di altezza di Bogotá», aveva sentenziato un missionario veterano del luogo. Il problema era stato rapidamente risolto con una tazza di tè di coca che mia mamma aveva bevuto senza nascondere una certa preoccupazione.

All’ora di pranzo al tavolo con loro si era seduto padre Agostino Baima. «Non si può venire in America e in Colombia senza conoscere Bogotá. Qui vedrete sintetizzate tutte le contraddizioni che incontrerete nelle prossime settimane quando andrete con vostro figlio in Amazzonia. Qui abbiamo persone provenienti da ogni zona del paese e vi renderete conto di come vivono nella città. Questo pomeriggio vi lascerò riposare un po’ e poi alle 15 partiamo. Vi porto io a fare un giro». Il piano era fatto, non c’era possibilità di discuterlo.

All’ora prevista ci siamo imbarcati tutti sulla sua Daihatsu, non particolarmente grande né comoda, e lui, prima ha preso la rotta verso il Sud, con le sue baraccopoli, la sua povertà, il suo disordine, fino a raggiungere i quartieri nel margine sudorientale della città abbarbicati a un’altezza superiore ai 3.000 metri, là dove la folle e disordinata urbanizzazione era in quel momento in piena effervescenza. E poi, con tutta la velocità che si poteva spremere dal povero veicolo, ci siamo diretti verso Nord per godere dei quartieri signorili, delle «gated communities» e dei primi centri commerciali che stavano sorgendo in quegli anni. Tutta una metropoli visitata a volo di uccello, o meglio, di Daihatsu.

Quando la sera ho potuto sedermi tranquillamente con mia mamma e ascoltare le prime impressioni del viaggio missionario che stava appena cominciando, le sue parole sono state: «Quant’è grande questa città, quant’è grande la sua povertà, quant’è ostentata la sua ricchezza, quanto sono grandi i centri commerciali; che incredibile anche la mia stanchezza, ma a tutto questo bisogna aggiungere: quant’è grande il padre Agostino».

E sì, la missione è grande, grazie Taita Agustín1.

17 settembre 1971, sulla cima del Margureis in Val Pesio, Cuneo

Bogotá ottobre 1999

I missionari che stavano partendo per l’Argentina per partecipare al Cam (Congresso missionario americano) erano indaffarati per mettere assieme le loro ultime cose. Il congresso era già arrivato alla sesta edizione e, a causa dei risultati significativi, non si sarebbe più chiamato Comla (Congresso missionario latinoamericano) ma Cam, appunto. Era ora di aprire uno spazio alle chiese del Nord del continente che avevano poco a che fare con le chiese variopinte del Sud. I primi due congressi si erano tenuti in Messico, ma il terzo era stato a Bogotá, e Agostino, forse anche giustamente, si sentiva un po’ come il padre di quell’evento, ormai abbastanza lontano nel tempo ma non nel cuore. «Non possono lasciare a casa i dipinti di Chucho Tobar, dove sono?».

«Ma, padre Agustín, quelli erano stati preparati per il Comla 3 di Bogotá del 1987, dodici anni fa».

«Non importa. Tu non sai quanto abbiamo lavorato per preparare quel Comla. Non eravamo in molti: la missione a quel tempo era ancora marginale, una questione per pochi fuori di testa. Anche se questo è il continente più cattolico del mondo, i cristiani qui pensano ancora di non avere alcuna responsabilità nella missione universale. La nostra animazione missionaria deve sradicare questa convinzione errata. Mai, in nessun Comla, si sono visti dipinti così significativi e missionari. Quello di Bogotá era il “nostro” Comla. Quanto sudore, quanta fatica, quante notti in bianco, quante lotte per convincere tutti di quanto fosse importante per questa ricca chiesa colombiana, con una tradizione missionaria così radicata, farsi carico dell’organizzazione di quell’evento».

