Brasile: Chico Mendes sfrattato

testi di Silvia Zaccaria e Paolo Moiola |


Nata nel 1994 per aiutare i figli dei caboclos del Rio Jauaperi, un affluente del Rio Negro, nell’Amazzonia brasiliana, la scuola di «Vivamazzonia» è stata costretta a chiudere a fine dicembre. Un’esperienza pedagogica e didattica di grande respiro ha dovuto cedere il passo al business e al momento storico.

Il dibattito sul futuro dell’Amazzonia e dei suoi popoli è recentemente tornato di drammatica attualità: deforestazione incontrollata, disconoscimento dei diritti costituzionali delle minoranze e un nuovo nemico sconosciuto e invisibile (il coronavirus) che penetra anche nei villaggi più remoti, rappresentano una minaccia non solo per i popoli indigeni ma anche per quelle popolazioni tradizionali – seringueiros, quilombolas e ribeirinhos (si veda glossario, ndr) – che da secoli dipendono dalla foresta per la propria sopravvivenza fisica e culturale.

La relazione privilegiata che intrattengono con essa ha permesso a questi gruppi umani di acquisire conoscenze sconfinate su animali e piante, comprese quelle medicinali, sul ritmo delle acque dei fiumi e sul regime delle piogge.

Senza un’educazione, incentrata sulla valorizzazione di questi saperi e sull’accesso alla cittadinanza, alle nuove generazioni nate e cresciute nella foresta – dove ormai vive appena il 26% della popolazione amazzonica – non resta che emigrare verso le città, nelle quali, persi i propri riferimenti socio spaziali, rischiano di diventare facili prede dei circuiti illegali.

Per provare ad arginare questo fenomeno apparentemente inarrestabile, una coppia di volontari venuti da lontano ha portato avanti per oltre vent’anni (1994-2020) un progetto educativo visionario nel cuore della foresta. Che ora è stato bruscamente interrotto.

Piccoli di tartaruga per una lezione di ecologia quotidiana degli alunni «caboclos» della scuola di Vivamazzonia. Foto di Sitah.

La scuola di Bianca e Paul

Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, l’Amazzonia inizia ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica e della comunità internazionale a causa del profondo disboscamento che già interessa ampie zone della foresta. Il leader indigeno Raoni Kayapò sta facendo conoscere al mondo il dramma del suo popolo e Chico Mendes, seringueiro e sindacalista, viene assassinato (22 dicembre 1988).

Dopo un primo viaggio al confine tra gli stati di Amazonas e Roraima, nel Nord del Brasile, una giovane toscana, Bianca Bencivenni e Paul Clark, scozzese, decidono di trasferirsi in un’area ancora poco esplorata del rio Jauaperi, un affluente del rio Negro, abitata solo dagli indigeni Waimiri-Atroari e dai caboclos, un misto di indigeni e persone immigrate dal Nord Est del paese, che vive in un isolamento geografico e culturale lungo i fiumi e gli igarapés (corsi d’acqua navigabili in canoa), da cui anche l’appellativo ribeirinhos.

Dopo qualche tempo, gli abitanti del posto chiedono a Bianca e Paul di insegnare a leggere e a scrivere ai loro figli, perché l’unica scuola pubblica esistente nella zona è quasi sempre chiusa visto che i professori, non venendo pagati, non si presentano per mesi.

Così, nel 1994 viene aperta una nuova scuola sul fiume: una maloca senza pareti, sul modello di quella dei vicini indigeni, dove realizzare un’educazione compenetrata con il contesto in cui, allo studio delle materie curricolari, si alternano uscite all’esterno, per fare esperienza diretta del mondo circostante, carico di significati.

Il libro e l’Italia

A seguito dei viaggi della coppia in Italia, dove fanno conoscere l’iniziativa soprattutto nelle scuole, alcune di esse avviano degli intensi scambi epistolari con la scuola nella foresta. Dai disegni colorati e dalle parole piene di poesia degli alunni del primo ciclo nasce      O livro da selva, libro bilingue italiano-portoghese.

Nel 1998 Paul e Bianca fondano, poco più a Sud, la scuola Vivamazzonia, dal nome dell’associazione omonima cui hanno dato vita con un gruppo di amici italiani.

La prima generazione di ragazze e ragazzi alfabetizzati spinge gli adulti della comunità ad imparare a leggere e a scrivere, per uscire dalla condizione di svantaggio che li rende facile preda di coloro che da sempre approfittano di una popolazione analfabeta e sottomessa.

La scuola avvia anche progetti di preservazione della natura e di sensibilizzazione contro la pesca predatoria e il bracconaggio di alcune specie di tartarughe a rischio di estinzione. Progetti che coinvolgono gli alunni in un’esperienza unica di educazione e attivismo ambientale.

Queste attività generano l’ostilità di una parte della popolazione. Bianca e Paul subiscono minacce e intimidazioni anche da parte del governo locale che non esita a mandare un contingente militare nella zona.

La «riserva estrattiva»

La copertina del libro bilingue sulla foresta amazzonica disegnato dagli alunni della scuola Vivamazzonia. Foto Paolo Moiola.

Sul fiume manca qualsiasi realtà organizzata che rappresenti le istanze degli abitanti e si opponga alle attività illecite portate avanti da una parte di questi.

A partire dal lavoro con i bambini, Paul e Bianca stimolano i genitori a costituirsi in associazione per generare una fonte di reddito alternativa e sostenibile a partire dal riscatto di antiche tecniche artigianali e, allo stesso tempo, agire assieme ai figli in difesa del proprio ambiente di vita.

Nasce l’Associazione degli artigiani del Rio Jauaperi (Aarj). Questa si impegna da subito per raggiungere un accordo intercomunitario che proibisca la pesca commerciale (la legge relativa è in vigore ancora oggi) e sostiene la creazione di una «riserva estrattiva» sul fiume.

Riconosciuta nel giugno 2018, dopo anni di lotte, la «Reserva extrativista baixo rio Branco-Jauaperi» è una delle 89 aree protette esistenti oggi in tutto il Brasile. Nelle riserve le risorse sono utilizzate solamente dalle popolazioni locali che da esse traggono il proprio sostentamento e di cui Chico Mendes fu strenuo sostenitore.

Nel gennaio 2020, dopo oltre vent’anni di attività, in gran parte prestata a titolo volontario, Bianca e Paul sospendono le lezioni per una scelta politica dell’amministrazione di Novo Airão, il municipio di appartenenza. E questo, malgrado il riconoscimento di tante madri, padri e dei loro figli, oltre che di personalità della cultura e dello spettacolo, tra cui il musicista e attivista per i diritti indigeni Milton Nascimento che aveva recentemente fatto visita alla scuola Vivamazzonia.

Caboclos di ieri e di oggi

Pescatori, piccoli agricoltori, artigiani, raccoglitori dei prodotti della foresta (extrativistas), levatrici tradizionali (parteiras) e guaritori: questi erano i caboclos quando li ho conosciuti al principio degli anni ’90.

Oggi alcuni partecipano a progetti di ecoturismo come guardie ecologiche e, di quella prima generazione di bambini alfabetizzati, alcuni sono diventati professori. Oggi hanno una legge che – teoricamente – tutela la lora terra e, con essa, la loro cultura.

Politiche contrarie alla protezione ambientale e ai popoli indigeni e tradizionali come quella dell’attuale governo brasiliano – che trova seguaci persino negli angoli più sperduti del paese tra coloro che si accaparrano voti approfittando dell’abitudine atavica dei più deboli di rinunciare ai propri diritti in cambio di qualche sacco di riso e pacco di zucchero – ostacolano la maturazione di una vera consapevolezza ecologica e di una coscienza politica anche alle latitudini amazzoniche.

Neanche il duro lavoro di persone come Paul e Bianca può determinare, da solo, quel cambiamento culturale dal basso necessario a contrastare la distruzione e l’abbandono della foresta e la perdurante situazione di esclusione socio-economica dei suoi abitanti.

Tra i caboclos, i rezadores e i pajé (sciamani), capaci di guarire e riparare i mali, sono praticamente scomparsi; il boto cor de rosa (un delfino di fiume, ritenuto in grado di trasformarsi in essere umano) è quasi estinto, mentre il mapinguari, il curupira e altri esseri fantastici non popolano più la foresta, né l’immaginario di piccoli e grandi.

Quando le risorse naturali saranno consumate definitivamente in nome dello «sviluppo», i caboclos di oggi si ritroveranno, come la generazione precedente, a vagare nelle metropoli amazzoniche, dimentichi della propria cultura e delle proprie radici, ma questa volta non sarà più possibile tornare indietro.

Silvia Zaccaria

Alunni caboclos della scuola Vivamazzonia. Foto di Sitah.


Il Brasile e la presidenza Bolsonaro

Senza freni, senza vergogna

All’alleanza tra Bolsonaro, militari, allevatori ed evangelici ora si è aggiunto anche il nuovo coronavirus. Un mix micidiale che sta devastando l’ambiente e mettendo a rischio la vita dei brasiliani e la stessa sopravvivenza dei popoli indigeni.

Uno Yanomami con mascherina protettiva durante una riunione a Boa Vista. Foto: Carlo Zacquini.

Difficile dire cosa stia procurando più danno ai popoli indigeni e all’Amazzonia: se le politiche poste in essere dal governo di Jair Messias Bolsonaro o il nuovo coronavirus. Di certo, la pandemia ha trovato maggiori possibilità di diffondersi e di uccidere a causa delle politiche governative. Nel corso di questo 2020, Bolsonaro, il Trump brasiliano – come viene giustamente soprannominato -, non ha modificato di un millimetro le proprie posizioni anti-indigene e anti-ambientaliste, forte dell’appoggio dei militari, degli allevatori e degli evangelici, tutti ben rappresentati nella compagine governativa.

Fin dall’inizio Bolsonaro ha ripetuto che con lui non ci sarebbero state altre demarcazioni di terre indigene. Il presidente non si è però limitato a bloccare questo processo, peraltro previsto dall’articolo 231 della Costituzione brasiliana del 1988. Ha addirittura iniziato un’operazione contraria sottraendo terre ai popoli indigeni. In qualsiasi modo. Sia non frenando le invasioni (come quelle dei garimpeiros nella terra degli Yanomami) che cercando di legalizzarle attraverso il riconoscimento formale delle terre invase e, di conseguenza, della pratica fraudolenta nota come «grilagem de terras» (falsificazione della proprietà fondiaria). Invasioni che, in questo periodo, hanno tra l’altro favorito la diffusione del nuovo coronavirus tra popolazioni più vulnerabili – lo certificano sia la scienza che la storia – ad alcune patologie rispetto ai Bianchi (si parla di «virgin soil epidemics»).

Cancellare la foresta e i popoli indigeni

La deriva di Bolsonaro coinvolge anche i suoi ministri. Abraham Weintraub, ministro dell’istruzione, ha dichiarato: «Odio il termine “popoli indigeni”» (22 aprile). Per parte sua, Ricardo Sales, ministro dell’ambiente, ha spiegato che è necessario approfittare della pandemia e della conseguente disattenzione dei mezzi d’informazione per cambiare le regole ambientali in senso meno restrittivo. Non si è fatto attendere il plauso delle potenti organizzazioni dell’agrobusiness.

La deriva è così sfacciata che un quotidiano conservatore e moderato come la Folha de S.Paulo è arrivato a scrivere, in un proprio editoriale (del 24 maggio), che «Per il governo di Bolsonaro, una buona foresta è una foresta morta» (Para o governo Bolsonaro, floresta boa é floresta morta). I dati confermano drammaticamente questa affermazione. Per esempio, lo scorso mese di aprile l’Amazzonia brasiliana ha perso 405,61 chilometri quadrati di foresta, segnando un incremento del 64% rispetto allo stesso mese dell’anno passato (dati ufficiali Inpe-sistema Deter). Stessa devastazione stanno subendo la Mata Atlantica e il Cerrado, gli altri due biomi brasiliani.

Chi si discosta dalla linea del presidente viene prontamente sostituito: è successo con il ministro della giustizia, Sérgio Moro (il controverso giudice che ha fatto condannare l’ex presidente Lula), e con ben due ministri della salute, entrambi medici, Luiz Mandetta e Nelson Teich. In piena pandemia il dicastero della salute è stato affidato a Eduardo Pazuello, un generale dell’esercito.

La religione come strumento

È più difficile che ci siano problemi con la ministra per la famiglia, la donna e i diritti umani, Damares Alves, pastora evangelica. Uno degli slogan preferiti di Bolsonaro è infatti «Brasil acima de tudo, Deus acima de todos» (il Brasile sopra tutto, Dio sopra tutti). In un tweet il presidente – come Trump, anche lui ha un utilizzo compulsivo di questo strumento di comunicazione – scrive: «Sono presidente perché la maggior parte delle persone si è fidata di me, così come sono vivo perché Dio lo ha permesso» (26 maggio).

Marcelo Augusto Xavier da Silva, nuovo Presidente della Funai / Foto Mario Vilela – FUNAI.

Da sempre Bolsonaro usa la religione in modo strumentale per legare (come peraltro suggerisce l’etimologia del termine: «religare», legare, appunto) a sé una parte della popolazione brasiliana, in particolare quella che segue le cosiddette Chiese neo-evangeliche, avamposto ideologico dell’individualismo e del capitalismo neoliberista.

In quest’ottica, una delle decisioni più spudorate riguarda la nomina di Ricardo Lopes Dias, già missionario nella regione Vale do Javari per conto della organizzazione evangelica Missão Novas Tribos do Brasil (Mntb, all’estero ribattezzata Ethnos 360), a coordinatore per i popoli isolati della Funai, l’organo federale deputato alla difesa dei diritti dei popoli indigeni. Mntb è conosciuta per il suo fondamentalismo e la mancanza di rispetto per le culture indigene. Per fortuna, al momento, la nomina di Dias è stata bloccata da un Tribunale federale perché metterebbe a rischio la politica di non contatto con i popoli in isolamento.

Un piccolo contrattempo in un processo di subordinazione in fase molto avanzata. La Funai, infatti, è già nelle mani di evangelici e latifondisti. Il ministro della giustizia da cui essa dipende è un pastore evangelico (André Mendonça, che dunque porta a due i pastori nel governo Bolsonaro), mentre il suo presidente è un membro della polizia contiguo ai latifondisti e in passato accusatore della stessa Funai (Marcelo Augusto Xavier da Silva).

Il coraggio del Cimi

In tutto questo, va dato merito a quasi tutta la Chiesa cattolica di aver seguito una linea opposta, contrastando in maniera chiara e coraggiosa tutte le politiche anti-indigene e anti-ambientaliste del presidente. In particolare, attraverso il Cimi (Consiglio indigenista missionario) e la Repam (Rete ecclesiale panamazzonica), convinti seguaci della linea segnata da papa Francesco con la Laudato si’ e il Sinodo panamazzonico.

Bolsonaro non considera l’Amazzonia un patrimonio comune dell’umanità. Lo ha detto chiaramente davanti all’assemblea delle Nazioni Unite (a settembre 2019, dopo mesi di incendi forestali estesissimi e devastanti) e lo ha ribadito lo scorso febbraio a papa Francesco il quale, in occasione della presentazione dell’esortazione apostolica «Querida Amazonia», si era azzardato a dire che essa «è anche “nostra”».

La morte è il destino di tutti

Fin dall’inizio il presidente brasiliano è stato un leader negazionista (dell’emergenza climatica e del problema amazzonico). Non poteva che mantenere questo suo atteggiamento anche davanti alla pandemia, prima definita una gripezinha (lieve influenza) poi contrastata con la clorochina (come Trump). In un crescendo di dichiarazioni stupefacenti: il 2 giugno Bolsonaro risponde a una sostenitrice che morire «è il destino di tutti»; il 5 attacca (identicamente a Trump) l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e ordina di divulgare il bollettino sulla pandemia soltanto nella notte perché così la Globo (la principale emittente del paese) smetterà di essere soltanto una «Tv funerária».

Peccato che il Brasile evidenzi numeri drammatici con oltre 800mila contagiati e più di 40mila morti (dati aggiornati al 11 giugno, anche se il sito ufficiale del Sus è semi oscurato per ordine del presidente). Tra i suoi popoli indigeni si contano 236 morti, 2.390 contagiati e 93 popoli coinvolti (Apib-Sesai, 6 giugno). Numeri che non debbono trarre in inganno facendo sottovalutare la pericolosità della situazione. Oltre alla maggiore vulnerabilità (tra gli indigeni il tasso di letalità arriva al 10%), non dimentichiamo che le aree indigene non sono attrezzate per affrontare emergenze sanitarie di alcun tipo, figuriamoci se lo sono per il nuovo coronavirus.

Via Bolsonaro (e Trump)

La speranza di molti (e nostra) è che, assieme al virus, se ne vada quanto prima anche il presidente Bolsonaro (ci sono molte richieste d’incriminazione nei suoi confronti) e, a novembre (in occasione delle elezioni), anche Donald Trump, il suo collega e sodale nordamericano.

Paolo Moiola

Tra terra e cielo, uno scorcio del fiume Jauaperi e della foresta amazzonica. Foto di Joao Couto.


Glossario

  • Caboclo: discendente da popolazioni indigene e popolazioni immigrate dal Nord Est del paese. Il rapporto dei caboclos con i popoli indigeni è stato sempre conflittuale. Fino a poco tempo fa, i caboclos non si consideravano di sangue indigeno e spesso negavano di avere una pur lontana ascendenza indigena. Vista l’accezione dispregiativa del termine «caboclo», usato dalla società dominante per descrivere una persona socialmente inferiore, che abita nelle zone più interne o nelle periferie urbane dell’Amazzonia, i caboclos hanno iniziato recentemente a rivendicare la propria «indianità».
  • Extrativistas: coloro la cui sussistenza dipende dalle risorse dell’ambiente in cui vivono. Gli extrativistas che abitano l’ambiente amazzonico possono essere: seringueiros se estraggono il caucciù dall’albero della seringa; castanheiros se raccolgono la noce del Brasile; quebradeiras se donne «che spaccano» il cocco della palma babaçu.
  • Igarapé: piccolo corso d’acqua percorribile con la igara (canoa).
  • Pajé: sciamano, il leader spirituale riconosciuto dalla comunità. Mantiene il contatto con gli spiriti. Svolge anche rituali di cura individuali.
  • Quilombolas: discendenti di schiavi fuggiti che, nella foresta, diedero vita a comunità autonome chiamate quilombos.
  • Rezador: persona che cura attraverso le preghiere e che conosce le piante medicinali. Si trova anche in contesti rurali e sincretici.
  • Ribeirinho: è il caboclo abitante lungo le sponde di fiumi, laghi e igarapés amazzonici, che vive di pesca, agricoltura e attività estrattive.
  • Si.Za.

Bianca e Paul, anima del progetto pedagogico Vivamazzonia, con materiale didattico di propria produzione. Foto di Sitah.

Meriti

Lo scorso febbraio la presidenza della Repubblica italiana ha conferito un’onorificenza a una nostra connazionale operante in Amazzonia a cui è stato attribuito il merito per «la prima generazione di bambini non analfabeti, il contrasto all’esodo urbano e alla povertà» sul fiume Jauaperi.

Un obiettivo che Paul e Bianca hanno perseguito proprio in quello stesso angolo di mondo, per oltre venticinque anni con un lavoro instancabile, portato avanti in solitudine e lontano dai riflettori. Un impegno che, purtroppo, non ha ottenuto il riconoscimento che meritava.

Si.Za.

 

 

 




Popolo Indigeno d’Europa

testo e foto di  Valentina Tamborra |


Nell’estremo Nord del continente da sempre vivono i Sami. Nella storia oppressi e assimilati, stanno oggi lottando per mantenere la loro cultura e tradizioni. A dispetto della modernità che avanza.

I Sami sono una popolazione indigena che oggi conta circa 75mila persone. Divisi dalle frontiere di quattro stati – Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia – vivono in un’area da loro chiamata Sapmi.

L’area ha una propria bandiera i cui colori identificano le sue diverse zone: rosso per la Svezia, verde per la Finlandia, giallo per la Russia e blu per la Norvegia, dove vivono la maggior parte dei Sami.

I nativi di queste zone sono comunemente definiti «lapponi». Il termine però, aveva inizialmente una valenza dispregiativa in quanto la parola svedese «lapp» stava a indicare una «toppa, pezza».

Solo nel 1989 è stato istituito un parlamento sami della Norvegia, in riconoscimento dei loro diritti. L’edificio è stato costruito nella città di Karasjok e la sua architettura ricorda la forma di un lovvo, ovvero una tenda (abitazione tradizionale dei Sami dediti all’allevamento delle renne), pur essendo moderno e all’avanguardia.

Inoltre, dal 1956 è attivo il Sami Council, organizzazione volontaria non governativa che ha come scopo la promozione della cultura e la difesa dei diritti e degli interessi di questo popolo.

La costituzione di un parlamento sami è di particolare rilevanza, in quanto i nativi del Sapmi hanno subito una sorte che sfortunatamente, nella storia, ha toccato diversi popoli nativi.

Sami, Valentina Tamborra

Assimilazione forzata

Tra il 1850 e il 1970 infatti, il popolo sami ha subito quella che è stata chiamata «norvegizzazione».

Durante questo periodo ai Sami residenti in Norvegia venne impedito di parlare la propria lingua e imposto di assumere un cognome norvegese per poter acquistare delle terre e integrarsi con il resto della popolazione norvegese. A quei tempi appartenere al popolo Sami era un marchio d’infamia.

Gli adulti vennero assimilati al modo di vivere occidentale e solo con estrema fatica alcuni di loro – soprattutto i Sami della tundra – continuarono a lavorare con le renne e a preservare la tradizione.

I bambini nati durante il periodo della norvegizzazione infatti, spesso non imparavano neppure la propria lingua. I genitori, per preservarli e far sì che si integrassero fra la popolazione norvegese, parlavano con loro solo nella nuova lingua. Ad oggi molti sono gli adulti che sentono di aver perso le proprie radici.

Una delle prime distinzioni da fare quando si parla di questo popolo è quella fra Sami di mare e Sami della tundra. I primi, vivendo lungo le coste dei fiordi che costellano il paese, sono stati fra i primi a subire il processo di norvegizzazione. Fra di loro, la percentuale di persone che non parlano Sami è molto alta. Mediamente le persone fra i 30 e i 60 anni di età, infatti, non conosco la propria lingua madre. Per ovviare a questo, sono in corso diverse iniziative per il recupero dell’identità: il parlamento sami, infatti, ha reintrodotto la lingua sami nelle scuole e con essa anche lo studio della tradizione e della storia. Esistono poi specifici corsi per adulti che desiderino apprendere la lingua.

I Sami della tundra invece, in quanto nomadi dediti all’allevamento delle renne, hanno subito meno la norvegizzazione e in città come Karasjok e Kautokeino, entrambe in Norvegia, l’85% della popolazione parla sami come prima lingua.

Sami, Valentina Tamborra

I nomadi della tundra

I Sami della tundra sono dediti all’allevamento delle renne e questo li rende nomadi in quanto debbono seguirne i movimenti.

Sin da bambini vengono iniziati dai genitori a questo lavoro che prevede un costante e completo contatto con la natura.

Le renne vivono in assoluta libertà e sono gli uomini a doversi adattare ai loro movimenti. Gli animali infatti, si spostano dalla costa alla tundra a seconda delle stagioni, e seguono la stessa tratta da millenni: lo spostamento segue questa rotta da quando i primi Sami iniziarono a vivere di questa attività, e il movimento è strettamente connesso alla ricerca di cibo da parte delle renne.

