Sentirsi a casa

«Ricordate che l’Istituto non è un collegio, neppure un seminario, ma una famiglia.
Siete tutti fratelli; dovete vivere assieme, prepararvi assieme,
per poi lavorare assieme per tutta la vita.
Una comunità in cui si mantiene questa unione, non può non fare del bene».

Giuseppe Allamano


Il 29 gennaio scorso, abbiamo celebrato, come missionari della Consolata, ben 120 anni di vita… con tanta gratitudine al Signore che, attraverso il coraggio e la fede del beato Giuseppe Allamano, ha «regalato» alla chiesa e al mondo i nostri due istituti missionari, per comunicare a tutti «la gioia del Vangelo». Ma, come ci ricordava il nostro Fondatore, più che in un istituto, noi missionari/e viviamo e lavoriamo insieme come «una famiglia» per tentare di trasformare anche questo nostro mondo in una comunità di fratelli/sorelle («Fratelli tutti»!).

Per questo ci hanno toccato il cuore le parole che padre Stefano Camerlengo, nostro superiore Generale, ha scritto nel messaggio di auguri per la festa del 29 gennaio, intitolato proprio «Sentirsi a casa». «Approfittando dell’anniversario della fondazione, vorrei portare l’attenzione al recupero del senso di sentirsi a casa, di sentire l’istituto come casa propria, “casa mia”. Solo se “indossiamo” la nostra casa, solo se “addomestichiamo e sposiamo” la nostra casa, con le persone che la abitano, possiamo sentirci realizzati e felici e allora saremo capaci anche di cambiare! La regola della comunità è l’amore, il bene dell’altro. Il bene degli altri non è mai un male per me; il bene è bene, sempre, per tutti. La dimensione comunitaria è una ricchezza, in ogni circostanza. Le cose fatte insieme sono più belle, più ricche, più varie, più divertenti, più efficaci e coinvolgenti di qualunque altra cosa. La comunità ha bisogno di tutti, tutti sono importanti e in questa importanza riscopriamo la nostra bellezza.

La comunità è un luogo, forse l’unico, dove si può sperimentare insieme la fatica della croce, ma anche la gioia, la luminosità, la freschezza, il profumo della rinascita, di una vita nuova. Una comunità vera è una ricchezza anche per le altre persone, per chi è esterno alla comunità; è una fonte capace di dissetare anche altri che ad essa si avvicinano, assetati e incuriositi; l’amore e la luce che nascono da una comunità scaldano e illuminano il freddo di molte tenebre. L’augurio, la preghiera, l’invito è che possiamo vivere questo anniversario di fondazione recuperando il nostro senso di appartenenza, di sentirci parte, protagonisti della nostra famiglia, della nostra comunità, conosciuti e chiamati per nome, costruttori di un istituto sempre più “nostro”, sempre più “casa mia”!».

Ed è sicuramente anche l’augurio che il Padre Fondatore, dal cielo, porge sorridendo a ciascuno/a di noi.

padre Giacomo Mazzotti


Giuseppe Allamano Beato

7 ottobre 1990 – 7 ottobre 2020

Il 7 ottobre 2020 i missionari e le missionarie della Consolata hanno celebrato il 30° anniversario della beatificazione di Giuseppe Allamano loro fondatore. Per l’occasione, il superiore e la superiora generali dei due istituti fondati dall’Allamano, hanno scritto una lettera ai loro missionari ricordando il felice evento.

Carissimi missionari e missionarie, trent’anni fa, ripetevamo, gli uni agli altri, con gioia indicibile: «Questo è il giorno che il Signore ha fatto per noi!». Era il 7 ottobre del 1990, giorno di luce e di festa, quando il nostro amato Padre Fondatore veniva proclamato «Beato» da papa Giovanni Paolo II.

Rivisitiamo l’avvenimento richiamando le belle parole del padre Giuseppe Inverardi, allora superiore generale, in quel giorno: «Giorno in cui la nostra Consolata si è compiaciuta per l’onore tributato a suo figlio e servitore fedele.

  • Giorno in cui la Chiesa ha esaltato un altro testimone della fede proponendolo come modello di santità e intercessore.
  • Giorno in cui a Giuseppe Allamano sono state riconosciute la fecondità spirituale e apostolica.
  • Giorno in cui la missione è stata riproposta con nuovo vigore e responsabilità di ogni fedele.
  • Giorno in cui l’istituto ha cantato la sua gioia, ha proclamato la sua lode, ha detto il suo grazie.
  • Giorno in cui le missionarie e i missionari della Consolata hanno guardato compiaciuti alla “roccia da cui sono stati tagliati”.
  • Giorno in cui i popoli, molti popoli, hanno riconosciuto di essere stati amati e beneficati da un uomo mansueto e forte.
  • Giorno in cui tutti noi ci siamo ri-consacrati al Signore, ai fratelli e alla nostra vocazione, per essere “prima santi e poi missionari”».

Ovunque ci troviamo in questo anno, segnato dalla nube grigia di una pandemia che si è infiltrata in ogni angolo del pianeta, non possiamo non sostare in raccoglimento, ricordando e ringraziando per questo «evento di grazia», dentro il quale ci siamo sentiti orgogliosi di seguire le orme di questo umile sacerdote torinese che ci ha lanciati nel mondo, chiedendoci di essere semplicemente e autenticamente «sante e santi per la missione».

Tutti noi siamo consapevoli che la «beatificazione» che stiamo ricordando e celebrando, è stata resa possibile, perché il nostro Fondatore, nel linguaggio preciso e solenne della Chiesa, ha vissuto «in grado eroico» le virtù che costellano la vita di ogni credente e discepolo del Signore.

Sì, il Fondatore ha vissuto «eroicamente», ma nel suo stile tutto particolare, mutuato dall’esempio del suo santo zio, Giuseppe Cafasso: «Fare bene il bene», cioè con entusiasmo, zelo, passione, sollecitudine, umiltà, mansuetudine, libertà e saggezza… ricordandoci che il Signore «guarda il cuore» e «vede nel segreto»; che neppure un bicchiere d’acqua fresca sarà dimenticato; e che, alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore dato specialmente ai bisognosi e agli ultimi.

Quale emozione proviamo, allora, pensando che già due nostre sorelle hanno percorso, come l’Allamano, questo cammino di ordinaria santità: suor Irene, «madre tutta misericordia», e suor Leonella, «donna del dono e del perdono», raggiungendo ambedue la stessa «beatitudine» del Padre Fondatore, straordinarie nell’ordinario.

Ma accanto a loro, non possiamo dimenticare tanti nostri fratelli e sorelle che, senza titoli particolari o fama diffusa, hanno servito il Vangelo e la Missione in semplicità di cuore, operosità di vita, amore concreto ai poveri, diventando così portatori di consolazione e di pace. Forse con alcuni/e di loro abbiamo condiviso le fatiche e le gioie dell’apostolato missionario; ricordandoli ora, ci accorgiamo che sono stati «i santi/e della porta accanto – come ama ripetere papa Francesco – che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio». Tra di essi, anche il nostro «confondatore», Giacomo Camisassa, che ricorderemo particolarmente nell’anno 2022, nel centenario della sua morte.

Associamo, allora, ai nostri «tre beati» anche loro, conservandone nel cuore una grata memoria, facendo tesoro del loro esempio e della loro fraterna intercessione, contenti di averli avuti come compagni di strada, fratelli/sorelle nella stessa «vocazione missionaria consolatina».

Ricordando e celebrando la prima tappa del cammino verso la santità del nostro Fondatore, vogliamo condividere con tutta la nostra famiglia missionaria la gioia di un percorso verso la canonizzazione arrivato ormai molto avanti. Si tratta dell’inchiesta diocesana sul «presunto miracolo» della guarigione inspiegabile di Sorino Yanomami, un indigeno del Catrimani (Roraima, Brasile), per l’intercessione del beato Giuseppe Allamano.

Se l’esito della commissione medica e dei censori teologi sarà positivo, «il miracolo», a quel punto non più presunto, ma certo, verrà presentato a papa Francesco perché, con la sua autorità apostolica, vi riconosca «il dito di Dio» e stabilisca, così, la data della canonizzazione: giorno in cui anche noi, missionari e missionarie della Consolata, potremo cantare l’alleluia di ringraziamento al Signore.

Celebriamo, dunque, fratelli e sorelle, nella gioia e nella lode, questa data del 7 ottobre, e intensifichiamo ancora di più la nostra preghiera perché, con l’aiuto e l’intercessione della Consolata, nostra madre e fondatrice, e delle nostre «due sorelle beate», l’attesa e il desiderio di tutti noi vengano esauditi.

In comunione,

suor Simona Brambilla, superiora generale Mc,
padre Stefano Camerlengo, superiore generale Imc

Momenti della beatificazione di Giuseppe Allamano, a Roma 7 ottobre 1990 (foto Gigi Anataloni)

 


Novena e festa del beato Allamano

In preparazione al processo diocesano per il riconoscimento della guarigione miracolosa di Sorino Yanomami attribuita all’intercessione del beato Allamano, i missionari della comunità di Boa Vista (Brasile) e di alcune altre comunità Imc di Roraima, hanno celebrato in modo particolare la novena del Fondatore.

Novena del beato Allamano

Il 7 febbraio, primo giorno della novena, sull’altare per la messa, è posto un piccolo busto dell’Allamano assieme ai documenti finora raccolti (testimonianze, referti medici, disegni) riguardanti il processo.

Come parte integrante dell’équipe della postulazione, presiedo l’Eucarestia e ricordo come esattamente 25 anni fa (il 7 febbraio 1996), Sorino Yanomami fu aggredito da un giaguaro mentre era a caccia e venne trasportato nello stesso giorno a Boa Vista per salvargli la vita. Fatto che si risolse con una piena guarigione di Sorino da ritenersi miracolosa.

«Iniziamo questa novena “particolare” in comunione con tutto l’Istituto nella speranza di poter realizzare in breve il processo che aprirebbe la strada alla canonizzazione del nostro fondatore».

Grazie per il cammino fatto

Il Vangelo del giorno racconta che Gesù, a Cafarnao, prende per mano e cura dalla febbre la suocera di Pietro, mentre Paolo, nella prima lettera ai Corinti, dice: «Guai a me se non annuncio il Vangelo», e più avanti: «Mi sono fatto tutto a tutti».

«Come non leggere nel gesto di Gesù e nelle parole appassionate di Paolo la nostra chiamata alla vita missionaria nel carisma del beato Allamano? Curare, educare, annunciare, farsi prossimo degli altri, è lo stile tutto nostro, riassunto nel nome che portiamo e che dice “consolazione”».

Trovandomi in questi giorni con i confratelli che lavorano in Brasile, e in particolare a Roraima, terra indigena, mi viene spontaneo ringraziare il Signore per essere qui, come Istituto, da più di 70 anni, per il cammino fatto, per le battaglie affrontate e i successi ottenuti. Tra gli altri ricordiamo: la nostra presenza nelle comunità indigene, la demarcazione della terra, il progetto della Buona Notizia (Boa Nova) che porta ad un maggior impegno in favore della vita, della comunità e della condivisione, la formazione di nuove comunità cristiane e i primi frutti anche in campo vocazionale e missionario.

Nella stessa messa, infatti, abbiamo salutato Aparecido, un giovane indigeno macuxi in partenza per Curitiba dove continuerà il suo cammino formativo nel seminario filosofico.

Di fronte a queste grazie di Dio, viene da pensare che il presunto miracolo di Sorino Yanomami non sia altro che l’espressione più alta di un miracolo continuo del nostro fondatore e padre in questa terra mediante la vita e la dedizione dei suoi missionari e missionarie.

A Cantagalo fra i Macuxi

Continuando la novena, i missionari si sono alternati ogni giorno nella celebrazione eucaristica, aiutando i confratelli a leggere e meditare la Parola incarnata nella vita della missione e nella propria esperienza personale.

Merita ricordare l’ottavo giorno della novena che si è svolta nella missione di Cantagalo, una comunità indigena macuxi. Abbiamo celebrato l’Eucarestia all’aperto in un luogo molto ventilato onde evitare contagi a causa della pandemia. Vi hanno partecipato molti bambini, ragazzi e giovani. Il coro dei giovani, animato dal catechista, ha eseguito bei canti in lingua macuxi. Il Vangelo parlava di Gesù che, preso da compassione, ha curato un lebbroso.

È sempre la compassione che spinge Gesù ad agire, a fare il bene, a curare, a perdonare. Il Signore ancora oggi agisce e dimostra questa compassione anche attraverso grazie e miracoli. Così, ho invitato il nostro seminarista macuxi, Damasio, a raccontare la storia della cura miracolosa di Sorino Yanomami e come il Signore abbia avuto compassione della sua vita guarendolo grazie all’intercessione del beato Allamano. Il fatto miracoloso ha suscitato grande curiosità e interesse. Alla fine ho distribuito l’immaginetta del fondatore e abbiamo concluso con la supplica alla Consolata in tempo di pandemia.

Festa del beato Allamano

Il 16 febbraio abbiamo celebrato la festa del beato Allamano a Boa Vista. All’omelia ho detto che «il mandato missionario di Marco ascoltato nel Vangelo “dice” il nostro carisma e dice l’Allamano con la sua vocazione missionaria trasmessa a noi suoi figli. È il più bel dono che abbiamo ricevuto in vita dal Signore tramite il fondatore. “La più bella vocazione”, come soleva dire ai missionari in partenza per l’Africa».

Nel mese di marzo, qui a Boa Vista, si svolgerà il processo per la sua canonizzazione.

A 95 anni dalla sua nascita al cielo chiederemo che venga riconosciuto un miracolo che è segno di amore e cura dei più piccoli e che ci aiuti a comprendere come lo «straordinario» nella missione avviene anche mediante tanti piccoli gesti d’amore, di compassione e di consolazione nella quotidianità della vita. È da qui, infatti, che parte sempre l’annuncio del Vangelo.

padre Michelangelo Piovano

Momenti del processo diocesano tenuto a Boa Vista in Roraima, Brasile, per la canonizzazione del beato Allamano




Botta e risposta


È ormai passato anche il mese di ottobre, un mese missionario vissuto e celebrato in questo strano e confuso tempo di pandemia non ancora debellata, che ha scombussolato la vita non soltanto di qualche gruppo umano più sfortunato, ma di tutto il mondo. E capire che cosa Dio ci sta dicendo in questo tempo prolungato di disagio diventa una sfida anche per la Missione della Chiesa.

Nel suo Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2020, papa Francesco scriveva: «La malattia, la sofferenza, la paura, l’isolamento ci interpellano. La povertà di chi muore solo, di chi è abbandonato a sé stesso, di chi perde il lavoro e il salario, di chi non ha casa e cibo ci interroga… E siamo invitati a riscoprire che abbiamo bisogno delle relazioni sociali, e anche della relazione comunitaria con Dio. Lungi dall’aumentare la diffidenza e l’indifferenza, questa condizione dovrebbe renderci più attenti al nostro modo di relazionarci con gli altri. E la preghiera, in cui Dio tocca e muove il nostro cuore, ci apre ai bisogni di amore, di dignità e di libertà dei nostri fratelli, come pure alla cura per tutto il creato».

In questo contesto, ritorna allora, provocante, la domanda che Dio ci rivolge: «Chi manderò?», e che attende, ovviamente, una risposta generosa e convinta: «Eccomi, manda me!» (Is 6, 8). Dio sembra non stancarsi di cercare chi inviare alle genti «per testimoniare il suo amore, la sua salvezza dal peccato e dalla morte, la sua liberazione dal male».

La chiamata alla missione diventa, allora, più incalzante in questo tempo e, mentre ci spinge a farci carico della sofferenza e della paura di tanti nostri fratelli, «guarisce» anche noi, «facendoci passare dall’io pauroso e chiuso, all’io ritrovato e rinnovato dal dono di sé». Il Beato Giuseppe Allamano era talmente entusiasta della vocazione missionaria, da farlo quasi «straparlare», quando diceva ai suoi missionari: «Considerate pure le varie vocazioni con cui una creatura può legarsi a Dio e non ne troverete una più perfetta della vostra. Il Signore per voi ha come esaurito il suo infinito amore in fatto di vocazione. Non saprebbe e non potrebbe darvene una più eccellente, perché vi ha dato la sua stessa missione: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. L’identica missione che Gesù ricevette dal Padre è da Lui trasmessa a voi».