Milena, la segretaria del Centro di animazione missionaria, era arrivata trafelata con i preziosi dipinti che aveva alla fine scovato. Quando sono stati aperti davanti a lui, i suoi occhi brillavano e li accarezzava con quelle sue mani forti e scavate da tanto lavoro e impegno.

E sì, la missione è fatta di sudore e passione. Grazie, Taita Agustín.

Licto, anni ’90

La produzione di foto e video per documentare la vita dei popoli che incontrava è un’attività difficile da datare, poiché faceva parte della vita quotidiana di padre Agostino negli anni che ha passato nelle parrocchie di Punín e Licto in Ecuador. Era un metodo semplice e, a suo modo, tecnologico, per dare importanza alle comunità indigene. Senza mai separarsi dalla sua macchina fotografica, che lo accompagnava da anni, Agostino si stava modernizzando ed entrava nel mondo dei video amatoriali. Le attività tradizionali importanti per la vita delle comunità indigene venivano diligentemente filmate, ma quella era la parte più semplice di tutto il progetto. Poi le registrazioni dovevano anche essere mostrate «affinché – diceva – la gente potesse vedersi, come in un film, e scoprire che che anch’essa è importante e che la sua vita merita gli onori della cronaca e della storia».

Creare le condizioni per proiettare i film era la parte più laboriosa, e in questo Agostino aveva investito tutto il suo sforzo e la sua creatività, sempre al passo con l’evoluzione della tecnologia. Quando sono arrivato a Licto per la prima volta, nel vano posteriore della Toyota che lui guidava, entrava su misura un televisore con uno schermo molto grande che non era né sottile né leggero come quelli di oggi. Per resistere agli inevitabili scossoni delle strade non asfaltate, il televisore era conservato in una speciale cassa di legno su misura che lui stesso aveva confezionato e che pesava forse anche di più del televisore che conteneva. Erano necessarie almeno due persone muscolose per trasportarlo grazie a delle apposite maniglie poste alla base della cassa: dopo aver abbassato i sedili posteriori, con precauzione si infilava tutto lì. A questo punto non era nemmeno necessario scaricarlo: si apriva il portellone, si sganciava un lato della cassa, si attaccava un videoregistratore e, grazie a una abbondante serie di prolunghe che permettevano di far arrivare l’energia elettrica dai posti più impensati, lo spettacolo della vita comunitaria era servito. La felicità dei bambini e degli adulti che si riconoscevano nei film di Taita Agustín compensava tutta la fatica.

Dopo la televisione sono arrivati i videoproiettori, pesanti e grandi i primi, più leggeri i successivi, fino ai primi anni del secondo millennio quando la malattia ha allontanato definitivamente padre Baima dall’Ecuador. Tuttavia, quei film, e quel patrimonio di registrazioni, sono stati portati da Agostino a Manizales, e la sua preoccupazione ora era quella di tradurre il tutto dal Vhs ai formati digitali necessari per i computer di oggi. Diceva: «Questo materiale è prezioso e non può andare perso, racchiude una testimonianza della vita della gente che lavora e si impegna».

E sì, la missione la fanno le persone quando osano diventare protagonisti. Grazie, Taita Agustín.

Davanti al Santuario di Manizales

I mille e un orto di tutta una vita

«Sono un contadino, lo sono sempre stato; sono nato in una famiglia povera e numerosa e non lo rinnegherò mai perché è lì che ho imparato a coltivare la terra e a lavorare».

Non ho conosciuto tutti gli orti di padre Agustín, ma ne ricordo almeno tre: all’inizio degli anni ‘90 quello dietro la casa provinciale di Bogotá; alla fine degli anni ‘90 quello di Licto che era di gran lunga il più grande di tutti; dopo il 2015 quello della scuola di Manizales. Questo è stato l’ultimo, e lo ha dovuto abbandonare dalla mattina alla sera, a causa della malattia che gli ha impedito di guidare la vecchia Chevrolet Corsa, la sua ultima macchina che coccolava. A bordo della sua autovettura si presentava nei più improbabili luoghi di Manizales, che negli ultimi anni era ridiventata la sua città, come lo era stata nei primi anni della sua parabola missionaria, quando baldanzoso andava su e giù lungo i crinali del Nevado Ruiz vantandosi delle sue origini alpine.