I Sami sono al seguito delle renne. Se una volta essi si avvalevano di slitte trainate da renne e sci, oggi le renne vengono dotate di collare gps, e un’apposita App permette di localizzare con più precisione possibile dove gli animali si stanno muovendo.

Questo ha ovviamente semplificato di molto il lavoro dei Sami: prima dell’avvento del gps infatti, era necessaria una costante vigilanza sulla mandria. Intere famiglie Sami vivevano per mesi smontando e rimontando il proprio lovvo seguendo il movimento degli animali. Quando la mandria si fermava a riposare, anche la famiglia poteva fermarsi, ma se gli animali si rimettevano in cammino bisognava immediatamente seguirli. L’ultima transumanza con le slitte e le renne è stata fatta, in Norvegia, nel 1976.

Oggi grazie alla moderna tecnologia, i Sami hanno costruito delle cabin (sorta di piccoli rifugi costruiti in legno, molto basici, vedi box) nelle tratte di percorrenza delle renne e, con potenti motoslitte in inverno e quad (specie di moto a quattro ruote) in estate, sono in grado di raggiungere gli animali molto velocemente.

Sami, Valentina Tamborra

La marchiatura

In estate, quando i nuovi nati fanno capolino nella mandria, è il momento della conta: ogni Sami si predispone a seguire la mandria e direzionarla verso grandi recinti dove ogni renna giovane verrà marchiata con il simbolo proprio del Sami che riuscirà a prenderla.

Portare le renne nei recinti della marchiatura è operazione tutt’altro che semplice: per loro natura infatti, in quanto animali liberi e non abituati all’uomo, le renne tendono a fuggire non appena qualcuno si avvicina. Così i Sami si dividono in gruppi: le motoslitte accerchiano le renne e, stando a una distanza importante (circa 200 metri), cercano di spingerle verso i recinti. Le renne si spostano naturalmente in una sorta di fila indiana che può raggiungere centinaia di metri se non a volte anche qualche chilometro. Raccogliere la mandria è un’operazione assai delicata in quanto se uno solo degli animali cambia percorso, tutte le altre renne lo seguono.

Dopo la marchiatura, che avviene con il tradizionale coltello Sami realizzato a mano utilizzando legno, osso e acciaio, le renne vengono immediatamente rimesse in libertà.

In inverno, tra dicembre e febbraio, sarà il momento di tornare nella tundra e scegliere quali animali verranno utilizzati per fornire carni, pelli e quanto serve per il sostentamento.

Oggi questa forma di allevamento è messa a dura prova in quanto, con lo scavo di nuove miniere e l’installazione di pale eoliche o tralicci della corrente, le renne trovano difficile orientarsi. La nuova conformazione del paesaggio nonché i rumori prodotti da queste installazioni disturbano gli animali durante la transumanza costringendoli a cambiare percorso e facendo loro spendere molta energia in più rispetto al passato. Questo mette a dura prova la mandria e molti animali non sopravvivono. La paura dei Sami, oggi, è quella di vedere nuovamente venir meno la propria tradizione e la propria cultura in nome dell’avanzamento tecnologico.

Sami, Valentina Tamborra

Nel profondo dei fiordi

I Sami di mare vivono prevalentemente lungo le coste norvegesi e non sono nomadi.

Il nome «Sami di mare» potrebbe suggerire una tradizione di pesca, ma in realtà essi si occupavano, in passato, prevalentemente di allevamento di ovini e di tessitura di lana. La pesca non rappresentava la principale fonte di sostentamento ma era parte dell’economia che si reggeva prevalentemente sul baratto. I legami fra Sami di mare e Sami della tundra infatti, erano e sono ancora oggi fortissimi. Le prime strade di collegamento con il resto della Norvegia infatti, vennero costruite solo nel 1970, dunque fino a quegli anni l’economia doveva per questioni di forza maggiore, basarsi sullo scambio fra le due popolazioni Sami.

Se i primi potevano fornire lana, materiale tessile e oggettistica realizzata in legno e osso (oggetti tipici chiamati duodji e dunque utensili come coltelli, calze in lana, coperte, il tutto rigorosamente fatto a mano), i secondi potevano rifornire i Sami di mare con pelli di renna (ottimo isolante dal freddo di queste zone oltre il circolo polare artico), e carne.

Oggi i Sami di mare svolgono i più svariati lavori: perfettamente integrati nel tessuto sociale norvegese, non vivono più di forme di baratto ma sono impegnati in lavori quali insegnanti, medici, cuochi.

Sami, Valentina Tamborra

Spiritualità e religione

Sebbene i Sami siano per lo più luterani, il loro legame con la religione d’origine, lo sciamanesimo, resta estremamente forte.

Lo sciamanesimo era un culto politeista che traeva la propria ispirazione dalla natura. Tra le più antiche divinità troviamo quindi la Madre Terra (colei che governa le nascite e dunque la vita) e il Dio del tuono.

Tra il XIII e il XVI secolo ci furono molte spedizioni missionarie atte a convertire i Sami al cattolicesimo e al luteranesimo. Con l’avanzata dei coloni scandinavi e norvegesi, intere comunità sami furono costrette ad abbandonare le pratiche religiose pagane.

Proprio in Norvegia, nel 1716, nacque il Seminarium Lapponicum: organizzazione con il compito di cristianizzare i Sami fornendo loro le Sacre scritture in lingua Sami. Questa iniziativa fallì in quanto la maggioranza ecclesiastica si oppose alla conservazione dei valori tradizionali (fra cui la lingua) e si procedette al sequestro e al rogo degli oggetti simbolici, come i tamburi, legati al culto pagano.

Fu con l’arrivo di Lars Levi Laestadius, nel XIX secolo, che avvenne una vera svolta.

Questo pastore luterano di origine sami fondò un suo proprio movimento, il Laestadianesimo.

Il primo precetto di questo movimento è la remissione dei peccati e l’incontro con lo Spirito Santo.

Dopo l’arrivo dei coloni infatti, complice il forte cambiamento di vita con l’imposizione di nuove abitudini, l’esproprio forzato dai terreni, la perdita della lingua madre, molti Sami erano caduti nella spirale dell’alcool.

L’alcool però era altresì associato alle pratiche sciamaniche, necessario per cadere in trance.

Laestadius, grazie alla fondazione del suo movimento religioso, aiutò i Sami a trovare una nuova salvezza dalla spirale di abbruttimento nel quale erano caduti dopo l’invasione dei coloni, ma allo stesso tempo impose loro concetti molto restrittivi creando fratture fra la comunità stessa. Chi non si convertiva, infatti, veniva guardato con sospetto e messo in qualche modo al bando dalla comunità.

Il racconto del processo di colonizzazione e di quanto avvenne in quel tempo è ben documentato nel film «La rivolta di Kautokeino» del regista Nils Gaup. Il film è incentrato sulla rivolta di un gruppo di Sami, nel 1852, contro un mercante locale e il suo alleato, un pastore luterano.

Ad oggi, come dicevamo, molti Sami seguono il cristianesimo ma continuano a conservare figure come il «guaritore». La differenza con il passato è che, se una volta il guaritore/sciamano, utilizzava il tamburo per mettersi in collegamento con gli Dei e guarire una persona, oggi la guarigione viene operata tramite l’uso della Bibbia e di Gesù. Questa mescolanza fra cristianesimo e paganesimo è ancora più forte quando scopriamo che alla celebrazione del Natale i Sami affiancano il «Nissetoget» per la celebrazione del Capodanno.

La notte del 31 dicembre, infatti, è usanza ritrovarsi verso le ore 20 per dar luogo a una lunga processione in maschera: ogni famiglia, nelle settimane precedenti all’evento, costruisce maschere e costumi.

Le maschere sono spaventose perché debbono rappresentare i demoni o comunque il «male» che verrà bruciato alla fine della processione, a mezzanotte, in un grande rogo simbolico per far iniziare il nuovo anno al meglio.

Con il rogo delle maschere, gli spiriti maligni vengono allontanati e si fa spazio agli dei benevoli a cui rivolgere le proprie preghiere per un anno nuovo sereno.

Sami, Valentina Tamborra

Le pietre del sacrificio

C’è poi un’altra usanza che dimostra come l’antico credo legato alla terra e alla natura sia radicato e forte. Nella tundra infatti, ci si può imbattere in quelle che vengono definite «pietre del sacrificio». Si tratta di grosse rocce su cui i Sami lasciano offerte (possono essere monete, corna di renna, carne) per ingraziarsi gli dei della natura e ottenere così una buona pesca o un buon anno di caccia o di allevamento.

Oltre alle pietre del sacrificio, restano ancora oggetto di attenzione e di culto altre rocce: un tempo infatti, prima dell’avvento del luteranesimo, i Sami identificavano come luogo sacro ove ritrovarsi a pregare, delle pietre di forma particolarmente allungata verso il cielo – luoghi che simboleggiavano l’unione fra terra e mondo invisibile.

Molto importante è poi per questa popolazione, il legame con gli antenati: la morte, che è vista come passaggio e naturale parte della vita, non è la fine di tutto. Per i Sami chi ci ha preceduto è in qualche modo eternamente presente. Una credenza diffusa infatti è che portare via un oggetto da una delle molte pietre del sacrificio, possa far infuriare gli spiriti che non daranno pace ai vivi sino a quando l’oggetto non verrà riposto nel luogo ove è stato trafugato.

Paganesimo, cattolicesimo, luteranesimo e sciamanesimo si fondono creando così una spiritualità molto forte che attinge alla tradizione antica.

Tutto questo è ben espresso nelle parole di un guaritore che per rispondere alla domanda «in quale dio credi?», ha usato la seguente espressione: «Che importanza ha il nome che gli dai? Se è uno, se sono molti? Ciò che conta, è che tutti si preghi per la pace».

Sami, Valentina Tamborra

La natura e la lingua

I Sami, sia di mare che della tundra, vivono strettamente a contatto con la natura. Questo li porta a un rispetto e a un rigore estremo.

Pur dovendo cacciare e allevare, non esiste Sami che non biasimi ad esempio la pesca o la caccia sportiva.

Per questa popolazione infatti, il rispetto della Madre Terra resta la base di ogni azione. Prima della caccia, prima della pesca, all’inizio della stagione della transumanza, si ringrazia e si chiede il permesso a Madre Terra per portare avanti la propria attività.

Un altro aspetto singolare e che racconta molto di quanto possa essere complicato e allo stesso tempo strettamente legata alle questioni ambientali la cultura Sami, è la loro lingua.

Catalogata in undici differenti dialetti, di cui uno estinto nel 1800 e l’altro nel 2003, solo sei di loro hanno una storia letteraria. È molto complicato comprendere e imparare questa lingua in quanto per una singola parola abbiamo talvolta più di 100 diverse espressioni, un esempio concreto è la parola neve. Vivendo nell’artico infatti, ove per circa sei mesi all’anno la neve, il ghiaccio e la poca luce fanno da padroni, è necessario poter definire al meglio uno dei componenti essenziali che determina la loro capacità di movimento e di lavoro in territori tanto duri come la tundra. E così per descrivere una neve secca, o fragile, o farinosa, o ghiacciata si usano parole completamente diverse fra loro.

Modernità e tradizione

Ad oggi risulta sempre più difficile per i Sami portare avanti il loro tradizionale stile di vita per via di diversi fattori che concorrono a rendere difficile la prosecuzione di una vita nomade e «al servizio» dei ritmi naturali: cambiamenti climatici, riduzione delle terre loro concesse per l’allevamento delle renne, nonché un turismo che raggiunge sovente mete che sino a poco tempo fa erano precluse proprio perché dedicate all’allevamento e al pascolo delle renne, sono tutti elementi che rendono difficile il mantenimento della tradizione.

In alcune città fra Norvegia e Svezia si sono già verificate proteste al fine di impedire la costruzione di nuove miniere, e alcuni capi della comunità dei Sami della tundra hanno provato a far sentire la loro voce ai propri governi. Nonostante ciò sembra inevitabile l’avanzamento del progresso e con esso, come spesso avviene, il sacrificio di realtà minori e dedite a una vita lontana dalla frenesia moderna.

Ciò che si spera, nella comunità, è che la tenacia, la forza di volontà e l’attaccamento alle radici consentano ai giovani Sami di portare avanti la propria tradizione anche se con fatica e sacrificio.

Valentina Tamborra

Sami, Valentina Tamborra

Vivere nelle cabin

Il riparo dei «rennari»

Le cabin, rifugi molto spartani, hanno sostituito l’utilizzo dei lovvo, tende tipiche che oggi vengono utilizzate essenzialmente per affumicare la carne di renna. Ciononostante la vita nella cabin è tutt’altro che agevole: l’energia elettrica viene fornita da un generatore posto all’esterno della cabin stessa e non è presente acqua corrente.

Date le temperature rigide dell’inverno, all’interno della cabin raramente si superano i 15 gradi e si è costretti a stare in molti dentro spazi davvero risicati. Spesso infatti gli allevatori condividono un rifugio formato da due o tre piccole stanze, in sei o sette persone.

L’acqua per cucinare o lavare le stoviglie viene ottenuta grazie al ghiaccio che si forma sulla superficie dei laghi. Raccolto in contenitori di metallo, viene poi sciolto sul fuoco.

Il bagno non è ovviamente presente, si costruiscono delle piccole capanne in legno a circa 200 metri dalla cabin.

I Sami che seguono la transumanza spesso restano nella tundra per due o tre settimane, adattandosi così a un modo di vivere estremamente semplice e spartano.

V.T.

Sami, Valentina Tamborra

 




Affogati in un mare di plastica

testo di Rosanna Novara Topino |


La plastica è ormai ovunque: spiagge, fondali marini, stomaco di cetacei e pesci. Tutti i mari della terra sono inquinati da residui plastici. Con conseguenze devastanti.

Tutte le volte che, dopo una forte mareggiata, facciamo una passeggiata sul bagnasciuga di una qualsiasi località di mare dobbiamo evitare di calpestare oggetti (bottiglie, tappi, cannucce, contenitori vari, ecc.) e frammenti di plastica avvolti in resti di alghe. Sono anni che questo capita, ma la situazione ormai sta diventando insostenibile, come dimostrano i ritrovamenti sempre più frequenti di grossi cetacei spiaggiati che, all’autopsia, rivelano grandi quantità di plastica di ogni tipo nello stomaco. È capitato nell’aprile 2019 a Porto Cervo, dove si è arenato un giovane capodoglio femmina di 8 metri, in agonia dopo avere abortito un feto di 2,40 metri. Una volta morto, nello stomaco di questo esemplare sono stati rinvenuti sacchi neri, tubi corrugati, un involucro di detersivo, piatti usa e getta e sacchetti della spesa. La stessa sorte è toccata ad un capodoglio spiaggiato in Indonesia con 6 kg di plastica nello stomaco e ad uno morto per shock gastrico nelle Filippine, che ne aveva ben 40 kg.
Già negli anni ’70, il problema della plastica in mare allarmò gli scienziati, che ne predissero la pericolosità senza peraltro essere ascoltati finché nel 1997, di ritorno in California dalle Hawaii l’oceanografo e skipper Charles J. Moore trovò un’enorme quantità di plastica galleggiante al centro del Nord Pacifico, una vera e propria «isola» di plastica, denominata Great Pacific Garbage Patch. Ben presto ci si rese conto che non era l’unica. La plastica viene infatti trasportata attraverso l’oceano (inteso come insieme di tutti i mari della terra) grazie ai venti e alle correnti marine. Sono state rinvenute alte concentrazioni di detriti di plastica galleggianti nel Nord Atlantico, Sud Atlantico, Nord Pacifico, Sud Pacifico e Oceano Indiano.

Il Mediterraneo: piccolo mare, tanta plastica

A queste cinque zone se ne aggiunge un’altra, in cui la plastica si trova in concentrazione assai elevata, il mare Mediterraneo, anche se in esso non si trovano isole, essendo la plastica più dispersa. Per le sue peculiari caratteristiche geografiche, essendo un mare semichiuso, circondato da tre continenti e interessato da molteplici attività umane, il Mediterraneo, che rappresenta solo l’1% di tutti i mari, contiene una concentrazione di microplastica quasi 4 volte superiore a quella di una delle grandi isole oceaniche, raggiungendo il valore di 1,25 milioni di frammenti di microplastica per km2 mentre si arriva a 10mila frammenti per km2 nei sedimenti. Questa situazione è dovuta al fatto che, nel Mediterraneo, la plastica permane molto a lungo, senza fuoriuscirne e frantumandosi ripetutamente fino a raggiungere dimensioni infinitesimali. La plastica rappresenta circa il 95% di tutti i rifiuti rinvenuti nel Mediterraneo. Ogni anno nei mari europei, in primis proprio nel Mediterraneo, finiscono tra le 150mila e le 500mila tonnellate di macroplastica e tra le 70mila e le 130mila tonnellate di microplastica. Quella del Mediterraneo è il 7% della microplastica globale. I paesi che maggiormente rilasciano plastica nel Mediterraneo sono la Turchia (144 tonnellate/ giorno), la Spagna (126), l’Italia (90), l’Egitto (77) e la Francia (66). La popolazione costiera del Mediterraneo è di circa 150 milioni di persone, che producono tra i 208 e i 760 kg di rifiuti solidi urbani pro capite l’anno. Alla popolazione stanziale vanno aggiunti circa 200 milioni di turisti l’anno, che visitano le coste mediterranee, con un aumento del 40% dell’inquinamento soprattutto nella stagione estiva. Le principali vie fluviali della plastica verso il mare sono rappresentate dai grandi fiumi, che sfociano nel Mediterraneo come il Nilo, l’Ebro, il Rodano, il Po, il Ceyhan e il Seyhan. Oltre al danno ambientale, il notevole inquinamento da plastica nel Mediterraneo colpisce l’economia dei paesi costieri; ne risultano penalizzati soprattutto i settori della pesca e del turismo. Per quanto riguarda la pesca, la plastica provoca una riduzione del numero di catture, danni alle imbarcazioni e alle attrezzature e riduzione della domanda di prodotti ittici da parte dei consumatori, per timore di contaminazioni. In questo settore, l’Unione europea registra, a causa della plastica in mare, una perdita di circa 61,7 milioni di euro l’anno. Riguardo al turismo, spiagge e porti sporchi possono allontanare i turisti, con una ricaduta sui posti di lavoro in questo settore. Per scongiurare che accada tutto ciò, nelle località colpite aumentano i costi per la pulizia degli stabilimenti balneari e delle zone portuali.

© Collin Key

Plastica recuperata, bruciata, spedita

L’elevata presenza di plastica nel Mediterraneo è correlata alla produzione di questo materiale e alla sua dismissione. Dai dati del Wwf, l’Europa risulta il secondo produttore di plastica mondiale, dopo la Cina. Nel 2016 in Europa sono stati prodotti 60 milioni di tonnellate di plastica, di cui 27 milioni si sono trasformati in rifiuti. Solo il 31% dei rifiuti in plastica sono stati riciclati, il 27% è andato in discarica e il rimanente è stato utilizzato per il recupero energetico. In pratica attualmente viene riciclata solo un terzo della plastica prodotta, cioè quella del packaging e questo per motivi tecnici ed economici. Solo le plastiche omogenee, come quelle per gli imballaggi possono essere triturate, lavate, fuse e quindi rigranulate (la manifattura di prodotti plastici parte da granuli e piccole palline di resina dette pellets o nibs, come materia prima), mentre le plastiche miste, tra cui le pellicole per alimenti, finiscono nei termovalorizzatori e nei cementifici oppure in discarica. In quest’ultimo caso si crea un ulteriore problema perché spesso gli imprenditori che gestiscono le discariche, pur di non pagare per lo smaltimento della plastica stoccata, danno fuoco alla discarica (in Italia sono bruciate oltre 100 tra discariche e aziende di riciclaggio negli ultimi due anni) o ne inviano il contenuto in paesi con leggi ambientali poco efficaci a contrastare l’inquinamento, come la Malesia, che si sta trasformando nella nuova «Terra dei fuochi», dove bruciano sia i rifiuti locali che la spazzatura proveniente dall’Occidente. La combustione incontrollata della plastica genera il rilascio nell’ambiente di sottoprodotti altamente tossici per la salute, tra cui le diossine, i furani, i policlorobi-fenili (Pcb) e gli idrocarburi aromatici policiclici.

La plastica italiana

In Europa la produzione della plastica, che per il 90% prende origine da materie fossili, utilizza il 4-6% del totale di petrolio e gas usati in questo continente. Nell’area mediterranea, l’Italia è il maggiore produttore di manufatti in plastica (che rappresentano il 2% della produzione globale) con 8 milioni di tonnellate all’anno e genera 3,9 milioni di tonnellate di rifiuti in plastica, di cui 0,5 milioni (13%) non vengono raccolti, 2,5 milioni finiscono in discarica o nell’inceneritore e un milione viene riciclato. In Italia si consumano ogni giorno 32 milioni di bottiglie di acqua minerale (in media 178 litri a testa all’anno); in questo abbiamo il primato europeo e siamo tra i primi al mondo. L’Italia rappresenta il secondo maggiore produttore di rifiuti che vengono rilasciati nel Mediterraneo. Per quanto riguarda la raccolta differenziata degli imballaggi in plastica (la sola tipologia di plastica riciclata in Italia), nel nostro paese esiste un forte divario regionale, passando dal 57% di raccolta differenziata nel Nord Est al 27% nel Sud. Il 13% dei rifiuti in plastica non viene raccolto per carenze infrastrutturali di alcuni comuni o regioni. Il ricorso alla discarica è maggiore al Sud (40%), rispetto al Centro (24%) e al Nord (12%). Al contrario, i termovalorizzatori sono più diffusi al Nord con 26 impianti su 37 presenti nel nostro paese.

Esaminando in dettagliato le percentuali della raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani per regione, si nota che in alcune regioni del Sud, come Sicilia, Molise, Calabria e Puglia, i cittadini e le aziende separano meno di 1/3 dei rifiuti, oppure questi non sono gestiti correttamente. Molto probabilmente sono due i problemi che andrebbero risolti in queste regioni: una maggiore informazione dei cittadini e una migliore organizzazione della raccolta differenziata. Andrebbe poi risolto, nelle regioni costiere ad elevato afflusso turistico come Liguria, Sicilia, Lazio e Campania, il problema del sovraccarico stagionale dei rifiuti, che può compromettere il sistema di gestione della raccolta differenziata.

La plastica dispersa

Ciò che non viene raccolto ha un’elevata probabilità di finire prima o poi in mare e l’Italia ogni anno disperde nel Mediterraneo 53mila tonnellate di plastica, di cui il 4% è trasportato dai fiumi (il Po trasporta il 3% del totale e il Tevere l’1%), il 18% deriva da attività in mare come pesca, acquacoltura e navigazione e il 78% deriva dalle attività costiere, da una cattiva gestione dei rifiuti, dal notevole afflusso turistico e da attività ricreative. Tra le città costiere che riversano più rifiuti in plastica ci sono Catania, Venezia, Bari, Roma, Palermo e Napoli.

Una volta dispersa in mare, il 65% della plastica rimane in superficie per circa un anno e può viaggiare per una decina d’anni sospinta dalle correnti e dal vento, ritornando infine sulle coste. Il 24% ritorna già entro un anno sulle nostre coste, che sono ulteriormente gravate di un altro 2% proveniente da altri paesi. I fondali marini contengono circa l’11% della plastica finita nel Mediterraneo, quindi un quantitativo nove volte inferiore a quello delle coste, ma quasi impossibile da rimuovere.

