Italia-Africa – L’epidemia dell’alcol – Alcol-oltre


Testi di Giordano Rigamonti, Mariacaterina Barcella, Paolo Franceschi, José Luis Ponce de León, Laura Poretti, Maria Raffaella Rossin, Emanuele Scafato, Laura Scomazzon, Lino Tagliani.
A cura di Luca Lorusso |


Indice


Chi beve per noia e chi per fame

L’abuso di alcol tra i giovani e gli adolescenti accomuna i popoli di tutto il mondo. Alcuni missionari della Consolata, osservando il fenomeno nei luoghi in cui operano, hanno dato vita a una campagna che coinvolge l’Italia e alcuni paesi africani, tra cui, in particolare, lo Swaziland.

Internet e gli spazi d’incontro virtuali che stanno rivoluzionando il pianeta rendono tutto apparentemente possibile e imitabile, riducendo la capacità critica, in un vortice di notizie e contatti cui non sempre siamo preparati.

I giovani sono tra i più influenzati, spinti a superare ogni limite, ad andare «oltre» senza avvertire il pericolo, pur di emulare modelli di forza e successo. Parte integrante di questi mondi fragili è il ricorso all’alcol e alle droghe. Milioni di persone annegano così le loro speranze nelle dipendenze.

Europa e Africa sono due continenti accomunati da questa stessa schiavitù: l’uso disordinato di alcol che colpisce qualsiasi fascia di età, e che spesso è l’inizio di un degrado profondo, l’ingresso in un labirinto dal quale è poi difficile uscire.

Chi beve per noia, chi per non sentire la fame. Chi beve per sballarsi, chi per sopravvivere. La spinta verso l’alcol può essere diversa alle diverse latitudini. Intanto, una volta iniziato, dopo un po’ non se ne può più fare a meno.

La Campagna AlcolOltre è nata allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica, sia in Italia che in alcuni paesi africani nei quali operano i missionari della Consolata su questo problema.

Il caso dello Swaziland

Perché tra tanti paesi africani abbiamo scelto proprio lo Swaziland? Perché esso è uno di quelli con maggiore incidenza del problema dell’alcolismo. Nelle classifiche mondiali del 2012 era il terzo paese al mondo per consumo procapite di birra. Tra i paesi africani è uno di quelli nei quali è più alta l’incidenza dell’alcol come causa di morte.

Il «Rapporto globale su alcol e salute 2014», l’ultimo redatto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), conferma un alto consumo di alcolici prodotti artigianalmente, quindi con gradazione alta e senza controlli e, di conseguenza, con effetti peggiori sulla salute. Il rapporto dell’Oms denuncia anche la totale mancanza di politiche di prevenzione, a parte interventi volti alla semplice repressione e all’aumento delle tasse.

Altro motivo importante per la scelta dello Swaziland è la presenza nel paese dei missionari della Consolata, in particolare del vescovo monsignor José Luis Ponce de León a capo della diocesi di Manzini. La sua presenza e il suo ruolo offrono alla Campagna un supporto locale per lo svolgimento delle attività e dei progetti.

Senza scoraggiarsi

Le storie di vari amici e conoscenti che mi descrivono i traumi subiti dai giovani, ma anche dalle loro famiglie, a causa dell’alcol mi spingono a spendermi in questa campagna e a lottare per far conoscere questo nemico subdolo della nostra società globalizzata.

Dobbiamo agire insieme senza fermarci davanti ai fallimenti ma godendo di ogni adolescente che impara a liberarsi dalla schiavitù.

Giordano Rigamonti


Una catena che si può spezzare chiedendo aiuto

Quando il tenente colombiano è ubriaco

Quando uno beve non sa più quello che fa. È ciò che capita a molti in tutto il mondo. Spesso con brutte conseguenze. Padre Lino, antropologo, missionario della Consolata in Colombia per lunghi anni, ha incontrato più volte l’alcol come causa di eventi tragici. Anche nel contesto della guerra dove un militare ubriaco con i gradi e il fucile può decidere della vita o della morte.

La parola alcol viene dall’arabo al-kohl che indica la polvere finissima di antimonio che, fin dall’antichità, le donne del Medio Oriente utilizzavano per colorare di nero ciglia, sopracciglia e l’orlo delle palpebre. Indica qualcosa di finissimo, che non si vede quasi, che è volatile. Ma l’alcol è stato «scoperto» intorno al 1200 d.C., quando gli arabi hanno portato in Europa l’alambicco, indispensabile per produrlo.