A Bogotá la sua energia era sufficiente non solo per l’orto ma anche per mantenere tutto il parco pubblico del quartiere di Modelia, che non è piccolo, rasato come il green di un campo da golf. «Lo faccio perché tutti imparino che il pubblico è responsabilità di tutti e altrettanto importante, se non addirittura di più, di ciò che è nostro». A Licto il campo era grandissimo e tutto coltivato a mais: «Non è possibile che tutti i nostri vicini piantino ogni centimetro quadrato di terra perché di quello vivono, e noi trascuriamo e teniamo improduttiva la terra che Dio ci ha dato. Certamente non viviamo di questo, ma dobbiamo lavorare perché siamo come loro, non di una classe diversa, anche se ci chiamano taitamito (papà mio).

L’orto della scuola di Manizales l’ha coltivato fino alla metà del 2019 e l’ha fatto con la stessa determinazione e precisione dei precedenti, anche se gli anni erano passati e la zappa cominciava a pesare. Con la complicità di tutti, a cominciare dalla mia che ero l’amministratore del collegio, i dipendenti incaricati della cura delle aree verdi dedicavano anche un po’ di tempo a raddrizzare le aiole e a rimuovere la terra dell’orto di Agostino.

Veramente, l’orto, che nel suo caso ha attraversato tutte le età della vita, era quasi il sacramento di un servizio comunitario che viveva come qualcosa di indiscutibile, necessario e irrinunciabile. Un servizio per il quale non si è mai considerato troppo vecchio o troppo stanco.

E sì, la missione è servizio per tutte le età. Per tutto questo, grazie, Taita Agustín.

L’ultima barella

Manizales, novembre 2021. Ho molte altre immagini come queste che ricordano momenti che abbiamo vissuto insieme, ma ora voglio ricordare l’ultima, forse la più dolorosa. E lo scrivo come se ti scrivessi una lettera, Agostino.

Ti stavano portando in ospedale legato a una barella e padre Rino Delaidotti mi ha chiamato per vedere se, parlando con me che non vedevi da mesi, potevi distogliere la mente dalle procedure un po’ brusche a cui ti stavano sottoponendo. A dire il vero non sapevo nemmeno cosa dirti. Mi sarebbe piaciuto rivederti e poi avevo promesso a tua sorella che quando fossi tornato in Colombia ti avrei portato quel salame che ti aveva promesso. Ma te ne sei andato prima che arrivasse il salame. Sono in debito con te, dovremo mangiarcelo nel Regno. Eppure, pensandoci bene, a quella barella era legata la missione quasi come alla croce era legata la vita. Così come la vita non fu sconfitta dalla croce, vedendo te, credo che nemmeno una barella abbia potuto sconfiggere la missione in te. Non so come sarà la tua vita d’ora in avanti, ma so che sarà certamente missione.

E sì, la missione è per sempre, quindi Kaya kama2, Taita Agustín.

Gianantonio Sozzi

  1. Taita: papà (espressione infantile tipica in molti paesi dell’America Latina).
  2. Kaya kama: in quechua, lett. «fino al mattino», «a domani» e anche «buona notte».

Agostino Baima nasce il 26 dicembre 1939 nella frazione di San Firmino a Ciriè, provincia di Torino, ultimo di quattro figli. Nel 1950, dopo l’incontro con un missionario proveniente dal Kenya, chiede di entrare nel seminario dei Missionari della Consolata ed è accolto a Benevagienna (Cn). Frequenta poi il liceo a Varallo Sesia (Vc), e nel 1959 entra in noviziato alla Certosa di Pesio (Cn) dove emette la professione temporanea il 2 ottobre 1960.