La Situazione italiana

Le coste italiane, essendo le più lunghe ed esposte del Mediterraneo, sono destinate a ricevere maggiori quantitativi di rifiuti, che si aggirano in media in 5,3 kg al giorno per km2. Nelle acque italiane, la concentrazione di plastica galleggiante è tra le più alte che si possano trovare nel Mediterraneo, con oltre 20 g/m3 di frammenti plastici nella zona del delta del Po e nella laguna di Venezia. L’inquinamento da plastica del mare e delle spiagge ha un notevole impatto su diversi settori dell’economia italiana. Si stimano perdite annue sui 30,3 milioni di euro nel settore del turismo.
L’Italia non dovrebbe dimenticarsi che il turismo costiero rappresenta il 12% del Pil nazionale. Sulla pesca si stimano perdite annue di circa 8,7 milioni di euro. Il commercio marittimo subisce delle perdite annue stimate in 28,44 milioni di euro a causa dell’attorcigliamento della plastica nelle eliche dei motori e del suo ingresso nei circuiti di raffreddamento, che si traducono in spese straordinarie di manutenzione, ritardi e inattività delle imbarcazioni. A questi si aggiunge l’aumento dei rischi di collisione. Ci sono poi i costi per le operazioni di pulizia degli impianti portuali, anch’essi a rischio di danneggiamento, che possono comportare il blocco delle vie di accesso e ritardi. La pulizia delle aree costiere, a sua volta, può essere più o meno costosa, a seconda del grado d’inquinamento e si può arrivare fino a 18mila euro per tonnellata di rifiuti per aree gravemente inquinate. Si stima che i costi annui per la pulizia di porti e di litorali in Italia siano di circa 16,6 milioni di euro. A tutto ciò vanno aggiunti i 40 milioni di euro di una sanzione, che è stata comminata all’Italia nel 2014 dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, per il mancato adeguamento di 44 siti adibiti a discarica alle norme di sicurezza della direttiva 99/331/EC. Detto questo, pur con i suoi limiti, l’Italia ha la più grande industria di riciclo di rifiuti di imballaggi di plastica del Mediterraneo e punta a raggiungere un tasso di riciclo del 55% entro il 2030.

Rosanna Novara Topino
(fine prima parte)


Cosa si trova

Spiagge della nostra inciviltà

Gli oggetti in plastica più comunemente rinvenuti sulle nostre spiagge sono piccoli frammenti, tappi, cotton fioc, pezzi di polistirolo, bottiglie, contenitori per alimenti, cannucce e posate. Oltre a questi, sulle nostre spiagge e in acqua si rinvengono spesso mozziconi di sigaretta, che vengono gettati ogni anno nella ragguardevole cifra di 3mila miliardi a livello globale e che rappresentano una notevole fonte d’inquinamento perché, una volta giunti in mare, rilasciano nicotina, catrame e la plastica che li compone, cioè l’acetato di cellulosa, che si disgrega in microplastica. I mozziconi, oltre a rappresentare una fonte di inquinamento, sono anche un grave pericolo per diverse specie di animali marini, che li scambiano per prede.

Pur essendo diversi i tipi di plastica prodotti, il 50% è rappresentato dalle seguenti tre tipologie:

  • polipropilene (PP), utilizzato per costruire cruscotti e paraurti di autoveicoli, tappi delle bottiglie, custodie dei CD, reti antigrandine, bicchierini per il caffè;
  • polietilene a bassa densità (LDPE), usato per sacchi di plastica e sacchetti della spesa, film da imballaggio, giocattoli, coperchi, tubi flessibili, contenitori, rivestimenti di cavi;
  • polietilene ad alta densità (HDPE), usato per cavi delle telecomunicazioni, tubazioni interrate, flaconi, bottiglie del latte, taniche, mobilio in plastica, zanzariere, tappi di bottiglia, fogli di plastica per isolare le discariche.

Per quanto riguarda la tipologia dei manufatti in plastica prodotti in Italia, il 42% è rappresentato dagli imballaggi (che costituiscono l’80% dei rifiuti in plastica, data la loro breve vita media); il 30% è rappresentato da manufatti utilizzati nei settori tessili, della casa, ricreativo e agricolo (che generano il 15% dei rifiuti in plastica); il 21% riguarda i settori di edilizia, costruzioni e trasporti (che generano solo il 2% di rifiuti in plastica, essendo materiali a lunga vita media); il 6% riguarda il settore elettrico/elettronico (che genera il 2% di rifiuti in plastica).

(Rnt)

 

 




Clima, un solo fil rouge dall’Australia all’Africa

testo di Chiara Giovetti |


Locuste, siccità, cicloni, inondazioni, incendi. Il 2020 si è aperto come si era chiuso il 2019: con una serie di problemi tutti legati a eventi atmosferici. Come e quanto siano legati al cambiamento climatico è allo studio di numerosi esperti. Ma che abbiano peggiorato le condizioni di vita di milioni di persone è già fuori di dubbio.

La prima segnalazione risale al settembre dell’anno scorso, quando ha cominciato a circolare un video in cui una donna di cui non è nota l’identità – fra molti «oh my god» e «oh my goodness» – segnala di essere a Livingstone, in Zambia, e mostra immagini delle cascate Vittoria senza acqua, definendole «asciutte come un osso». Aggiunge che ora le chiamerà non più Victoria Falls ma Victoria Rocks (rocce – o sassi – Vittoria) e che la visione è di quelle che «spezzano il cuore»@.

Il video ha provocato velocemente le reazioni di alcuni utenti dei social network – alcuni legati ad agenzie di viaggi locali, anche loro rapide a prender posizione contro l’allarmismo@ – che hanno lanciato l’ashtag #VictoriaFallsIsNotDry e hanno iniziato a condividere immagini e spiegazioni per smentire il quadro catastrofico, sottolineando che la situazione, benché preoccupante, sia stata presentata in modo eccessivo e parziale.

Un documentario della Bbc della fine di novembre 2019@ ha di nuovo portato alla ribalta il problema, suscitando ulteriori accuse di sensazionalismo.

Che cosa sappiamo e che cosa non sappiamo

Victoria Falls (Cascate Vittoria), in Zimbabwe, il 10 Decembre 2019.  (Photo by ZINYANGE AUNTONY / AFP)

L’Africa meridionale, chiarisce l’articolo di Agence France-Presse (Afp)@ nel quale si legge la ricostruzione di questo botta e risposta sui social, sta effettivamente attraversando una delle siccità peggiori del decennio. Tuttavia, la quantità di acqua delle cascate Vittoria – così come quella del fiume Zambesi che le alimenta – risente ogni anno dell’alternarsi di stagione delle piogge e secca. L’immagine di ampi tratti di roccia privi di acqua non è un’emergenza di quest’anno ma uno scenario che si è già manifestato. La Zambesi River Authority (Zra), ente congiuntamente gestito dai governi di Zambia e Zimbabwe per il controllo della diga di Kariba, nel bacino dello Zambesi, si occupa anche del monitoraggio dei flussi di acqua delle cascate Vittoria. Nel novembre dell’anno scorso le misurazioni effettuate mostravano in effetti i flussi più bassi dalla stagione 1995/96, che fu la peggiore nell’arco di tempo di cui l’autorità fornisce i dati, cioè dal 1977 a oggi.

Tuttavia, la Zra precisava anche che con l’arrivo della stagione delle piogge i flussi erano destinati ad aumentare. Le misurazioni del mese di febbraio hanno confermato questa previsione, con un flusso che nei giorni dall’11 al 24 febbraio (disponibili cioè alla chiusura di questo articolo) mostravano un flusso medio di 186 metri cubi al secondo più alto rispetto al 2019.

Il grafico messo a disposizione il 24 di febbraio dalla Zra mostra, inoltre, che uno degli anni in cui l’acqua è stata più abbondante è stato il 2017/2018.

Questo non significa che i cambiamenti climatici non abbiano o non possano avere conseguenze sulle cascate Vittoria e sul bacino dello Zambesi, né che l’abbassamento del livello delle acque del lago Kariba da cui dipende la diga non sia già preoccupante. Ma è scorretto dire che le cascate Vittoria si sono asciugate e, conclude l’articolo dell’Afp, ad oggi l’impatto su queste dei cambiamenti climatici non è chiaro.

25/02/2020 vicino a Isiolo Isiolo, Kenya (Photo by TONY KARUMBA / AFP)

Le locuste in Africa Orientale

Lo scorso 10 febbraio le Nazioni unite hanno diramato un’allerta@  sul numero di locuste che stavano invadendo gran parte dell’Africa Orientale. Si tratta, riporta l’Onu, della peggiore infestazione degli ultimi settant’anni per il Kenya, mentre Somalia ed Etiopia non vedevano un’invasione di queste proporzioni da circa un quarto di secolo.

L’invasione, che mette a rischio di carestia una quantità di persone stimata in circa 19 milioni, colpisce paesi – in particolare la Somalia e il Sudan – già notevolmente provati per aver sperimentato dal 2017 a oggi siccità e inondazioni.

Uno sciame di locuste ampio un chilometro quadrato, riporta la Fao (agenzia Onu per l’alimentazione), può contenere fra i 40 e gli 80 milioni di insetti e consumare in un giorno tanto cibo quanto ne servirebbe per nutrire 35mila persone@.

Keith Cressmann, esperto della Fao che si occupa di monitorare l’invasione di locuste, ha riferito di uno sciame che ha attraversato il Nordest del Kenya a gennaio di quest’anno e che aveva un’ampiezza stimata pari a 60 chilometri di lunghezza per 40 di larghezza: 2.400 chilometri quadrati, pari a circa il doppio della superficie di Roma. «Un tale numero di insetti», ha sottolineato Cressmann, «può arrivare a mangiare in un giorno più o meno la stessa quantità di cibo che mangerebbero 84 milioni di persone»@.

Immagine scattata dal vescovo Virgilio Pante a Sioto Lokokoyo vicino a Baragoi ai primi di marzo 2020

Danni e costi

La Fao ha stimato in 76 milioni di dollari i fondi necessari per contrastare l’infestazione; a febbraio ne erano arrivati 21 di cui 10 messi a disposizione del Fondo centrale per gli interventi d’emergenza (Cerf) delle Nazioni unite, che serviranno per intensificare sia gli interventi a terra che per utilizzare aerei che spruzzino i pesticidi.

Secondo la rivista Science, la Somalia, per proteggere i propri pascoli e il bestiame, sta tentando con l’aiuto della Fao di combattere le locuste con bio pesticidi@ invece che con pesticidi chimici, utilizzando un fungo – il metarhizium acridum – che produce una tossina in grado di uccidere soltanto le locuste e gli altri insetti della famiglia delle cavallette. L’India si è invece attrezzata acquistando droni per il monitoraggio e, se necessario, l’irrorazione aerea delle zone invase con pesticidi@.

Se in India la situazione è per il momento sotto controllo, il vicino Pakistan si trova a fronteggiare la peggior infestazione di locuste in vent’anni e ha dichiarato lo stato d’emergenza.

I due video qui sotto sono stati girati ad Archer’s Post, cortesia del vescovo Virgilio Pante della diocesi di Maralal, Kenya.

  1. Pante cavallette
  2. Archer's post cavallette
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Le connessioni con gli eventi climatici

A favorire l’attuale invasione di locuste sono stati tre successivi cicloni e le piogge torrenziali che questi hanno portato fra metà del 2018 e la fine del 2019. Nel maggio del 2018, ricostruisce ancora Science, un ciclone – Mekunu – ha colpito la zona del Rub’ al Khali, uno degli erg (deserti di sabbia) più grandi del mondo fra Oman, Yemen e Arabia Saudita, portando inusuali piogge che hanno provocato un altrettanto insolito aumento della vegetazione. Le locuste, che hanno così trovato nutrimento in abbondanza, sono aumentate di quattrocento volte rispetto al loro numero abituale.

A prevenire il calo della popolazione di insetti dovuta alla morte delle piante nel deserto che arriva con la fine delle piogge è intervenuto un secondo ciclone – Luban – nell’ottobre del 2018: nel marzo del 2019 le locuste risultavano così aumentate di ottomila volte.

Attraverso l’Iran meridionale, le locuste si sono poi dirette sia verso Est, in Pakistan e India, che verso lo Yemen, dove a causa della guerra civile nessun intervento è stato messo in atto per bloccarne la proliferazione.

Nell’ottobre del 2019, gli sciami sono passati in Etiopia e in Somalia dove ancora una volta hanno trovato un ambiente accogliente grazie all’arrivo del ciclone Pawan e alle piogge abbondanti che ha portato.

A fine dicembre l’invasione si è diffusa al Kenya per poi raggiungere Uganda e Tanzania i primi di febbraio di quest’anno.

Spencer area in Central Coast, some 90-110 kilometres north of Sydney on December 9, 2019. – Australia. (Photo by SAEED KHAN / AFP)

Una catena che arriva all’Australia

L’ondata di cicloni e le conseguenti piogge torrenziali che hanno colpito la costa orientale dell’Africa favorendo il proliferare delle locuste, sarebbero legati, secondo la Bbc, all’opposto fenomeno dell’estrema siccità in Australia che ha causato la morte di 33 persone e bruciato un territorio delle dimensioni della Corea del Sud.

Il legame climatico fra le due sponde dell’Oceano Indiano è il cosiddetto Indian Ocean Dipole (Iod), il dipolo dell’Oceano Indiano, «un cugino meno noto di El Niño e La Niña»@ che riguarda le variazioni delle temperature nell’Oceano Indiano occidentale e orientale.

Lo Iod varia tra tre fasi: positivo, neutro e negativo. In media ogni fase si verifica circa ogni 3-5 anni. La fase neutra porta temperature nella media. Invece durante la fase negativa i venti da Ovest si intensificano, spingendo le acque più calde a concentrarsi vicino all’Australia e impedendo, nel contempo, all’acqua più fredda di salire dalle profondità dell’Indonesia. Queste acque più calde si spostano verso Est e le nuvole le seguono, favorendo l’arrivo della pioggia nell’Australia meridionale e causando viceversa siccità sul versante africano.

La fase positiva crea le condizioni inverse: i venti occidentali si indeboliscono e talvolta si formano venti orientali, permettendo all’acqua calda di spostarsi verso l’Africa. A Sud dell’Indonesia, le acque più fredde possono ora emergere dalle profondità oceaniche e, combinate con le correnti d’aria discendente nell’Oceano Indiano orientale, riducono la formazione di nuvole sul lato australiano dell’Oceano Indiano. Questo, a sua volta, spesso implica meno pioggia sulle aree centrali e Sud Est dell’Australia, mentre l’Africa è colpita da forti precipitazioni.

Nel 2019 si è verificato il dipolo positivo più forte degli ultimi sessant’anni, portando appunto siccità in Australia e Sudest asiatico e, in Africa Orientale, piogge e inondazioni che hanno provocato la morte di 280 persone e variamente colpite oltre 2 milioni e 800mila@.

Che legame c’è fra il dipolo e il cambiamento climatico? Ancora non è chiaro, ma la comunità scientifica sta tentando di stabilirlo. A questo proposito, uno studio pubblicato nel 2014 su Nature, riporta la Bbc@, prevede ad esempio che gli eventi climatici estremi causati dal dipolo possano diventare più frequenti con l’aumento delle emissioni di gas serra. Se queste crescono, la frequenza di dipoli estremamente positivi potrebbe aumentare in questo secolo da uno ogni 17,3 anni a uno ogni 6,3 anni.

Chiara Giovetti




Acque e ladri

Testi di Emanuele Bompan e Marirosa Iannelli. A cura di Luca Lorusso |



L’acqua nel mondo si riduce, la sete aumenta

La corsa all’acqua

Per troppo tempo l’oro blu è stato considerato una  ricchezza illimitata, sempre disponibile. Oggi stiamo cambiando idea, spinti dalle crisi ambientali che hanno al centro l’acqua. Prima dell’opinione pubblica, l’hanno capito coloro che, con le leve del potere politico ed economico tra le mani, hanno dato il via a una corsa spietata: quella dell’accaparramento della risorsa  centrale per la vita umana.

Il 2019 ha visto un elevato numero di crisi ambientali, dagli incendi in Australia, Sud America, Centrafrica, alla crisi idrica in India, Etiopia, Somalia, la siccità in Sudafrica, le tempeste in Indonesia e Filippine.

In molti di questi casi, al centro del disastro c’era un elemento primario: l’acqua. La sua assenza, come la sua eccessiva presenza (nel caso di alluvioni) ha caratterizzato molti eventi catastrofici legati al cambiamento climatico. Con conseguenze spesso gravi sull’uomo.

In India la siccità prolungata ha lasciato milioni di persone senz’acqua per mesi, con impatto rilevante sulla salute. In Australia il caldo record ha seccato ogni cosa, rendendo possibile una serie infinita di incendi che hanno bruciato per settimane e sono costati decine di vite umane e la morte di oltre 500 milioni di animali.

© Fausto Podavini

 

Nuove geografie dell’acqua

Sempre di più il cambiamento climatico si manifesta attraverso l’acqua, in una correlazione che non è sempre compresa a livello politico né tantomeno giornalistico.

La geografia dell’acqua sta mutando con un’intensità e una velocità mai viste nella storia del-l’Homo sapiens, e ancora non ci siamo preoc- cupati di capire come affrontare il mutamento e come adattarci ai nuovi contesti che emergono.

In questa complessa equazione differenziale, le variabili sono il clima e l’inquinamento (che alterano la disponibilità idrica), e l’aumento della popolazione e dei consumi (che incrementano i prelievi).

Dunque ci troviamo in un mondo dove l’acqua è impiegata dall’uomo in quantità sempre maggiori, e dove, allo stesso tempo, non sono più disponibili le risorse idriche tradizionali su cui la nostra civiltà si è sempre sorretta, a causa, ad esempio, dell’inquinamento di falde e fiumi.

L’acqua facile è finita

Per molto tempo, a partire dalla fine degli anni Sessanta, il tema principale delle lotte ambientaliste relative all’acqua era quello della sua qualità. Per scienziati e cittadini, la questione della quantità non era ancora allarmante.

Oggi però, la sicurezza dell’acqua «facile» viene meno. Ci siamo finalmente resi conto che la fonte vitale data per scontata e inesauribile, in realtà è scarsa in numerose regioni del pianeta.

I volumi d’acqua disponibili per ogni abitante della Terra diminuiscono di anno in anno, mentre la richiesta pro capite aumenta.

Secondo le Nazioni Unite, entro il 2030 il 47% della popolazione mondiale vivrà in aree a elevato stress idrico.

Il cambiamento climatico, le frequenti siccità, lo scioglimento dei ghiacciai, erodono le preziose riserve d’acqua dolce. La crescita della popolazione, l’impennata dei consumi e della produzione alimentare, l’industria e il bisogno continuo di energia (da petrolio, gas, centrali idroelettriche), richiedono sempre più ingenti risorse idriche.

Gli attori politici ed economici più potenti, allora, si muovono per assicurarsele, anche a discapito della sopravvivenza di comunità o intere nazioni, ovviamente le più povere.

Ed è qua che ha inizio la corsa all’oro blu. Detta anche, in inglese, water grabbing.

Water grabbing

Con l’espressione water grabbing, o «accaparramento dell’acqua», ci si riferisce a situazioni nelle quali qualcuno prende il controllo di risorse idriche preziose a proprio vantaggio, sottraendole a qualcun altro, comunità locali o intere nazioni, la cui sussistenza si basa su quelle stesse risorse e quegli stessi ecosistemi.

La costruzione di mega dighe, la privatizzazione di fonti idriche, l’uso forzato di fiumi e laghi per progetti di agrobusiness su larga scala, l’inquinamento dell’acqua per ridurre i costi industriali, il controllo delle risorse idriche da parte di forze militari per limitare lo sviluppo di una popolazione nemica, una minoranza, un’etnia, sono esempi di water grabbing. Gli effetti di questo accaparramento sono sovente devastanti.

© Emanuele Bompan

Da bene comune a bene privato

Nel cosiddetto Sud del mondo, ma anche in alcuni paesi industrializzati, l’acqua si trasforma da bene comune liberamente accessibile a bene privato o controllato da chi detiene il potere.

La geografia del water grabbing interessa ampie fasce del pianeta, le zone equatoriali, i grandi bacini idrici dell’Asia, il Medio Oriente, l’America meridionale, l’area mediterranea, le zone desertiche dell’America settentrionale e dell’Australia.

Per questa ragione un gruppo di ricercatori, giornalisti (incluso l’autore di questo dossier, ndr), fotografi ed esperti, ha creato il Water grabbing observatory, guidato da Marirosa Iannelli, con l’obiettivo di rilevare, analizzare, comunicare fenomeni sociali, ambientali ed economici legati ad acqua e clima, in Italia e nel mondo, usando giornalismo e pubblicazioni come, ad esempio, il libro Water grabbing (edito dall’Emi nel 2018) e L’Atlante geopolitico dell’acqua (Hoepli, 2019), di cui proponiamo alcuni estratti in queste pagine.

Le mega dighe e i padroni del Mekong

Uno dei principali dispositivi di controllo delle risorse idriche nel mondo è l’impiego delle mega dighe: quella delle Tre Gole in Cina ha comportato il trasferimento forzato di 1,2 milioni di persone; la Gibe III in Etiopia sta colpendo gli equilibri geosociali della popolazione della regione dell’Oromia (400mila persone interessate); la Merowe in Sudan ha intaccato lo status di 50mila persone, senza alcun indennizzo economico.

Uno dei bacini idrici più importanti e anche più colpiti dal fenomeno del water grabbing al mondo è quello del fiume Mekong, in Indocina, dove la costruzione di decine di dighe sta modificando la vita di milioni di persone, in particolare nel delta.

Siamo andati a raccogliere informazioni su una di queste, la diga Xayaburi, la prima costruita in Laos sul Mekong nella zona Nord occidentale del paese, e l’accoglienza non è stata tra le più calorose: guardie armate ci hanno impedito di arrivarvi, sia in auto che a piedi. Abbiamo potuto intravedere dall’alto della montagna solo l’ansa del colosso completato a fine novembre 2019.

Pesca, agricoltura, turismo in secca

Costruita da un’azienda di Bangkok, la Ck Power Pcl, la diga Xayaburi venderà il 95% dell’energia prodotta a utenti thailandesi, fuori dai confini del Laos. Quello che le popolazioni di questi territori non si aspettavano, però, era che la mega diga potesse avere un impatto sul corso del fiume così forte come quello che osservano oggi. Duecento chilometri più a Sud, infatti, dove il Mekong scorre per un lungo tratto sul confine tra Laos e Thailandia, le ultime foto satellitari disponibili indicano una fortissima riduzione del regime fluviale.

Nei villaggi di pescatori thai, la secca arriva fino a 30-40 metri dalla riva. Le barche sono incagliate nel fango.

È una situazione che interessa tutto il fiume fino alla Cambogia e che ha fatto esplodere la rabbia dei pescatori thailandesi portandoli in piazza, mentre in Laos le manifestazioni sono state represse dal regime di Bounnhang Vorachith.

Oltre alla riduzione della portata del fiume, infatti, si starebbe verificando una diminuzione della quantità di pesce disponibile. «Sessanta milioni di persone traggono sostegno da questo bacino», spiega Pianporn Deetes, dell’organiz-zazione International Rivers. «Governi e imprese private hanno deciso di costruire dighe che impatteran­no su pesca, turismo, agricoltura. Dighe come la Xayaburi saranno fonte d’instabilità, una piaga, in particolare per i più poveri. Tantissimi villaggi, specie comunità indigene, perderanno i loro territori, abbandonando costumi e tradizioni. La sicurezza alimentare per milioni di persone è a rischio».