Più chiaro di così…

padre Giacomo Mazzotti


Giuseppe Allamano e Francesco Paleari

L’amicizia tra sacerdoti santi

Che l’Allamano abbia avuto un rapporto speciale con lo spirito e l’opera del Cottolengo è risaputo. Tra lui e Francesco Paleari (1863-1939), sacerdote del Cottolengo, maturò una buona amicizia sacerdotale. A questo riguardo sono significative le parole del missionario padre Alfredo Ponti: «Ma il vincolo di amicizia fra i Missionari della Consolata ed il Cottolengo si fece maggiormente vivo, maggiormente sentito nella stima grandissima e nella profonda amicizia che legava quei due santi uomini. Don Paleari e il Can. Allamano che sapevano comprendersi magnificamente, sapevano stimarsi, lavorare concordi per la gloria di Dio. Poche volte ebbi il piacere di scorgerli assieme, ma era sempre bello vederli parlare fra loro, discutere, sorridere e ridere anche, usando fra loro quella famigliarità ed anche quella franchezza che solo le grandi amicizie possono permettersi».

Reciproca collaborazione. La collaborazione tra questi due uomini di Dio fu abbastanza ampia. L’Allamano si servì molto del Paleari per le sue opere, a Torino, nel Convitto Ecclesiastico e nella Casa Madre dell’Istituto missionario, come pure al Santuario di Sant’Ignazio per gli esercizi spirituali ai sacerdoti.

Il primo biografo del Paleari, Ettore Bechis, parla di collaborazione riferendosi alle lezioni di filosofia che erano dettate nel seminario dell’Istituto. Ecco le sue parole: «Insegnò filosofia nel nascente Istituto della Consolata per le missioni estere, fondato dal Can. Allamano in Torino. La collaborazione di Don Paleari fu di molto conforto in quegli inizi e la serena calma dell’amico illuminò più che la scienza, i primi ardimenti missionari: tra i due sacerdoti correva una mutua e fraterna emulazione di virtù».

Che il Paleari collaborasse volentieri è confermato dal fatto che continuò finché gli fu possibile in questo servizio di insegnamento, anche dopo la morte dell’Allamano. Quando proprio non poté più, perché nominato Provicario generale, espresse così il suo rammarico a p. Gabriele Berruto: «Il mio rincrescimento è forse più grande del vostro, poiché sono affezionato ai missionari della Consolata e con questa piccola fatica mi sdebitavo alquanto verso la cara Madonna Consolata».

Il pensiero dell’Allamano sul Paleari.

Non c’è dubbio che per l’Allamano il Paleari era un sacerdote “speciale”. Il suo apprezzamento per il “pretino del Cottolengo” (come era chiamato il Paleari) è confermato anche da diverse sue espressioni. Per esempio, per quanto riguarda le lezioni di filosofia tenute dal Paleari agli allievi missionari, l’Allamano compiaciuto per i buoni risultati scolastici, disse: «È una grande fortuna per noi avere la filosofia da don Paleari».

Anche per la predicazione di esercizi spirituali nella comunità dell’Istituto il Paleari fu molto apprezzato. L’Allamano lo invitò a predicare il corso del 1919, subito dopo il rientro dei missionari che erano stati sotto le armi. L’Allamano dava somma importanza a questi esercizi, perché dovevano essere come un rilancio della vita di comunità. Ecco perché li affidò all’animazione del Paleari. La sua aspettativa non fu delusa, perché tutti furono grandemente soddisfatti.

Dopo un altro corso di esercizi, quando non era più lui a scegliere i predicatori, percependo tra i giovani una certa insoddisfazione, fece questo commento: «Hanno un bel cercare persone rinomate… ma uomini come Don Paleari non fanno forse tanta figura, c’è però lo spirito di Dio che parla in loro, ed è ciò che si sente e fa bene». «Di Don Paleari, a Torino, ce n’è uno solo».

La stima dell’Allamano per il Paleari è confermata anche da questo fatto: richiesto da Roma di indicare un nome per l’ufficio di direttore spirituale al Collegio Urbano “de Propaganda Fide”, l’Allamano pensò subito al Paleari. Egli, però, obbediente come sempre, gli disse: «Si rivolga al Signor Padre». Il Superiore della Piccola Casa fu di altro parere e così il Paleari fortunatamente rimase a Torino.

Il pensiero del Paleari sull’Allamano.

Per conoscere quanto il Paleari pensava dell’Allamano, basta leggere integralmente la testimonianza da lui inviata al P. L. Sales, quando stava scrivendo la biografia. Eccone qualche tratto: «Del Venerato Canonico Giuseppe Allamano io conservo tutt’ora viva e santa memoria. Da quando Lo conobbi, frequentando la Scuola di Morale al Convitto Ecclesiastico sino alla preziosa Sua morte, ebbi sempre per Lui grande stima ed affezione quasi filiale, tanta era la riverenza e la confidenza che m’ispirava la Sua Persona.

Nel 1893 Egli m’invitò a confessare i Sacerdoti Moralisti, e, sentendo la mia ritrosia, mi confortò dicendomi: “Quello che non saprà fare lei, lo farà la Provvidenza”. E incontrandomi qualche volta in sacrestia: “Ebbene, mi diceva con tutta familiarità, ebbene come va?” – “Mah!” rispondevo io. Ed Egli: “Avanti in Domino, come diceva il vostro Cottolengo”. Ed io prendevo quell’incoraggiamento come datomi da Dio, tant’era la mia fiducia in quell’Uomo di Dio.

Dieci anni dopo, m’invitò a predicare le Meditazioni al Santuario di S. Ignazio; e ricordo benissimo con quanta prudenza, vigilanza e affabilità dirigeva colà i SS. Spirituali Esercizi […].

Taccio le altre benemerenze nella ricorrenza del Centenario e allargamento del Santuario, nella fondazione dell’Istituto dei Missionari della Consolata, nella Beatificazione del suo Zio, il Cafasso, ecc. In una parola fu un vero Sacerdote, Sacerdote dell’Altissimo».

Che il Paleari si fidasse ciecamente dell’Allamano è sicuro. Lo dimostra anche questo semplice fatto con il quale concludo: quando, dopo la partenza dei primi quattro missionari, gli altri giovani, per diversi motivi, lasciarono l’Istituto, creando una situazione dolorosa e difficile per l’Allamano, il Paleari, pochi giorni dopo, volle accompagnare personalmente sette giovani Tommasini alla Consolatina, di modo che la vita della comunità riprendesse subito senza interruzione. Al vederli l’Allamano esclamò felice: «Oh! Bravi! La Provvidenza, di cui io ero sicuro, stavolta viene proprio dalla Piccola Casa della Divina Provvidenza, quasi per conformarmi sempre più ad essa. Bravi, bravi! Andiamo a ringraziare la Consolata tutti assieme».

padre Francesco Pavese


Seconda conversione

Dal 25 gennaio al 29 febbraio, si è svolto a Roma un corso di formazione permanente a cui hanno partecipato 26 missionari della Consolata che compivano 25 anni di sacerdozio o di professione religiosa. Padre Ramón Lázaro Esnaola, spagnolo, racconta come ha vissuto quest’esperienza.

Riassumerei questo tempo di formazione in due parole: «Seconda conversione». Se finora ho vissuto innanzi tutto dei miei progetti, dei miei sogni, dei miei ideali e della forza che il buon Dio mi ha dato, ora mi sento chiamato a vivere soprattutto «di fede», a vivere cioè con un atteggiamento più teologico, più gratuito e contemplativo la missione, convinto che tutto è grazia e che i successi o i fallimenti possono essere assunti nella fede senza grandi alti e bassi, con la serenità di chi si riconosce chiamato e inviato, discepolo e missionario.

Durante il corso, ogni partecipante è stato invitato a scrivere la propria autobiografia come attestazione della storia salvifica di Dio nei suoi confronti e come esercizio di accettazione e assunzione di ciò che gli è stato donato: la famiglia, l’educazione e la cultura di origine; e di ciò che ha tessuto sul telaio della vita con le scelte compiute. Questa rilettura della vita mi ha fatto prendere coscienza delle mie debolezze e fragilità non come pericoli o tentazioni, ma come momenti di grazia, perché come dice San Paolo nella sua seconda lettera ai Corinzi: «Se sono debole, allora sono forte» (12,10).

In un secondo momento, alcuni biblisti ci hanno provocato con le esperienze dei profeti, del Cantico dei Cantici, del Vangelo e di san Paolo. Le loro conferenze sono state motivo di riflessione personale e poi di condivisione in gruppo e in assemblea.

Il terzo momento della nostra formazione è consistito nella visita ai luoghi originari dell’Istituto: Castelnuovo, il santuario della Consolata e Casa madre. La maggior parte di noi non era più tornata a Castelnuovo da quasi trent’anni e molti non avevamo visto la ristrutturazione della Casa madre avvenuta negli ultimi tempi.

Ho apprezzato molto la presenza di una comunità Imc accanto alla casa natale del beato Fondatore e l’attenzione e la cura con cui i missionari accompagnano i gruppi che vi si recano così come al luogo di nascita di san Giuseppe Cafasso. Suggestiva mi è parsa la cappellina allestita in quella che fu la stalla di casa Allamano: unione tra il Fondatore e l’Incarnazione che parla di uno stile missionario tutto nostro e che può essere descritto con parole come silenzio, semplicità, precarietà, vicinanza, opzione per l’umanità e la Casa comune.

Anche l’aggiornamento missionario che ha avuto luogo nella casa del Fondatore mi è sembrato molto suggestivo perché il suo carisma si è sviluppato nel corso degli anni a partire da qui e sono stati i suoi missionari che, come strumenti di Dio, l’hanno dispiegato facendolo diventare una ricchezza per la Chiesa e per il mondo.

Accanto alla casa natale del beato Allamano, significativa è anche la presenza delle Suore missionarie della Consolata che svolgono un servizio come centro di spiritualità e formazione per tutte le missionarie del loro Istituto.

Mi è piaciuta anche la visita alla casa natale di san Giuseppe Cafasso, zio materno del nostro Fondatore. La casa è stata completamente ristrutturata con gusto e, in questo, ho visto la scelta precisa dell’Istituto di voler valorizzare la figura del Cafasso, il quale ha rappresentato la principale fonte di ispirazione da cui Giuseppe Allamano ha bevuto e che si può riassumere in quel «Fare bene il bene e senza rumore» che permea tutta la sua spiritualità.

 

La visita al Santuario della Consolata è stato un momento carismatico, perché è lì che il beato Allamano ha ricevuto l’ispirazione di fondare i due Istituti. La condivisione dell’attuale Rettore del santuario ci ha fatto tornare al clima di santità che si viveva a Torino nel XIX secolo e ci ha reso consapevoli dell’influenza che il Fondatore ha avuto sulla formazione del clero nella diocesi di Torino.

Certamente, conoscere la sua stanza, il luogo dove ogni giorno parlava con Giacomo Camissasa e gli oggetti che gli appartenevano, così come quelli che appartenevano a san Giuseppe Cafasso, è stata una grazia per ognuno di noi.

Avere avuto l’opportunità di pregare ogni giorno e persino di celebrare l’Eucaristia sul sepolcro del Fondatore trasformato in altare, è stata occasione per ringraziarlo per il dono che ha fatto al mondo, alla Chiesa e a ciascuno di noi.

Contemplare l’icona della Consolata di fronte alla quale pregava; vedere l’urna del canonico Giacomo Camissasa che ha saputo vivere «la beatitudine di essere il secondo», e rimanere in silenzio davanti ai ritratti di quei missionari che hanno versato il loro sangue per la missione, è stata un’esperienza che ci ha riportato alle origini della nostra chiamata alla missione infondendoci coraggio e determinazione.

Ora è giunto il momento di attuare quella «seconda conversione» alla quale il Signore ci chiama nella vita quotidiana, vivendo con passione, semplicità e gioia il carisma del nostro beato Fondatore.

padre Ramón Lázaro Esnaola

 




Con cuore grande, facendo del bene

a cura di Sergio Frassetto |


Vogliamo dedicare il nostro inserto al ricordo di padre Francesco Pavese, missionario della Consolata, scomparso il 3 maggio scorso; oltre che figlio devoto del fondatore, fu anche postulatore della sua causa di canonizzazione, ma, soprattutto, studioso e profondo conoscitore dell’Allamano, che fece conoscere attraverso i suoi numerosi scritti e la sua predicazione.

Come esempio, ecco alcuni pensieri di una sua omelia, tenuta a Castelnuovo Don Bosco, il 16 febbraio 2014.

Che cosa può dire a voi, oggi, il beato Allarmano? Almeno due cose. La prima è questa: siate cristiani tutti d’un pezzo, come erano quelli del suo tempo. Se questo paese ha offerto alla Chiesa e al mondo tanti santi, è perché le famiglie erano cristiane di prima qualità. Vi erano delle mamme di valore, come la mamma di don Bosco, come la mamma dell’Allamano, che hanno saputo indirizzare i figli sulla via della santità. Quando
l’Allamano ha manifestato il suo desiderio di essere missionario, la mamma, già ammalata, gli ha risposto: «Io non voglio ostacolarti, pensa solo se sei chiamato da Dio; quanto a me non pensarci!». Queste erano mamme!

L’Allamano ci insegna il metodo per vivere cristianamente nel modo migliore possibile, ad alto livello. È un metodo che ha ereditato dallo zio Giuseppe Cafasso, ed è questo: «Se volete essere cristiani di prima qualità, non pretendete di fare cose straordinarie, ma fate le cose bene, meglio che potete, nella vostra vita ordinaria di ogni giorno». Lui sintetizzava questo suo insegnamento così: «Il bene bisogna farlo bene, con costanza e senza rumore». È un metodo semplice, ma impegnativo e garantito.

Il secondo insegnamento che l’Allamano, oggi, ci offre, è questo: «Alzate il vostro sguardo e rendetevi conto che buona parte dell’umanità non conosce o non segue il vero Dio, cioè il Padre che Gesù è venuto a rivelare». L’Allamano era molto occupato nella sua diocesi. Un vescovo del suo tempo diceva: «Non c’era iniziativa di bene che non partisse dalla Consolata». Da quel santuario, l’Allamano creava un dinamismo apostolico di grande qualità. Eppure ha saputo alzare lo sguardo e interessarsi anche dei lontani, gente che lui non conosceva, ma che amava, perché era convinto che appartenessero all’unica famiglia di Dio. Ha fondato addirittura due Istituti missionari, uno per sacerdoti e fratelli coadiutori e uno per suore missionarie. Perché lo ha fatto? Perché aveva un cuore grande, che superava i confini del suo ambiente. L’Allamano è stato apostolo molto attivo in patria, nella sua diocesi, e apostolo molto attivo nel mondo,
attraverso i suoi figli e figlie. Come vostro concittadino, egli vi invita ad avere un cuore grande e a partecipare, come potete, a questa avventura missionaria della Chiesa, che dura da duemila anni.

padre Francesco Pavese

Devoto figlio di Giuseppe Allamano

Ricordo di padre Francesco Pavese

Nato il 2 aprile 1930 a Casorzo (Asti), padre Francesco Pavese divenne missionario della Consolata con la prima professione religiosa, alla Certosa di Pesio, l’8 dicembre 1951. Ordinato sacerdote, a Torino, il 19 giugno 1955, vi rimase come insegnante e direttore del seminario teologico dal 1960 al 1970, finché fu eletto superiore regionale dell’Italia, nel 1970.

Numerosi i chierici di teologia e filosofia: circa 130. Era evidente la sua capacità organizzativa. Sempre molto attese le sue conferenze settimanali, in cui univa insegnamento a fine diplomazia nel fare osservazioni disciplinari. Forse un po’ presuntuoso nell’affermare che non gli sfuggiva nulla. Ma, in realtà, con intelligenza e perspicacia, era attento e vigilante.

Nel 1976, iniziò il suo «soggiorno romano»: dapprima fu incaricato dell’ufficio generale Imc di formazione e studi; poi segretario del corso di teologia pastorale all’Università urbaniana e, dal 1985 al 2001, rettore prima del pontificio Collegio S. Paolo e, poi, del pontificio Collegio urbano; nel frattempo, venne anche nominato professore invitato della facoltà di Missiologia (Università urbaniana) e consultore a Propaganda fide.