Compie gli studi filosofico teologici a Torino e si impegna per la missione con la professione perpetua il 2 ottobre 1963.

Il periodo 1964-1970 è un tempo di grave malattia e lento recupero; per questo passa alcuni anni nella quiete della Certosa di Pesio come aiuto all’economo.

Il 7 febbraio 1971 i novizi in festa partecipano al suo mandato missionario, e parte per la Colombia, dove conclude gli studi teologici. L’8 aprile 1973 è ordinato diacono a Bogotà dal card. Munoz Duque e il 18 novembre 1973, sempre a Bogotà, mons. Pablo Correa León lo ordina sacerdote. Passa il 1974-1975 come viceparroco nella parrocchia dove c’è il seminario teologico, di cui è il vicedirettore. Dal 1975 al 1980 si dedica all’animazione missionaria a Manizales. Trasferito a Bogotà, dal 1980 al 1985 svolge il servizio di direttore di animazione missionaria vocazionale in tutta la Colombia, e accetta l’incarico di presidente della commissione missionaria della Conferenza dei religiosi.

Dal 1984, per tre anni svolge anche il compito di consigliere regionale IMC e dal 1985 al 1987 è superiore del seminario filosofico. Poi dal 1988 al 1992 serve come direttore del Centro di animazione missionaria a Modelia, Bogotà.

Nel 1992 viene inviato in Ecuador, dove fino al 1995 è viceparroco a Punín e poi è trasferito a Licto dove rimane fino al 2003. Tra il 1996 e il 1999 è di nuovo consigliere regionale.

Nel 2003 vive un nuovo periodo di malattia e convalescenza tra Colombia e Italia. Rimessosi, nel 2004 viene mandato al santuario della Madonna di Fatima a Manizales, dove rimane fino all’ultima chiamata, il 24 novembre 2021. È sepolto a Manizales.


Slideshow  di alcune (pochissime) foto di padre Agostino Baima

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Noi e Voi, dialogo lettori e missionari _ Gennaio 2022

Lettori che vanno

Gentilissima redazione di MC, da anni ricevo la vostra preziosa rivista. Ora col passare degli anni essendo in età avanzata la vista non mi permette più di leggere. Vi chiederei di sospendere l’invio della stessa per evitare un inutile spreco.

Ringrazio per la compagnia che mi avete fatto in tutti questi anni tenendomi aggiornata su quanto accadeva nel mondo con i vostri articoli e dossier approfonditi e puntuali. Grazie al direttore, padre Gigi Anataloni, uomo di grande umanità per i suoi interessanti editoriali.

Vi auguro buon lavoro e vi ricordo nella preghiera.

 Rosina P.
19/11/2021

Buongiorno,
sono Mariateresa, figlia di L. Paola. Mia mamma era abbonata alla vostra rivista e periodicamente, grazie al bollettino all’interno faceva delle donazioni. Purtroppo mia mamma è venuta a mancare e io vorrei poter continuare a fare i bollettini come faceva lei, però vi chiedo se è possibile cambiare il nominativo e poter continuare quello che faceva lei. Vi ringrazio sin da ora per la Vostra disponibilità. Cordiali saluti

Mariateresa M.
25/10/2021

 

Grazie per queste due lettere e per le altre simili che riceviamo di tanto in tanto da lettori anziani, o dai loro figli e anche da vicini. Siamo riconoscenti e sempre in debito con voi lettori per il vostro affetto, fedeltà e sostegno, perché condividete con noi la passione per la Missione. Pubblichiamo queste due con gratitudine, perché compensano ampiamente altre dai toni ben diversi che riceviamo da parenti di nostri lettori deceduti, convinti che noi missionari abbiamo per anni ingannato i loro cari per spillare denaro.
Grazie allora a Rosina e a Mariateresa per le loro parole gentili e incoraggianti.