Dalla Cina al Vietnam: 124 dighe

I proprietari della diga Xayaburi, a loro volta, attribuiscono il prosciugamento del letto del fiume ai monsoni tardivi e all’impatto comples­sivo delle dighe cinesi, ben 11 nell’alto Mekong, già finite nel mirino del segretario di stato Usa, Mike Pompeo, che le ha definite un rischio per la stabilità idrica del paese, un accaparramento del fiume da parte di Pechino.

Ulteriori preoccupazioni interessano il Vietnam, ultimo paese attraversato dal Mekong: secondo Nguyen Thu Thien, un geografo esperto di aree umide della University of Wisconsin, «il Vietnam potrebbe perdere il delta e tutta la sua produzio­ne di riso entro il 2050. Milioni di impoveriti saranno costretti a fuggire, se le dighe andranno avanti». Dati allarmanti per Hanoi, che punta il dito contro Cina, Laos e anche Cambogia, per i progetti scellerati di sbarramento del Mekong.

Il problema, comunque, è la situazione globale dell’intero corso del fiume, non attribuibile a  una diga specifica, sia essa in Laos, Cina o Cambogia. A oggi, infatti, è prevista la realizza­zione di 124 dighe lungo l’intero bacino del Mekong – inclusi dunque i fiumi tributari -, con i quali si potrebbero generare 268 Gigawattora (GWh) di energia rinnovabile all’anno (l’equivalente dell’80% del fabbisogno lordo italiano). Di queste 124 dighe, 32 sono già funzionanti e 24 in costruzione, mentre la messa in opera delle restanti è prevista nei prossimi venticinque anni.

Trasferimenti forzati

Un altro sbarramento del Mekong che desta preoccupazione, è la mega diga di Pak Beng, sempre nell’alto Laos, a Est di Luang Prabang, in uno dei settori più belli del fiume: «Al momento non ci sono scavi, ma spesso ci sono ingegneri e geometri a fare misure e rilevamenti», spiega Vilang Mak, una guida del gruppo Shampoo Tours, specializzato in crociere sul Mekong. «La diga porterà allo stop del turismo in queste zone, le crociere qui diventeranno un ricordo», conti­nua Vilang. Secondo gli ambientalisti, 25 villaggi indigeni in Laos e due in Thailandia saranno spazzati via con la costruzione della diga, oltre 6.700 persone dovranno essere trasferite forzatamente. I trasferimenti sono già iniziati.

Nei pressi della diga Lower Sesan II in Cambogia, migliaia di persone hanno dovuto lasciare le proprie abitazioni per fare spazio al nuovo bacino. Anche in questo caso le compensazioni erogate sono state irrisorie e le new town costruite per ricollocare una parte degli sfollati sono sostanzialmente invivibili.

Una situazione destinata a ripetersi per ogni progetto che verrà completato. Contribuendo ad un deterioramento generale della sicurezza alimentare nell’intera regione.

© Thomas Cristofoletti / Ruom


Acqua in bottiglia

«Salve, cosa desidera da bere?», è la domanda che ci sentiamo rivolgere al bar in pausa pranzo, o la sera in pizzeria. La risposta più comune è «acqua», sia essa liscia o gassata. Un gesto semplice, ed ecco che la nostra sete viene placata grazie a una bottiglietta in plastica o vetro. Il nostro bisogno primario viene così soddisfatto.

Quando si chiede l’acqua del rubinetto, troppo spesso si riceve un rifiuto, oppure si viene trattati con sufficienza. Questo perché i bar hanno contratti quinquennali con i fornitori o perché le bevande sono un margine di guadagno importante.

Un mercato in crescita

Il valore dell’acqua in bottiglia a livello mondiale nel 2019 ha quasi raggiunto i 250 miliardi di euro. Cresce ogni anno di una percentuale a due cifre, con i mercati occidentali a farla da padroni.

Sono miliardi buttati dai consumatori, poiché la qualità dell’acqua del rubinetto è spesso più alta di quella imbottigliata.

In ogni caso è un fenomeno che sta prendendo piede in Asia e Sud America, dove bere acqua in bottiglia è cool, trendy, serve «a far dimagrire». Come la Fiji, «l’acqua delle modelle».

Il colosso di questo mercato è Nestlé waters (una divisione di Nestlé corp.), che da sola detiene 51 etichette di acqua in bottiglia, incluse Panna, San Pellegrino, Deer Park e Nestlé Pure Life. Acqua che proviene da fonti che dovrebbero appartenere a tutti, ma che, grazie all’acquisizione di permessi di imbottigliamento rilasciati a prezzi stracciati, divengono di fatto private. Una forma di accaparramento idrico.

I margini di profitto sono elevati: un litro di acqua in bottiglia purificata di bassa qualità costa al consumatore circa 560 volte più dell’acqua del rubinetto. Per imbottigliare, un’azienda paga allo stato canoni di uso della fonte che raggiungono al massimo i due millesimi di euro al litro. In alcuni casi il costo è inesistente.

Dal 1° gennaio 2019, Nestlé water Canada, la divisione acque nordamericana della multinazionale svizzera, ha iniziato a estrarre 1,6 milioni di litri di acqua al giorno dal pozzo di Middlebrook, il terzo mega pozzo in Ontario dopo quelli di Aberfolyle ed Erin. Costo? Poco più di 500 dollari canadesi l’anno. Con conseguenze però molto costose. Rob MacKay, sessantaquattro primavere alle spalle, vive con il fratello e i suoi cavalli in una bellissima casa rurale dal tetto ad angolo, non lontano dal pozzo di Middlebrook. Da qualche tempo i suoi pozzi sono prosciugati. Così come vari ruscelli della zona. «Siamo rimasti senz’acqua in una delle regioni più ricche d’acqua del pianeta», dichiara Rob.

Un milione di bottiglie al minuto

L’Italia ha il primato peggiore: siamo il secondo paese consumatore di acque in bottiglia al mondo: ognuno di noi, in media, ogni anno ne beve 208 litri. E per anni siamo stati il primo. Possiamo tranquillamente dire che il mercato dell’acqua in bottiglia è nato nel Belpaese.

Se per anni in Italia si è cercato di imporre canoni uniformi che prevedessero il pagamento sia in funzione degli ettari dati in concessione, sia dei volumi di acqua emunti o imbottigliati (indicando come cifre di riferimento almeno 30 euro per ettaro e tra 1 e 2,5 euro per metro cubo imbottigliato, cioè 1.000 litri), a oggi solo alcune regioni si sono adeguate.

In un’ottica di economia circolare, molte aree del nostro paese potrebbero fare a meno di consumare acqua in bottiglia. Se l’equivalente dei soldi spesi dalle famiglie con Nestlè, San Bernardo e Ferrarelle, fosse impiegato per migliorare la qualità dell’acqua che esce dai rubinetti, ne avremmo tutti giovamento. L’impatto sarebbe ingente. Basti pensare che nel 2018 si sono prodotte nel mondo un milione di bottigliette di plastica al minuto, di cui una buona fetta destinate a contenere acqua. Significa più di 16mila bottiglie al secondo che poi finiscono, se gestite in maniera virtuosa, nei pochi impianti di riciclo della plastica, o termovalorizzate, oppure, molto più probabilmente, nelle discariche o disperse nell’ambiente.


I negoziati internazionali per il clima a un bivio

Aspettando Glasgow

Il fenomeno della corsa  all’acqua è parte del più vasto problema dello sfruttamento dell’ambiente da parte dell’uomo. Una pratica secolare che sta rompendo l’equilibrio naturale della  nostra casa comune. Se i cambiamenti climatici sono la più grande sfida del nostro secolo, al momento pare che la comunità internazionale la stia perdendo. Dopo il fallimento del summit di Madrid, quello del 2020 a Glasgow sarà decisivo.

Il 2020 sarà l’anno chiave per il negoziato internazionale sui cambiamenti climatici. «Ma come?», dirà qualcuno, «non si era concluso nel 2015 con l’Accordo di Parigi?». E qualcun altro dirà anche: «Che diavolo è l’Accordo di Parigi?».

Una cosa è certa: i cambiamenti climatici sono la più grande sfida del nostro secolo.

Se fate parte delle schiere di coloro che credono che il climate change sia una bufala, non leggete queste pagine, tanto non cambierete idea.

Per i cittadini che, invece, sono preoccupati per la casa comune e per le generazioni che verranno, è bene capire come si può agire per cercare di arrestare le emissioni di gas serra, generate principalmente dal consumo di combustibili fossili, come gas, petrolio e carbone, e dalla deforestazione e degradazione degli ambienti naturali terrestri e marini.

Azioni individuali e collettive

Per comodità di trattazione diciamo che ci sono due livelli di azione: uno soggettivo personale che include tutte le azioni quotidiane (l’uso dell’automobile, l’energia impiegata, i consumi alimentari, i consumi in generale), e uno collettivo globale che riguarda il sistema di leggi, di trattati, di strategie internazionali per ridurre le emissioni. In mezzo naturalmente ci sono i singoli stati e i rispettivi sublivelli amministrativi.

Se rispetto all’ambito personale ognuno conosce i suoi peccati e sa cosa dovrebbe fare (e se non lo sa, ci sono migliaia di articoli online pieni di consigli intelligenti), a livello internazionale il cuore del sistema è la Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), approvata nel 1992 al Summit di Rio, il principale trattato internazionale in materia di lotta ai cambiamenti climatici. Il suo obiettivo è impedire pericolose interferenze di origine umana con il sistema climatico. L’Unione europea e tutti i suoi stati membri figurano tra le 197 parti contraenti della convenzione.

Da Kyoto a Glasgow

Il primo grande accordo fu il Protocollo di Kyoto, firmato nel 1997, in vigore fino al 2020. Ratificato da 192 parti della Unfccc, compresi l’Ue e i suoi paesi membri, non vede però tra i suoi aderenti alcuni dei grandi inquinatori mondiali. De facto regola solo il 12% circa delle emissioni globali. Questo fa capire come il Protocollo, sebbene sia stato fondamentale, specie in Europa, sia insufficiente per la sfida attuale.

Inoltre, allo scopo di includere Usa, Cina e altre grandi potenze dentro il quadro internazionale, si è lavorato per trovare un nuovo framework, con un diverso tipo di vincoli e basato su piani nazionali indicati dagli stessi paesi, nel rispetto della scienza e della sovranità di ogni paese.

Dopo un primo fallimento a Copenaghen nel 2009, nel 2015, a Parigi, grazie a un forte accordo politico tra Usa e Cina, le nazioni del mondo hanno approvato a larga maggioranza una nuova architettura internazionale, quella dell’Accordo di Parigi, che entrerà in vigore quest’anno, dopo cinque anni di regime provvisorio, con il negoziato di novembre 2020 a Glasgow.

Dal 2015 a oggi sono proseguiti i negoziati Onu per completare i meccanismi di attuazione dell’Accordo di Parigi e il «Libro delle regole» per evitare problemi.

© Riccardo Pravettoni

Il fallimento di Madrid 2019

A dicembre 2019, però, a Madrid non si è raggiunta l’intesa finale per chiudere sull’ultimo elemento dell’Accordo di Parigi rimasto aperto: quello della finanza climatica che avrebbe permesso ai singoli paesi di scambiare quote di emissioni, comprandole da progetti di mitigazione in altre parti del mondo e facendole contabilizzare a proprio nome.

Sebbene l’architettura dell’Accordo di Parigi sia rimasta in piedi e si sia registrata la volontà delle parti di aumentare l’ambizione per il 2020, quando a Glasgow i 196 stati porteranno nuovi piani nazionali di decarbonizzazione, il summit di Madrid ha segnalato la presenza di un grosso problema politico internazionale di difficile soluzione. Si sono messi di traverso Trump, che vuole l’America fuori dall’Accordo di Parigi e che ha già presentato la richiesta formale di uscita (effettiva dal 4 novembre 2020, un giorno dopo le prossime elezioni presidenziali Usa), e Jair Bolsonaro, deciso a devastare l’Amazzonia.

Questo ha messo in allarme Cina ed Europa, che però non hanno saputo trovare la quadra all’interno di un negoziato che già era iniziato con il piede sbagliato a causa dello spostamento della sede della Conferenza delle parti (Cop) dal Cile, che inizialmente avrebbe dovuto ospitare l’incontro ma che in quei giorni era scosso da forti tensioni politiche, alla capitale spagnola.

Ostaggi dei poteri fossili

La presidenza cilena del summit di Madrid, guidata da Carolina Schmidt, considerata da tutti inadatta nella gestione del processo negoziale della Cop25, ha dovuto prendere atto del fallimento: «Oggi, come nazioni, siamo rimasti in debito con il pianeta», ha lamentato la Schmidt, nel linguaggio onusiano. «Gli accordi raggiunti dalle parti non sono sufficienti per affrontare con urgenza la crisi dei cambiamenti climatici».

Il segnale che viene fuori è pessimo: «L’Unfccc è ostaggio dei poteri fossili», spiega Serena Giacomin, presidente di Italian climate network. «Non possiamo permettere che gli interessi di alcuni possano far naufragare il negoziato e mettere a repentaglio la vita di tante persone. Serve, oggi più che mai, pressione dal basso, non solo per rimettere al centro l’importanza dell’Accordo di Parigi, ma soprattutto per raggiungere l’obiettivo necessario seguendo ciò che dimostrano i dati scientifici. L’Italia nel 2020 dovrà giocare un ruolo centrale».

Già perché il nostro paese, insieme al Regno Unito, sarà copresidente del negoziato, e ospiterà a Milano i negoziati preparatori (pre Cop) insieme a un evento per i giovani di tutto il mondo (Youth for Cop).

Dimock, PE, USA. Craig Sautner, 58 anni, con dei campioni d’acqua rilevati dal rubinetto di casa. Le conseguenze sanitarie della fratturazione idraulica lo preoccupano: i vicini hanno già segnalato dei malesseri. (© Giada Connestari)

La sfida di Glasgow 2020

Quella di Glasgow 2020 sarà una sfida complessa, poiché i 197 paesi dovranno chiudere tutti i punti lasciati irrisolti a Madrid, e presentare gli impegni per ridurre le emissioni per il quinquen­nio 2020-2025, oltre a impostare il negoziato per aumentare l’ambizione. L’obiettivo di lungo periodo dell’Accordo di Parigi è quello di contenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto della soglia di 2° C oltre i livelli preindustriali, e di limitare tale incremento a 1,5° C. Per fare questo bisognerebbe raggiungere la neutralità delle emissioni di anidride carbonica entro il 2050, e aumentare ogni cinque anni gli impegni di riduzione delle emissioni in ogni paese. Al momento l’Europa punta a una riduzione del 50-55% delle emissioni rispetto al 2005. Secondo l’Accordo, in base alle conoscenze scientifiche, gli stati dovranno rendere più ambiziosi i loro obiettivi (l’Ue, ad esempio, dovrebbe puntare alla riduzione del 60% di emissioni), e sono tenuti a riferire agli altri stati membri e all’opinione pubblica cosa stanno facendo per raggiungerli e segnalare i progressi compiuti verso l’obiettivo a lungo termine attraverso un solido sistema basato sulla trasparenza e la responsabilità.

Di fatto ci sono dei meccanismi vincolanti non sanzionatori, che dovranno quindi essere sostenuti dai cittadini tramite pressioni (ad esempio con proteste, o il voto all’opposizione) sui governi che non fanno abbastanza.

Il ruolo di Europa e Italia

Per arrivare preparata all’appuntamento, l’Europa, che ha avuto un ruolo centrale nel salvare il negoziato di Madrid, deve subito avviare il processo di revisione degli attuali impegni di riduzione al 2030, cercando un accordo non oltre il Consiglio europeo di giugno 2020. Poi c’è il ruolo del nostro paese: «L’Italia, copresidente dei negoziati preparatori a Milano, e della Cop26 di Glasgow, avrà una grande responsabilità», ci ha dichiarato il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa. «È importante che si mobiliti anche la Farnesina, con Luigi Di Maio, per cercare accordi diplomatici al fine di chiudere i temi rimasti aperti, come l’art. 6 e spingere per l’ambizione post 2020. È una chiamata alle armi di tutti». Serve aprire canali bilaterali con Cina, India e Giappone, in comune accordo con gli altri paesi europei.

Facendo bene i compiti a Bruxelles e tramite la diplomazia, l’Europa potrà arrivare al Vertice di alto livello Ue-Cina, in programma il prossimo settembre a Lipsia, con una proposta congiunta per un accordo ambizioso in vista della Cop26 di Glasgow. E l’Italia potrebbe incassare un risultato diplomatico importante.

Si tratta infatti, dicono numerosi delegati, di ritrovare l’equilibrio multilaterale nell’Accordo di Parigi alterato dall’annuncio di uscita degli Usa.

Nel caso vincesse un democratico alle elezioni presidenziali del 3 novembre prossimo, gli Usa formalmente potrebbero cambiare rotta entro il giorno successivo, data in cui diventa effettivo l’abbandono americano dall’Accordo. Ma il tutto sarebbe così vicino al negoziato di Glasgow, il quale aprirà i battenti il 9 novembre, che sarebbe comunque difficile avere la sicurezza di un consenso tra Usa, paesi Basic (Brasile, Sudafrica, India, Cina), Cina su tutti, e Ue.

Una partita diplomatica al cardiopalma.

© Gianluca Cecere


L’oro blu al centro dei conflitti e del dibattito giuridico internazionale

Le nuove guerre  per l’acqua

La guerra in Siria è stata narrata ampiamente in questi anni. Un elemento che non è mai stato sottolineato abbastanza, però, è il peso in essa della questione idrica. Ecco un estratto dal libro Water Grabbing di Emanuele Bompan e Marirosa Iannelli.

In lontananza gli spari riverberano sulla valle della Beka’a. Dalla terrazza dell’edificio più alto del campo profughi di Wavel, nei pressi di Baalbeck si vede la frontiera della vicina Siria. Qua nel 1948 arrivarono i palestinesi in fuga dai territori occupati dagli israeliani durante la guerra d’indipendenza. Dal 2011 l’esodo è riniziato e le strade si sono riempite di migliaia di siriani in fuga dalla guerra civile, tanti direttamente dai campi profughi palestinesi in Siria. Nel Libano, secondo l’Unhcr, l’Alto Commissariato per i rifugiati, a fine 2017 trovavano rifugio oltre un milione di profughi dalla Siria, circa un quinto della popolazione del piccolo paese mediorientale. Una situazione che ha portato rapidamente al collasso di Beirut e dei tanti campi profughi esistenti e, ben presto, anche di quelli nuovi creati dall’Unhcr al confine.

«I profughi siriani hanno alterato gli equilibri del campo», racconta Intisar Hassan sul terrazzo della casa in cui è nata nel 1961 e oggi vive con il marito tassista e quattro figli. […] stiamo ad ascoltare, distratti di tanto in tanto dai colpi di fucile. «La popolazione è praticamente raddoppiata. I prezzi sono schizzati alle stelle, l’affitto di due camere è passato da 100 a 250 dollari al mese, le uova costano tre volte tanto, l’acqua è sempre più scarsa. All’inizio eravamo ben disposti, volevamo dare una mano, ma ora questa situazione ci sta strangolando». Muna, trent’anni, abita con cinque figli e altre sei persone in uno stanzone senza bagno né vetri alle finestre in un edificio nelle adiacenze. Le pareti sono ricoperte dai poster dei «martiri», tanti quelli di Hamas e Hezbollah. Nel campo di Yarmuk a Damasco aveva studiato business, suo marito era un funzionario statale, possedevano una casa a due piani con il terrazzo. La sua esistenza, dice, è cambiata dal giorno alla notte. La storia della più grave guerra civile degli ultimi anni è nota. Quello che si conosce di meno sono le ragioni che hanno portato a questa crisi umanitaria, con oltre mezzo milione di morti. Tra i motivi che avrebbero favorito lo scoppio del conflitto, ci sarebbe anche la situazione idrica del paese.

Tra il 2007 e il 2010 il paese è stato colpito da una grave siccità, la peggiore registrata in Siria nell’ultimo secolo, che ha lasciato senza lavoro un milione di piccoli agricoltori e causato la migrazione della popolazione rurale verso le città. Una ricerca pubblicata nel 2015 su Proceedings of the National Academy of Sciences ha determinato che la siccità che ha afflitto la Siria ha acuito i disordini sociali aggravando la preesistente instabilità politica. Non la causa, ma uno degli elementi chiave delle proteste contro il governo di Bashar al-Assad […]. A peggiorare la situazione, le temperature elevate, superiori alla media, dovute agli effetti del cambiamento climatico e una gestione insostenibile delle falde, sfruttate oltre misura fino all’esaurimento dei pozzi di irrigazione.

Quando raccogliemmo un’intervista a Mohammed Saha, ventisette anni, venditore di bibite nel quartiere di Hamra, […] Beirut, […], era il 2013 e ancora non si era confermato scientificamente il legame tra acqua e conflitto siriano. Oggi […] emerge come per anni si sia trascurato il ruolo dell’oro blu in questo grave conflitto: «Non c’era più acqua e così abbiamo iniziato a spostarci dalle zone agricole verso la città», racconta Mohammed. «La mia odissea è iniziata prima della guerra, con la prima siccità del 2006-2007. Vivevo in un piccolo villaggio vicino all’Eufrate, riconvertito dalle riforme di Assad sull’estensione delle aree agricole e la conversione da aree pastorali. Nel 2007 l’acqua era talmente poca che nemmeno spingendo le pompe al massimo si riusciva a tirare fuori qualcosa. Dovevamo portarla con le cisterne dal fiume, dilapidando tutti i nostri averi, mentre il sole divorava il raccolto. Così, con la famiglia, ci siamo spostati ad Aleppo e poi con l’inizio della guerra qua a Beirut».

© Giada Connestari

Con l’aggravarsi della situazione, l’acqua in Siria è passata a essere da una delle varie cause concatenate del conflitto a una delle principali armi per indebolire le fazioni ribelli. Nella lotta per il controllo del territorio tra le milizie antigovernative, gruppi terroristici come Isis e al-Nusra e l’esercito di Bashar al-Assad, l’acqua è diventata il primo obiettivo infrastrutturale militare. Pesano le parole di Noosheen Mogadam, analista del Norwegian refugee council, secondo cui «la distruzione delle infrastrutture idriche e i frequenti black out hanno ridotto del 50% l’accesso ad acqua non contaminata». Decine di pozzi, dighe, depuratori sono diventati target, sia per ribelli che per forze governative. La città più colpita è stata Aleppo, dove la quasi totalità della popolazione a fine 2017 faticava ancora ad accedere all’acqua, dovendo contare sulle organizzazioni non governative per ristabilire una rete idrica affidabile. A ottobre 2017 nell’area metropolitana del secondo centro urbano della Siria vivevano oltre 686mila persone con accesso limitato all’acqua per igiene e sostentamento di base. La conseguenza di questa carenza di servizi? Decine di morti per la diarrea dilagante. Allo stesso tempo la scarsità d’acqua ha messo in ginocchio anche l’allevamento di bestiame (ovini, bovini e pollame), con un conseguente indebolimento della sicurezza alimentare. Per le Ong […], l’assalto alle infrastrutture idriche come obbiettivo militare è stato un atto di violazione deliberata del diritto internazionale, un crimine di guerra […].