Oggi, in America Latina, troviamo l’aguardiente, che vuol dire «Acqua che brucia». Noi parliamo di «superalcolici».

In tutte le culture si è sempre bevuto. Potremmo individuare una bevanda tipica per ogni zona del mondo: in Europa c’è il whisky, la vodka, in America Latina la tequila. Tutti i paesi hanno da bere.

Il tenente è ubriaco

In America Latina, soprattutto in Colombia, ci sono due problemi: il problema della violenza e quello della droga. Il primo è legato alla lunga guerra civile che sta faticosamente risolvendosi e che ha insanguinato il paese per decenni.

A questo proposito posso raccontare un fatto: un giorno devo recarmi in una scuola in un luogo che si chiama El Pato. In auto si arriva fino a un certo punto. Quando finisce la strada iniziano i sentieri, lungo i quali ti puoi muovere a cavallo o a piedi. Dove finisce la strada c’è l’ultimo posto di blocco dell’esercito. Ho già passato cinque blocchi. Arrivato lì, mi perquisiscono. Se non hai armi e fai vedere i documenti, puoi procedere. Verificano i miei documenti, vedono che non sono ricercato e mi dicono che posso andare. Ma improvvisamente avanza il tenente. È ubriaco, con una bottiglia di birra in una mano e con un mitra nell’altra, ci viene incontro barcollando.

«Cosa succede?», chiede. Il vecchietto che è con me gli fa vedere cinque pacchi di sale e dieci scatole di fiammiferi, un po’ di candele e qualche aspirina. «Tu collabori con la guerriglia!», lo accusa l’ufficiale, «Sono sicuro che di tutte queste cose, una parte la dai alla guerriglia!».

Io conosco quel vecchietto: vive con la moglie, qualche mese fa, durante uno scontro tra esercito e guerriglia, gli hanno ammazzato l’unico figlio. Non si sa se ucciso dagli uni o dagli altri.

Allora intervengo: «No, è un semplice vecchietto. Lui tutti i mesi prende un po’ di caffè e un po’ di fagioli, va giù al mercato e li scambia con queste cose. Fa la scorta perché per un mese non va più al mercato».

A questo punto il tenente distoglie lo sguardo da Josè Luis e guarda me. Mi chiede i documenti. Io ho anche il permesso del generale che mi autorizza ad andare nella zona occupata dalla guerriglia dove l’esercito non va. Senza quel documento ti considerano collaboratore della guerriglia. Io invece ce l’ho e faccio vedere la firma del generale, che è il suo superiore. Ma il tenente è ubriaco, non capisce più nulla e impreca. Mi dice: «Tu ti fermi qua» e, con il fucile M14 in mano, chiama due soldati che mette davanti e dietro di me. «Di qui non ti muovi. Se ti muovi applichiamo la legge della fuga» (se fai due passi, ti sparano).

I capelli mi si drizzano, ma rispondo: «Non mi muovo. Sto fermo come una statua».

Sono le 17.30. Alle 18 calerà la notte. Io ho da fare ancora tre ore a piedi. Sicuramente il tenente è convinto che, scendendo nella foresta al buio, la guerriglia mi ammazzerà. Alle 18 mi dice: «Puoi andare».

La guerriglia non mi fa nulla ed io arrivo a destinazione alle 23.

(Pan American Health Organization PAHO/flickr com)

Un ubriaco non sa più niente

Perché racconto questo? Perché quando uno è ubriaco non sa più cosa sta facendo. Non si rende conto. Purtroppo ho visto parecchi morti, anche giovani, per ubriachezza.

In Colombia mi dicevano: «Quando due ubriachi litigano, non ti mettere in mezzo». Solo una volta, per sbaglio, mi sono intromesso e, infatti, il machete di uno dei due mi ha sfiorato il torace strappandomi mezza camicia. Non l’ho mai più fatto. Proprio perché un ubriaco non ti riconosce: non sa se sei un amico, un fratello, una sorella, la mamma o il papà. Non sa più niente.

La «catenella» dell’alcolismo

Tutti bevono e dicono che lo fanno perché hanno sete o perché piace, per stare con gli amici o per dimenticare. Ma nessuno dice che beve perché lo fanno bere.