A proposito dell’Esodo

Spett.le Redazione,
sono un vostro affezionato lettore/abbonato da anni, ed anche modesto sostenitore. Apprezzo tutto della rivista che leggo da cima a fondo.

Focalizzo la mia attenzione su molti articoli, in particolare quelli sulla Bibbia, precedentemente tenuti da don Paolo Farinella (che ho tutti fascicolati) ed ora da Angelo Fracchia.

Confesso però che a volte sono un po’ sorpreso dal suo approccio e dalle sue interpretazioni (forse perché non collimano con le mia sicuramente più che scarsa cultura).

In modo particolare mi ha molto colpito, sul n. 10 della rivista, la messa in dubbio, non dico con sicumera ma dandolo per scontato, che non sia possibile l’uscita di 600mila persone dall’Egitto e che in luogo del Mar Rosso sia stato attraversato un qualche acquitrino poco profondo (mare delle canne).

Non avevo mai sentito queste affermazioni, sicuramente scientifiche, che però a mio modesto parere (portano) una profonda e necessaria revisione dei contenuti delle Sacre Scritture su questi punti (cosa che certamente avverrà).

Grato per un chiarimento al riguardo, porgo anticipatamente sentiti auguri.

Elio Gatti
Trinità, 18/11/2021

Caro sig. Elio,
grazie anzitutto di camminare con noi. Ho passato la sua email al nostro biblista, per una risposta più professionale.

Da parte mia, avendo vissuto alcuni anni insieme a popoli pastori e nomadi (nel Nord del Kenya, vedi foto qui sotto), le devo dire che non mi stupisco del dubbio circa il numero delle persone uscite dall’Egitto. Fossero state davvero 600mila, più il bestiame, sarebbero certamente morte tutte per mancanza di pascoli, di acqua e di cibo. Tenga conto che in condizioni simili per estensione e tipologia di territorio desertico, nel Nord del Kenya, nel XIX secolo, non vivevano più di 20mila persone, con tutto il loro bestiame. Anche i Maasai, che scorazzavano dal Tanzania alle falde del monte Kenya, tutti insieme, non superavano certo le 50mila unità. Anche perché non erano i soli a vivere in quelle aree, ma dovevano competere, per i pascoli e l’acqua, con gli animali selvatici.

Mi permetto anche di ricordare che è buona regola non prendere mai alla lettera i numeri riferiti nella Bibbia, che hanno più un valore simbolico che matematico.

Faccio due esempi: «(Giobbe) possedette 14mila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine» (Gb 42,12). Oggi, in un allevamento intensivo per quel numero di pecore, sarebbero necessari oltre mille ettari di prati fertili e irrigati e per i duemila buoi altrettanti, senza contare quelli per i cammelli e le asine. Se poi si considera che il Sinai è desertico, gli ettari andrebbero aumentati. È chiaro allora che quelle cifre sono più simboliche che reali e vogliono enfatizzare l’abbondanza delle benedizioni divine.

Un altro esempio di numero iperbolico è quello dei diecimila talenti di debito del servitore con il suo Signore (Mt 18,24). Presa alla lettera, è una quantità enorme che corrisponde a oltre 360 tonnellate d’oro. Per fare un esempio, la Banca d’Italia, che possiede uno dei più grandi depositi auriferi del mondo, ne possiede poco meno di 2.500 tonnellate.

Ma ora è meglio che lasci la parola al nostro biblista. Ecco la risposta di Angelo Fracchia.

Ringrazio intanto il sig. Elio Gatti per l’attenzione con cui legge non solo la rivista (e lo comprendo) ma anche i miei articoli, pur non ritrovandovisi appieno: è sempre segno di apertura e intelligenza confrontarsi con tesi diverse dalle proprie.

Provo poi brevemente ad abbozzare due risposte.