Ma non è stata certo la prima volta che l’acqua ha giocato un ruolo centrale in un conflitto, e non sarà l’ultima. Un bene sempre più scarso e conteso, che sarà uno degli elementi strategici dei conflitti del XXI secolo e una delle cause principali delle migrazioni dai paesi più esposti all’instabilità politica ed economica causata dal cambiamento climatico. Comunemente si definiscono «water wars», guerre e conflitti combattuti per l’acqua […]. Dalla siccità in Siria, fino alla siccità globale del 2016 che ha alimentato gli scontri in Sud Sudan di inizio 2017, fino alle proteste in Bolivia e Cile per le privatizzazioni. Passando per uno dei punti più caldi dal punto di vista geopolitico, l’Indo, che alimenta il settore agricolo ed energetico di due nemici di lunga data, India e Pakistan. […].

Anche le grandi opere idrogeologiche possono costituire un grave contenzioso politico. Come la diga Grand Renassaince, costruita in Etiopia, che ha spinto il governo egiziano a minacciare ritorsioni nel caso si fosse verificata una forte diminuzione del regime idrico del Nilo […]. «Il commercio globale di derrate alimentari, i consumi iperbolici, il cambiamento climatico, la lenta trasformazione energetica: questi sono gli elementi dei conflitti di domani», raccontava Lester Brown, uno dei più grandi esperti di problemi globali, in una delle ultime interviste nel suo ufficio del Worldwatch Institute di Washington, prima di ritirarsi. «Con l’aumento della popolazione abbiamo raggiunto un “picco dell’acqua”. Paesi come Siria, Iraq, Pakistan, Messico, hanno già raggiunto o superato questo picco, prosciugando i bacini acquiferi, con conseguenze catastrofiche sulla stabilità di quei paesi».

Per capire il crescente emergere di conflitti legati all’acqua bisogna andare a New York. È un giorno freddo, il primo ottobre 2010. I reporter escono dal Palazzo di vetro delle Nazioni unite per andare a scrivere svogliatamente una notizia, che passa quasi inosservata sulla stampa italiana. L’Assemblea generale delle Nazioni unite ha adottato la Risoluzione 64/292 riconoscendo l’acqua come diritto umano. Ma lo scarso interesse di media e politica fa comprendere fin da subito come l’importanza di questa Risoluzione sia sottovalutata. O addirittura si voglia tenerla sotto il tappeto. L’acqua come diritto è una questione che scotta, per governi e multinazionali in primis. […] Nel 2010 l’approvazione della Risoluzione per la prima volta dà dignità a un diritto primario, dichiarando che «il diritto all’acqua potabile e sicura e ai servizi igienici è un diritto umano essenziale al pieno godimento della vita e di tutti i diritti umani». Parole bellissime, cui non è seguito alcun reale riconoscimento nelle costituzioni dei singoli paesi né nei tanti ambiti del diritto e delle organizzazioni internazionali.

©  Gianluca Cecere

La questione […] giuridica rimane molto controversa. Differenti orientamenti di legge non hanno ancora permesso di affermare una normativa chiara e cogente […]. Mancando quindi un sistema globale di regolamentazione giuridica dell’acqua, le possibilità di conflitti per il suo accaparramento sono in aumento […].

Dagli abusi sulle popolazioni indigene ai conflitti legati ai bacini transfrontalieri, l’assenza di un quadro de jure impiegato per favorire una cooperazione su basi legali tra soggetti politici offre una lacuna particolarmente grave […].

La risoluzione delle Nazioni unite del 2010 appartiene a tutti gli effetti alla sfera della cosiddetta soft law, cioè a quel sistema di norme prive di carattere vincolante e sanzionatorio capace di obbligare gli stati ad adempiere a quanto prescritto. In sostanza, a oggi, il riconoscimento del diritto umano all’acqua passa attraverso «un invito ai governi all’impegno sia sul proprio territorio, sia in contesto internazionale, a rendere effettivo l’esercizio di tale diritto».

Durante la votazione della risoluzione 64/292, in quel freddo giorno dell’ottobre 2010, furono 122 i paesi a favore, 41 gli astenuti. Nessun contrario. L’astensione tuttavia pesava come un macigno. Nella lista figuravano molti paesi industrializzati come Stati Uniti, Canada, Svezia, Regno Unito, Austria, Israele, Corea del Sud, Nuova Zelanda, Giappone. Le motivazioni? L’assenza di basi legali sufficienti a livello internazionale e la scarsa chiarezza sulle responsabilità e gli obblighi dei governi firmatari. Una posizione ritenuta dagli stati sostenitori – come Germania, Italia, Spagna e Belgio – sintomo dell’impossibilità di un impegno comune e di mancanza di visione.

[…] Dopo il riconoscimento dell’Assemblea generale delle Nazioni unite, il quadro giuridico è stato integrato da risoluzioni del Consiglio dei diritti umani che hanno esplicitato formalmente il legame tra «il diritto umano all’acqua» e il livello di vita adeguato per tutti, così come la diretta relazione tra la risorsa idrica e il diritto alla vita e alla dignità. Gli stati avrebbero dunque la responsabilità primaria di assicurare la piena realizzazione di tutti i diritti umani, e la concessione della gestione dell’acqua potabile e/o dei servizi igienico sanitari a terzi non esime lo stato dai suoi obblighi sui diritti umani.

Nel 2013 però l’Assemblea generale ha declinato le modalità con cui gli stati dovrebbero garantire tale diritto, che prevedono un processo consultivo con i cittadini, il monitoraggio della diffusione dell’accesso all’acqua potabile, e la garanzia di un’accessibilità ai servizi idrici, anche se gestiti da enti terzi come i privati. Unica nota positiva: nello stesso anno viene estesa al diritto all’acqua l’opzione della giustiziabilità, secondo cui tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi, tramite il Patto internazionale relativo ai Diritti economici, sociali e culturali, un trattato delle Nazioni unite nato dall’esperienza della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e sottoscritto e ratificato da tutti i membri dell’Onu.

Pur avendo fatto dei passi avanti nello scenario giuridico con risoluzioni esplicite e strumenti interpretativi che hanno definito il diritto all’acqua come diritto umano, quindi universale, autonomo e specifico, questo riconoscimento resta a tutt’oggi sancito solo in termini «declaratori» […].

Da qualche anno il dibattito internazionale della dottrina sta cercando di superare i limiti burocratici e politici che non consentono un impegno più stringente da parte degli stati per garantire efficacemente l’accesso all’acqua potabile in ogni area del mondo, tutelando quindi la vita, la salute e il benessere di intere comunità. Secondo buona parte degli studiosi di diritto internazionale, il diritto all’acqua dovrebbe essere riconosciuto tra le cosiddette norme consuetudinarie, che presuppongono due elementi: la ripetizione costante nel tempo di un dato comportamento da parte dei soggetti e il convincimento che quel comportamento sia conforme a diritto o a necessità. A differenza dei trattati inoltre, validi solo nei rapporti tra le parti, le norme consuetudinarie obbligano in via sanzionabile tutti i soggetti internazionali al comportamento a cui si fa riferimento. Sarebbe dunque un decisivo passo avanti per poter successivamente declinare nei vari paesi vincoli precisi per gli stati.


Ha firmato questo dossier:

  • Emanuele Bompan
    Giornalista ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, ambiente, energia. È direttore della rivista Materia Rinnovabile, collabora con testate come La Stampa, Nuova Ecologia, Oltremare. Ha vinto per quattro volte l’European Journalism Center IDR Grant, una volta la Middlebury Environmental Journalism Fellowship ed è stato nominato Giornalista per la Terra 2015. Ha svolto reportage in 76 paesi, sia come giornalista che come analista. www.emanuelebompan.it/
  • A cura di Luca Lorusso giornalista redazione MC.



Ri-animare l’economia

testo di Maria Gaglione |


Migliaia di giovani economisti, imprenditori e promotori di cambiamento da 120 paesi s’incontreranno a fine marzo ad Assisi per fare un patto per un nuovo modello economico.

«Cari amici, vi scrivo per invitarvi ad un’iniziativa che ho tanto desiderato: un evento che mi permetta di incontrare chi oggi si sta formando e sta iniziando a studiare e praticare una economia diversa, quella che fa vivere e non uccide, include e non esclude, umanizza e non disumanizza, si prende cura del creato e non lo depreda».

Papa Francesco apre con queste parole la sua lettera, firmata il 1° maggio 2019, memoria di san Giuseppe lavoratore, indirizzata ai giovani economisti e imprenditori di tutto il mondo per invitarli ad Assisi dal 26 al 28 marzo 2020.

«Occorre “ri-animare” l’economia! E quale città è più idonea per questo di Assisi, che da secoli è simbolo e messaggio di un umanesimo della fraternità? Se san Giovanni Paolo II la scelse come icona di una cultura di pace, a me appare anche luogo ispirante di una nuova economia. Qui infatti Francesco si spogliò di ogni mondanità per scegliere Dio come stella polare della sua vita, facendosi povero con i poveri, fratello universale. Dalla sua scelta di povertà scaturì anche una visione dell’economia che resta attualissima. Essa può dare speranza al nostro domani, a vantaggio non solo dei più poveri, ma dell’intera umanità».

È un appello a radunarsi per stipulare un patto nel segno del Santo di Assisi e del Vangelo che egli visse in totale coerenza anche sul piano economico e sociale, e nel segno della Laudato si’, la lettera enciclica nella quale lo stesso papa ha denunciato lo stato patologico di tanta parte dell’economia mondiale e ha invitato a mettere in atto un modello economico nuovo.

Comunione, fraternità, equità

Nella Laudato si’, papa Francesco sottolinea come oggi, più che mai, tutto è intimamente connesso, e la salvaguardia dell’ambiente non può essere disgiunta dalla giustizia verso i poveri e dalla soluzione dei problemi strutturali dell’economia mondiale. «Purtroppo – scrive Francesco nella lettera per l’evento di Assisi – resta ancora inascoltato l’appello a prendere coscienza della gravità dei problemi e soprattutto a mettere in atto un modello economico nuovo, frutto di una cultura della comunione, basato sulla fraternità e sull’equità. […] Mi vengono in mente le parole rivolte a Francesco dal Crocifisso nella chiesetta di san Damiano: “Va’, Francesco, ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina”. Quella casa da riparare ci riguarda tutti. […] Ma ho pensato di invitare in modo speciale voi giovani perché, con il vostro desiderio di un avvenire bello e gioioso, voi siete già profezia di un’economia attenta alla persona e all’ambiente.

Carissimi giovani, io so che voi siete capaci di ascoltare col cuore le grida sempre più angoscianti della terra e dei suoi poveri in cerca di aiuto e di responsabilità, cioè di qualcuno che “risponda” e non si volga dall’altra parte».

Portatori di una cultura coraggiosa

All’appello del papa hanno risposto migliaia di giovani da oltre 120 paesi. Sono dottorandi di ricerca, giovani ricercatori e professori (di economia, management, filosofia, sociologia, teologia), imprenditori, dirigenti di azienda, startupper, innovatori sociali, promotori di progetti e attività al servizio del bene comune. Si occupano di ambiente, risorse naturali, consumo responsabile e stili di vita, produzione, innovazione, lavoro, finanza, sviluppo, povertà, uguaglianza, educazione, intelligenza artificiale e nuove tecnologie.

Stanchi di un sistema in cui non si riconoscono, sono portatori di una cultura coraggiosa capace di realizzare altri modi di intendere l’economia e il progresso e vogliono essere parte di un processo di cambiamento globale. Aspettano di vivere l’incontro di Assisi come occasione di confronto e di relazione con altri giovani e sperano di poter condividere l’esperienza con e per le comunità e i paesi a cui appartengono.

Civiltà della gratuità

Francesco d’Assisi era figlio di un ricco mercante borghese, ed era giovane quando decise di lasciare le ricchezze di suo padre e di dedicarsi alla sua vita nuova.

Vandana Shiva / © Maritza Ríos / Secretaría de Cultura CDMX

All’alba di ogni autentica vocazione, c’è sempre la tappa della spoliazione. Arriva quando la persona chiamata capisce che deve operare un «reset» della propria esistenza: ripartire da zero, perché sta rinascendo.

Quando il carisma francescano ha fatto irruzione nella storia, con esso ha fatto la sua comparsa anche una nuova concezione della ricchezza e della povertà. Essa ha operato una vera rivoluzione culturale che avrebbe poi portato alla nascita dell’economia moderna: infatti, non solo furono francescani alcuni tra i più importanti teorici dell’economia medioevale, ma dai francescani dell’Osservanza nel XV secolo nacquero i Monti di Pietà, protobanche civili, i primi istituti di microfinanza nati senza scopo di lucro per curare la povertà e l’usura nelle città del centro Italia.

Dalla povertà scelta liberamente dai francescani nacquero, dunque, istituzioni per liberare dalla povertà chi non l’aveva scelta, ma subita. «Finché c’è un povero – dicevano i francescani – la città non può essere fraterna».

Quel gesto, dunque, fu l’atto di nascita di una oikos-nomos diversa, di un nuovo «governo della casa», fu la genesi di un regno dove la moneta è la charis.

Quella prima gratuità fece nascere un’economia e una civiltà che ha liberato e continua a liberare milioni di poveri. Solo chi conosce la gratuità, infatti, può dar vita a nuove economie, perché essa dà il giusto valore al denaro e ai profitti, e alla vita.

Un carisma che ha posto al proprio centro «sorella povertà», il distacco dai beni, diventa la scuola economica dalla quale emergerà in seguito il moderno spirito dell’economia di mercato.

Protagonismo giovanile

Nel nostro mondo oggi continua a esserci un infinito bisogno di gratuità e fraternità. Papa Francesco lo sa molto bene e affida ai giovani la costruzione di una nuova economia: l’economia di Francesco.

«Le vostre università, le vostre imprese, le vostre organizzazioni sono cantieri di speranza per costruire altri modi di intendere l’economia e il progresso, per combattere la cultura dello scarto, per dare voce a chi non ne ha, per proporre nuovi stili di vita – continua il papa nel suo messaggio -. Finché il nostro sistema economico-sociale produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, non ci potrà essere la festa della fraternità universale».

«The Economy of Francesco» sarà dunque un incontro internazionale con un grande protagonismo del pensiero e delle prassi dei giovani.

E di giovani è composto anche il gruppo di economisti, imprenditori, artisti ed esperti della comunicazione che sta lavorando per la preparazione dell’evento insieme a un comitato scientifico internazionale coordinato dall’economista Luigino Bruni, professore ordinario alla Lumsa.

Insieme ai migliori cultori della nuova economia

Luigino Bruni / © Sybrig Andringa

«Insieme a voi, e per voi, farò appello ad alcuni dei migliori cultori e cultrici della scienza economica – prosegue il papa nella sua lettera di maggio scorso -, come anche a imprenditori e imprenditrici che oggi sono già impegnati a livello mondiale per una economia coerente con questo quadro ideale».

A questo appello hanno risposto  in molti: economisti e imprenditori di fama internazionale che accompagneranno i giovani nei giorni dell’evento, anche attraverso sessioni interattive e colloqui personali, approfondimenti di storie ed esperienze.

Tra essi Amartya Sen, economista e filosofo indiano, premio Nobel per l’economia 1998, Vandana Shiva, attivista e ambientalista indiana, tra i principali leader dell’International forum on globalization, Stefano Zamagni, docente di economia all’Università di Bologna, presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali, Kate Raworth, economista inglese che lavora per l’Università di Oxford e l’Università di Cambridge, senior associate all’Istituto per la leadership della sostenibilità di Cambridge, e altri.

Ridisegnare il sistema

Prof Muhammad Yunus

Fra i primi a rispondere, Muhammad Yunus, economista e banchiere bengalese, ideatore e realizzatore del microcredito moderno e Nobel per la pace: «The Economy of Francesco è un esempio globale che può ispirare persone in tutto il mondo, riguarda il modo in cui la vita, per i poveri, può essere cambiata – ha dichiarato -. Dobbiamo capire che la povertà è creata dal sistema economico che abbiamo costruito. Perciò il sistema va orientato, perché sta producendo povertà a dismisura, ogni giorno. Dobbiamo rivedere tutto e cercare l’origine della povertà. Tutta la ricchezza del mondo è concentrata nelle mani dell’1% della popolazione, mentre il 99% dipende da quell’1%. Questo è totalmente inaccettabile. Abbiamo bisogno di dare vita a un’economia circolare che non distrugga continuamente la ricchezza globale. Dobbiamo farlo, dobbiamo progettarla e proteggere l’ambiente perché siamo nel bel mezzo di un disastro che va fermato.

Di questo discuteremo nel prossimo marzo, di come ridisegnare il sistema e di quale ruolo possono avere i giovani. I ragazzi hanno un enorme potere, grandi capacità e incredibili strumenti tecnologici fra le mani. Se fissano un obiettivo, possono cambiare il mondo molto rapidamente. È ciò che papa Francesco sta provando a fare: riunire i giovani, lanciare loro la sfida del cambiamento perché il nostro mondo sta affondando, sta soffrendo e va ripensato. Così andremo nella direzione di costruire un pianeta bellissimo per tutti, non solo per pochi fortunati. Vogliamo cogliere l’opportunità di ridisegnare l’economia e poter dare un contributo importante al welfare».

Far parte del cambiamento

Jeffrey Sachs / Overseas Development Institute_flickr

Anche per Jeffrey Sachs, economista e saggista statunitense e direttore dell’Earth institute alla Columbia University, The Economy of Francesco è «un evento per dare vita a una nuova economia globale che sia equa, prospera e sostenibile sotto il profilo ambientale. Il lavoro che verrà fatto ad Assisi sarà rivoluzionario, stimolante per tutto il mondo e costruttivo per le future generazioni. I giovani stanno urlando “vogliamo un cambiamento”, scioperano per la salvezza del clima, dicono “il nostro mondo non può continuare a essere maltrattato” come adesso. Vogliamo pace, cooperazione, sostenibilità ambientale, giustizia. I ragazzi di tutto il mondo stanno dicendo che la Economy of Francesco mostrerà, attraverso dibattiti e decisioni, come tutto ciò può essere realizzato. Io ci sarò in quei giorni perché abbiamo bisogno di una nuova economia, una nuova visione, e gli insegnamenti di papa Francesco contenuti nell’enciclica Laudato si’ e in altri scritti ci aiutano a tracciare il sentiero verso un mondo migliore, più felice, sostenibile ed etico. Rappresentano una spinta a far parte del cambiamento che garantirà più felicità per tutti».

Un patto solenne

Non sarà un congresso tradizionale, dunque, ma l’avvio di un processo che consenta di pensare e domandarsi, sulle orme e nei luoghi di Francesco d’Assisi, cosa significa oggi costruire un’economia nuova che non emargini nessuno.

Sarà soprattutto il momento in cui i giovani stringeranno un patto solenne con papa Francesco, assicurando il proprio impegno: «Per questo desidero incontrarvi ad Assisi, per promuovere insieme, attraverso un patto comune, un processo di cambiamento globale che veda in comunione di intenti non solo quanti hanno il dono della fede, ma tutti gli uomini di buona volontà, al di là delle differenze di credo e di nazionalità, uniti da un ideale di fraternità attento soprattutto ai poveri e agli esclusi. Invito ciascuno di voi a essere protagonista di questo patto, facendosi carico di un impegno individuale e collettivo per coltivare insieme il sogno di un nuovo umanesimo rispondente alle attese dell’uomo e al disegno di Dio».

La ventinovesima scena

Solo quando san Francesco si avvicinò ai più poveri, al suo tempo rappresentati soprattutto dai malati di lebbra, egli rafforzò l’amore che avvertiva dentro e che lo sollecitava a operare per la carità.

Visitando il meraviglioso ciclo giottesco sulla vita del santo di Assisi si scopre, però, che il solo episodio che manca in quelle ventotto scene, è proprio il bacio di Francesco al lebbroso a Rivotorto, un episodio centrale e decisivo nella vita del poverello e del francescanesimo.

La scena non è entrata in quel ciclo pittorico, forse perché i borghesi di Assisi, finanziatori della basilica, non volevano che il mondo ricordasse la presenza dei lebbrosi nella loro città.

I ricchi possono anche donare molto denaro per i poveri, ma in genere non li vogliono vedere: i lebbrosi sono scarti della storia e della narrazione stessa di quella storia.

La prima povertà di molti è l’invisibilità, il fatto di non essere visti e raccontati.

«The Economy of Francesco», dunque, ci aiuterà a restituire al mondo la 29esima scena: le fragilità e le povertà di oggi, osservate e chiamate per nome, e incluse nella vita, nell’economia e nella storia, con l’attenzione e le risposte che meritano.

L’ecologia francescana sa intuire una fraternità cosmica, perché il primo fratello che ama è il povero scartato. Quando papa Francesco scelse di intitolare Laudato si’ la sua enciclica sull’ecologia e sull’economia ci ha ricordato che il Cantico delle creature inizia con l’abbraccio al lebbroso e che l’economia circolare, green, sostenibile, assomiglia all’economia di Francesco solo se inizia dagli ultimi di oggi.

Maria Gaglione


Un evento,molti eventi

L’evento «The Economy of Francesco» ha prodotto in tutto il mondo un gran numero di altri eventi che nei mesi scorsi hanno radunato e fatto riflettere migliaia di persone da Lisbona a Vienna, da Palermo a Bergamo, in Brasile, Spagna, Colombia, Corea del Sud, Perù, Camerun, Usa, Polonia.

Organizzati a livello locale o regionale, sotto forma di workshop, laboratori, seminari di studio, conferenze, promossi da organizzazioni, movimenti, associazioni, università, imprese, gruppi informali, sono nati dall’esigenza di ascoltare e valorizzare il pensiero e l’agire economico dei giovani attraverso l’incontro e il dialogo tra economisti e imprenditori a partire dal messaggio di papa Francesco.

Sito

www.francescoeconomy.org




Amazzonie, riflessioni post Sinodo panamazzonico

Testi di: Gaetano Mazzoleni, Paolo Moiola, Jaime C. Patias. A cura di: Paolo Moiola |



Dopo un lungo e tormentato percorso storico

Un sinodo sull’Amazzonia, finalmente

Questo sinodo era un’esigenza storica. Non è nato all’improvviso, ma da un lungo percorso della Chiesa e del papato. Un missionario e antropologo con una lunghissima esperienza nell’Amazzonia commenta il documento finale (senza trascurare qualche puntatina polemica verso i critici).

Dopo oltre cent’anni dall’enciclica Lacrimabili statu di san Pio X sulle condizioni disumane dei popoli amazzonici, finalmente è stato realizzato un sinodo sulla Panamazzonia e sui suoi abitanti. Questa affermazione potrebbe meravigliare molti lettori, ma molto di più ha sorpreso qualche manipolo di cattolici – si potrebbe dire – «più papisti del papa», che hanno fatto di tutto per ostacolare e disturbare la realizzazione di questo sinodo speciale. Ma andiamo con ordine.

Diversi gli invasori, identici i risultati

La prima domanda da porsi è: perché un sinodo speciale sull’Amazzonia? La risposta è duplice: la prima legata all’attualità ambientale, la seconda alla preoccupazione della Chiesa per i più deboli.

Nei mesi scorsi i mass media ci hanno inondato di pessime notizie ambientali. Da un lato, la fascia equatoriale del mondo, in cui si trovano realtà come il bacino amazzonico, il bacino del Congo e la zona del Sud Est asiatico, aree che hanno registrato preoccupanti segni di distruzione da parte dell’uomo (con probabili ripercussioni sui cambiamenti climatici globali). Dall’altro, i mesi di giugno e luglio sono stati caratterizzati da notizie allarmanti sulla foresta amazzonica in fiamme.