Lo reincontrai a Roma nel 1980, membro della commissione che doveva stendere il testo delle Costituzioni Imc rinnovate, per accogliere l’insegnamento e spirito del Concilio Vaticano II. Lui un gigante in Diritto canonico e ricco di esperienza, io pivello ignorante. I suoi apporti erano mirati e convincenti. Lui era sempre il primo a farli presenti e suggerire soluzioni per gli inevitabili scogli. Non si imponeva. Lo ammiravo e imparavo.

Dal 2002 al 2011, divenne postulatore generale della causa di canonizzazione del beato Allamano; dal 2013, si ritirò a Torino in Casa Madre, dove, oltre i vari servizi pastorali, continuò nel suo lavoro di ricerca e pubblicazione di studi sul fondatore.

Per circa dieci anni fu postulatore della Causa di Canonizzazione del beato Giuseppe Allamano. Entrò nell’ufficio digiuno del fondatore. Divenne presto un postulatore convinto, operoso, amante del nuovo compito. Ne acquistò conoscenza approfondita, che per anni sbriciolò in tanti paesi, animando Esercizi spirituali e incontri. Conoscenza con amore, che non cessò con la consegna della postulazione al suo successore. Continuò a studiare e scrivere. Traeva da scritti conosciuti, ma aggiungendo interessanti dettagli inediti.

Accolto nella casa di Alpignano, si è spento all’ospedale di Rivoli il 3 maggio 2020, durante la drammatica emergenza del coronavirus.

(annotazioni di padre Giuseppe Inverardi)


Non voglio morire «sfaccendato»

Il 28 giugno 2015, celebrando i sessant’anni della sua ordinazione sacerdotale, p. Francesco Pavese ringraziò il Signore, la Consolata e l’Allamano per il suo sacerdozio e concluse con il proposito di continuare l’opera del Signore fino alla fine della sua vita. Ecco quanto disse.

Sono stato ordinato sacerdote sessant’anni fa proprio qui, in questa chiesa. Sono missionario della Consolata, e quindi formato nello spirito del beato Giuseppe Allamano.

Il primo sentimento è un grande grazie perché il Signore mi ha chiamato: è un grande dono e io stesso sono sorpreso di essere stato scelto e di essere stato aiutato a non fuggire, a non andare da un’altra parte.

E grazie, certamente per il sacerdozio. Per parlare del sacerdozio ci vorrebbe una vita intera, ma mi limito a sottolineare le sue due principali caratteristiche trasmesse a noi dal padre fondatore: è un sacerdozio eucaristico e mariano.

Voglio poi ringraziare il Signore perché il mio sacerdozio è missionario. Non mi lega alla diocesi dove sono nato, ma è un sacerdozio aperto, libero: sono stato disponibile di andare da qualsiasi parte dove l’Istituto mi avrebbe mandato.

Il nostro fondatore ci ha detto che dobbiamo essere degli apostoli zelanti, cioè avere l’ardore dentro. Le sue parole sono queste: «Ci vuole fuoco per essere apostoli», e io me le sono attaccate all’orecchio.

A coloro che partivano l’Allamano lasciava tre ricordi e anch’io li ho messi nel mio cuore:

  1. essere uomini di preghiera: se il missionario non prega non può convertire nessuno.
  2. essere uomini di bontà, di mansuetudine, di cortesia: il missionario vuole bene alla gente, la aiuta e condivide la sua vita con essa.
  3. essere uomini distaccati, liberi da se stessi, ma portatori di grandi ideali nel cuore.

E ringrazio il Signore ancora perché sono sacerdote, missionario e religioso, appartengo cioè a un istituto, a una comunità religiosa che ha come caratteristica la vita e l’opera in comune, e i consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza.

E riguardo a questi ultimi il beato Allamano diceva: «Con i voti, non si dà al Signore solo il presente, ma il futuro», cioè tutta la vita, senza alcun limite.

Il Papa diceva ai giovani: «Non andate in pensione troppo presto», e io lo dico di me stesso: ho dato al Signore il mio futuro; non c’è per me un tempo di pensione, finché le forze mi aiuteranno io devo continuare.

Sessant’anni sono tanti, non sono più un giovanotto, ma finché avrò le forze cercherò di tirare avanti e voi aiutatemi con la vostra preghiera perché non voglio morire «sfaccendato», ma sempre impegnato nell’opera del Signore.

Questi sono gli ideali che ho coltivato e oggi lo dico al Signore, alla Consolata e al beato Allamano: «Ho passato la mia vita per voi, ho fatto meglio che ho potuto e quello che non ho fatto bene pensateci voi».

A cura di Sergio Frassetto


Il tesoro dello scriba

Padre Francesco Pavese è stato chiamato a ricoprire la carica di postulatore generale dell’Istituto nel 2002 ed è rimasto in tale incarico fino a raggiungere gli ottant’anni, quando, secondo le norme della Congregazione dei santi, un postulatore deve cedere il posto a una persona più giovane.

Padre Pavese si era dedicato, dunque, al compito di postulatore con entusiasmo, svolgendolo con molta efficacia e creatività e prestandosi volentieri, dovunque venisse richiesto, per Esercizi spirituali, ritiri mensili e conferenze sul beato Allamano. Non si contano i viaggi fatti, anche all’estero, allo scopo di animare, soprattutto i missionari e le missionarie della Consolata, sul fondatore. I suoi articoli, pubblicati sulle riviste italiane dei nostri Istituti, venivano poi tradotti in più lingue, per renderli accessibili a più persone possibili.

E qui, l’immagine che mi viene in mente è quella presentata da Gesù, dopo il racconto di alcune sue parabole: «Ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).

Con la passione e la competenza che lo caratterizzavano, il nostro postulatore si mise, dunque, ad «estrarre dal tesoro» nascosto dell’Istituto, informazioni e notizie antiche, dando loro vita e rendendole nuove e attraenti, soprattutto alle giovani generazioni di missionari e missionarie.

Messa festa della Consolata a Casa Madre, Torino, presieduta da p. Stefano Camerlengo superiore generale

Degni di menzione particolare sono due pubblicazioni fatte durante il decennio in cui fu postulatore. La prima è l’accurato e minuzioso lavoro, fatto con suor Angeles Mantineo, sulle conferenze del fondatore per rispondere alla richiesta del Capitolo generale di rendere più «comprensibile» (soprattutto nel linguaggio), la «Vita Spirituale» del fondatore. Il libro usciva alle stampe nel 2007, con il titolo «Così vi voglio», tradotto, poi, in cinque lingue diverse.

Altra opera divulgativa fu la pubblicazione di «Giuseppe Allamano, uomo per la missione», (sempre in collaborazione con suor Angeles), un lavoro geniale, che rispondeva almeno a tre esigenze: fare conoscere tutto il materiale fotografico relativo all’Allamano e ai luoghi da lui frequentati; fare emergere episodi, luoghi e persone che raramente venivano evidenziati nelle biografie e che avevano giocato un ruolo importante nella sua vita; e, infine, usare uno stile giornalistico, così da attirare alla lettura anche persone meno abituate a opere impegnative. Il risultato? Un volume di quasi 300 pagine, scorrevole e tipograficamente accattivante, molto ben curato.

Ma penso che il lavoro a cui p. Pavese ha dedicato più tempo sia stata la lettura, attenta e costante, di tutto il materiale presente nell’Archivio generale dell’Istituto. Manoscritti e libri sono veramente tanti, particolarmente in ciò che concerne le deposizioni dei testimoni al processo di beatificazione, gli studi sul fondatore (biografie e monografie), le commemorazioni fatte nel corso di 60 anni, le testimonianze dei primi missionari e missionarie che conobbero il fondatore, i diari di missione…

Le «scoperte» delle lunghe ricerche, venivano poi inserite nel sito web (https://giuseppeallamano.consolata.org/), che costituisce una vera miniera on line di studi, pubblicazioni, testimonianze, conferenze e sussidi di impronta «allamaniana».

Nel 2013, p. Pavese lasciò Roma per trasferirsi a Torino. Raggiunta la veneranda età di 82 anni e vicino alla tomba del Fondatore, continuò a progettare e realizzare pubblicazioni, divulgando la sua impareggiabile conoscenza dell’Allamano attraverso articoli su varie riviste, con il tema d’obbligo, sempre lui: il beato Allamano!

Ultima sua fatica stampata fu il libro «Scegliendo fior da fiore: i 51 Santi di Giuseppe Allamano»: un grappolo di santi e sante (i più conosciuti e da lui amati) scelti, appunto, e presentati come «modelli garantiti», adatti a tutti e alle diverse situazioni.

Negli ultimi tre anni, p. Pavese aveva anche raccolto, in monografie (non ancora pubblicate), temi e argomenti vari, concernenti la spiritualità e la vita del fondatore. Ne ricordiamo alcuni, più caratteristici:

  • – Parole quotidiane del beato Giuseppe Allamano nel racconto dei testimoni;
  • – Quarant’anni di consolazione: la mariologia di Giuseppe Allamano;
  • – L’Allamano uomo: episodi di umanità vera;
  • – Giuseppe Allamano, l’uomo segregato nel silenzio;
  • – Che bello!: l’intensità spirituale dell’Allamano, nelle sue parole.

Al di là di quanto scritto e prodotto, p. Francesco Pavese ha lasciato all’Istituto, soprattutto un’eredità indelebile, un tesoro prezioso: il suo amore per il fondatore, la passione di farlo conoscere, con il desiderio pungente di vedere riconosciuta ufficialmente dalla Chiesa la sua santità.

Molti anni fa, a un missionario partente, che gli confidava il timore di non rivederlo più, l’Allamano rispose: «Ci rivedremo in Paradiso. Io, quando sarò lassù, vi benedirò ancora di più. Sarò sempre dal pugiol (balconcino)». Mi piace immaginare, ora, il nostro p. Pavese, accanto all’amato fondatore che, dal pugiol, ci guarda e, incitandoci col suo sorriso un po’ sornione, ci aiuta a camminare sulle strade della missione con coraggio, tanta fiducia e… in santità di vita.

padre Piero Trabucco

 




La porta stretta

«Pregate bene, soprattutto adesso dopo la guarigione; guardate un po’, quasi tutte le comunità, qui a Torino, hanno avuto morti, da noi nessuno. Ringraziamo il Signore!».

Giuseppe Allamano


«Siamo in pieno sviluppo d’una malattia che non sanno né definire, né curare, ma fa, solo in Torino, centinaia di vittime al giorno. In altre città è peggio ancora… All’Istituto, con più di 100 persone, è quasi un miracolo che nessuno ne sia colpito, all’infuori di un sacerdote missionario che guarisce e partirà presto per l’Africa. Di comunità non colpite finora, come la nostra, il numero in Torino si conta tutto sulle dita di una sola mano.
Ringraziamo il Signore!».

È Giacomo Camisassa, primo collaboratore e amico del fondatore, a informare una missionaria della Consolata in Kenya, il 28 settembre 1918, sulle conseguenze a Torino dell’influenza «spagnola», che, tra il 1918 e 1920, uccderà decine di milioni di persone nel mondo.

Non vogliamo qui allinearci ai notiziari che ci bombardano ogni giorno con notizie sul coronavirus e le strategie per difenderci. Più semplicemente, vorremmo aggrapparci al ricordo del nostro fondatore che ha sperimentato, assieme ai suoi missionari e missionarie, la tragedia di una guerra «mondiale» e di un’epidemia che hanno scombussolato non poco il lavoro apostolico dei suoi due giovani istituti missionari. Le sue esortazioni a «pregare bene» e anche a «ringraziare il Signore», ci aiutano a ricordare alcune cose importanti, forse da noi sottovalutate. Per esempio, quella di «fermarci di fronte a Lui» (Sal 45, 11-12), riconoscendo che la presenza di Dio riempie ogni nostro istante e quindi soddisfa il nostro cuore, in qualsiasi circostanza o condizione ci troviamo. O che le vicende di questi mesi dovrebbero renderci più sensibili alle tante altre prove degli «altri» (popoli) che spesso guardiamo soffrire e morire con indifferenza.

Ci ha scritto anche padre Stefano, successore dell’Allamano: «La lezione tremendissima del virus ci introduce forzatamente nella porta stretta della fratellanza universale. In questo strano e surreale isolamento, noi stabiliamo una inedita connessione con la vita del fratello sconosciuto e con quella più ampia del mondo, ci sentiamo veramente missionari. Indubbiamente ciò che è male rimane male. Ma anche un fatto in sé doloroso e molto negativo assume un valore differente per la nostra vita dal modo in cui noi scegliamo di viverlo e, come credenti, cerchiamo di comprendere come attraversarlo, alla luce della Parola di Dio».

Riprendiamo, allora, il nostro faticoso cammino, smarriti o guariti, con coraggio, fiducia e… «Avanti, sempre, in Domino»!

Padre  Giacomo Mazzotti


Giuseppe Allamano e Luigi Orione

L’amicizia tra sacerdoti santi

Il rapporto tra il beato Giuseppe Allamano e san Luigi Orione (1872-1940) sembra che sia iniziato presto. Con tutta probabilità don Orione conobbe il nostro fondatore, rettore del santuario della Consolata, quando era allievo a Valdocco, presso i Salesiani, negli anni 1886-1889. Si sa che, in quel periodo, il giovane Orione si recava spesso al santuario della Consolata.

Reciproca collaborazione. Un’occasione importante per il rapporto tra i due uomini di Dio fu il terribile terremoto, che la mattina del 28 dicembre 1908 rase al suolo Messina. Avendo già una sua fondazione a Noto (Siracusa), don Orione andò subito in Sicilia e, a Messina, prestò una generosa opera di assistenza materiale e spirituale, tanto da essere nominato Vicario generale della diocesidal papa Pio X. Una sua iniziativa fu quella di costruire, davanti al cimitero, una chiesetta di lamiere dedicata alla Consolata, in suffragio delle 80mila vittime del terremoto. Per questa chiesa ottenne dall’Allamano il quadro della Madonna. Ecco come ne parla don Giuseppe Pollarolo in un articolo apparso sul bollettino del Santuario, in occasione della beatificazione di don Orione, dal titolo «Tre santi [Orione, Allamano, Pio X] e un quadro della Consolata»: «Il dramma di Messina diventava sempre più tragico. Cosa fare per confortare gli afflitti e per giovare ai morti? La sua mente corse a Torino, alle frequenti visite che faceva al santuario della Consolata quando era giovane allievo di don Bosco, ai conforti esperimentati ai piedi della Madonna e si persuase che Lei, soltanto Lei, la Madonna, la Consolata, poteva lenire tanto dolore e asciugare tante lacrime!

Era allora rettore del santuario della Consolata il beato canonico Allamano, fondatore dei missionari della Consolata, nipote del venerabile, poi santo Giuseppe Cafasso. Don Orione si rivolse a lui pieno di fiducia (i santi fan presto ad intendersi), con la speranza di ottenere un quadro del tutto simile a quello in venerazione nel santuario di Torino. Il beato canonico Allamano lo accontentò subito mettendogli a disposizione il quadro richiesto». Questo quadro fu poi benedetto dal papa Pio X.

Il pensiero dell’Allamano sull’Orione.

Quello che Giuseppe Allamano pensava su don Orione si comprende chiaramente da ciò che disse dopo il primo vero incontro, di cui si ha notizia, documentato dal canonico Giuseppe Cappella sia al processo per la beatificazione di Allamano, sia nella relazione inviata in seguito agli Orionini in vista della beatificazione del loro fondatore: «Nei primordi del diffondersi del nome di don Orione negli ambienti della carità e delle moderne istituzioni religiose, un mattino si presenta nella sacrestia del nostro santuario della Consolata un sacerdote che, al primo aspetto, dà l’impressione di persona modesta e veneranda, non tanto per l’età ma pel portamento. Sentito il desiderio suo di parlare col rettore del santuario, il canonico Allamano, mi faccio premura di accompagnarvelo. Appena il rettore intese il nome del visitatore, ne fu come sorpreso, come di chi si trova improvvisamente avanti la persona di riguardo e di cui forse da tempo desiderava l’incontro. Il colloquio tra i due fondatori fu assai lungo.