Calcolare il numero di abitanti delle civiltà antiche è sempre impresa difficile. Giuseppe Flavio, storico del I sec. d.C. che molti sospettano di ingigantire le cifre, parla di 7 milioni e mezzo di abitanti dell’intero Egitto al suo tempo. Di certo più di un millennio prima non potevano essere di più. Con questa cifra, la fuga di 600mila persone (non contando i bambini, Es 12,37), con tutto il loro bestiame, senza lasciare alcuna traccia nei documenti egizi, pare improbabile. Così come la loro peregrinazione per quaranta anni in un territorio desertico senza alcuna traccia archeologica in una zona quasi senza piogge. E diciamo «improbabile» solo perché gli storici non amano dire «impossibile». Alcuni storici e biblisti, addirittura, negano del tutto l’ipotesi di un’uscita dall’Egitto di tutto il popolo (le 12 tribù). I più preferiscono ritenere, come ho scritto anch’io, che almeno un piccolo gruppo (una sola tribù?) possa aver vissuto qualcosa di molto simile a quanto narrato dall’Esodo (un’opera recente, e di certo non estremista, è M. Priotto, «Esodo», Paoline 2014).

E avrebbero attraversato il mar Rosso dove? Dobbiamo essere onesti e ammettere che non sappiamo ricostruirlo. Un mare che però viene definito come «Mare delle canne», lascia intendere che, almeno in un suo tratto, debba essere davvero poco profondo e paludoso. L’attuale canale di Suez, d’altronde, sfrutta laghi e paludi che da millenni separano l’Egitto dal Sinai, e che potevano comunque essere mortali per una carovana di civili inseguita da una colonna militare.

Quanto ho provato a restituire, sia pure in dimensioni e con modalità proporzionate a un articolo di rivista, è ciò che la maggior parte di storici e biblisti oggi ritiene equilibrato e realistico. Ho abbreviato dubbi e precisazioni che sono normali nella ricerca storica antica, ma che ho pensato potessero annoiare un lettore non specialistico. Valutazione forse sbagliata, come le intelligenti domande del lettore indicano.

Angelo Fracchia
19/11/2021


MC a scuola

Gentile Direttore,
da alcuni anni sono abbonato alla bella rivista MC. Questa è la mia richiesta di «aiuto urgente», da professore, da educatore.

Nel mio liceo ad indirizzo linguistico sono programmate cinque mattinate full immersion su tematiche relativamente libere attorno alle quali [gli studenti] devono «crescere» proprio in capacità di vagliare criticamente fonti informative, saper poi schematizzare quanto appreso e saperlo comunicare ai compagni. La mia classe  ha deciso di mettere a confronto dichiarazioni ammirevoli di difesa dei diritti umani in Europa ed
il modo di attrezzarsi/reagire reale alle varie ondate di profughi/rifugiati/disperati che si affacciano alle diverse «porte       »: fra Marocco e Spagna; dal Maghreb; lungo il «corridoio balcanico»; sulle coste greche ed italiane; al confine della Bielorussia…. adesso di nuovo nel canale della Manica.

Un grande aiuto per noi sarebbe avere l’indicazione bibliografica precisa di eventuali articoli sul tema contenuti nella nostra rivista (servizi informativi di Paolo Moiola, per esempio, ma anche articoli ben focalizzati di Francesco Gesualdi che apprezzo particolarmente). Poter offrire le informazioni/riflessioni di una rivista caratterizzata da libertà di pensiero e grande umanità sarebbe per me fonte di gioia, di sorriso (27/11/2021).

Dopo una rapida risposta in merito, ecco un altro passaggio stimolante per noi di MC.