Le problematiche della regione amazzonica erano già state affrontate dalla Chiesa con la bolla di Benedetto XIV Immensa Pastorum Principis del 20 dicembre 1741, la bolla di Urbano VIII del 22 aprile del 1639 Commissum nobis e, ancora più indietro nel tempo, la bolla Pastorale Officium di papa Paolo III, datata 29 maggio 1537.

La citata enciclica di San Pio X, Lacrimabili statu, datata 7 giugno 1912, aveva come oggetto la tutela dei diritti umani e naturali degli amerindi amazzonici. Ai tempi, queste popolazioni erano oggetto di indicibili soprusi. Era l’epoca dello sfruttamento del caucciù (fine secolo XIX – prima metà del secolo XX), un periodo storico corrispondente all’inizio dell’industria automobilistica nel mondo occidentale. Il ciclo del caucciù si sarebbe concluso con l’arrivo dei derivati del petrolio, dopo la seconda guerra mondiale.

Denunciando quelle situazioni disumane, san Pio X si dimostrò un papa antesignano rispetto alla sensibilità per le condizioni dei popoli indigeni e dell’Amazzonia. Dopo oltre 100 anni da quella denuncia, l’esperienza dimostra che sono cambiati gli invasori, ma i fatti si ripetono: conquista, occupazione, distruzioni, profitto, oro, morti e sempre le stesse persone che perdono.

Questi due elementi – il progressivo degrado della situazione ambientale e la condizione delle popolazioni autoctone amerindie – indicavano alla Chiesa la necessità di fare qualcosa.

Così, quando papa Francesco ha parlato per la prima volta della necessità di un sinodo sull’Amazzonia, la mia prima reazione è stata un’esclamazione di gioia: «Finalmente. Era ora!». Non solamente perché lo consideravo giusto, utile o una novità assoluta, ma per la sua esigenza storica.

Una Chiesa che ascolta

foto Paolo Moiola

Scorrendo le pagine del Documento finale del Sinodo speciale, uscito a fine ottobre, mi pare esplicito l’invito a riflettere su diverse problematiche: ambientali, ecologiche, antropologiche ed ecclesiali.

La Chiesa «in uscita» si mette in «ascolto» del grido di aiuto dell’Amazzonia e delle popolazioni indigene che l’abitano per riflettere su come annunziare, vivere, celebrare il messaggio evangelico ed essere Chiesa radunata dall’Eucaristia. Riascoltando le voci dell’Amazzonia, il sinodo speciale invita tutte le persone di buona volontà, nello spirito di Francesco d’Assisi, a prendersi cura della «casa comune», a praticare la solidarietà con i più poveri che devono recuperare la loro dignità di persone, di figli di Dio e la loro identità culturale. «Cristo indica l’Amazzonia»: con questa affermazione di san Paolo VI comincia il primo capitolo (numeri 5 – 19) del Documento finale. È un grido che viene da lontano: dalla Lacrimabili statu di san Pio X, attraversa tutto l’arco temporale e di pensiero del Concilio Vaticano II e arriva fino ai nostri giorni.

Per la Chiesa latinoamericana il percorso verso l’Amazzonia e i suoi abitanti si è snodato attraverso gli incontri della Conferenza episcopale latinoamericana (Celam): Medellìn (1968), Puebla (1979), Santo Domingo (1992), Aparecida (2007), ma anche e forse soprattutto i molteplici incontri promossi dal «Dipartimento di Missioni» (Demis) dello stesso Celam con la guida del papa.

Dalla connessione all’alleanza

«Connessione» è un’ulteriore prospettiva essenziale del Documento finale perché presenta la stretta unione tra il grido della terra e quello dei poveri con la denuncia della distruzione del creato, dello sterminio del mondo naturale, della minaccia alla vita umana di coloro che abitano quei territori, ma anche con l’annuncio e la testimonianza della buona notizia di Gesù.

La connessione si fa alleanza quando si parla di Chiesa e popoli indigeni: Chiesa alleata del mondo amazzonico. Cristo, indicandoci l’Amazzonia, ci segnala le grandi sfide globali, la crisi socio-ambientale, il dramma delle migrazioni forzate e la convivenza tra culture e religioni differenti. L’ascolto dell’Amazzonia è un invito per la Chiesa alla conversione integrale perché ne riconosce il suo messaggio di vita: la voce e il canto dell’Amazzonia che diventa nello stesso tempo un grido di tutto il territorio e dei suoi abitanti. Dall’ascolto sorge la proposta di nuovi cammini di conversione pastorale, culturale, ecologica e sinodale.

© Vatican Media

Il percorso di una conversione pastorale (20 – 40) riguarda tutti i battezzati chiamati a costruire una Chiesa samaritana, misericordiosa e solidale. Una Chiesa missionaria impegnata nel dialogo ecumenico, interreligioso e culturale con volto e cuore indigeno o contadino (caboclo, ribereño, colono, afrodiscendente, …), migrante e giovane. Alla Chiesa della Panamazzonia è chiesto di diventare essa stessa missionaria. L’ascolto della Panamazzonia si trasforma – inoltre – in una conversione culturale (41 – 64).

Alleandosi con i popoli amazzonici la Chiesa si sente in dovere di rispettare e far rispettare i loro valori, le loro culture e il loro stile di vita come risultato di una forza vitale di adattamento storico. La Chiesa difende i diritti dei popoli amazzonici e denuncia tutti gli attacchi contro la vita delle loro comunità, il loro ambiente, con molteplici forme di sfruttamento.

Questa presa di posizione implica un’apertura sincera all’altro visto come fratello da cui si può imparare – ce lo dimostra la millenaria esperienza di adattamento dei popoli amerindi – e non come mezzo di cui servirsi a nostro beneficio. Per la Chiesa la difesa della «vita» e dei diritti dei popoli amerindi è un principio evangelico. L’alleanza tra popoli indigeni e Chiesa si realizza nell’ottica della fraternità, si manifesta in una sempre maggiore inculturazione della fede nella vita dei popoli amazzonici. In un’atmosfera di fraternità la Chiesa deve svolgere la missione di evangelizzare, il che non ha nulla a che vedere con il proselitismo, rifiutando al tempo stesso ogni forma di «evangelizzazione di stile coloniale».

I nuovi cammini di conversione ecologica (65 – 85) indicano che lo sfruttamento illimitato della «casa comune e dei suoi abitanti» deve essere fermato. Un’ecologia integrale non è un cammino tra i tanti che la Chiesa può scegliere per il suo futuro e quello di questo territorio, ma è l’unica via possibile e urgente; non esiste altro percorso praticabile per salvare la regione e i popoli indigeni. I cambiamenti nel sistema economico mondiale e la solidarietà globale sono urgenti e necessari.

Anche se la Chiesa non ha il potere di cambiare immediatamente e ovunque i modelli di sviluppo distruttivi e predatori, essa segnala e mostra da che lato sta. Il fondamento è la dottrina sociale della Chiesa, che implica espressamente l’ecologia. Deve impegnarsi per uno sviluppo equo, solidale e sostenibile con una denuncia coraggiosa dello scempio prodotto dall’estrattivismo.

L’introduzione del «peccato ecologico»

Nel porre in rilievo nuovi cammini di sviluppo «amichevoli» verso la casa comune, la Chiesa fa un’opzione chiara per la difesa della vita, della terra (territorio) e delle culture originarie amazzoniche (78).

In tale luce si comprende il «peccato ecologico» (82): ogni azione o omissione contro Dio, il prossimo, la comunità e l’ambiente. Tra le proposte concrete, spicca quella di un fondo mondiale per coprire parte dei bilanci delle comunità amazzoniche e la creazione di un osservatorio socio-ambientale pastorale che lavori in alleanza con i vari attori ecclesiali nel Continente – a partire dal Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) – e con i rappresentanti delle etnie native.

Nell’orizzonte di comunione e partecipazione si devono cercare nuovi cammini ecclesiali, soprattutto, nella ministerialità e nella sacramentalità della Chiesa con volto amazzonico (86-119). La Chiesa ha bisogno di nuove esperienze sinodali, di un nuovo cammino fatto insieme, di una cultura del dialogo e dell’ascolto per rispondere alle sfide pastorali. In particolare, nel documento si sottolinea a questo riguardo la corresponsabilità dei laici.

Il volto femminile

Un’intera sezione del Documento è poi dedicata alla «presenza e all’ora della donna», al volto femminile della Chiesa amazzonica. Il ruolo straordinario dell’evangelizzazione al femminile viene riconosciuto con forza chiedendo la possibilità che anche le donne possano accedere ai ministeri di lettorato, accolitato e di dirigente di comunità.

Il testo del Documento finale è il risultato dello «scambio aperto, libero e rispettoso» svoltosi nelle tre settimane di lavori del Sinodo, per raccontare le sfide e le potenzialità dell’Amazzonia, «cuore biologico» del mondo, un cuore esteso su 9 paesi e abitato da oltre 33 milioni di persone, di cui circa 2,5 milioni di indigeni. Questa regione, seconda area più vulnerabile al mondo (dopo l’Artico) a causa dell’uomo, si trova «in una corsa sfrenata verso la morte» e ciò esige urgentemente una nuova direzione che consenta di salvarla, pena un impatto catastrofico su tutto il pianeta.

foto Paolo Moiola

Amazzonia, «locus theologicus»

Questo, per sommi capi, il contenuto del documento finale di un sinodo benedetto, anche se arrivato molto tardi.

Penso di poterlo affermare sulla base dei miei 45 anni trascorsi nella regione amazzonica. Una regione dove, durante la stagione delle piogge (invierno), i fiumi si gonfiano, straripano e mandano a farsi benedire tutti i confini stabiliti «politicamente». Durante questa stagione i confini cambiano. È la legge della Panamazzonia, diversa dalla legge degli stati.

Come è diversa quella che dice: «I fiumi uniscono, non dividono». Diretta conseguenza di un altro principio: «Chi proibisce agli uccelli dell’altra sponda di venire a questa e viceversa? O chi impedisce ai pesci di questo lato del fiume di passare liberamente e tranquillamente all’altro?». Questa è saggezza e filosofia panamazzonica o, se si preferisce, «pensiero mistico religioso» di quell’area.

Qualcuno si è scandalizzato per espressioni come «buon vivere» o, ancora di più, «Pacha Mama» (madre terra). Eppure, un noto salmo biblico recita: «Venite ammirate le opere del Signore: ha fatto cose stupende sulla terra» (come, per esempio, il bacino e la selva amazzonica). In effetti, ci vuole così poco per riconoscere la foresta panamazzonica come un «locus theologicus»: basta viverci dentro.

Gaetano Mazzoleni

foto Paolo Moiola

 


Il documento finale del sinodo, una lettura laica:

L’Amazzonia, cuore biologico del mondo

Come l’Instrumentum laboris, anche il documento finale del Sinodo panamazzonico ha tra i propri meriti la chiarezza delle posizioni. Almeno quando parla della situazione politica, ambientale e antropologica.

Link ai documenti del Sinodo:

La situazione dell’Amazzonia, cuore biologico della Terra, è drammatica. Sono necessari – ricorda nei passaggi iniziali il documento finale del Sinodo – dei cambi radicali e urgenti nonché una nuova direzione che permetta di salvarla (2 – questi numeri si riferiscono al documento finale).

Nella regione amazzonica coesiste una realtà plurietnica e multiculturale, dato che, oltre ai popoli originari, esistono popolazioni meticce nate dall’incontro tra popoli diversi (8). I popoli indigeni hanno come orizzonte il «buon vivere», che significa vivere in armonia non soltanto con se stessi e con gli altri esseri umani, ma anche con la natura e con l’essere supremo (9).

Questa realtà plurietnica, pluriculturale e plurireligiosa richiede un’apertura al dialogo, riconoscendo la molteplicità degli interlocutori: oltre ai popoli indigeni, quelli rivieraschi, i contadini, gli afrodiscendenti, le organizzazioni della società civile, i movimenti sociali popolari, lo stato (23). Senza dimenticare le altre chiese cristiane e denominazioni religiose, anche se le relazioni tra cattolici e pentecostali, carismatici ed evangelici non sono facili (24). Va poi precisato che, in Amazzonia, il dialogo interreligioso si rivolge specialmente alle religioni indigene e ai culti afro. Queste tradizioni meritano di essere conosciute, comprese nelle loro espressioni e nelle loro relazioni con la foresta e la madre terra (25).

Nella foresta non soltanto la vegetazione è in connessione, ma anche i popoli sono collegati in una rete di alleanze che porta vantaggi per tutti. Grazie a questo sistema di interrelazioni e interdipendenze il pur fragile equilibrio dell’Amazzonia si è preservato nel tempo (43).

La visione indigena e quella occidentale

Il pensiero dei popoli indigeni offre una visione integrale della realtà, una visione capace di comprendere le molteplici connessioni esistenti tra tutti gli elementi del creato. Questo contrasta con la corrente dominante del pensiero occidentale che, per comprendere la realtà, tende a frammentarla, senza riuscire ad articolare una visione complessiva e unitaria. Oltre a ciò, nei popoli indigeni s’incontrano anche altri valori come la reciprocità, la solidarietà, il senso di comunità, l’eguaglianza (44).

L’avidità per la terra è alla radice dei conflitti che portano all’etnocidio, così come all’assassinio e alla criminalizzazione dei movimenti sociali e dei suoi dirigenti. La demarcazione e la protezione delle terre indigene è un obbligo degli stati nazionali e dei loro rispettivi governi. Senza dubbio, buona parte dei territori indigeni sono sprovvisti di protezione e quelli già demarcati (per esempio, la terra degli Yanomami) sono invasi a causa dell’estrattivismo minerario e forestale, dei grandi progetti infrastrutturali, delle coltivazioni illecite (in primis, la coca) e dei latifondi che promuovono le monocolture e l’allevamento estensivo (45).

Come spiega molto bene la Laudato si’, l’«ecologia integrale» ha il suo fondamento nel fatto che tutto è in connessione. Questo significa che ecologia e giustizia sociale sono intrinsecamente unite (66). Una delle cause principali della distruzione dell’Amazzonia è il cosiddetto «estrattivismo predatorio» che risponde alla logica dell’avarizia, propria del paradigma tecnocratico dominante (67).

foto Paolo Moiola

La visione indigena e quella occidentale

Risulta scandaloso che si criminalizzino i leader indigeni e le comunità per il solo fatto di reclamare i propri diritti. In questi ultimi anni, la regione amazzonica ha visto un continuo incre-
mento dello sfruttamento delle risorse naturali (legname, petrolio, oro e molto altro) e lo sviluppo di megaprogetti infrastrutturali (dighe, centrali elettriche, strade). Tutto questo si è tradotto in pressioni dirette sui territori ancestrali senza la possibilità per gli indigeni di ottenere giustizia (69).

È evidente che l’intervento dell’uomo ha perso il suo carattere «amichevole», per assumere un’attitudine vorace e predatoria che tende a sfruttare le risorse naturali disponibili fino al loro esaurimento (71). Molte attività estrattive, come le miniere su grande scala (quelle illegali in particolare, si pensi all’estrazione dell’oro), riducono in maniera sostanziale il valore della vita in Amazzonia. In effetti, si appropriano della vita dei popoli e dei beni comuni della terra, concentrando potere economico e politico nelle mani di pochi. A peggiorare le cose, molti di questi progetti distruttivi si realizzano nel nome del progresso e sono appoggiati o permessi dai governi locali, nazionali e stranieri (72).

Il futuro dell’Amazzonia è riposto nelle mani di tutti noi. Esso dipende principalmente dall’abbandono immediato del modello di sviluppo attuale che distrugge la foresta, non porta benessere e pone in pericolo l’immenso tesoro naturale amazzonico e i suoi guardiani (73).

La Chiesa riconosce la conoscenza tradizionale dei popoli indigeni rispetto alla biodiversità, una conoscenza viva e sempre in marcia. Il furto di essa è chiamata biopirateria, una forma di violenza contro queste popolazioni (76).

Nel nuovo modello sostenibile e inclusivo diventa una necessità urgente lo sviluppo di politiche energetiche che riducano drasticamente l’emissione di biossido di carbonio (CO2) e degli altri gas legati al cambiamento climatico. Inoltre, va assicurato l’accesso all’acqua potabile, che è un diritto umano fondamentale (77).

La difesa della vita dell’Amazzonia e dei suoi popoli necessita di una profonda conversione personale, sociale e strutturale (81). Occorre adottare comportamenti responsabili che rispettino e valorizzino i popoli dell’Amazzonia, le loro tradizioni e conoscenze, proteggendo la loro terra e cambiando i nostri modi di vivere. Dobbiamo ridurre il consumo eccessivo e la produzione di rifiuti solidi, stimolando il riuso e il riciclaggio. Dobbiamo ridurre la nostra dipendenza dai combustibili fossili e dall’uso delle plastiche. Dobbiamo cambiare le nostre abitudini alimentari, visto l’eccessivo consumo di carne e pesce. Dobbiamo attivarci nella semina di alberi. Dobbiamo cercare alternative sostenibili nell’agricoltura, nel campo energetico e nella mobilità. Dobbiamo promuovere a tutti i livelli l’educazione all’ecologia integrale (84).

© Guilherme Cavalli-Cimi

Valorizzare la donna e le lingue autoctone

La saggezza dei popoli ancestrali afferma che la madre terra ha un volto femminile. Sia nel mondo indigeno che in quello occidentale la donna è la persona che lavora in una molteplicità di campi (101). Eppure, nella vita quotidiana le donne sono vittime di violenza fisica, morale e religiosa. La Chiesa si schiera in difesa dei loro diritti e le riconosce come protagoniste e guardiane della creazione e della casa comune (102).

Avviandosi alla conclusione, il Documento finale ricorda che la Chiesa cattolica deve dare una risposta alla richiesta delle comunità amazzoniche di adattare la liturgia valorizzando la cosmovisione, le tradizioni, i simboli e i riti originari nelle loro dimensioni trascendenti, comunitarie ed ecologiche (116). E tutto va fatto usando le lingue proprie dei popoli che abitano l’Amazzonia (118).

Paolo Moiola

© Vatican Media


Scheda


Contro il sinodo e contro papa Francesco: Tribalista ed ecologista

Il Sinodo panamazzonico ha avuto molti avversari interni alla Chiesa cattolica. Per capirne di più, abbiamo dato un’occhiata ai loro siti.

Povero padre Corrado Dalmonego, non solo hanno messo il suo essere missionario tra virgolette («questo “missionario”»), ma ne hanno anche travisato il cognome (Dalmolego), segno – lo diciamo per inciso – non di sbadataggine ma di sciatteria. L’ambito è il sito dell’agenzia Corrispondenza Romana e la firma è quella di Cristina Siccardi, saggista torinese molto critica verso il pontificato di papa Francesco. È la stessa persona che sul medesimo sito, il 6 novembre, scriveva scandalizzata: «Il papa in persona, il 4 ottobre scorso, alla vigilia del Sinodo, ha partecipato ad una cerimonia nei giardini del Vaticano, insieme a vescovi e cardinali, guidata in parte da sciamani, dove sono stati usati degli oggetti che nulla hanno a che vedere con il Cattolicesimo, in particolare la donna nuda e incinta, la Pachamama. Papa Francesco ha anche riverito due vescovi che portavano in processione la Pachamama sulle loro spalle nella Sala del Sinodo, per essere poi collocata in un luogo d’onore. E statue di figure femminili nude in legno sono state venerate nella Basilica Vaticana, di fronte alla Tomba di San Pietro!».

Sarebbe interessante sapere il parere di Cristina Siccardi sul nudo nell’arte sacra o, senza andare lontani, sui corpi nudi della Cappella Sistina.

Corrispondenza Romana è il sito – uno di quelli ascrivibili al fondamentalismo cattolico anti papa Francesco (vedere riquadro) – che ha esultato per il gesto, definito «coraggioso», del giovane austriaco che «il 21 ottobre ha rimosso dalla chiesa di Santa Maria in Traspontina (una delle sedi esterne del Sinodo, ndr) e ha gettato nel Tevere le statuette di Pachamama, la divinità pagana rappresentante la “Madre Terra” amerindia».

© Guilherme Cavalli-Cimi

Il Sinodo è una minaccia

L’offensiva contro il malcapitato padre Corrado – missionario in Amazzonia (Catrimani, Roraima, Brasile), giovane ma preparatissimo, tanto da essere chiamato come uditore al Sinodo – era iniziata già a giugno 2019 con un attacco firmato dal cileno José Antonio Ureta sempre su Corrispondenza Romana.

Ureta così descrive gli Yanomami tra i quali padre Dalmonego opera: «Gli Yanomami sono un gruppo etnico composto da 20 a 30 mila indigeni che vivono nella foresta tropicale in modo molto primitivo […]. I loro vestiti sono molto sommari e li usano a malapena come ornamento ai polsi, alle caviglie e come cintura attorno alla vita. Gli uomini della tribù generalmente hanno varie mogli, comprese adolescenti appena entrate nella pubertà. Gli uomini sono soliti consumare la pianta “epená” o virola, che contiene una sostanza allucinogena». José Antonio Ureta è membro di «Tradizione, famiglia e proprietà», un movimento nato in Brasile che lotta contro «la grave minaccia che il Sinodo sull’Amazzonia rappresenta per la civiltà occidentale» e contro «un’ecologia falsa, i cui promotori cercano di controllare la società con il pretesto di salvare l’ambiente». Lo stesso Ureta e la citata Cristina Siccardi sono tra i cento firmatari della protesta (Contra Recentia Sacrilegia) per – si legge testualmente (9 novembre) – «gli atti sacrileghi e superstiziosi commessi da Papa Francesco, il Successore di Pietro, durante il recente Sinodo sull’Amazzonia tenutosi a Roma». Le accuse dei firmatari verso il pontefice partono tutte dal suo atteggiamento definito sacrilego verso la «dea pagana Pachamama». Nell’elenco si trova anche Roberto De Mattei, storico, presidente della «Fondazione Lepanto», direttore della rivista Radici Cristiane e di Corrispondenza Romana, nonché discepolo di Plinio Corrêa de Oliveira, fondatore del movimento «Tradizione, Famiglia e Proprietà». È sul sito da lui stesso diretto che de Mattei ha attaccato il nuovo «Patto delle Catacombe», firmato il 20 ottobre nelle catacombe di Domitilla in una celebrazione presieduta dal cardinale Hummes. Il professore ha usato parole sarcastiche per descrivere l’evento, definendolo «il patto socio-cosmico dell’era di Greta Thunberg» (Corrispondenza Romana, 22 ottobre). Molti dei firmatari del documento Contra Recentia Sacrilegia sono statunitensi come statunitense è il sito National Catholic Register. È il sito che ha attaccato (Edward Pentin il 17 ottobre) duramente anche la Repam (presieduta dal cardinal Hummes) e il Cimi (guidato da dom Roque Paloschi), la prima molto impegnata nell’organizzazione del Sinodo, il secondo da anni in prima linea nell’impagabile difesa dei popoli indigeni e dell’Amazzonia.

foto Paolo Moiola

I tre vaticanisti

L’offensiva anti Sinodo e anti papa Bergoglio è proseguita sulle pagine web di alcuni vaticanisti. «Il sinodo dell’Amazzonia è passato agli archivi, ma lo “scandalo” che ne ha accompagnato il cammino è lontano dall’essere sanato», scrive Sandro Magister nel suo blog Settimo Cielo il 13 novembre. Poi parla di idolatria a causa di quella «statuetta lignea di una donna nuda e gravida». Infine, boccia il Sinodo per «l’irrilevanza, se non l’assenza, dell’annuncio cristiano e l’enfasi scriteriata data invece alla cultura e alla religiosità pagane, senza esercitare su di queste il necessario giudizio». Secondo l’autore, oggi il «populismo» di papa Francesco è focalizzato sulle tribù amazzoniche e sull’«esaltazione del “buen vivir”» (30 novembre).