E, siccome di don Orione già se ne era parlato tra noi sacerdoti del santuario, appena ci trovammo insieme raccolti nell’ora della refezione, mi presi la libertà di interrogare il nostro rettore quale impressione avesse riportata dalla visita di don Orione. Ed egli, quasi premuroso di farci conoscere un santo sacerdote, già tanto benemerito della Chiesa, subito rispose: “Don Orione mi ha fatto subito l’impressione di un uomo di Dio, investito del dono, della prerogativa di un vero ed autentico fondatore di un ordine religioso, che farà del gran bene nella Chiesa. Avendomi poi accennato don Orione a difficoltà, insorte già fin dai primordi della fondazione dell’opera sua, cercai di incoraggiarlo a continuare… ché, le difficoltà, le contraddizioni ed anche qualche incomprensione dei buoni, erano e saranno sempre il marchio delle opere di Dio. Tiriamo avanti, caro don Orione – gli dissi – nell’opera intrapresa, sicuri che il Signore, che ce l’ha affidata, non mancherà del suo aiuto, e avanti con la vicendevole promessa di preghiere per noi e per i nostri congregati, fidenti nella Divina Provvidenza e nell’aiuto della santissima Vergine, di poter fare un po’ di bene”».

Il pensiero di Orione su Allamano

La stima che don Orione aveva per il canonico Allamano la possiamo arguire da una minuta di lettera che lui stesso gli scrisse, o intendeva scrivergli, dopo la partenza dei primi missionari della Consolata per il Kenya (1902), in un momento molto critico della sua esperienza di fondatore: «Veneratissimo Signore e fratello nel nostro caro Padre e Signore Gesù Crocifisso, facciamo una cosa sola la casa della Consolata per le sante missioni e questa povera baracca? Perché mi pare che questa cosa sarà una consolazione per la Madonna, e così alcuni buoni soggetti e qualche buon chierico desideroso di andare alle missioni, ci andrebbe per mano della Madonna, e così io starei anche più tranquillo ed essi sicuri di andare bene. Dunque, o mio buon fratello, vi prego di pregare un po’ davanti alla Madonna e se vi pare che questa cosa sia nei disegni…». Non è certo se l’Orione abbia spedito questa lettera e neppure se intendesse fare una proposta di fusione o di collaborazione tra i due istituti. Unica cosa sicura che emerge dalla minuta della lettera è l’apprezzamento di don Orione per il nostro fondatore.

Concludo con quanto scrisse don Carlo Pensa, secondo successore di don Orione, nel 1954, nella lettera postulatoria per la beatificazione di Allamano: «I documenti provano che il rifiorire dell’ideale missionario del nostro fondatore don Orione risale al periodo in cui egli poté avvicinare a lungo il can. Allamano». Non c’è dubbio che san Luigi Orione abbia ammirato lo spirito missionario del beato Allamano e che da esso abbia ricevuto un impulso per sé e per la sua congregazione.

padre Francesco Pavese*

(*) Domenica 3 maggio, padre Francesco Pavese ci ha lasciati per il Paradiso. Con la sua predicazione e i suoi scritti, per lunghi anni ci ha fatto conoscere e amare il beato Allamano. Dal cielo, assieme al nostro fondatore, ha promesso di benedirci tutti. E, come lui desiderava, cantiamo il Magnificat in ringraziamento al Signore per la sua vita consacrata al servizio dell’Istituto e della Chiesa intera.


Giuseppe Allamano: ha fatto della sua vita un dono

Il 14 febbraio 2020, nel secondo giorno del triduo in preparazione alla festa del beatoGiuseppe Allamano, Loredana Mondo, laica missionaria della Consolata, insegnante elementare,
ha offerto la sua testimonianza sul significato della presenza dell’Allamano nella sua vita.

Anni fa, quando ho conosciuto le missionarie e poi i missionari della Consolata, mi sono chiesta che cosa ci fosse in loro che mi attirava e, in modo forse un po’ semplicistico, mi sono risposta l’accoglienza ricevuta e il sentirmi «casa» con loro.

In realtà, in questi anni di cammino di condivisione del carisma, mi sono resa conto che quegli aspetti che inizialmente mi avevano colpito, avevano delle radici molto più profonde della semplice cortesia. Il conoscere e il cercare di approfondire l’origine di tutto ciò, mi ha portata a scoprire la figura di un uomo che, ricevuto un grande dono dallo Spirito, ha fatto della sua vita un dono per gli altri.

È difficile riuscire a dare una definizione su chi sia per me il beato Allamano poiché, come uomo di Dio, racchiude in sé un grande tesoro che in questi anni mi si è rivelato un po’ per volta e che scopro sempre di più ogni volta che ho occasione di leggere qualcosa su di lui o posso sentire testimonianze di chi lo ha conosciuto o di chi vive il suo carisma.

Ci sono tre aspetti che mi colpiscono in modo particolare:

  • – lo sguardo sempre fisso in Dio
  • – l’accoglienza della persona e la capacità di agire
  • – lo spirito di famiglia.

Per il fondatore, il rapporto con Dio, con la Parola e con la Consolata erano centrali nella sua vita: questa sua grande confidenza e certezza che la sua vita fosse costantemente accompagnata e che l’Eucarestia fosse il suo punto di partenza e di arrivo per ogni cosa, era ciò che dava la giusta dimensione ad ogni suo atteggiamento, ad ogni sua scelta.  La sua familiarità con la Consolata poi era tale da coinvolgere la Madre di Dio in ogni sua scelta, anche quelle apparentemente più insignificanti, proprio come un figlio fa con una madre.

È dal suo sguardo sempre fisso in Dio, dal suo sentirsi consolato che nasce l’urgenza di portare l’annuncio di Cristo Figlio missionario del Padre, fino agli estremi confini della terra, con quello zelo di prima qualità per la salvezza delle anime che, come dice lui «viene dall’amore di Dio e solo dall’amore di Dio».

L’accoglienza della persona e la capacità di agire

Il beato Allamano sapeva lasciare nella memoria e nel cuore di chi lo incontrava un segno: una parola, un consiglio, un gesto, un sorriso, uno sguardo. Sapeva essere attento alla persona in tutti i suoi aspetti, sia quelli materiali che quelli spirituali. La stessa delicatezza che voleva dai suoi missionari era la stessa con cui lui si rapportava con le persone sia che fossero semplici lavoratori, sia che fossero persone con incarichi importanti.

Sapeva guardare le persone con gli stessi occhi con cui lui si sentiva guardato da Dio.

Prima di prendere una decisione, di dare un consiglio, di iniziare un progetto, ponderava tutto seriamente. «In tutti i momenti più decisivi della sua vita…, la norma seguita era questa: riflettere, pregare, consultare e poi agire con illimitata fiducia nel divino aiuto» (Lorenzo Sales).

Lo spirito di famiglia

Questo è un aspetto al quale il fondatore teneva molto e per il quale ha spesso speso parole molto concrete perché una comunità che vive lo spirito di famiglia è testimone credibile di quello che annuncia.

Come cristiani e ancor più come missionari, siamo chiamati ad annunciare il Vangelo con la nostra vita anche attraverso quei piccoli gesti di carità che sono segno dell’attenzione all’altro nella sua unicità.

Come dice San Paolo, siamo chiamati a vivere, a comportarci in maniera degna della nostra vocazione, come consacrati e come laici, cercando di conservare l’unità nello spirito perché una sola è la speranza alla quale siamo stati chiamati, quella della nostra vocazione.

Tenere lo sguardo fisso in Dio, cercare sempre e solo la sua volontà, fare bene il bene senza rumore, l’attenzione particolare agli ultimi, sono alcuni degli aspetti che più mi colpiscono del carisma del fondatore e che cerco di vivere guardando all’esempio che lui mi ha dato con la sua vita.

Mi rendo sempre più conto che il mio lavoro di insegnante mi mette in una posizione in cui le relazioni umane sono predominanti e che in ogni situazione sono chiamata a dare una testimonianza coerente di ciò in cui credo. Non è sempre facile accogliere l’altro per ciò che è, ma il beato Allamano, come padre, mi insegna che attraverso quella premura e quell’attenzione verso l’altro posso rivelare l’amore di Dio.

In questo momento sento che il lavoro è la mia «terra di missione» principale, ma sento anche la necessità di vivere con uno sguardo attento alle realtà che a volte sembrano più lontane, ma che sono ormai sempre più vicine e interrogano il nostro stile di vita.

Loredana Mondo
(laica missionaria)




Sognando e annunciando

Inserto a cura di Sergio Frassetto |


Originale, poetica e… breve! Così si presenta l’Esortazione apostolica post sinodale «Querida Amazonia», che ci fa intravedere i quattro «sogni» di papa Francesco sull’amata Amazzonia. Leggendo e gustandone gli appassionati paragrafi, colpiscono alcune affermazioni che, pur rivolte ai popoli della grande foresta, insaporiscono – rinvigorendola – la vocazione missionaria di tutta la Chiesa.

Così, ad esempio: «Di fronte a tanti bisogni e tante angosce che gridano dal cuore dell’Amazzonia… come cristiani non rinunciamo alla proposta di fede, che abbiamo ricevuto dal Vangelo. Pur volendo impegnarci con tutti, fianco a fianco, non ci vergogniamo di Gesù Cristo. Per coloro che lo hanno incontrato, vivono nella sua amicizia e si identificano con il suo messaggio, è inevitabile parlare di Lui e portare agli altri la sua proposta di vita nuova» (n. 62).

Se diamo la nostra vita per gli altri, per la giustizia e la dignità che meritano, non possiamo nascondere ad essi che lo facciamo perché riconosciamo Cristo in loro e perché scopriamo l’immensa dignità concessa loro da Dio che li ama infinitamente. «Senza questo annuncio appassionato, ogni struttura ecclesiale diventerà un’altra Ong, e quindi non risponderemo alla richiesta di Gesù Cristo: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura”» (n. 64).

Il papa, poi, invita a non «bollare con troppa fretta come paganesimo o superstizione, alcune espressioni religiose che nascono spontaneamente dalla vita della gente».

Il beato Giuseppe Allamano lo aveva anticipato di «qualche anno», quando ai suoi primi missionari in Kenya, un po’ troppo zelanti a condannare danze e riti indigeni, scriveva: «Letto il diario, vedo che il missionario si scagliò contro i goma (balli)… Per carità, si vada adagio, come qui tra noi per il ballo, sebbene sia più cattivo. Dobbiamo dissimulare il male, perché è impossibile ora vincere la cosa e sarebbe di pregiudizio alla conversione il combatterlo di fronte».

Sarà proprio grazie all’inculturazione del Vangelo, fatta con rispetto e senza fretta, che «potranno nascere testimonianze di santità con volto amazzonico, che non siano copie di modelli da altri luoghi; santità fatta di incontro e dedizione, di contemplazione e di servizio, di solitudine accogliente e di vita comune, di gioiosa sobrietà e di lotta per la giustizia… Immaginiamo una santità dai lineamenti amazzonici, chiamata a interpellare la Chiesa universale» (n. 77).

Avanti, allora, su questa strada come cristiani, tanto più come missionari: sarebbe triste che i poveri e i dimenticati non ricevessero da noi «il grande annuncio salvifico, quel grido missionario che punta al cuore e dà senso a tutto il resto».

padre Giacomo Mazzotti


G. Allamano e G. Alberione

L’amicizia tra sacerdoti santi

Tra Giuseppe Allamano e Giacomo Alberione (1884-1971), il fondatore delle Famiglie Paoline, nonostante una differenza di 33 anni di età, sorse una buona intesa sacerdotale. Espressamente ne parla anche padre Candido Bona, missionario della Consolata e storico riconosciuto: «I suoi contatti con l’Allamano, di persona e per lettera, non si limitarono a casi sporadici, per quanto di particolare importanza, ma rivestirono il carattere di vera direzione, dalla quale attingeva lumi soprannaturali, conforto e direttive. La cosa desta ammirazione, se si tiene presente che l’Alberione risiedeva ad Alba e non a Torino».

Reciproca collaborazione. Probabilmente la collaborazione tra i due uomini di Dio si espresse soprattutto negli incoraggiamenti dell’Allamano all’Alberione per la fondazione della Pia Società di S. Paolo. Fu una collaborazione speciale, che dimostrò la stima e la fiducia reciproche. Non c’è dubbio che l’Allamano si fosse reso subito conto che il progetto dell’Alberione era una vera ispirazione che proveniva da Dio. Fu lo stesso Alberione, parlando in terza persona, a confidare come l’Allamano lo avesse incoraggiato fin dall’inizio. In una bella testimonianza inviata da Alba il 29 gennaio 1933, in vista della prima biografia che si stava scrivendo sull’Allamano, scrisse: «So di un sacerdote [non c’è dubbio che si tratti dell’Alberione stesso] che ricorse al can. Allamano prima di ritirarsi dalla santa opera di zelo a cui stava intento [in quel periodo era direttore spirituale del seminario], per consacrarsi ad altre opere cui un interno movimento di grazia sembrava invitarlo [cioè la comunicazione sociale attraverso la stampa]. L’Allamano sentì e pregò: poi rispose con poche, ma decisive parole. Il caso era difficilissimo, ma le prove di una ventina d’anni gli diedero del tutto ragione. Eppure, bisogna dire che in quel momento erano molti i pareri contrari». Questa testimonianza è confermata dallo stesso Alberione in un incontro con padre Giuseppe Caffaratto: «Lei è della Consolata, dell’Istituto del canonico Allamano. Io conservo sempre tanta riconoscenza al canonico Allamano perché agli inizi della mia congregazione, mentre quasi tutti i sacerdoti mi erano contrari e mi dicevano: “Pianta lì, con i tuoi giornali e la tua stampa!”, lui mi diceva: “Vai avanti, vai avanti!”. E mi fu di grande incoraggiamento».

Il pensiero dell’Allamano sull’Alberione.

Non si possiede documentazione scritta su questo punto, ma è facile intuire la stima dell’Allamano per l’Alberione dal fatto, come si è detto, che fu uno dei pochi a sostenerlo per la fondazione dei Paolini. Dai frequenti incontri a Torino, quando l’Alberione veniva appositamente da Alba per consultarlo, certamente l’Allamano si rese conto del valore di quel giovane sacerdote. Ecco perché lo sostenne sempre e lo incoraggiò, dandogli opportuni consigli. È lo stesso Alberione a rivelare quanto l’Allamano gli suggeriva.

Il pensiero dell’Alberione sull’Allamano.

Sulla stima che l’Alberione aveva per l’Allamano non ci sono dubbi. In un’omelia ai chierici ad Alba nell’autunno del 1924 disse: «Volete incontrare dei santi viventi? Andate a Torino e visitate il canonico Allamano e don Rinaldi; andate in Liguria e troverete padre Seteria; spingetevi in Sicilia e ancora potete incontrare il canonico Di Francia». Sapeva individuare i santi senza sbagliarsi.

Così inizia la testimonianza, citata sopra, del 29 gennaio 1933: «Stimavo e stimo come santo il can. Allamano; seguii il suo consiglio in momenti importanti e me ne trovo contento; anzi ai chierici io riporto spesso il suo esempio, nelle esortazioni e meditazioni».

L’Alberione si dilunga a riportare diverse espressioni dell’Allamano, da lui ascoltate, che lo hanno impressionato per la loro semplicità e concretezza.

Eccone alcune: «Diceva ad un giovane sacerdote: “Lavorare al confessionale, nella predicazione, nella scuola; ma prima riservare il tempo necessario per l’anima propria. Vi sono persone che si rendono inutili, per sé e per gli altri, col troppo fare per gli altri, trascurando se stessi; spesso mi vidi costretto a chiudere la stanza e non rispondere, e declinare inviti ad opere buone… per riservare il tempo per la preghiera, lo studio…”. Al superiore di un Istituto religioso diceva: “Se volete gli istituti religiosi fiorenti, fate una porticina per entrarvi, un portone per uscire; cioè assicuratevi bene della vocazione vera prima di accettare; quando poi non danno prove chiare, licenziate con coraggio”.

Era ammirabile il suo intuito e la sicurezza del suo giudizio; quando andavo da lui non mi lasciava finire di parlare, gli bastavano poche parole, rispondeva con semplicità, brevità e sicurezza tali che infondeva coraggio ad operare e pace di spirito. Avevo sempre l’impressione che in lui fosse qualche cosa di più che l’ordinario lume; tanto più che sempre vidi nella pratica essere stato buono il suo consiglio. Ciò parecchie volte si è ripetuto.