Ringrazio infinitamente del link di ricerca per MC sfogliabile. Lo ho appena scorso e ho visto l’agile ordinamento in annate e poi in numeri mensili e poi sfogliando la singola rivista e poi scaricare-stampare le singole pagine. Tutto molto ordinato, chiaro e veloce: sinceri complimenti da un professore. Ho visto anche che posso fare una ricerca per ogni singola rivista (digitando per esempio «Libia»). Ecco, però, mi azzardo a chiederle se non fosse possibile estendere una voce di ricerca ad un’intera annata (28/11/2021).

Alla conclusione della prima tappa della nostra maratona delle cinque mattinate, desidero esprimerle un ringraziamento per la presenza (spirituale e reale). La possibilità di accedere all’indice ragionato della rivista è stata cosa apprezzata da me e dagli studenti che hanno potuto «conoscere» una rivista sconosciuta andando anche oltre i loro pregiudizi adolescenziali (e secolari).

Grazie di cuore. Un caro saluto

Prof. Marco B.
Bolzano, 30/11/2021

 

Caro professor Marco,
mi permetto di condividere qui quanto lei ci ha scritto, perché è incoraggiante anche per noi della redazione. L’apprezzamento suo e dei suoi studenti ci invoglia a continuare nel nostro non facile servizio, senza cadere nella tentazione di piacere a tutti i costi.

Quanto alla possibilità di una ricerca ragionata e specifica estesa a tutta un’annata o a tutto lo sfogliabile, è un desiderio che portiamo nel cuore da tempo, anche perché sono diversi gli studenti universitari che hanno fatto ricerche sulle nostre riviste passate per le loro tesi di laurea.

Il sogno sarebbe di digitalizzare tutte le annate della rivista a cominciare del primo numero e mettere un adeguato motore di ricerca, ma i costi per questa operazione sono molto alti (almeno per le nostre possibilità) e così stiamo procedendo a piccoli passi.

Ovvio che se troviamo altri che sognano come noi, il sogno potrà avverarsi. Ogni bene a lei e ai suoi fantastici ragazzi.

 

Una vita fatta Missione

Il sindaco, dott. Luca Bertino, e il parroco, don Antonio Marino, a nome della comunità civile e parrocchiale di Nole (To), insieme agli amici del gruppo missionario esprimono il loro cordoglio per la scomparsa in Colombia del caro Baima padre Agostino, missionario della Consolata. Fu un religioso appassionato e gioioso, donò la sua vita per i più poveri, nelle missioni in Ecuador e Colombia. Molto legato alla sua terra di origine, quando tornava a Nole era sempre a disposizione di tutti con cuore generoso.

Federico Valle,
parrocchia di Nole, 26/11/2021

La mattina del 24 novembre 2021, padre Agostino Baima è morto nella città di Manizales (Colombia) poco più di un mese prima di compiere 82 anni di vita. Tutta la sua esistenza è stata marcata dall’avventura missionaria che lo ha accompagnato fino alla fine.

«La mia vita è praticamente questa, essere missionario. Vivo nella comunità dei Missionari della Consolata da 70 anni e la mia famiglia missionaria è come la mia vera famiglia», aveva detto solo pochi mesi fa.

Agostino era nato il 26 dicembre del 1939 nel seno di un’umile famiglia di Cirié, allora un piccolo paese della provincia di Torino, ultimo di una famiglia di quattro fratelli. Perse la madre quando aveva solo 5 mesi di vita. Forse senza saperlo, in quel momento la sua vita prese la via della missione perché la mamma, appena prima di morire, disse «questi miei figli non sono più miei, li ho offerti al Signore».

Ha dedicato i suoi ultimi anni al Santuario di Nostra Signora di Fatima a Manizales, da dove la comunità lo ha salutato con il cuore addolorato, ma anche pieno di gioia per vederlo arrivare alle sorgenti di quella missione per la quale aveva consacrato la vita.

Paula Martinez,
Manizales, 29/11/2021

Pubblichiamo solo queste poche righe, riservandoci di tornare a scrivere di questo missionario speciale nel prossimo numero.