In un suo precedente scritto (30 ottobre), Magister aveva individuato il vero punto nevralgico – a suo dire – del Sinodo amazzonico: «È di dominio pubblico che questo sinodo è stato ideato e organizzato precisamente con questo obiettivo primario: “aprire” all’ordinazione di “viri probati” in Amazzonia per poi estendere la novità a tutta la Chiesa».

Anche Aldo Maria Valli, vaticanista della Rai, si concentra (con una certa dose di sarcasmo verso alcuni suoi critici) sulla questione dell’ordinazione di uomini sposati (viri probati). «In seguito al molto discusso Sinodo amazzonico – scrive il 16 novembre – si sta facendo più vicina l’ipotesi non di permettere a tutti i preti di sposarsi, bensì di ordinare, in certe aree, uomini sposati, anzi anziani sposati (poveri anziani!). Ma sappiamo come vanno queste cose. E dovrebbero saperlo anche i maestrini che pretendono di darmi lezioni. Dopo che è stato aperto un pertugio, da esso può passare di tutto. Nel caso specifico, si tratta di un pertugio amazzonico, che sembra lontano da noi, ma non lo è. Serviva un pretesto, e di solito il pretesto arriva da un caso limite».

Per parte sua, Marco Tosatti, un altro vaticanista (dai toni ancora più ruvidi e perentori), la butta tutta in politica: nella lotta tra la sinistra perdente (quella del Pd, di Repubblica, di Zuppi, «cardinale in quota Pd», Tosatti dixit) e la destra vincente (quella di Salvini, Meloni, ma anche – sostiene il vaticanista – di Casa Pound, il movimento neofascista), papa Bergoglio è schierato inopinabilmente con la prima. Però, ha perso, pure sul Sinodo, anche se questo si è svolto – scrive Tosatti – «in una situazione di manipolazione altissima» (29 ottobre), su alcuni temi come i viri probati e il diaconato femminile. Ma – avverte – occorre stare vigili perché il papa è il «detentore del mazzo», un pontefice che «si scaglia contro i cattolici che non sentono e pensano esattamente come lui», un papa con una «memoria selettiva» (16 novembre) perché esprime timori per un ritorno in auge di idee naziste, ma non dice nulla della Cina, del Nicaragua e del Venezuela.

Insomma, per costoro è tutto chiaro: papa Francesco non solo è un vero cattocomunista, ma ha riportato in vita la teologia della liberazione. Magari – come ha suggerito Julio Loredo, presidente per l’Italia di Tradizione, Famiglia e Proprietà (il Giornale, 20 novembre) – nelle sue forme aggiornate: la teologia indigena e la teologia ecologica. Loredo è la stessa persona che, a febbraio 2019, con chiaro intento spregiativo aveva definito la Chiesa «tribalista ed ecologista».

Paolo Moiola

Siti contro (la giostra delle citazioni)

  • https://www.corrispondenzaromana.it
  • http://www.ncregister.com (Stati Uniti)
  • https://lanuovabq.it
  • https://anticattocomunismo.wordpress.com
  • https://www.rossoporpora.org
  • https://www.fondazionelepanto.org
  • https://www.radicicristiane.it/
  • https://www.radiospada.org/
  • https://www.radioromalibera.org/
  • https://www.marcotosatti.com/
  • http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/

Quelli sopra elencati sono gli indirizzi dei principali siti contrari (o fortemente contrari) al Sinodo panamazzonico e a papa Francesco. Gli ultimi tre appartengono ad altrettanti vaticanisti: Aldo Maria Valli, Marco Tosatti e Sandro Magister. Va detto che nomi e contenuti all’interno di questi siti si ripetono spesso perché alcune persone sono presenti in vari ambiti (Roberto de Mattei su tutti) e perché la citazione reciproca è molto praticata. È giusto ed opportuno che i lettori li conoscano anche per comprendere meglio l’entità della battaglia interna che il papa argentino si trova a dover affrontare.

Pa.Mo.


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Il documento finale del sinodo: una lettura missionaria

Il grido della Terra: dopo l’ascolto, l’azione

Il Sinodo è stato un successo, ma adesso viene il difficile: passare dall’ascolto all’azione. E questa dovrà sfidare «altari» e «troni». La Chiesa sarà sempre missionaria, ma in modo diverso. La «conversione» passa anche attraverso un nuovo tipo di presenza sul territorio amazzonico e al fianco dei popoli che lo abitano.

Il Sinodo per l’Amazzonia dello scorso ottobre è stato una benedizione per la Chiesa e per l’umanità. Allo stesso tempo, ha posto sul tavolo le principali sfide per la missione in un mondo globalizzato e minacciato. L’intero processo di preparazione e realizzazione di questo evento ecclesiale convocato da papa Francesco ha rafforzato la convinzione che territorialità e popoli determinano una missione che deve includere l’ecologia. Questa prospettiva aveva già acquisito slancio durante la visita del papa a Puerto Maldonado in Perù (gennaio 2018), un gesto che aveva sottolineato l’importanza di ascoltare gli indigeni e gli altri popoli.

La sfida ad «altari» e «troni»

Questo processo di ascolto del «grido dei poveri e del grido della terra» sfida «altari» e «troni» nella ricerca di nuovi modi di essere Chiesa. Il rinnovamento desiderato comporta necessariamente la conversione.

Durante l’assemblea sinodale, svoltasi dal 6 al 27 ottobre a Roma, la riflessione ha avuto come temi: la conversione pastorale, la partenza missionaria, la conversione culturale, il dialogo ecumenico, interreligioso e interculturale, la conversione sinodale, i nuovi ministeri, la teologia, catechesi e formazione inculturata, il riti amazzonici, la Chiesa povera, con e per i poveri. Temi che rappresentano una sfida alla missione della Chiesa e, quindi, si scontrano con «altari» al proprio interno (come raccontato a pag. 41 di questo dossier, ndr).

D’altra parte, temi come conversione integrale, conversione ecologica, modelli di sviluppo sostenibile, cura della casa comune, promozione ecologica integrale, grido dei poveri e grido della terra, interdipendenza tra tutti gli esseri, ecc., sfidano i «troni» del sistema capitalista attuale che è neoliberista e predatore.

È bene sottolineare che tutte queste domande sono interconnesse da una «spiritualità dell’ascolto» e dall’annuncio della buona novella con uno «spirito profetico».

Nel pontificato di Francesco, le basi per questo cambiamento sono state poste nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013)* e nell’enciclica Laudato si’ (2015). Allo stesso modo, il documento finale del sinodo (che dovrebbe orientare l’esortazione post sinodale) indica un passaggio dall’ascolto alla conversione integrale ponendo l’Amazzonia come «luogo teologico» simbolico per l’intera Chiesa universale.

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I nuovi percorsi della Chiesa

Una lettura missionaria del documento finale aiuta a mettere in luce che il tema della missione è ben articolato in cinque percorsi (e altrettanti capitoli) di «conversione»: integrale, pastorale, culturale, ecologica e sinodale.

Quando, a inizio del capitolo 2 del documento, si legge: «Una chiesa missionaria in uscita richiede da noi una conversione pastorale» (20), scorgiamo la sintonia tra il sinodo e la teologia della missione del Concilio Vaticano II e delle conferenze dell’episcopato latinoamericano (Celam). Infatti, al numero 21 si legge: «La Chiesa, per sua natura, è missionaria e ha la sua origine nell’“amore fontale di Dio” (AG 2). Il dinamismo missionario che scaturisce dall’amore di Dio si irradia, si espande, trabocca e si diffonde in tutto l’universo. “Siamo inseriti dal battesimo nella dinamica dell’amore attraverso l’incontro con Gesù, che dà un nuovo orizzonte alla vita” (DAp 12). Questo straripamento spinge la Chiesa alla conversione pastorale e ci trasforma in comunità viventi, lavorando in gruppi e reti al servizio dell’evangelizzazione. La missione così intesa non è opzionale, un’attività della Chiesa tra le altre, ma la sua stessa natura: la Chiesa è missione! “L’azione missionaria è il paradigma dell’intera opera della Chiesa”(EG 15)» (Doc. finale 21).

Ciò che colpisce è la convinzione che la missione appartiene a tutti, la Chiesa è missione, e quindi «ogni cristiano è una missione» di Dio nel mondo. Con ciò, la missione cessa di essere qualcosa di esterno come «ornamento» e diventa qualcosa di essenziale: «La vita è missione» (EG 273) e questo pone la Chiesa sulla soglia per entrare «nel cuore di tutti i popoli» (Doc. finale 18).

© Guilherme Cavalli-Cimi

Una revisione dello stile missionario

Proponendo la conversione nei modi più diversi, il sinodo ribadisce che la «gioia del Vangelo» prima di essere diretta verso gli altri è diretta alla Chiesa stessa e ai suoi missionari. La conversione integrale si manifesta principalmente attraverso la conversione pastorale (missionaria) e sinodale. Per i missionari questa conversione richiede una seria revisione dello stile di missione che presuppone una presenza incarnata nella realtà e nella vita dei popoli. «La nostra conversione pastorale sarà samaritana, in dialogo, accompagnando le persone con volti concreti di indigeni, contadini, discendenti africani (quilombolas), migranti, giovani e abitanti delle città. Tutto ciò comporterà una spiritualità di ascolto e annuncio» (Doc. finale 20).

La conversione pastorale implica anche una prospettiva missionaria di itineranza, vicinanza e una presenza più efficace con i popoli, superando le visite sporadiche (desobrigas) e creando relazioni permanenti nella missione. Il sinodo sottolinea l’importanza di gruppi itineranti composti da diversi carismi, istituzioni e congregazioni, religiose e religiosi, laici e sacerdoti che lavorano formando una rete viaggiante (Doc. finale 39 e 40). Non bisogna più camminare da soli. La missione si svolge in una rete e in comunione ecclesiale. Il desiderio è che la Chiesa assuma in Amazzonia la sinodalità missionaria (Doc. finale 86-88).

© Guilherme Cavalli-Cimi

Davanti alla realtà amazzonica

Questo sinodo è stata una cosa unica. Le numerose attività (incontri, dibattiti, celebrazioni, mostre) della «Tenda amazzonica: la casa comune» (con sede principale nella chiesa della Traspontina in via della Conciliazione, a Roma) durante l’assemblea sinodale hanno portato a Roma rappresentanti dei popoli del territorio panamazzonico per «ascoltare insieme» con Francesco, i padri e le madri sinodali. Francesco ha invitato la periferia a sedersi nel centro del cristianesimo, la «foresta amazzonica» è stata piantata nella «foresta di pietre» e la «città eterna» è stata ossigenata.

Nella missione, i protagonisti sono la realtà e i suoi popoli che, oltre ad essere valorizzati, devono anche assumersi la loro responsabilità. «Questo sinodo vuole essere un forte appello per tutti i battezzati in Amazzonia ad essere discepoli missionari. (…) Pertanto, crediamo che sia necessario generare un maggiore impulso missionario tra le vocazioni native; l’Amazzonia deve essere evangelizzata anche dai suoi abitanti» (Doc. finale 26). In questo senso, la proposta di nuovi «ministeri per uomini e donne in modo equo» (95) e l’«elaborazione di un rito amazzonico» (119) sono encomiabili.

L’ambiente e il «peccato ecologico»

© Guilherme Cavalli-Cimi

Un altro momento saliente di questo sinodo è stato quello di affermare che l’ecologia integrale e la cura della casa comune sono parti costitutive della missione della Chiesa. Pertanto, l’azione evangelizzatrice con i suoi progetti e missionari non può dimenticare la cura della vita del pianeta. In questo senso, la definizione di «peccato ecologico come azione o omissione contro Dio, contro il prossimo, la comunità e l’ambiente» (Doc. finale 82) rappresenta un aggiornamento importante dell’insegnamento della Chiesa per la pratica della fede cristiana.

Decolonizzare la missione

Il sinodo per l’Amazzonia segue la linea della Conferenza di Medellin che, nel 1968, ha dato una contestualizzazione al Concilio Vaticano II in America Latina. Esso ha avuto anche il contributo di altri continenti. Questo cambio di prospettiva è importante per la «decolonizzazione» della missione e l’allontanamento dal pensiero eurocentrico. È bene ricordare che papa Francesco è un figlio del Concilio e del Sud, un fattore rilevante per «decolonizzare» la missione. L’Amazzonia ci sfida a passare dalla visione della missione come «espansione» alla missione come «incontro» senza proselitismo. «Siamo tutti invitati ad avvicinarci alle popolazioni amazzoniche su una base di uguaglianza, rispettando la loro storia, le loro culture, il loro stile del ben vivere. […] Rifiutiamo un’evangelizzazione in stile coloniale. Proclamare la buona novella di Gesù implica riconoscere i semi della Parola già presenti nelle culture» (Doc. finale 55).

Nonostante resistenze e incomprensioni, questo sinodo è un kairos, un momento tempestivo di grazia e speranza. Molto al di là del ricco documento prodotto, stiamo affrontando un processo che dovrebbe condurre a nuovi percorsi per una Chiesa divenuta molto più consapevole che, senza una conversione integrale e sinodale, non ci saranno cambiamenti reali nel suo modo di essere e di vivere la missione.

Jaime C. Patias

Firma del Patto delle Catacambe – © Guilherme Cavalli-Cimi


Dal 16 novembre 1965 al 20 ottobre 2019

Il «Patto delle catacombe» rivive e si rinnova

Nelle catacombe di Domitilla è stato firmato un nuovo patto. Per la casa comune. Per una Chiesa dal volto amazzonico, povera e serva, profetica e samaritana.

Il Concilio Vaticano II aveva ispirato, durante il suo svolgimento, un gruppo di vescovi guidati da mons. Helder Camara (1909-1999) a costruire una Chiesa servitrice e povera. Questa utopia prese forma il 16 novembre 1965, nelle Catacombe di Santa Domitilla a Roma, dove pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II, quarantaquattro padri conciliari celebrarono un’eucaristia e, con un gesto profetico, firmarono l’«Alleanza della Chiesa dei poveri e dei servi», meglio noto come il «Patto delle catacombe». Molti altri vescovi si unirono successivamente al Patto. I firmatari del documento si impegnarono a vivere in condizione di povertà, a rinunciare a tutti i simboli o privilegi di potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale.

Questa alleanza è stata considerata il seme della Chiesa di Francesco, che tre giorni dopo essere stato eletto successore di San Pietro, disse ai giornalisti: «Come vorrei una chiesa povera per i poveri!». Bergoglio conosceva bene la «barca» che stava cominciando a guidare. Ed è stata la sua sensibilità per «il grido dei poveri e il grido della terra» che lo ha portato a convocare il Sinodo speciale per l’Amazzonia, alimentato dall’enciclica Laudato si’ (2015) e dalla riaffermazione di una Chiesa che «non può dimenticare i poveri e la cura della Creato». Il pontificato di Francesco è diventato un forte richiamo alla conversione della Chiesa e dei poteri politici ed economici. È ovvio che ciò disturba coloro che, nella Chiesa, ignorano i poveri e non vogliono né perdere i loro privilegi, né mettere in discussione i potenti del mondo globalizzato che obbediscono solo ai desideri del profitto.

© Caldeira Ferreira Julio César

Una nuova alleanza per la casa comune

Sebbene non facesse parte della programmazione ufficiale del sinodo, il 20 ottobre 2019,  giornata missionaria mondiale, potrebbe anch’essa divenire una data storica, perché nella stessa sede del Patto del 1965, è stato firmato un nuovo Patto, questa volta per la casa comune: una chiesa dal volto amazzonico, povera e serva, profetica e samaritana. La proposta era stata costruita nei mesi precedenti il sinodo e aveva preso forma nelle prime due settimane della sua realizzazione a Roma.

Prima dell’alba di domenica 20 ottobre, cinque pullman parcheggiati in Via dei Cavalleggeri, vicino alla sala del sinodo, aspettavano un variegato gruppo composto da vescovi sinodali, esperti, leader pastorali, indigeni e religiosi e altre persone coinvolte nelle attività della tenda «Amazzonia, casa comune». La destinazione del gruppo erano le catacombe di Santa Domitilla nel moderno quartiere Ardeatino di Roma.

Con 17 chilometri di gallerie, quattro piani e oltre 150mila tombe, queste catacombe sono tra le più grandi di Roma. Vi furono sepolti numerosi martiri del primo cristianesimo, tra cui la stessa Flavia Domitilla, nipote dell’imperatore Vespasiano che donò la terra ai cristiani, e Nereo e Aquilleo che diedero il nome alla basilica semi sotterranea costruita alla fine del IV secolo su richiesta di papa Damaso I.

Mentre il gruppo scendeva le scale verso la basilica, il silenzio e la commozione hanno preso il sopravvento. La canzone «Alla luce dei martiri della fede», del noto cantautore Antonio Cardoso, annunciava il significato di quella visita. «Torniamo qui – dice il testo – tutte le volte che è necessario. Dopo il Concilio ci siamo incontrati per camminare con i poveri e Gesù. Torniamo qui per riscattarci in Amazzonia. Cerchiamo tutte le alleanze in queste tombe alla luce dei martiri della fede». E, usando la tintura rossa estratta dal seme dell’urucum (annatto) dell’Amazzonia, tutti hanno lasciato le loro impronte digitali su un panno morbido, simbolo della memoria del Gesù martire e di coloro che, per fede in lui, hanno versato il loro sangue.

Tra martiri e profeti

Padre Oscar Beozzo ha ricordato la storia del Patto del 1965, sottolineando che allora le guide del gruppo erano l’arcivescovo Helder Camara, l’arcivescovo Leonidas Proaño, vescovo degli indigeni in Ecuador, e l’arcivescovo Enrique Angelelli, che in seguito sarà assassinato dalla dittatura militare argentina.

L’eucaristia è stata presieduta dal cardinale Claudio Hummes, presidente della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam), che era accompagnato dal cardinale Pedro Barreto, arcivescovo di Huancayo in Perù, vicepresidente della stessa organizzazione.

Il ricordo del Patto del 1965 era rinnovato dalla stola di dom Helder usata a messa dal cardinale Hummes, che, emozionato, alla fine l’ha consegnata a dom Erwin, uno dei grandi profeti viventi dell’Amazzonia. Era presente anche una tunica di dom Helder, indossata da dom Adriano Ciocca, vescovo di São Felix do Araguaia, dove vive dom Pedro Casaldáliga, uno di coloro che hanno realizzato il patto all’estremo. Il calice e la patena usati nella messa appartenevano a padre Ezequiel Ramin, un missionario comboniano italiano, martirizzato nel 1985 a Cacoal, Rondônia, Brasile, per volere dei proprietari terrieri della regione.

© Caldeira Ferreira Julio César

Nella casa comune tutto è connesso

A differenza del primo, questo Patto per la casa comune è stata firmato da tutti i presenti (oltre 200 persone, tra cui 80 padri sinodali e due membri di altre chiese delegate fraterne nel Sinodo) con rilievo per la partecipazione degli indigeni e delle donne. Si tratta di un documento aperto che può ancora essere firmato in occasione di riunioni o attività in difesa della casa comune in tutto il mondo.

Chi firma i suoi 15 impegni rinnova l’opzione preferenziale per i poveri e si prende cura della casa comune con un’ecologia integrale in cui tutto è interconnesso (la sostenibilità della foresta, dei fiumi e del bioma amazzonico); valorizza e difende la diversità culturale, le tradizioni spirituali e lo stile di vita dei popoli amazzonici; desidera camminare ecumenicamente con altre comunità cristiane e religioni; valorizza le comunità e riconosce i ministeri; segue uno stile di vita sobrio, semplice e solidale; vuole ridurre la produzione di rifiuti e l’uso di materie plastiche, e favorire la produzione e la commercializzazione di prodotti agroecologici; difende i perseguitati e la vita dove essa è minacciata.

Saper ascoltare le voci scomode

Di fronte alle sfide ecologiche, sociali ed ecclesiali, questo nuovo Patto è una risposta alle preoccupazioni di papa Francesco che, anche alla messa di chiusura del Sinodo (il 27 ottobre), ha nuovamente ricordato: «Quante volte, anche nella Chiesa, le voci dei poveri non vengono ascoltate e talvolta sono derise o messe a tacere perché scomode. Chiediamo la grazia di saper ascoltare il grido dei poveri: è il grido di speranza della Chiesa». E come afferma il Patto: «Con loro abbiamo sperimentato il potere del Vangelo che opera nei piccoli».

Jaime C. Patias

foto Paolo Moiola


Hanno firmato questo dossier:

  • Gaetano Mazzoleni. Missionario della Consolata, dopo gli studi di teologia, si è specializzato in antropologia culturale presso la Catholic University of America di Washington. Ha vissuto in Colombia dal 1965 al 2010 con un intervallo di un anno in Venezuela. Durante la sua lunga esperienza si è sempre occupato di popoli indigeni, prima come missionario, poi come missionario e antropologo.
  • Jaime C. Patias. Missionario della Consolata, giornalista, attualmente è membro della Direzione generale dell’Istituto Missioni Consolata con responsabilità sulla regione americana.
  • A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.

foto Paolo Moiola




Qual buon «Venti»

testo di Chiara Giovetti |


Nel 2020 arrivano a scadenza o vengono lanciate diverse iniziative internazionali che riguardano lo sviluppo, l’ambiente, il clima. È anche l’anno internazionale delle piante e di un importante compleanno dell’Onu.

Nel 2020 le Nazioni unite compiranno tre quarti di secolo. L’Onu nacque infatti ufficialmente 75 anni fa, il 24 ottobre 1945, con l’entrata in vigore della «Carta delle Nazioni unite», il suo trattato fondativo.

Per celebrare la ricorrenza, ha annunciato il segretario generale António Guterres, l’Onu lancerà un dibattito che si chiamerà Un75@ e sarà «la più ampia e approfondita conversazione globale mai realizzata sulla costruzione del futuro che vogliamo». Tutti possono partecipare, si legge sul sito, in modo formale o informale, online o no.

Nel contempo saranno condotti sondaggi di opinione e analisi dei mezzi di comunicazione a livello globale, così da ottenere dati statisticamente significativi per diffonderli e portarli all’attenzione dei leader mondiali.

Fra le questioni più urgenti che il dibattito affronterà vi sono le nuove tecnologie con tutte le loro opportunità e i pericoli, il modo in cui si sono evoluti i conflitti e come affrontarli, l’aumento delle diseguaglianze e la necessità di chiudere la forbice, i cambiamenti demografici – con un pianeta che si prepara a passare dagli attuali 7,7 miliardi di abitanti ai 9,7 del 2050 – e il cambiamento climatico.

Le scadenze

Il programma che contiene in 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (in inglese Sustainable development goals, o Sdg) ha come orizzonte temporale il 2030@.

Per capirci: sarà nel 2030 che il mondo potrà fare una valutazione sul raggiungimento degli obiettivi come si fece nel 2015 per gli Mdg (Millennium development goals, obiettivi del millennio). Tuttavia, ventuno sotto obiettivi, su 169, hanno come scadenza il 2020 (vedi i due box). Di questi, dodici riguardano la biodiversità e sappiamo già che non saranno raggiunti.