Lo osservavo con diligenza tutte le volte che ebbi occasione di avvicinarlo: ritenendo prezioso ogni momento che potessi vederlo: la sua presenza mi sembrava un libro parlante, una regola; mi pareva spargesse un po’ di quella grazia che certamente portava nel cuore, perché mi pareva che ogni suo atto, ogni sua parola, persino gli atteggiamenti e i movimenti più trascurabili fossero ispirati a quello spirito soprannaturale, tanto Egli viveva di fede e sempre padrone di tutto se stesso: parole, disposizioni, sensi, azioni.

Il can. Allamano parlava con semplicità; non si turbava se altri diceva diversamente e anche se il suo consiglio veniva messo da parte, lasciando la cura di tutto alla Provvidenza. Come parlava per motivo di carità, così per motivo di carità taceva: conservando l’indifferenza dei santi anche riguardo le cose più delicate, o che toccavano più direttamente la sua persona».

In data 4 marzo 1943, dieci anni dopo avere mandato la sua prima testimonianza, l’Alberione scrisse al postulatore della causa di beatificazione dell’Allamano che lo aveva nuovamente interpellato: «Ho ancora esaminato diligentemente l’attestazione scritta da me e data a suo tempo. Non ho da togliere o da aggiungere altro».

padre Francesco Pavese


Giuseppe Allamano: fedeltà e novità

Il 5 luglio 2019, la signora Emanuela Costamagna ha conseguito, a pieni voti, la Laurea magistrale presso l’Istituto superiore di scienze religiose di Torino, difendendo la tesi dal titolo: «Beato Giuseppe Allamano. Fedeltà e novità nel suo pensiero teologico e nella sua attività missionaria».

La prima parte di questo articolo è stata pubblicata su «Missioni Consolata» di gennaio. In questo numero ne pubblichiamo la seconda e ultima parte.

Il quarto capitolo è la «perla» della tesi sull’Allamano, scritta con passione dalla signora Emanuela Costamagna, e va considerato come una spinta in avanti.

L’autrice esamina dal punto di vista teologico alcuni degli aspetti più importanti individuati nei primi tre capitoli e fa emergere che l’Allamano può essere considerato «figlio del suo tempo» perché viveva appieno la visione teologica del suo periodo storico.

Tuttavia, pensando che il suo scopo era formare giovani uomini e donne che presto sarebbero stati inviati lontano con lo stesso spirito missionario, ha insistito su alcuni aspetti particolari portando delle sue originalità che potrebbero racchiudersi nelle sue stesse parole: «amare e farsi santi è la stessa cosa».

Alla fine della tesi c’è un’interessante conclusione. Ecco qualche tratto ripreso alla lettera: «Al termine del percorso che mi ha portato alla stesura di questa tesi, posso dire che, sebbene già conoscessi la figura del beato Allamano e alcuni missionari e suore della Consolata, ho avuto la possibilità di approfondirne il carisma e il pensiero.

Nel corso della tesi ho avuto modo di analizzare come maturò il suo carisma ricevuto dallo Spirito e quali novità introdusse con le sue riflessioni. Anzitutto si può constatare che l’Allamano fondava il suo pensiero su solide basi: da una parte il messaggio del Vangelo con il suo annuncio della salvezza portata da Cristo e del ruolo di corredentrice di Maria e dall’altra una importante attenzione al prossimo, mettendo insieme il comando di Cristo “andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni” (Mt 28, 19) con quello di “amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mt 22,38).

L’Allamano trasferì la sua grande attenzione per il prossimo nello spirito dei missionari. La sensibilità che richiedeva verso gli indigeni era molto particolare, portava avanti delle istanze che al suo tempo non erano sempre comprese da tutti. Sicuramente la fede che richiedeva doveva essere vissuta pienamente nella vita pratica attraverso le opere, perché era conscio che in missione una scuola, un ospedale, un orfanotrofio avrebbero fatto del bene agli indigeni e preparato la strada alla conversione. Ecco perché insisteva sulla necessità di elevare l’ambiente.

Anche la valorizzazione dei sacerdoti e dei catechisti locali, da lui fortemente sostenuta, ebbe come base la necessità di far crescere una Chiesa con pastori e collaboratori originari del luogo, il che è uno dei fini della missione e, oggi, di estrema attualità.

Come si è visto, l’Allamano pur non essendo un innovatore, sicuramente fece delle riflessioni e diede delle direttive ragguardevoli e talvolta coraggiose per il suo tempo e che, ancora oggi, costituiscono lo spirito dei membri dei due istituti. Iniziando da quel piccolo gruppo di due sacerdoti e due fratelli coadiutori partiti per il Kenya nel 1902, ora i missionari e le missionarie della Consolata operano in Europa, Africa, Asia ed America.

Ciò che ho potuto constatare, avendo anche visitato parecchie loro missioni in Africa e in America Latina ed avendo vissuto un anno e mezzo in una missione in Etiopia, è che lo spirito e gli insegnamenti che l’Allamano impartiva sono ancora attuali e seguiti».

L’autrice della tesi, oltre che per la serietà dello studio, va lodata per la stima e la fiducia nell’Allamano. Questa è la confidenza fatta al missionario cui si riferiva, all’inizio del lavoro: «La mia tesi sarà buona perché fatta con rispetto verso l’Allamano che a me ha dato tanto! Potevo avvicinarmi ad altri istituti, per andare in missione. Ma il mio cuore ha scelto la casa madre di corso Ferrucci e l’Allamano. Per cui glielo devo al caro Beato, e mi impegno a fare meglio che posso la tesi su di lui». Un particolare molto significativo: durante la discussione della tesi la signora Emanuela, ogni volta che nominava l’Allamano, lo chiamava sempre «Fondatore», manifestando, forse senza accorgersene, il suo sincero legame con lui.

Il piccolo gruppo che ha accompagnato la signora Emanuela durante la discussione era formato dal marito Fabio e due figlie (Elia,
il bimbo di un anno e mezzo è rimasto con i nonni), dai genitori, alcuni amici e missionari. Al termine della difesa, rientrati nella sala, si attendeva l’esito con curiosità, non disgiunta da comprensibile apprensione. Il presidente ha pronunciato queste parole:
«Il giudizio unanime della commissione
è che la tesi ha le seguenti qualità: accuratezza, profondità, ampiezza. Votazione: 30 lode!». L’applauso felice e fragoroso è scoppiato istantaneo. (Fine)




Santi nella “Casa comune”


Nel Sinodo per l’Amazzonia, celebrato lo scorso ottobre e i cui echi arrivano ancora fino a noi in questo inizio d’anno, la riflessione per la preghiera di lunedì 14 ottobre, è stata proposta dall’arcivescovo di Florencia (Colombia), mons. Omar de Jesús Mejía, sul tema: «La nostra missione: essere santi».

All’inizio del suo discorso, il vescovo ha ricordato che, il 3 ottobre, visitando la tomba del beato Giuseppe Allamano, a Torino, era rimasto colpito dalla scritta: «Prima santi e poi missionari». Rientrato a Roma, era poi stato invitato a commentare la Parola di Dio: «Sii santo per me, perché Io sono santo, sono il Signore, che ti ha separato dagli altri per essere mio» (Lv 20, 26).

In quel contesto di preghiera sinodale, Mejía ha spiegato: «Siamo qui, perché vogliamo discernere l’attività missionaria della Chiesa, in Amazzonia. Chiediamo la forza dall’alto per capire che, senza la grazia di Dio, ciò che facciamo sarà inutile o innocuo, mentre la grazia è sempre edificante e salutare. Dio ci ha scelti per essere qui, in questo “momento vitale”, per essere luce e speranza oggi, in Amazzonia e, da lì, nel mondo. Come chiesa missionaria, siamo in Amazzonia non a scopo di lucro, né per devastarla e goderne le ricchezze, ma per condurre lo stile di vita di Gesù, per “guarire i cuori affranti”. È normale essere criticati, perché molte persone non capiscono la nostra missione. Come persone consacrate dobbiamo essere la terra di Dio e questo ci insegna a rifiutare la vita senza Dio. Come missionari, dobbiamo compiere la nostra opera con un senso di eternità. Non lavoriamo, non ci stanchiamo, non diamo la nostra intelligenza e volontà a Dio per essere applauditi, ma per la cura della “casa comune”, l’Amazzonia, e come “servitori inutili”. Alla Beata Vergine Maria, Madre della Speranza – ha concluso l’arcivescovo – affidiamo questa nuova settimana di discernimento nel Sinodo e ricordando: “Prima santi e poi missionari”» (Beato Giuseppe Allamano).

Che bello è stato sentir risuonare, nella variegata e poliglotta assemblea sinodale, il nome e le parole più caratteristiche del nostro beato fondatore, ricordate da un vescovo dell’Amazzonia, amico dei missionari della Consolata. Parole di augurio e di speranza, per questo anno di grazia che abbiamo appena iniziato…

Padre Giacomo Mazzotti


G. Allamano e L. Murialdo:

l’amicizia tra sacerdoti santi

L’Allamano ebbe la fortuna di vivere in un periodo in cui, nella diocesi di Torino e in altre del Piemonte, fiorirono diversi sacerdoti dei quali oggi la Chiesa  riconosce ufficialmente la santità con l’onore degli altari o la cui causa di beatificazione è già avanzata.

L’Allamano ebbe contatti, a volte vera amicizia, con molti di loro ed è interessante constatare che tutti, senza eccezione, dimostrarono una profonda stima per l’Allamano, riconoscendo in lui un vero uomo di Dio.

Stessa profonda stima era ricambiata dall’Allamano per ognuno di essi. Qualcuno disse che i santi riescono a individuarsi anche da lontano, ed è vero.

In questa rubrica, durante il 2020, riporto i giudizi o i gesti di apprezzamento reciproci tra l’Allamano e alcuni santi sacerdoti.

Leonardo Murialdo

Inizio questa carrellata con San Leonardo Murialdo (1828-1900), fondatore dei Giuseppini. Tra lui e l’Allamano c’era una buona conoscenza come pure una sincera stima, nonostante la differenza di 23 anni di età. Qualche biografo del Murialdo pone l’Allamano addirittura nell’elenco dei suoi «amici».

Il pensiero dell’Allamano sul Murialdo

Durante il Congresso Mariano (8-12 settembre 1898), celebrato a Torino, erano presenti e attivi sia il Murialdo che l’Allamano. Fa piacere sapere che, per alcuni giorni, questi due uomini di Dio, abbiano lavorato assieme per promuovere il culto di Maria SS. Forse di lì iniziò una più profonda conoscenza e un certo rapporto di stima tra i due.

Non c’è dubbio che l’Allamano ritenesse il Murialdo un santo. Ciò risulta soprattutto dal fatto che fu lui a incoraggiare i Giuseppini a iniziare la causa canonica per la beatificazione del loro fondatore, come attesta il suo secondo successore don Eugenio Reffo: «Il canonico Giuseppe Allamano confortando alcuni dei nostri confratelli nella dolorosissima perdita, espresse un suo intimo pensiero, che al teologo Murialdo si sarebbe col tempo fatto il processo ed esortò a raccogliere con diligenza tutte le memorie che si possono avere di lui, compendiando in una sola frase il suo elogio, con dire di lui quello che si disse di don Giuseppe Cafasso: era uomo straordinario nell’ordinario».

Nella prima sessione del Capitolo generale del 1906, lo stesso don Reffo, dopo avere affermato che la tomba del Murialdo era visitata dai Giuseppini, aggiunse: «Ci andarono una volta i missionari della Consolata, e ricordo con filiale orgoglio che quel venerando uomo che è il canonico Giuseppe Allamano disse a quel prode drappello di apostoli: “Un giorno questa salma uscirà da questa tomba per essere venerata!”».

Nelle sue memorie autobiografiche, don Reffo illustrò meglio l’esortazione dell’Allamano per iniziare la causa del Murialdo: «Me ne spiegò il modo, le pratiche da farsi, la facilità dell’impresa, e tanto seppe dire e farmi premure, che io compresi essere ormai volontà di Dio che ci mettessimo all’opera, e subito, tornato a casa, ne parlai col mio superiore don Giulio Costantino, che aderì pienamente, e acconsentì che si muovessero le prime pedine».

Il pensiero del Murialdo sull’Allamano

Non c’è dubbio che anche il Murialdo abbia molto apprezzato l’Allamano. Lo dimostrano alcune sue parole pronunciate in situazioni particolari. Anzitutto riguardo il giornale diocesano, che sorse a Torino nel 1876, intitolato «Unioni Operaie Cattoliche» per iniziativa di un gruppo di laici, sostenuti dal teologo Leonardo Murialdo, che di questioni operaie era molto esperto. Il giornale doveva essere il collegamento delle varie Unioni operaie cattoliche, ed essere non solo per gli operai, ma anche redatto da un operaio. Questo redattore fu il sig. Domenico Giraud (1846-1901), cattolico fervente, che era segretario della conceria del sig. Pietro De Luca. Con il tempo, però, il Giraud non fu più in grado di impegnarsi nel giornale, soprattutto per il lavoro pressante come segretario della conceria. Quando il Giraud sembrava deciso a chiudere, il Murialdo, secondo il suo biografo Armando Castellani, prima lo incoraggiò e, in seguito, come sotto una particolare ispirazione, si aggrappò ad un’ancora di salvataggio dicendo: «Perché non sentire il consiglio del canonico Allamano?». Lo stesso Castellani ne spiega così la ragione: «Era l’Allamano, rettore del santuario della Consolata, un fervido sostenitore della buona stampa, delle Associazioni operaie cattoliche. Egli godeva della più alta stima tra i cattolici torinesi», concludendo: «L’intervento dell’Allamano e l’interesse continuo e vigilante del Murialdo salvarono “in extremis” il giornale».

Questo provvidenziale intervento dell’Allamano fu così spiegato dal can. Giuseppe Cappella suo stretto collaboratore al santuario della Consolata: «Al fondatore del giornale sig. Giraud, che nel mese di novembre (1889) gli annunciava di dover egli sospendere la pubblicazione del giornale, perché soverchiamente occupato nella direzione della Conceria De Luca, l’Allamano disse di ripassare la sera del sabato seguente. Ritornò infatti il Sig. Giraud. L’Allamano intanto aveva dato convegno anche al sig. Giacomo De Luca, e quando li ebbe tutti e due insieme, disse al proprietario: “Qui il sig. Giraud si lamenta di dover cessare la pubblicazione del giornale, perché troppo occupato nella conceria; faccia così: metta un segretario per la conceria che lo aiuti nelle sue mansioni, e il sig. Giraud pubblicherà il giornale, invece che ogni quindici giorni, ogni settimana”. E così fu fatto». Il Murialdo non si sbagliò suggerendo di ricorrere all’Allamano.

padre Francesco Pavese


Giuseppe Allamano:

fedeltà e novità

Il 5 luglio 2019, la signora Emanuela Costamagna ha conseguito, a pieni voti, la Laurea magistrale presso l’Istituto superiore di scienze religiose di Torino, difendendo la tesi dal titolo: «Beato Giuseppe Allamano. Fedeltà e novità nel suo pensiero teologico e nella sua attività missionaria».

Di tesi sull’Allamano l’istituto ne possiede molte fatte da missionari o missionarie della Consolata. Questa è la prima e, per ora, l’unica presentata da una persona laica. Per di più, da una mamma che, all’inizio del lavoro della tesi, era in attesa del terzo figlio. Tenuto conto di tutto ciò, la tesi assume un significato particolare.

Per comprendere il motivo che ha spinto la signora Emanuela ad affrontare un tema di questo genere, basta ascoltare come lei stessa si è presentata alla commissione dei professori il giorno della difesa: «Questo elaborato è nato da un mio forte desiderio, coltivato negli anni, per la missione “universale”. Già nell’elaborato per la tesi triennale avevo sviluppato questo tema, concentrandomi su un piccolo aspetto del pensiero del beato Giuseppe Allamano.

Questo vivo interesse per la missione è nato in giovane età e mi ha portato a vivere esperienze nelle missioni dei missionari della Consolata. La più lunga è durata un anno e mezzo ed è stata vissuta con mio marito presso la missione di Gambo, in Etiopia, dove abbiamo avuto la gioia di vivere al fianco dei missionari e delle suore e condividere lo spirito del fondatore, sentendoci come in famiglia.