Se prendiamo una catenella, osserviamo che ha tanti anelli. L’ultimo anello siamo noi che beviamo. Salendo su per la catenella troviamo il luogo in cui beviamo. Dove beviamo? In un parco, in un bar, in una discoteca. Salendo ancora lungo la catenella troviamo chi ci dà da bere. Il barista. Ma chi fornisce questi posti di bevande alcoliche? In parole povere, arriviamo all’ultimo anello e vi troviamo i soldi.

Questa è la catena che lega i giovani. Se si entra in questo giro e a un certo punto non si decide di chiedere aiuto per spezzarla, la catena uccide. Quando invece si ha la forza di dire «dammi una mano per uscire», allora si riesce a farlo veramente. Io sbaglio, tu sbagli, tutti sbagliamo, ma quando ammettiamo «ho sbagliato, ho bisogno di te», allora ne usciamo.

Da soli non andiamo da nessuna parte.

Come una mucca nel fiume

Mi è capitato una volta di cadere in un fiume agitato che mi ha portato via persino i vestiti di dosso, lasciandomi in mutande. Per fortuna sono riuscito ad attaccarmi a una radice, ma per molto tempo sono rimasto lì perché non passava nessuno. Dopo un paio d’ore finalmente è arrivato un mio amico, grande cowboy che tirava benissimo il lazzo ai cavalli e alle mucche. È arrivato tutto felice e contento con il lazzo e il suo sigaro puzzolente e mi ha detto: «Ohe padre, ci crede alla salvezza?» e, trattandomi come una mucca, mi ha lanciato il lazzo. Mi ha agganciato e mi ha salvato. Mi ha dato una mano e mi ha tirato fuori dai guai.

Lino Tagliani

Trascrizione dell’intervento tenuto al convegno «Alcol e Giovani» di Torino, 3/11/2017.

(Matthias Ripp_mripp/flickr.com)


Maneggiare il dolore contro il vuoto

La cultura e l’economia dell’alcol sono due degli elementi decisivi nella scarsa consapevolezza dei rischi legati al bere. Nella sola Italia sono quasi sei milioni le persone che dichiarano di bere oltre i limiti consigliati. Quella giovanile è la fascia più a rischio per i danni correlati all’alcol. Tra gli antidoti: genitori capaci di una comunicazione sana con i propri figli.

In questi ultimi anni si parla spesso di giovani e alcol soprattutto per segnalare le abitudini alcoliche di molti ragazzi italiani che bevono da giovanissimi utilizzando, alcuni di loro, anche modalità rischiose come il binge drinking («abbuffata alcolica»).

Secondo l’Istat il consumo fuori pasto è diffuso soprattutto tra i giovani (18-24 anni) e i giovani adulti (25-44 anni). Altro dato preoccupante è quello che indica negli ultimi dieci anni una crescita del consumo fuori pasto tra le femmine: dal 14,9% del 2005 al 16,5% del 2014.

Nel nostro paese troppe persone (quasi 6 milioni) superano i limiti del consumo abituale che, secondo il ministero della Salute, prevede due unità alcoliche al giorno per gli uomini (un’unità alcolica corrisponde a 12 g di alcol puro: un bicchiere da 125 ml di vino, una bottiglia di birra da 330 ml, o 40 ml di superalcolico), un’unità per le donne e per le persone sopra i 65 anni, nulla per chi ha meno di 18 anni e per le donne in gravidanza.

L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dice chiaramente che non è possibile individuare quantità di alcol «raccomandabili» o sicure per la salute: l’unica strada sicura è non bere affatto perché le bevande alcoliche sono tossiche, potenzialmente cancerogene, in grado d’indurre dipendenza e di causare danni diretti alle cellule di molti organi, soprattutto del cervello.

Le resistenze culturali (ed economiche)

Chi si è confrontato con le problematiche connesse all’uso delle bevande alcoliche, e soprattutto del vino, si sarà senz’altro reso conto che ci sono forti resistenze nelle persone. L’Italia, infatti, ha una cultura vitivinicola molto importante con radici antichissime che si intrecciano anche con la storia religiosa. Per noi la vite è una pianta sacra. Inoltre è importante ricordare il peso economico della produzione del vino: le aziende vitivinicole in Italia sono 383.645, pari al 23,5% di tutte le aziende agricole, per un totale di 632mila ettari coltivati che danno lavoro a oltre 200mila addetti. Tra il 70 e l’80% della produzione è destinato all’export. Secondo Federalimentare il peso del vino sul fatturato complessivo dell’industria alimentare sfiora il 7,7%. Negli anni Novanta è esploso il turismo del vino: accanto agli eventi enogastronomici in ogni regione, per tutto l’anno si susseguono appuntamenti legati alla degustazione enologica. In Umbria, Toscana, Piemonte sono nati musei dedicati al vino.