Secondo un rapporto del Wwf@, questi dodici obiettivi sono cruciali per il complessivo successo degli Sdg perché riguardano il mantenimento e il ripristino di risorse naturali da cui l’umanità dipende per sopravvivere. Ogni anno, si legge nel rapporto, gli ecosistemi forniscono all’economia globale un valore pari a 125 mila miliardi – una volta e mezzo il Pil del pianeta – sotto forma di acqua potabile, cibo, aria, assorbimento del calore, suoli produttivi, foreste e oceani che assorbono anidride carbonica. Proteggere l’ambiente e ristabilire le risorse naturali, quindi è – letteralmente – una questione vitale. Il cambiamento climatico è poi un altro tema centrale del nostro tempo e promette di prendere quest’anno ancora più spazio. È vero che il mondo si è dato tempo fino al 2030 per realizzare un taglio del 45% delle emissioni di anidride carbonica, necessario per contenere l’aumento della temperatura globale sotto il grado e mezzo in questo secolo. Ma, fa presente Mission 2020, il gruppo di pressione guidato dalla ex segretaria esecutiva della «Convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici», Christiana Figueres, se nel 2020 si riuscisse davvero a bloccare il picco delle emissioni (e cominciare quindi a ridurle) questo renderebbe il meno costosa possibile la transizione verso un’economia libera dai combustibili fossili entro il 2050@.

Sempre a proposito dell’impegno per affrontare il cambiamento climatico, alla fine di quest’anno si svolgerà a Glasgow la ventiseiesima conferenza delle parti firmatarie della «Convenzione quadro», o Cop26, che sarà probabilmente la più importante dopo quella del 2015, durante la quale 195 paesi firmarono l’«accordo di Parigi» con il suo piano di azione per mantenere il riscaldamento globale sotto i 2°C. Dal momento che gli impegni presi a Parigi si sono rivelati insufficienti per ottenere il risultato, scrivono gli studiosi dell’Hoffman centre, centro di ricerca della prestigiosa Chatam house, la Cop26 sarà il primo momento di revisione e l’occasione per assumersi nuovi e più ambiziosi impegni@.

L’Unione europea e Horizon 2020

Si conclude con quest’anno anche il programma Horizon 2020, il più ampio programma mai lanciato dall’Unione europea nel settore della ricerca e dell’innovazione. Realizzato negli anni dal 2014 al 2020, ha messo a disposizione circa 80 miliardi di euro «con lo scopo di assicurare che l’Europa produca scienza di livello mondiale, rimuova le barriere all’innovazione e renda più facile la collaborazione fra settore pubblico e privato nel fare innovazione».

Horizon 2020 ha avuto anche una componente legata alla cooperazione internazionale che si è rivolta a paesi in via di sviluppo. Ad esempio, l’Ue ha finanziato partner appartenenti all’Unione africana con quasi 124 milioni di euro (meno dello 0,02% del totale) e i paesi più attivi sono stati Sudafrica, Kenya, Marocco, Tunisia ed Egitto.

Un esempio concreto delle iniziative finanziate è its4land@, un programma che cerca di utilizzare la più recente tecnologia – ad esempio i droni – per la mappatura e la demarcazione delle terre, così da creare le basi per una più oggettiva definizione dei diritti fondiari (la proprietà delle terre), l’incertezza dei quali è così spesso alla base di conflitti in Africa e non solo@.

Horizon 2020 ha anche sostenuto con 6 milioni di euro gli studi clinici sul vaccino contro l’ebola. Il programma di test è guidato dal ministero della Sanità e dall’Istituto nazionale di ricerca biomedicale della Repubblica democratica del Congo e vede la collaborazione di partner internazionali fra cui la London School of Hygiene and Tropical Medicine e Médecins Sans Frontières@.

L’anno delle piante

Il 2020 è inoltre l’«Anno internazionale per la salute delle piante»@, una celebrazione che a detta delle Nazioni unite, rappresenta un’occasione unica «per accrescere la consapevolezza globale su come proteggere la salute delle piante possa aiutare a metter fine alla fame, ridurre la povertà, proteggere l’ambiente e promuovere lo sviluppo economico».

La Fao stima che gli organismi nocivi e le malattie delle piante provochino ogni anno la perdita di circa il 40% delle colture sul pianeta, lasciando milioni di persone prive di cibo e danneggiando l’agricoltura, che rimane la fonte principale di sussistenza delle comunità rurali. Il danno complessivo è stimato in 220 miliardi di dollari in perdite commerciali di prodotti agricoli. Le iniziative dell’anno internazionale si concentreranno perciò principalmente su come evitare che le malattie e i parassiti si diffondano.

Le piante producono l’80% del cibo che mangiamo e il 98% dell’ossigeno che respiriamo, si legge sul sito nella lista dei dati essenziali sulla salute delle piante. Sempre la Fao stima che la produzione agricola debba aumentare del 60% entro il 2050 per nutrire una popolazione mondiale che sarà più numerosa e generalmente più ricca.

Ma a minacciare le piante ci sono il cambiamento climatico e l’innalzamento delle temperature, che riducono la disponibilità di acqua e cambiano le relazioni fra parassiti, piante e patogeni facendo apparire organismi nocivi dove non si erano mai visti prima.

Vi sono anche insetti che risultano benefici per la salute delle piante, perché determinano l’impollinazione, tengono sotto controllo i parassiti, mantengono in salute i suoli e riciclano sostanze nutritive@. Ma l’80% della biomassa degli insetti è sparita negli ultimi 25-30 anni@. con una diminuzione del 2,5% all’anno

 

Il 2020 virtuoso della Liberia e del Gabon

A non sparire ma, al contrario, a crescere rigogliosi dovrebbero essere invece gli alberi della Liberia, che potrebbe diventare nel 2020 il primo paese africano ad essersi liberato del problema della deforestazione. In cambio di 150 milioni di dollari in aiuti allo sviluppo messi a disposizione dalla Norvegia, la Liberia ha infatti accettato nel 2014 di smettere di tagliare gli alberi e di mettere il 30% delle proprie foreste sotto vincolo ambientale. Alla fine del 2020 sarà possibile dire se l’obiettivo è stato effettivamente raggiunto@.

Nel frattempo, la Norvegia ha offerto il proprio aiuto anche al Gabon@. Si tratta sempre di 150 milioni di dollari destinati attraverso un programma delle Nazioni unite che si chiama Redd+ (Reducing emissions from deforestation and forest degradation) e che promuove iniziative in grado di ridurre le emissioni derivanti dalla deforestazione e dal degrado delle foreste.

Chiara Giovetti


SDG generali in scadenza

3.6 Entro il 2020, dimezzare il numero globale di morti e feriti a seguito di incidenti stradali.

4.B Espandere considerevolmente entro il 2020 a livello globale il numero di borse di studio disponibili per i paesi in via di sviluppo, specialmente nei paesi meno sviluppati, nei piccoli stati insulari e negli stati africani, per garantire l’accesso all’istruzione superiore – compresa la formazione professionale, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione e i programmi tecnici, ingegneristici e scientifici – sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo.

8.6 Ridurre entro il 2020 la quota di giovani disoccupati e al di fuori di ogni ciclo di studio o formazione.

8.B Sviluppare e rendere operativa entro il 2020 una strategia globale per l’occupazione giovanile e implementare il Patto globale per l’occupazione dell’Organizzazione internazionale del lavoro.

9.c  Aumentare in modo significativo l’accesso alle tecnologie di informazione e comunicazione e impegnarsi per fornire ai paesi meno sviluppati un accesso a Internet universale ed economico entro il 2020.

11.B Entro il 2020, aumentare considerevolmente il numero di città e insediamenti umani che adottano e attuano politiche integrate e piani tesi all’inclusione, all’efficienza delle risorse, alla mitigazione e all’adattamento ai cambiamenti climatici, alla resistenza ai disastri, e che promuovono e attuano una gestione olistica del rischio di disastri su tutti i livelli, in linea con il Quadro di Sendai per la riduzione del rischio di disastri 2015-2030.

17.11 Incrementare considerevolmente le esportazioni dei paesi emergenti e, entro il 2020, raddoppiare la quota delle loro esportazioni globali.

17.18 Entro il 2020, rafforzare il sostegno allo sviluppo dei paesi emergenti, dei paesi meno avanzati e dei Piccoli stati insulari in via di sviluppo (SIDS). Incrementare la disponibilità di dati di alta qualità, immediati e affidabili andando oltre il profitto, il genere, l’età, la razza, l’etnia, lo stato migratorio, la disabilità, la posizione geografica e altre caratteristiche rilevanti nel contesto nazionale.

 


SDG ambientali in scadenza

2.5 Entro il 2020, mantenere la diversità genetica delle sementi, delle piante coltivate, degli animali da allevamento e domestici e delle specie selvatiche affini […].

6.6 Entro il 2020 proteggere e ripristinare gli ecosisstemi legati all’acqua, comprese montagne, foreste, paludi, fiumi, falde acquifere e laghi.

12.4 Entro il 2020, raggiungere la gestione eco-compatibile di sostanze chimiche e di tutti i rifiuti durante il loro intero ciclo di vita […].

13.A Rendere effettivo l’impegno […] che prevede la mobilizzazione – entro il 2020 – di 100 miliardi di dollari all’anno, […] e rendere pienamente operativo il prima possibile il Fondo verde per il clima […].

14.2  Entro il 2020, gestire in modo sostenibile e proteggere l’ecosistema marino e costiero […].

14.4 Entro il 2020, regolare in modo efficace la pesca e porre termine alla pesca eccessiva, illegale, non dichiarata e non regolamentata e ai metodi di pesca distruttivi […].

14.5 Entro il 2020, preservare almeno il 10% delle aree costiere e marine […].

14.6 Entro il 2020, vietare quelle forme di sussidi alla pesca che contribuiscono a un eccesso di capacità e alla pesca eccessiva, eliminare i sussidi che contribuiscono alla pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata e astenersi dal reintrodurre tali sussidi […].

15.1 Entro il 2020, garantire la conservazione, il ripristino e l’utilizzo sostenibile degli ecosistemi di acqua dolce terrestri e dell’entroterra nonché dei loro servizi, in modo particolare delle foreste, delle paludi, delle montagne e delle zone aride […].

15.2 Entro il 2020, promuovere una gestione sostenibile di tutti i tipi di foreste, arrestare la deforestazione, ripristinare le foreste degradate e aumentare ovunque, in modo significativo, la riforestazione e il rimboschimento.

15.5 Intraprendere azioni efficaci ed immediate per ridurre il degrado degli ambienti naturali, arrestare la distruzione della biodiversità e, entro il 2020, proteggere le specie a rischio di estinzione.

15.8 Entro il 2020, introdurre misure per prevenire l’introduzione di specie diverse e invasive nonché ridurre in maniera sostanziale il loro impatto sugli ecosistemi terrestri e acquatici e controllare o debellare le secie prioritarie.

15.9 Entro il 2020, integrare i principi di ecosistema e biodiversità nei progetti nazionali e locali, nei processi di sviluppo e nelle strategie e nei resoconti per la riduzione della povertà.




Libri: Contro la mentalità predatoria

yesto di Chiara Brivio |


Cosa può accomunare un libro sull’Amazzonia a un altro sulla prostituzione? La denuncia di quella mentalità che considera l’ambiente, da un lato, e la donna, dall’altro, non come un dono da custodire, ma come una preda da possedere e usare a proprio piacimento. Lo sfruttamento dell’Amazzonia, come quello delle donne va fermato.

Anche quando si leggono due libri con temi apparentemente molto lontani tra loro, si possono trovare interessanti assonanze, e una certa comunanza di ideali e di visione di fondo.

Questo mese vi parliamo di due libri che portano l’attenzione sull’Amazzonia sfruttata e depredata, come le tante donne che la abitano, da una parte, e sulle tante ragazze gettate nelle nostre strade e costrette a vendersi per sopravvivere, dall’altra. Due facce di un’unica visione distorta e malata della società – come spesso ci ricorda papa Francesco -, basata sullo sfruttamento dei deboli e degli indifesi.

In questi testi si ritrovano anche esempi di lotte edificanti, di tentativi di riconoscimento e di riscatto delle donne, che offre uno scorcio di speranza, molto spesso nutrita dagli sforzi e dall’impegno della Chiesa.

Frontiera Amazzonia

«Frontiera Amazzonia. Viaggio nel cuore della terra ferita» è il racconto dei viaggi che Lucia Capuzzi e Stefania Falasca, due firme del quotidiano «Avvenire», hanno compiuto nella foresta amazzonica attraverso quattro dei nove paesi che la ospitano. Pubblicato da Editrice Missionaria Italiana in occasione del Sinodo per l’Amazzonia dello scorso ottobre, il libro narra di un viaggio che vuole raccogliere l’eredità e, idealmente, continuare quello iniziato da papa Francesco a Puerto Maldonado, Perù, nel gennaio 2018.

«Frontiera Amazzonia» è un libro interessante già per il modo in cui è strutturato, perché ogni capitolo è dedicato a una particolare «ricchezza» dell’Amazzonia: oro, legname, coca, petrolio, esseri umani; tutte risorse che sono anche la sua maledizione, portando nella foresta miniere illegali, tratta di persone, disboscamento.

Il quadro che emerge da questo appassionato reportage non è affatto roseo, anzi.

A prima vista potrebbe indurre il lettore a pensare che un’inversione di tendenza per il nostro «polmone verde» non sia nemmeno immaginabile (siamo al 20% del disboscamento, gli scienziati hanno stimato che il punto di non ritorno si aggiri intorno al 40%), soprattutto nell’era del governo di Jair Bolsonaro in Brasile. Tuttavia, come spesso accade, la speranza viene dalle donne, vere protagoniste di questo libro.

Abusate e vittime di soprusi come la loro terra – «l’Amazzonia è una donna, una donna stuprata», scrivono Capuzzi e Falasca nell’introduzione -, sono impegnate nella lotta e nella difesa dei loro diritti, nonché nel mantenimento del delicato equilibrio ecologico del loro territorio. Figure fiere e forti, sono suore, contadine, leader indigene come Nemo, del popolo degli Waorani, che lotta contro i «rapinatori della terra» che inquinano il territorio con l’estrazione del petrolio. O come Marcivana Sateré Mawé, leader del Copime (Coordinação dos povos indígenas), che ci ricorda che, oltre alle multinazionali, sono in primis i pregiudizi a dover essere estirpati: «La gente non può concepire che l’indio oggi possa andare al college, che sia dottore, avvocato, insegnante. L’indio sa che cosa vuole. Vogliamo essere noi stessi e mantenere viva la nostra cultura per le generazioni future».

Sono vittime dell’estrattivismo e di quel «capitalismo rapace» e «usa e getta» che «produce scarti», come più volte denunciato da papa Francesco.

Sono rappresentanti di una condizione femminile che si rispecchia anche nel ruolo che ricoprono all’interno della chiesa locale, come suggerisce padre Enrico Uggè, missionario del Pime in Amazzonia: «Non si tratta di “supplenze”. Il futuro di una chiesa che rimane e cresce passa per il cuore di queste donne. E laggiù in Vaticano dovrebbero considerare anche loro e tenere conto del ruolo centrale che oggi svolgono nella chiesa amazzonica». Da leggere la prefazione del cardinale Cláudio Hummes, relatore speciale al Sinodo panamazzonico.

Donne crocifisse

«Qualsiasi forma di prostituzione è una riduzione in schiavitù, un atto criminale, un vizio schifoso». Pesano come macigni le parole di papa Francesco nella sua prefazione al volume di don Aldo Buonaiuto, «Donne crocifisse. La vergogna della tratta raccontata dalla strada», uscito per Rubbettino.

Buonaiuto, sacerdote, membro della Comunità Papa Giovanni XXIII, esorcista, da anni in prima linea contro lo sfruttamento, ha voluto raccogliere nel libro le numerose storie di quelle «sorelline» – come le chiamava il fondatore della Comunità, don Oreste Benzi – che ha incontrato sulle strade nel corso degli anni. Storie di violenza, di soprusi e di sfruttamento raccolte dalla voce delle tante, troppe, ragazze che finiscono costrette sui marciapiedi delle nostre città.

I dati che Buonaiuto cita nella prima parte del volume, un’accurata analisi del fenomeno sulla strada e online, sono impressionanti: in Italia le schiave del sesso sono circa 120mila, il 37% delle quali minorenni. Il 36% del totale proviene dalla Nigeria. Un giro d’affari che, a livello globale, si aggira sui 186 miliardi di dollari all’anno.

L’autore del libro pensa che l’unica soluzione sia una riforma della legislazione italiana, sul modello di Svezia e Francia dove viene punito il cliente invece della prostituta, producendo un capovolgimento di prospettiva che riconoscerebbe alle donne il loro status di vittime di sfruttamento e che in quei paesi ha portato a una drastica diminuzione della domanda.

Il libro è una risposta chiara a tutti coloro che vorrebbero riaprire le case chiuse, o che la pensano come il governatore di una ricca regione italiana che recentemente ha dichiarato che chi si fa complice dello sfruttamento di queste ragazze è «una persona che ha qualche necessità fisiologica».

Le vere protagoniste di questo volume sono, comunque, le testimonianze delle vittime sotto forma di lettere. Esse raccontano di un destino comune: la fuga dalla povertà, la promessa (fasulla) di un lavoro in Europa, la schiavitù – termine che ricorre spesso nel libro – per le strade.

Tra queste donne c’è Mary, «ex bambina soldato abituata a difendersi da sola e soprattutto a lottare per sopravvivere», che non sopporta il pianto dei bambini perché le ricordano sua figlia, partorita in agonia dietro un cespuglio, sotto gli occhi di tutti, e lì spirata dopo pochi istanti. C’è Stefania, bulgara, che davanti al presidente Mattarella, nonostante la sordità che la affligge per le torture subite, si è appellata a tutti i «clienti», dicendo: «Sappiano che stanno sbagliando». C’è Blessing, nigeriana, che, alla richiesta di don Buonaiuto di mostrarle il braccio nascosto sotto la giacca intrisa di sangue, raccontò che un cliente «dopo averla pagata le bloccò il braccio incastrandole la mano nella portiera per riprendersi il denaro e scappare».

Leggendo questo libro viene da chiedersi perché ancora ci siano così tanti uomini nel nostro paese (le stime parlano di tre milioni di clienti) che desiderano di abusare di queste donne, obbedendo a quella «mentalità patologica» a cui fa riferimento papa Francesco nella sua prefazione.

Sarebbe necessaria una «conversione» da parte loro, una conversione che li spinga, come faceva don Benzi, a domandare: non «quanto vuoi?», ma «quanto soffri?».




Missionari della Vita

Testo di Gigi Anataloni, direttore MC


Il 4 novembre scorso, a mezzogiorno, la Chiesa di Colombia è stata chiamata a «vivere per la vita e la pace», una manifestazione corale di tre minuti per dire «no» a ogni violenza, in particolare quella contro i popoli indigeni. «La vita è ferita – ha detto con forza l’arcivescovo di Popayan, Luis José Ruenda -. La vita ha bisogno di noi. La vita ferita ha bisogno di tutti. In questi giorni abbiamo ascoltato con dolore la notizia che arriva a tutta la Colombia e al mondo intero dal Cauca. La vita è ferita: ci sono stati due massacri, ci sono state molte morti. Molti indigeni, molti operatori sociali, molti contadini, molti giovani hanno perso la vita negli ultimi tempi».

Ha poi continuato: «La vita è ferita e la vita ferita ha bisogno di tutti noi, missionari, iniziando dalla difesa della vita nel ventre materno: non possiamo accettare l’aborto come un diritto. La donna ha diritto ad essere missionaria della vita. L’anziano ha diritto di terminare degnamente la sua vita. Noi dobbiamo essere missionari della vita nella società e nel privato, nel ventre materno e nel campo di battaglia, in tutti i luoghi dobbiamo essere difensori della vita, […] per la vita, per la vita nel ventre materno e per la vita minacciata dalle forze oscure che cercano di distruggere la nostra società». Per questo alle 12.00 del 4 novembre in tutta la Colombia si sono fermati per tre minuti: per suonare le campane, per pregare in ogni casa e per applaudire per un minuto alla vita «perché, applaudendo un minuto, sappiamo che la vita ha bisogno di noi e che la vita è nelle nostre mani».

Le parole dell’arcivescovo sono un fortissimo stimolo alla Chiesa colombiana, ma hanno anche un valore universale perché sono una chiamata a difendere e promuovere la vita in tutte le sue fasi: dal grembo materno alla vecchiaia; in tutte le sue dimensioni sia che riguardino l’uomo che l’ambiente; e in ogni luogo: dal conforto della casa alle lotte per una società più giusta, pacifica, inclusiva e sicura per ognuno, di qualsiasi popolo, nazione, cultura e religione egli sia.

La vita è ferita. È un grido che ci riguarda tutti. Un grido che in questo tempo prima di Natale assume una valenza anche più profonda. La memoria della nascita di Gesù non può essere lasciata alle «luci d’artista» che abbelliscono le nostre strade, né alle promozioni pubblicitarie che riducono un evento chiave della nostra fede a una grande abbuffata consumista. Non possiamo neanche accontentarci dei presepi nelle scuole o sulle piazze, e neppure di quelli ovvii (e dovuti) nelle chiese. Ma far memoria della nascita di Cristo richiede un rinnovato impegno per promuovere la vita in tutte le sue dimensioni, contro tutti i nuovi Erodi.

Il vescovo della Colombia ci ha ricordato che siamo «missionari della vita»: la Vita, quella con la «V» maiuscola, che è Gesù, e missionari di tutto quello che è vita ed è essenziale per la vita. Essere «missionari» vuol dire essere «attori» non «spettatori», vuol dire prendere posizione, assumersi responsabilità e agire; non restare indifferenti di fronte ai continui attentati alla vita, passati a volte come conquiste di civiltà (vedi aborto, eutanasia, fecondazione assistita); promuovere, difendere e sostenere la famiglia; approfondire le questioni senza accontentarsi dei social e diffondere fake news; diventare coscienti dei problemi, dei bisogni e delle potenzialità del proprio territorio e agire per migliorarne la qualità di vita e servizi; interessarsi del proprio condomino, conoscere i propri vicini, avere un’attenzione speciale per gli anziani e per eventuali famiglie povere e in difficoltà; rifiutare il degrado che prospera nell’indifferenza; cambiare attitudine (non padrone, ma servo – direbbe Gesù) nei confronti degli altri, che non sono dei nemici, ma uomini come me e fratelli e sorelle, anche se vengono da altri paesi e hanno la pelle superficialmente diversa dalla mia.

Gesù ci ha dato una regola aurea: «Ama il prossimo come te stesso» (cfr. Mt 22,39) che è anche «fai agli altri quello che vorresti sia fatto a te» (cfr. Mt 7,12). Gli spazi di azione sono senza fine e ognuno può trovare il suo, basta vincere la logica del «divano», non accontentarsi di manifestare e smetterla di dare la colpa agli altri. Anche se poco, anche se arriva
solo al marciapiede davanti a casa, faccio tutto quello che mi è possibile per creare un ambiente più bello, più accogliente, più fraterno, più giusto, dove si respiri pace, dove nessuno si senta escluso,
dove la vita – in tutte le sue dimensioni – sia davvero difesa, accolta, promossa e coccolata.

C’entra con il Natale? Vedete voi. È bello fare il presepio, partecipare alla messa di mezzanotte, ritrovarsi tutti in famiglia per un bel pranzo insieme, ma l’accogliere il «Signore della vita e che è Vita» deve trasformare il nostro modo di vivere quotidiano. Buon Natale.