Lo scopo della mia tesi magistrale è stato provare ad analizzare come si è formato il carisma dell’Allamano e il suo pensiero teologico missionario, da quali fonti può aver attinto, a chi si è ispirato, in che modo le sue idee siano state influenzate dal contesto storico sociale da lui vissuto e in particolare come le sue idee siano state trasmesse ai suoi missionari. Questo tipo di studio non è stato ancora effettuato nell’istituto per cui rappresenta un po’ una novità.

«Non ho analizzato lo sviluppo storico del suo pensiero, ma identificato e affrontato alcune tematiche per lui importanti. Per poter fare questa attività, ho preferito utilizzare e valorizzare principalmente le fonti primarie: le conferenze ai missionari e alle suore missionarie, che sono durate dall’inizio della fondazione dei due istituti fino alla sua morte; quelle ai sacerdoti convittori, le lettere che inviava e riceveva dalle missioni e i diari che i missionari erano tenuti a scrivere e consegnare all’Allamano. Sicuramente la possibilità di utilizzare le fonti primarie mi ha permesso di andare al cuore del suo pensiero, di poter lavorare direttamente sulle sue parole, cosa che non sarebbe stato possibile utilizzando fonti secondarie, anche se non sono mancate».

La tesi, dopo l’introduzione, è divisa in quattro capitoli. Nel primo è analizzato il rapporto dell’Allamano con il magistero della Chiesa, sia con i sommi pontefici che con i suoi vescovi. Rapporto di comunione, fedeltà e obbedienza. Questa parte è stata fondamentale per conoscere la personalità dell’Allamano.

Il secondo capitolo sposta lo sguardo verso l’apertura dell’Allamano all’universalità della salvezza. Come la vita di un sacerdote diocesano, vissuto sempre all’ombra del santuario della Consolata, sia stato capace di guardare al di là dei confini della propria diocesi. Si è potuto analizzare quali fossero i punti fermi dell’Allamano sulla missione: l’annuncio del Vangelo, la formazione di chiese locali, e la promozione umana, in vista della salvezza delle anime.

Nel terzo capitolo viene precisata l’identità dei missionari secondo l’Allamano, esaminando e dando una risposta a domande come queste: qual era il suo pensiero sulla vocazione sacerdotale e vocazione missionaria? Perché considerava la vocazione missionaria come “la migliore?”. C’erano differenze tra la vocazione missionaria dei sacerdoti, delle suore, dei fratelli coadiutori? Quale identità missionaria voleva trasmettere? E come la trasmetteva? Perché dava un senso mariano all’evangelizzazione? Qual era la sua idea di santità per un missionario?

Nei primi tre capitoli, fondamentali per inquadrare storicamente e analizzare bene il suo pensiero, è anche effettuata una prima analisi teologica, ma è poi nel quarto capitolo che, sulla base dei primi tre, sono considerati alcuni degli aspetti più importanti e si sono esaminati dal punto di vista teologico. Ne emerge che l’Allamano può essere considerato «figlio del suo tempo» perché egli viveva appieno la visione teologica del suo periodo storico. Ha portato sicuramente delle sue originalità, ha insistito su alcuni particolari aspetti, pensando che il suo scopo fosse formare giovani uomini e donne che presto sarebbero stati inviati lontano con lo stesso spirito missionario. Il suo pensiero si potrebbe racchiudere nelle sue stesse parole: «Amare e farsi santi è la stessa cosa».

Fine della prima parte


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Il sapore dell’amore di Dio


L’inserto di questo numero è completamente dedicato alla cara memoria di padre Gottardo Pasqualetti, scomparso il 20 ottobre scorso, postulatore delle cause di beatificazione di Giuseppe Allamano e Irene Stefani. È un piccolo segno di gratitudine a un missionario che, con Sapienza e passione, ha arricchito la nostra conoscenza e il nostro amore per il nostro beato fondatore. Come abbiamo fatto già altre volte in passato, anche in questo numero ospitiamo alcune
sue parole.

Il sapore dell’amore di Dio

Per Giuseppe Allamano, la dolcezza e la mansuetudine sono virtù indispensabili per tutti coloro che devono trattare con il prossimo; e vi ritorna spesso nelle sue lettere ed esortazioni ai missionari e missionarie. Così, tra i ricordi ai partenti, raccomandava sempre la «mansuetudine», unica virtù di cui Gesù dice specificamente di imitarlo, invitando a farne un proposito da rinnovare ogni mattina. Per lui, la dolcezza e la mansuetudine sono indispensabili per tutti coloro che operano con la gente, soprattutto con i poveri, i piccoli, i «diversi». Questo ha poi una ricaduta nell’attività apostolica, perché quella del missionario è una spiritualità di presenza, con rapporti personali e attenzione all’altro, in totale disponibilità e spirito di condivisione.

Alle missionarie diceva che dovevano avere «un cuore largo verso i fratelli», «cuore magnanimo per ogni miseria umana», «cuore pieno di amore per Dio». Ad alcune, in partenza per l’Africa, raccomandava: «Lasciate il sapore dell’amore di Dio dovunque andrete, ma ancor più del prossimo».

È anche una delle caratteristiche della beata suor Irene, e mirabile è la sua dedizione caritatevole verso tutti, soprattutto i più bisognosi, dedicandosi agli altri con affetto materno, con bei modi, rispetto, delicatezza, dolcezza e affabilità, senza fare distinzioni.

I missionari e missionarie cresciuti a fianco dell’Allamano, hanno conservato scolpito nel cuore il suo ricordo, perché avevano viva coscienza di aver trovato in lui «un vero padre, tutto amore per i figli», «un amato, amatissimo padre», così da avere per lui stima, confidenza piena, totale apertura di cuore, fiducia incondizionata, ritenendo la sua parola espressione della volontà di Dio.

Ma per riassumere «in pillole» tutto ciò, occorre ricordare almeno tre must (come si chiamerebbero oggi), da lui indicati: «Sincerità e confidenza; dolcezza e bontà; contatti personali». Mentre per l’impegno personale di ognuno, vi è un’altra sintesi, stilata da suor Irene: «Spirito di carità operosa, di pietà e di dolcezza. Ecco tutto!».

Un tutto che è il «nostro distintivo», «lo stampo».

padre Gottardo Pasqualetti


«Speciale, frizzante, libero»

Aveva 84 anni, padre Gottardo Pasqualetti, quando ci ha lasciati, il 20 ottobre scorso. Diventato missionario della Consolata con la prima professione religiosa nel 1957, fu ordinato sacerdote il 22 dicembre 1962.

Realizzò la sua vocazione missionaria sempre in Italia e quasi sempre a Roma, dove fu membro della Congregazione vaticana per il Culto Divino, insegnante di liturgia, per 40 anni, alla pontificia Università urbaniana, segretario generale dell’Istituto, formatore e superiore delle nostre comunità in Italia.

Ma fu soprattutto postulatore per le cause di beatificazione di Giuseppe Allamano e Irene Stefani.

La sua vita e il suo intenso lavoro lasciano una traccia profonda nella comprensione del carisma missionario dei nostri due Istituti, con un dilatarsi di «conoscenza e riconoscenza» verso colui che ci è padre e maestro di vita.

Frammenti di una vita

Prof. Erich Schmid,
decano della Facoltà di Teologia

Roma, 1° maggio 1992Reverendissimo Superiore Generale, sto cercando un nuovo docente per la liturgia latina. Avendo scoperto che p. Gottardo Pasqualetti, membro del Suo benemerito istituto missionario, ha le qualifiche necessarie per poter insegnare in una facoltà teologica S. Liturgia, vorrei oggi rivolgermi fiduciosamente a Lei e chiederLe di aiutarci, permettendo al suddetto padre di far parte del corpo docente della nostra facoltà. Siccome padre Pasqualetti ha studiato alla Puu e sta già insegnando nel Corso di aggiornamento alla medesima università, e conosce quindi già bene il nostro ambiente «urbaniano» che accoglie studenti da tutte le parti del mondo, ed essendo membro di un Istituto missionario, il Rettore magnifico, p. Daniele Acharuparambil, e il sottoscritto lo riterrebbero proprio adatto per tale incarico…


padre Gottardo Pasqualetti

Carissimi missionari della Regione Italia, giunto al termine del mio mandato, pensavo di chiudere in silenzio, cosa che più si avvicina all’atteggiamento di Maria. Ma da Lei apprendo pure che occorre avere cuore riconoscente. Ed è uno dei sentimenti che mi accompagnano in questi giorni. Con semplicità, ma sincerità, desidero esprimere il mio ringraziamento. Anzitutto, per l’accoglienza.

Sono venuto nella Regione nove anni fa, in modo assolutamente inaspettato e per me sorprendente, senza conoscere direttamente la situazione, e forse con qualche preconcetto e, pure per questo, con tremore. Ho incontrato subito una fiducia che mi ha rincuorato e continuo a conservarne un grato ricordo, anche se soltanto ora lo esprimo.

Il contatto più diretto con la realtà viva dell’Istituto ha fatto crescere in me la convinzione sul valore e l’attualità dei principi ispiratori e degli insegnamenti del nostro Padre Allamano. Capisco quanto sia pertinente la sua intuizione carismatica di un Istituto che abbia per principio la «unità di intenti» e quanto sia vero che si lavora invano se si va per conto proprio, costruendo sé stessi, più che un progetto di Istituto e di Missione. È il mio augurio e la mia preghiera.


Alessandro e Orazio
(parrocchia di Onigo -Tv) per i 40 anni di vita sacerdotale

Nell’itinerario della vita di padre Gottardo, emerge con forza e da sempre la sua grinta gioviale, vivace, profonda e intensa… Il suo pensiero teologico e pastorale ha la profondità e la ricchezza dei grandi Padri. Professore di materie liturgiche nelle facoltà pontificie di Roma, non ha fatto di questa sapienza l’unico centro di una vita, ma ha saputo andare oltre, immergendosi nelle più svariate competenze di pastore, superiore, formatore, postulatore con la propria famiglia religiosa e non solo; senza mai staccarsi dall’impegno e nella donazione verso i fratelli con una solida e costante preghiera. Con tutto questo sa costruire il braccio orizzontale della sua croce nel servizio missionario, quel saper fare organizzativo che serve a fare il bene… bene! Come il suo maestro il beato Giuseppe Allamano ha tramandato.

La capacità di p. Gottardo è quella di saper dosare e usare con particolare armonia ed equilibrio voluminosi libri, calici preziosi, preghiere profonde, uniti ad una capacità insolita di ascoltare e farsi ascoltare, con la saggezza di un «vero maestro di vita». Questo modo di essere lo rende un personaggio speciale, frizzante, libero, con la battuta sempre pronta e soprattutto sempre disponibile in ogni emergenza, sapendo donare fiducia e facendo aumentare la speranza nell’ambiente in cui si trova, in un vero abbandono alla grazia e alla volontà di Dio, senza riserve.

Auguri P. Gottardo, ti siamo tutti vicini con il cuore e la preghiera.


padre Piero Demaria
(ai funerali del 23 ottobre 2020)

Nel ricordo, nel pensiero, nell’affetto, chi è già partito per l’aldilà continua a vivere. Mi dicevano che p. Gottardo, quando celebrava qui, nel suo paese, la sua voce tuonava in chiesa ed era bello ascoltarlo, perché sapeva andare all’essenziale. Il nostro fondatore era solito dire, parlando ai giovani in formazione, battendo quattro dita sulla fronte: «datemi questo!». I più lo interpretavano come: «Datemi la vostra volontà e accettate l’obbedienza», ma qualcuno, più acuto, interpretava quel gesto come: «Datemi la vostra intelligenza, cioè mettete la vostra testa a servizio della missione, non usatela per diventare ricchi e potenti, ma mettetela a servizio dei popoli del mondo»… E questo, p. Gottardo lo ha fatto. È stato un grande missionario perché ha saputo amare le persone e il suo lavoro. Normalmente, siamo abituati ad associare alla parola «missione» la partenza per terre lontane, la condivisione della vita con i popoli; p. Gottardo è vissuto quasi sempre in Italia; eppure la sua attività, la sua passione, il suo insegnamento hanno lasciato un segno. Giovane studente all’università Urbaniana, era stato chiamato per lavorare alla riforma liturgica, dopo il Concilio, e aveva sostenuto la necessità di tradurre i testi liturgici, in modo che la gente potesse ascoltare il Vangelo nella propria lingua. Ma tutto ciò non era scontato, anzi, molti si erano anche opposti, eppure, p. Gottardo e gli altri che lavoravano con lui sono andati avanti, senza paura. Per 40 anni ha insegnato all’università Urbaniana a studenti provenienti dai cinque Continenti. Con il suo impegno, senza lasciare l’Italia, ha fatto del bene a tutti…

«Influencer» di santità

E così, anche padre Gottardo Pasqualetti ci ha lasciati improvvisamente in questo infelice tempo del coronavirus che ci aveva portato via, pochi mesi fa, un altro «esperto» dell’Allamano, padre Francesco Pavese (che abbiamo salutato proprio da queste pagine). Se ne è andato in punta di piedi, lasciando col cuore gonfio di tristezza la famiglia dei missionari e missionarie della Consolata, che ne rimpiangono l’intensa vita, tutta dedicata alla Liturgia e all’insegnamento, ma soprattutto alla postulazione della causa del nostro padre fondatore e della nostra sorella Irene Stefani.

E, avendo celebrato, proprio il 7 ottobre scorso, il trentesimo anniversario della beatificazione dell’Allamano, sfogliando l’album di quella festa di famiglia del 1990, non possiamo, ora, non soffermarci, con nostalgia, su una immagine nella quale padre Gottardo, proprio in veste di postulatore, salutava e ringraziava, a nome nostro, il santo papa Giovanni Paolo II.

Postulatore, o meglio, «Influencer»

Brillante nella sua intelligenza, padre Pasqualetti (Dino, per gli amici) era riuscito a svolgere numerosi e importanti incarichi di responsabilità, che sembravano ritagliati su misura proprio per lui; incarichi che lui caratterizzò con la sua straordinaria capacità di lavoro e da doti non comuni: professore di vasta e profonda cultura liturgica; oratore capace di incantare con la sua travolgente parola; «segretario» o presidente di assemblee, che riusciva a disincagliare dalle secche della discussione con la sua capacità di sintesi, «colorata» da un’ironia furba e mirata; missionario (ahimè, solo in patria) dallo sguardo lungimirante e realista al tempo stesso…

Doti e doni profusi soprattutto nel suo incarico di «Postulatore generale», anche se pochi, forse, sanno chi sia e cosa faccia un postulatore. Per usare, allora, un termine più alla moda (in inglese, come sempre!), potremmo definire padre Pasqualetti come «Influencer» (!), cioè «un professionista dotato di carisma, autorevolezza, competenza, capace di “influenzare” e convincere il suo pubblico» (così si legge nel dizionario delle «nuove professioni»). Per capirci: il giovane Carlo Acutis, beatificato pochi mesi fa, ad Assisi, è stato definito, in alcuni titoli di giornale, «L’influencer di Dio».

E chi, meglio di padre Pasqualetti, con tutto il suo bagaglio di straordinarie doti potrebbe essere ricordato come «influencer di santità»? Colui che ha saputo «scaldare il cuore» di tanti, in un settore di cui era diventato specialista: quello della santità, o meglio, di «santi e beati» concreti, come l’Allamano, Irene Stefani, o gli altri quattro «servi di Dio», candidati alla gloria degli altari e di cui seguiva la causa.

Trasformato… dai santi

Fu, dunque, postulatore in due differenti periodi (1989-2002 e 2014-2016), quando riuscì a offrire ai missionari e missionarie della Consolata l’immensa gioia della beatificazione del loro fondatore, che egli non solo ammirava con amore appassionato, ma di cui aveva talmente assorbito le sfumature di santità, da saperle trasfondere agli altri, raccontando e scrivendo di lui in mille modi e nelle occasioni più diverse. Un discepolo, trasformato e arricchito dalla frequentazione quotidiana di colui che aveva scelto come maestro e padre.

La stessa cosa avvenne con l’avvicinamento, la scoperta e lo studio di suor Irene Stefani (beatificata in Kenya, il 23 maggio 2015), come ci ha raccontato madre Simona, superiora generale delle missionarie della Consolata, alla notizia della scomparsa di padre Pasqualetti: «Aveva svolto questo compito di postulatore non solo con competenza, precisione, attenzione, costanza e dedizione, ma con vero amore, passione e tanta, tanta fraternità. Ha aiutato i due istituti a riscoprire e valorizzare la figura di Irene e l’espressione del nostro carisma in lei, con tratti così propri e originali. Ha non solo studiato Irene, ma ha camminato con lei, l’ha incontrata e da lei si è lasciato trasformare. Era evidente la relazione di autentica prossimità tra padre Pasqualetti e suor Irene: quando lui la nominava, si illuminava, si appassionava e non avrebbe mai finito di parlarne. La fede, la tenacia, la convinzione di padre Pasqualetti hanno contribuito grandemente e in modo decisivo al riconoscimento sia delle virtù eroiche della beata Irene, sia dell’autenticità del miracolo di Nipepe, che ha aperto la porta alla sua beatificazione. Lo abbiamo visto, padre Pasqualetti, durante la beatificazione, a Nyeri: felice, radioso, commosso, grato… contagiava gioia a chi lo incontrava!

Quando già la malattia faceva sentire i suoi effetti, ricordo un incontro con lui in Casa generalizia Imc a Roma: al nominargli suor Irene, padre Gottardo si animava tutto, cominciava a parlarne, a ricordarne le parole, i gesti, l’evento della beatificazione… e lo faceva con viva partecipazione e gioia: Irene era nel suo cuore e lui, certamente, nel cuore di Irene!».

Il traguardo

È bello, allora, continuare a ricordare padre Pasqualetti che, affascinato dalla santità di Giuseppe Allamano e di suor Irene, ne fu così trasformato, da diventarne un vero influencer, presentandoli come un grande dono che Dio ha fatto alla sua Chiesa, alla missione e ai popoli del mondo.

E ora che i suoi occhi hanno cominciato a scoprire, senza più bisogno di meticolose ricerche o processi canonici, il volto sorridente dell’Allamano, non mancherà, senz’altro, di chiedergli una piccola spinta, «un aiutino», perché dalla «penultima tappa» del suo lungo e sofferto cammino verso la santità, possiamo presto arrivare all’ultima, al traguardo, perché lui, il nostro amato Fondatore, possa entrare nella gloria (ufficialmente riconosciuta) dei santi del cielo.

padre Giacomo Mazzotti

 




La Chiesa sul divano

Testi di Giacomo Mazzotti e Francesco Pavese, a cura di Sergio Frassetto |


È stata una fortuna (oltre che una grande gioia) per i missionari e missionarie di fondazione italiana, poter iniziare il mese di ottobre incoraggiati da papa Francesco che ha voluto incontrarli e parlare loro a cuore aperto, alla vigilia del «mese missionario straordinario». Con la schiettezza e la sobrietà di stile che lo caratterizzano, ha lasciato loro alcune «perle» che vogliamo condividere con chi ha in cuore passione e «fuoco» missionario (come diceva l’Allamano).

Ci ha colpito non poco la sua descrizione del missionario come di uno che «vive il coraggio del Vangelo senza troppi calcoli, andando anche oltre il buon senso comune, perché spinto dalla fiducia riposta esclusivamente in Gesù». Ma anche il papa è stato colpito nel sentire i missionari, nel loro saluto, ribadire senza tentennamenti: «Siamo missionari ad gentes… ad extra… ad vitam!». «Questo – ha commentato il pontefice – non lo dite come uno slogan, […] ma nella consapevolezza della crisi attuale, accolta come opportunità di discernimento, di conversione, di rinnovamento».

«La gioia del Vangelo» è una delle espressioni più care al papa, che è riuscito a infilarla in una sua «pillola» di metodologia missionaria: «Con la vostra partenza, voi continuate a dire: con Cristo non esistono noia, stanchezza e tristezza, perché Lui è la novità continua del nostro vivere. Al missionario serve la gioia del Vangelo: senza questa non si fa missione, si annuncia un vangelo che non attrae… Anche la Chiesa italiana ha bisogno di voi, della vostra testimonianza, del vostro entusiasmo e del vostro coraggio nel percorrere strade nuove per annunciare il Vangelo – ci sentiamo un po’ imbarazzati nel riportare queste parole, ma… le ha dette proprio il papa – perché la Chiesa esiste in cammino; sul divano non c’è, la Chiesa».

Last, but not least, nel suo discorso, papa Francesco ha dato spazio anche alla gratitudine verso chi ha dato vita agli istituti missionari italiani: «Prima di tutto sento il bisogno di esprimere riconoscenza ai vostri fondatori. In un’epoca storica travagliata, la fondazione delle vostre famiglie religiose, con la loro generosa apertura al mondo, è stata un segno di coraggio e di fiducia nel Signore. Quando tutto sembrava portare a conservare l’esistente, i vostri fondatori, al contrario, sono stati protagonisti di un nuovo slancio verso l’altro e il lontano; dalla conservazione, allo slancio».

E mentre queste parole risuonavano nella splendida sala Clementina, in Vaticano, beh, un fremito di commozione ha attraversato il cuore dei missionari e missionarie della Consolata presenti, facendo affiorare sulle loro labbra il nome del loro beato padre fondatore…

P. Giacomo Mazzotti


Al tramonto

Durante l’ultima malattia l’Allamano era assistito dalle suore missionarie infermiere. Il suo più grande desiderio era di celebrare ogni giorno la santa messa. Un giorno, alla suora di turno disse con tono implorante: «Prega perché possa celebrare la santa messa fino all’ultimo». E al dott. Battistini che gli aveva proibito di alzarsi: «Professore si ricordi che lei ha già sulla coscienza tre messe da me non celebrate». Ed alla suora che gli faceva notare che però aveva fatto la comunione: «Sì, è vero; ma tu non sai che cos’è celebrare una messa!».

Sul fatto di non potere celebrare la messa ritornò più volte: «Sono sacrifici questi tanto grandi, che non ho mai compiuti in vita mia». «Se comprendeste che cosa significa una santa messa in più!». «Ah! La comunione è una gran cosa, ma quale sacrificio per me, non poter celebrare la messa!».

La volontà di Dio prima di tutto

Un giorno la suora che lo assisteva si era assentata per il pranzo. Appena tornata ebbe l’impressione che l’Allamano si fosse aggravato ed esclamò allarmata: «Padre, lei mi muore». Con tranquillità egli rispose: «E tu prega perché si compia la volontà di Dio».

Negli ultimi tempi, avendogli il professore proibito il vino, intervenne tranquillamente con il dott. Battistini che cercava di rimediare: «Lasciamo, signor dottore, che la scienza applichi i suoi ritrovati; io avrò occasione di fare una piccola mortificazione, applicandoci alla sorella acqua, come la chiamava San Francesco d’Assisi, e a un poco di latte annacquato, e così ne sarà glorificato il Signore che ce ne ripagherà largamente nell’ultima cena».

Pochi giorni prima di morire, fece notare ai sacerdoti della Consolata: «Nell’altra malattia [quella del 1900] vi siete preoccupati di farmi ricevere i santi sacramenti, mentre io mi sentivo perfettamente tranquillo; in questa invece, sono io che mi preoccupo di ricevere i conforti religiosi, perché mi sento che mi avvio al termine». Fu subito accontentato con una solenne celebrazione.

L’Allamano fu ardente apostolo fino alla fine. Poche ore prima di entrare in agonia, a suor Paola Rossi che lo assisteva negli ultimi giorni e che era stata da lui incaricata a preparare al battesimo una giovane di 18 anni, con un fil di voce disse: «Mi raccomando quella ragazza!».

Diario degli ultimi giorni

Questa suora infermiera ebbe un’idea intelligente e molto utile: redasse un diario essenziale, datato 20 febbraio 1926, che inizia il 31 gennaio e termina il 16 febbraio. In questo diario descrisse in breve lo stato di salute dell’Allamano: i miglioramenti, i peggioramenti, le visite dei dottori e di tante altre persone. Riferì anche alcune parole che l’Allamano pronunciò nelle diverse situazioni. Ne riporto alcune qui di seguito, con le rispettive date, ma senza fare commenti.

  • Notte tra 8-9 febbraio, alla suora che gli porgeva da bere: «Non ho mai fatto sacrifici così grossi: non celebrare la messa e fare la comunione non digiuno… ma, tra poco diremo la messa eterna».
  • 11 febbraio, alla suora che gli domandava che cosa facesse: «Prego per te e per tutti voi, non posso far altro; e questa è la mia occupazione continua».
  • Notte tra l’11-12 febbraio, alla suora che voleva chiamare l’infermiera per porgergli qualche calmante: «No, aspetta fino alla sveglia delle 5, chissà quanti soffrono questi dolori… non solo io!».
  • Alla suora che gli fece notare come il triduo di preghiere nel Santuario otteneva un effetto positivo sulla sua salute, ripeté per tre volte: «Non questo dovete chiedere, non questo voglio, ma solo il compimento della volontà di Dio».
  • Alla superiora che gli disse che, incominciando il mese di San Giuseppe, avrebbero pregato per la sua guarigione, allargando le braccia: «La volontà di Dio, la volontà di Dio».
  • Esclamava: «Paradiso, Paradiso, Paradiso: ricordati, tre volte Paradiso». Quando gli si raccontava qualcosa di poco piacevole egli ripeteva: «Oh, in Paradiso non ci saranno più queste miserie».
  • 15 febbraio: il mattino fu visitato dal canonico Francesco Paleari della Piccola Casa del Cottolengo, che gli assicurava che faceva pregare le sue suore. Rispose: «Sì, per le cose di lassù». Insistendo il Paleari nel dire che ci sono delle catene che tirano in su, ma ce ne sono tante che tirano in giù, con la speranza di vincere: «No, no, che si faccia la volontà di Dio, non come quella gente lì (alludendo alle suore missionarie) che prega solo per le cose materiali (con ciò voleva dire che pregavamo solo per la sua guarigione)».
  • Più tardi visitato da un signore suo conoscente, il quale gli disse che pregava perché il Signore ce lo conservasse ancora molti anni: «Oh… che si faccia la volontà di Dio»; alla sorella che pure insisteva sulla stessa cosa: «Ma per l’amor del Padre, dovete desiderare che vada in Paradiso. Farò più di là che di qua».
  • Al nipote che, dopo avergli fatto indossare la nuova biancheria, gli disse che sembrava uno sposo: «Oh, sì, fra poco vado alle nozze…».

I più vicini al suo capezzale poterono cogliere ancora dalle sue labbra qualche monosillabo; poi si udì con chiarezza un «Amen» e dal movimento delle labbra si poté cogliere: «Ave Maria». Fu l’ultima parola dell’Allamano su questa terra.

P. Francesco Pavese


L’Allamano: «Mission influencer»

Si è svolto a Roma, dal 25 marzo al 7 aprile scorso, un corso per i nostri formatori Imc, organizzato dalla Direzione Generale. Sono arrivati, quindi, 25 missionari (maestri di noviziato, direttori di seminari teologi, formatori dei Caf, testimoni di situazioni missionarie particolari) provenienti da Brasile, Colombia, Venezuela, Argentina, Kenya, Tanzania, Angola, Portogallo, Italia, Corea. Le due settimane sono state un tempo prezioso di comunione, per conoscersi, condividere le varie esperienze e sentirsi «famiglia della Consolata» nel non facile compito della formazione di coloro che, in un domani non lontano, saranno i futuri missionari della Consolata, figli di Giuseppe Allamano, che potrebbe essere definito, oggi, in un linguaggio comprensibile ai giovani: «Mission influencer».

La presenza del fondatore, visibile già nel logo del corso, è stato come il filo conduttore che ha guidato e unificato temi e contenuti che, essendo la nostra Famiglia missionaria ormai multietnica e internazionale, non potevano che essere variegati e molteplici.

È stato padre Piero Trabucco, ex superiore generale ed esperto in spiritualità a presentare ai formatori la figura del beato Allamano come formatore. Da questa angolatura, padre Piero, supportato da documenti storici, è riuscito a tratteggiare i le caratteristiche di uno stile fatto di atteggiamenti e strumenti formativi, capaci di trasmettere ai missionari la sua vicinanza paterna e «il suo spirito» (come lui lo chiamava). Tutta la sua persona è stata strumento per formare all’amor di Dio e alla passione per «le anime», per fare, cioè, innamorare i missionari di Gesù e della gente: santi, per la missione.

Gli spunti della ricca e corposa relazione di padre Piero sono diventati così il punto di partenza per riflettere su chi è il fondatore per i nostri formatori e come la sua figura, il suo esempio, la sua presenza entrano nei cammini formativi della varie comunità dei giovani aspiranti alla vita missionaria. Ecco alcuni… tweets:

– L’Allamano è importante perché, se non ci fosse lui, non ci saremmo nemmeno noi; rimaniamo senza identità, perché è lui che ha ricevuto l’ispirazione di fondare l’Istituto; è quindi fonte della nostra spiritualità e del nostro carisma.

– La sua umanità (paternità) si vedeva nei rapporti personali, nell’ascolto, nell’accoglienza (aveva tempo per tutti e per ciascuno); la sua pedagogia era fatta di bontà, vedeva sempre il positivo negli altri, anche se non taceva sugli aspetti negativi e da correggere (senza troppi rimproveri).

– Alcuni suoi aspetti ci colpiscono ancora: l’attenzione che aveva per le famiglie degli alunni; l’accogliere le sfide del suo tempo e con coraggio trovare la strada per andare avanti; il suo amore appassionato per l’eucarestia e la Consolata, l’impegno e la generosità nel «fare bene il bene»…

– Lui entra concretamente nel nostro lavoro di formatori quando cerchiamo di vivere la sua spiritualità, trasmettiamo i suoi insegnamenti ai giovani, dedichiamo tempo per leggere di lui e conoscerlo sempre di più, conduciamo uno stile di missione, secondo i suoi insegnamenti…

Al termine di questi giorni, intensi e preziosi, nella messa conclusiva del 7 aprile, è stato consegnato a tutti un messaggio, nel quale tra l’altro si leggeva:

«L’ascolto della parola di Dio ci ha aiutato a rileggere e rimotivare il nostro ministero di formatori, riconoscendo come essenziale e fondamentale l’esperienza di Dio, che siamo chiamati a suscitare anche nella vita dei giovani che accompagniamo.

L’aver riscoperto il nostro fondatore Giuseppe Allamano come modello di formatore, paterno e attento con tutti, ci ha stimolato a guardare alla formazione anzitutto come capacità di accogliere, di stare vicini, di far sentire ai giovani che ci sono cari e di incoraggiarli a vivere con autenticità e generosità l’identità di missionari della Consolata.

L’esortazione di papa Francesco ai giovani, pubblicata proprio in questi giorni, offre un messaggio di speranza e un’indicazione anche a noi formatori di giovani missionari: “Lo sguardo attento di chi è stato chiamato ad essere padre, pastore e guida dei giovani consiste nell’individuare la piccola fiamma che continua ad ardere, la canna che sembra spezzarsi ma non si è ancora rotta. È la capacità di individuare percorsi dove altri vedono solo muri, è il saper riconoscere possibilità dove altri vedono solo pericoli. Così è lo sguardo di Dio Padre, capace di valorizzare e alimentare i germi di bene seminati nel cuore dei giovani” (Christus vivit, 67).

Ringraziamo tutti coloro che ci hanno accompagnato con la loro preghiera e chiediamo al Signore, per intercessione di Maria Consolata e del beato Giuseppe Allamano, di benedire i nostri cammini di formazione per la missione, facendo germogliare i semi di bene seminati in questo corso».

Insomma: riscoprire la «pedagogia allamaniana» per formare dei veri missionari della Consolata, orgogliosi della loro vocazione e felici di poter servire il Signore con gioia e santità di vita, in questo nostro mondo così complicato, differenziato e, spesso, pieno di tanta sofferenza… e  secondo le parole del logo del corso (scritte… in latino, per ovvi motivi di internazionalità): «Andando, annunciate il Vangelo a tutti i popoli», ma in perfetto… Allamano’s style!

p. Giacomo Mazzotti




La Polveriera


«I poveri hanno bisogno delle nostre mani per essere risollevati, dei nostri cuori per sentire di nuovo il calore dell’affetto, della nostra presenza per superare la solitudine. Hanno bisogno di amore, semplicemente» (messaggio di papa Francesco per la III giornata mondiale dei poveri).

Quanto dà fastidio questo papa che, un giorno sì e l’altro pure, continua a parlare dei poveri, non accontentandosi mai, neppure di quello che la chiesa, le parrocchie, i missionari fanno per loro. Ne ha parlato anche nel bel mezzo di questa caldissima estate, nel suo messaggio per la celebrazione (il prossimo 17 novembre), della giornata che lui stesso ha inventato per tenere accesa nel popolo cristiano l’attenzione verso tutti i poveri del mondo. Diventano, così, graffi impietosi le parole di papa Francesco che, avendo messo i poveri – davvero – al centro, non può tollerare che siano trattati con retorica e sopportati con fastidio, giudicati parassiti, scartati e sfruttati. Perché i poveri non sono numeri, ma persone a cui andare incontro. E, citando don Mazzolari, aggiunge: «il povero è una protesta continua contro le nostre ingiustizie; il povero è una polveriera, se le dai fuoco, il mondo salta!».

Occuparsi dei poveri, attendere con passione alla loro promozione non è allora un optional esterno all’annuncio del vangelo; al contrario, «è un servizio che è autentica evangelizzazione». E anche ai tanti volontari, che il papa ringrazia per la loro dedizione, chiede di non accontentarsi di venire incontro alle prime necessità materiali dei bisognosi, ma di «scoprire la bontà che si nasconde nel loro cuore, facendosi attenti alla loro cultura e ai loro modi di esprimersi, per poter iniziare un vero dialogo fraterno».

Le parole, appassionate e dure, del messaggio arrivano dritte al cuore di noi missionari che, seguendo l’invito di Giuseppe Allamano, nostro fondatore, siamo mandati tra le genti a portare la consolazione del Signore, che si attua «accompagnando i poveri non per qualche momento carico di entusiasmo, ma con un impegno che continua nel tempo». È questa la nostra vocazione ad vitam, che ci spinge ogni giorno a camminare con loro; ed è proprio in questo camminare insieme che la «Chiesa scopre di essere un popolo, sparso tra tante nazioni, con la vocazione di non far sentire nessuno straniero o escluso, perché tutti coinvolge in un comune cammino di salvezza». A noi missionari, allora, le parole di papa Francesco non danno fastidio; semmai ricordano, una volta di più, la bellezza e le esigenze senza sconti della nostra vocazione, che viviamo nella scia del nostro fondatore.

padre Giacomo Mazzotti

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Mi pare che la Madonna abbia sorriso


Testo di Giacomo Mazzotti


Il mese di maggio appena trascorso e, soprattutto, giugno, con la festa della Consolata, ci fanno sentire più forti la presenza e l’affetto di Maria, definita da papa Francesco, nella sua ultima Lettera ai giovani Christus vivit, «il grande modello per una Chiesa giovane, che vuole seguire Cristo con freschezza e docilità», che ci stimola a vivere il vangelo e a diffonderlo intorno a noi «con coraggio, entusiasmo» e… grinta missionaria. Il papa tuttavia riconosce che non è necessario fare un lungo percorso perché i giovani diventino missionari: «Anche i più deboli, limitati e feriti possono esserlo a modo loro… Un giovane che va in pellegrinaggio per chiedere aiuto alla Madonna e invita un amico ad accompagnarlo sta compiendo una preziosa azione missionaria». In questo piccolissimo spunto di «metodologia missionaria», Maria si intrufola ricordando ai giovani (e non solo a loro) che la vita non è «nel frattempo», ma che tutti noi siamo «l’adesso di Dio», chiamati a vivere il presente, l’oggi, con dedizione e generosità.

È sempre lei la «donna forte del sì che sostiene e accompagna, protegge e abbraccia» i discepoli del Figlio, in attesa dello Spirito Santo, perché con la sua presenza nasca «una Chiesa giovane», con i suoi apostoli in uscita, per far sorgere un mondo nuovo.

Dobbiamo, allora, anche noi, non solo amare e invocare Maria, ma anche «custodirla nel cuore», perché ci è stata affidata dallo stesso Gesù come un tesoro prezioso, una Madre che ci ricolma di attenzioni, nonostante la nostra piccolezza, la nostra fede fragile e, forse, la passione missionaria senza slancio.

Preparandoci alla festa della Consolata, vogliamo ringraziarla con le parole «autobiografiche», tenere e commosse di questa preghiera del nostro Fondatore:

«Ringrazio più voi, o Maria, che il Signore, di essere già da 35 anni vostro custode. Che cosa ho fatto in questi 35 anni? Se fosse stato un altro al mio posto, che cosa avrebbe fatto? Ma non voglio investigare; se fossi stato tanto cattivo, non mi avreste tenuto tanti anni: è questo certamente un segno di predilezione. Se ho fatto male, pensateci, aggiustate voi, e che sia finita; accettate tutto come se l’avessi fatto perfettamente. Prendete le cose come sono; mi avete tenuto, dunque dovete essere contenta. – E mi pare che la Madonna abbia sorriso».

Giacomo Mazzotti


Padre di missionari

Giuseppe Allamano nella vita di ogni giorno

L’Allamano attorniato dalla comunità dei missionari di fronte al pilone delal Consolata fatto da lui costruire all’inizio della salita che porta al santuario di St Ignazio, nel 1908, per commemorare il primo centenario di fondazione della casa di spiritualità.

L’Allamano aveva una visione positiva circa il futuro del suo Istituto, fondato nel 1901, e seppe infonderla nei suoi missionari. Incoraggiò fratel Benedetto Falda già nei primi anni, mentre era a Marsiglia in partenza per il Kenya, perché un missionario che avrebbe dovuto partire con lui era stato dimesso: «L’albero dell’Istituto è piantato saldamente. Cadranno ancora delle foglie, forse dei rami si piegheranno, ma l’albero crescerà gigantesco; ne ho le prove in mano». La sua convinzione era fondata su criteri apostolici: «Il nostro Istituto durerà sempre finché ci saranno anime da salvare. Vedete la perpetuità dell’Istituto!». Non era la sua abilità di organizzatore che lo convinceva, ma la sua fede nel progetto di Dio di salvare tutta l’umanità.

Anche sul piano economico la sua fiducia era illimitata. Confidò ad un missionario: «Non datevi mai pensiero dei mezzi materiali, del denaro. Purché voi vi manteniate fedeli ai vostri impegni e conserviate il vero buono spirito, nulla vi mancherà mai. Io non ho mai cercato il denaro; e il denaro mi corse sempre appresso, senza domandarlo».

Agli ordini della Consolata

Come fondatore di un istituto missionario, l’Allamano tenne sempre un atteggiamento di grande modestia. Si riteneva un semplice operaio agli ordini della Consolata. Mirava alla qualità dei missionari e non al loro numero; all’efficacia spirituale del loro ministero e non alla potenza esteriore delle opere. Sentiva forte la sua responsabilità di educatore dei giovani che la Provvidenza gli affidava perché li educasse ad essere veri missionari. Anzitutto sapeva accogliere con simpatia quanti si presentavano per essere ammessi nell’Istituto. Ad un gruppo di nuovi allievi suggerì: «Ora scriverete alla vostra mamma di stare tranquilla, perché voi qui avete trovata una nuova Mamma, la Consolata». Non temeva di proporre ai suoi giovani grandi ideali fino alla santità. Oltre agli incontri individuali, ogni domenica era puntuale a tenere una conferenza formativa a tutti. Però non intendeva essere solo maestro, ma voleva soprattutto essere padre. Assicurava: «A voi parlo semplicemente, ma prima mi preparo, consulto e poi vi dico quanto il cuore mi detta». Soprattutto chiedeva fiducia e sincerità: «Di voi voglio sapere tutto, eccetto i vostri peccati; per il resto non dovete nascondermi nulla». «Io amo la spontaneità del cuore. E voi ragazzi dovete venire a me con il cuore aperto».

L’aria sana che si respirava

Non mi soffermo ad indicare i valori formativi sui quali l’Allamano insisteva, quali la fede nell’Eucaristia, la preghiera assidua, l’amore alla Madonna, l’ubbidienza, lo spirito di sacrificio, ecc., ma mi limito a riportare tre piccoli episodi, scelti tra molti. Presi separatamente sembrano insignificanti, ma letti insieme rivelano l’aria bella e pulita che si respirava in quel tempo. Tra l’Allamano e i giovani si era creato un rapporto molto spontaneo, proprio di famiglia, che favoriva la formazione, e che l’Istituto ha cercato di conservare anche in seguito.

Un primo fatterello avvenne durante le vacanze estive a S. Ignazio. Dopo pranzo i ragazzi dovevano ritirarsi nelle loro camere e non andare a giocare per non disturbare chi si riposava. L’assistente era inflessibile. Una volta, quando l’Allamano era presente, alcuni sgusciarono dalle camerette e bussarono alla sua porta, mentre riposava. Ecco il dialogo: «Cosa volete?» – «Signor Rettore, non possiamo dormire e vorremmo andare a giocare alle bocce» – «Andate pure» – «Ma, sig. Rettore, l’assistente non ce lo permette, teme che disturbiamo la comunità». Avendo capito perché avevano bussato alla sua porta, si dimostrò comprensivo e rispose: «Vengo anch’io…». E poi si fermò con loro, contava i punti, lodava chi giocava meglio. Quei ragazzi avevano soggezione dell’assistente, ma non di lui.

Un secondo episodio riguarda una pratica piuttosto singolare. Il direttore di Casa Madre suggerì ai giovani di inginocchiarsi davanti all’Allamano per baciargli la mano, in segno di rispetto. Egli se ne accorse subito e, durante una conferenza, ne parlò chiaramente: «Ho un’altra cosa da dirvi. Ho visto che da un po’ di tempo mi fate la genuflessione. Ma non voglio che mi facciate la genuflessione. Perché io temo che aumentando i segni esterni di rispetto, diminuiscano quelli di confidenza. Io preferisco che manteniate la vostra confidenza a tutti questi segni esterni. No, no, non fatelo. Non la farete neppure quando sarò morto la genuflessione».

Un terzo episodio coinvolse i ragazzi del ginnasio che l’Allamano incontrò mentre stavano facendo merenda sotto il portico. Avendo promesso per scherzo che sarebbe venuto a vivere con loro, essi gli chiesero di fermarsi subito. Iniziò un simpatico dialogo: «Ma non mi avete ancora preparato la camera». All’assicurazione dei ragazzi che la camera c’era già: «Ma alla Consolata c’è la Madonna che mi aspetta». I ragazzi non cedettero e assicurarono che la Consolata c’era anche qui: «Ma non è quella là». Essi promisero di andare a prenderla e portarla in Casa Madre. L’Allamano, un po’ commosso, concluse la conversazione così: «Oh, miei cari, per venire qui, bisogna che rinunzi là… E come volete dopo 40 anni che vi sono? Verrò a trovarvi più spesso che posso». Salutandoli: «Ci rivedremo ancora». Fu di parola.

Concluso con le parole che l’Allamano rivolse ai giovani al termine di una festicciola di famiglia in occasione del suo onomastico. Di fronte alle numerose lodi che gli furono rivolte, fece questo semplice commento: «Quello che avete detto di me, ve lo ha detto il vostro buon cuore, e ve ne ringrazio. E quello che non merito questa volta, cercherò di meritarlo un’altra».

Padre Francesco Pavese


Giuseppe Allamano: uno di famiglia

Il 16 febbraio scorso i missionari della Consolata hanno celebrato la festa del beato Allamano. Durante il triduo di preparazione alcuni laici hanno offerto la loro testimonianza su come hanno conosciuto la figura dell’Allamano e come essa ha inciso sulla loro vita. Di seguito riportiamo la prima parte della toccante testimonianza del dott. Ottavio Losana, già professore universitario, membro attivo del gruppo «Amici Missioni Consolata» e, per tanti anni, medico di famiglia della comunità di Casa Madre. È cresciuto con una vera devozione per l’Allamano grazie ai genitori e soprattutto ai nonni materni che l’avevano conosciuto e frequentato di persona.

«Alla mia nascita, l’Allamano era morto da otto anni e questo vuol dire che era contemporaneo dei miei genitori e ancora di più dei miei nonni. In quegli anni la famiglia di mio padre abitava in via San Dalmazzo e quella di mia mamma in via Delle Orfane: tutti nel centro di Torino, a due passi dal Santuario della Consolata che frequentavano. In particolare, la nonna paterna, Eleonora, conosceva l’Allamano molto bene, lo aveva invitato più di una volta a casa, lo frequentava abitualmente nel Santuario, lo chiamava semplicemente “El canonic” (Il canonico) perché allora in famiglia si parlava in piemontese e diceva che non l’avevano fatto vescovo perché era “cit e brut” (piccolo e brutto). Forse non era vero, forse per fare i vescovi importava anche l’aspetto fisico, comunque lei gli era affezionatissima.

Teneva nel suo messale un’immaginetta, una specie di “ricordino di morte”, che rappresentava il busto dell’Allamano che poi col papà era passato alla nostra famiglia e lo facevano vedere a noi bambini e noi lo chiamavamo “barba santo” (zio santo). In pratica ci dicevano che era un santo molto prima del processo di canonizzazione. Nell’opinione dei suoi fedeli era un santo. E questo è significativo.

Quando poi la famiglia si è trasferita in Piazza Bernini, via Giacomo Medici, mia mamma ha cominciato a frequentare la chiesa dei missionari di C.so Ferrucci, vicina a casa nostra. E la frequentava anche una signora, profuga da Pola con la sua famiglia, che aveva due bambini piccoli: Marcella e Mario. Marcella aveva due anni, ma sarebbe diventata mia moglie.

Poi c’è stata la parentesi della guerra: dal ‘42 al ‘45 a Torino bambini non ce n’erano più perché tutte le famiglie erano sfollate. Di notte, venivano gli aerei a bombardare e poi, nel ‘43-’44, lo facevano anche di giorno. Casa Madre, centrata da una bomba, fu ridotta a un cumulo di macerie. Ma negli anni successivi l’hanno ricostruita e la nostra frequentazione dei missionari è ripresa.

Io ero diventato medico e venivo tutti i lunedì mattino in infermeria per vedere se qualche padre avesse problemi di salute. Fra i tanti, mi permetto di ricordare p. Saverio Dalla Vecchia: è lui che aveva “inventato” – diciamo così – l’infermeria e p. Armanni Daniele che è stato suo successore.

Nel 1962 mi sono sposato proprio in questa chiesa per cui questo luogo ci è molto caro e abbiamo continuato a frequentarlo sempre. Nel 1990 c’è stata la beatificazione dell’Allamano e allora ho deciso che dovevo saperne di più e che non mi bastava ricordare il “barba santo”, l’immaginetta della nonna.

La prima documentazione che ho avuto è un bel libro fotografico – Giuseppe Allamano. Uomo per la missione, Imc – e qui ho cominciato a saperne qualcosa di più. Poi ho letto altre cose, non tutti i volumi di p. Tubaldo… in ogni modo ho appreso molte cose che mi hanno fatto conoscere e apprezzare la figura e l’opera di Giuseppe Allamano.

Ho ascoltato anche tante testimonianze dalla viva voce di p. Pasqualetti, p. Pavese e altri, ma quello che mi ha fatto conoscere a apprezzare di più l’Allamano sono stati i suoi missionari».

…continua

L’ho affidato al beato Allamano

Parlando al telefono con una mia amica, disperata e piangente, mi ha detto che suo fratello Marzio era in fin di vita (il male era iniziato 4 giorni prima): i medici gli avevano somministrato un farmaco e, se nella notte non avesse funzionato, sarebbe morto. La mia amica mi ha chiesto di pregare per lui. Io l’ho affidato al beato Giuseppe Allamano e ho iniziato la novena: la faccio a casa e tengo una candela grande, accesa tutta la notte, fino al mattino…

Circa un’ora fa, la mia amica mi ha comunicato che il fratello era fuori pericolo.

Nei giorni successivi, mi ha riferito che stava meglio, ha cominciato a mangiare, lo hanno anche liberato dai tubi che aveva e stava migliorando piano piano. Io continuo con la novena al beato Allamano e, se non basta, la ripeto di nuovo. Non mi arrendo a pregare, perché possa migliorare (dopo che era stato dato due volte per morto) e possa guarire del tutto.

Silvana M. – Roma
(messaggi SMS)