Questi dati economici e culturali ci aiutano a comprendere come mai il messaggio trasmesso ai ragazzi sull’utilizzo delle bevande alcoliche, a differenza delle droghe illegali, è completamente inadeguato rispetto ai rischi.

Clark Street Ale House Chicago (Thomas Hawk/flickr.com)

Per i giovani è più pericoloso

Bisogna dare ai giovani e agli adulti gli strumenti per riconoscere un comportamento a rischio, il proprio, o quello di un amico o un famigliare.

Gli studiosi ci dicono che il rischio della dipendenza da droga o alcol non è uguale per tutti: alcune persone sono più vulnerabili rispetto ad altre. Bere alcolici in età giovanile, ad esempio, è più pericoloso: l’alcol può causare al cervello dei ragazzi alterazioni a delicati sistemi neuropsicologici bloccandone il normale sviluppo e mostrandone i danni solo nel tempo. Il cervello dei giovani, che raggiunge la sua completa maturazione solo intorno ai 20-21 anni, è più sensibile alla ricerca di gratificazioni veloci ed è più esposto ai rischi del piacere immediato che le droghe e l’alcol possono offrire.

Ma quali sono i fattori che, combinati insieme, possono determinare una situazione di alto rischio per un individuo? I neuroscienziati si stanno concentrando, ormai da anni, sugli effetti che le bevande alcoliche determinano su una specifica area cerebrale, il Nucleo Accumbens, che ci gratifica quando assumiamo determinate sostanze (cibi, come per esempio il cioccolato, alcol, droghe). Se il Nucleo Accumbens funziona bene, chi mangia cioccolato o assume alcol, lo fa in modo controllato. Se invece funziona male, il mancato controllo nell’assunzione di sostanze unito a un eventuale disagio psicologico, può innescare un meccanismo di dipendenza: l’individuo ha bisogno degli effetti positivi della sostanza per placare il suo malessere interiore.

L’influenza delle famiglie

Per poter prevenire disagi che si possono tradurre in abitudini alcoliche patologiche è, quindi, importante conoscere, nelle famiglie, situazioni di dipendenza nelle generazioni precedenti. Se un adolescente sperimenta le sostanze alcoliche, ma è interiormente forte e difeso da una rete familiare attiva e protettiva, sa fermarsi in tempo. Se è interiormente fragile, sensibile, vulnerabile, ma ha una rete familiare attiva e protettiva, può attraversare momenti difficili ma saper chiedere aiuto. I ragazzi fragili, sensibili, vulnerabili che bevono e non hanno una rete familiare attiva e protettiva, si sentono soli e possono trovare nell’alcol il sostegno e la complicità che gli affetti non offrono loro. Se poi c’è una familiarità alcolica la situazione si complica.

Si parla ancora molto poco dei danni che l’abuso di alcol e la dipendenza provocano nelle relazioni familiari e di quanto queste siano determinanti nel contribuire al disagio provato dall’individuo che, da adolescente o da adulto, diventerà un bevitore eccessivo o un dipendente.

Nella storia familiare dei bevitori emerge spesso che fin dall’infanzia si sono sentiti inadeguati, non voluti, caricati di aspettative troppo alte rispetto alle loro capacità, incapaci di realizzare le attese dei genitori, colpevoli per le vicissitudini familiari. Il dolore eccessivo è un elemento fondamentale nel vissuto del futuro bevitore e dell’alcoldipendente, e fin dall’infanzia occupa un posto importante nella sua interiorità. Il dolore riempie, di anno in anno, i vuoti lasciati nell’individuo dall’affettività mancata e lo «sazia». Il dolore che causa problemi è quello che non si sa gestire. È il dolore che ci travolge e dal quale scappiamo.

(Matthias Ripp_mripp / flickr.com)

Comunicare bene per maneggiare il dolore

Una buona relazione familiare, invece, aiuta i ragazzi a fortificarsi interiormente. Se un bambino è fragile, molto sensibile, poco capace di autodifendersi, quando si sente inadeguato si convince di esserlo davvero. Uno strumento fondamentale per aiutare i ragazzi a «maneggiare il dolore» è la comunicazione, una comunicazione sana.

La comunicazione, quella verbale e non verbale, è la modalità con cui ci relazioniamo al contesto in cui viviamo. Conta molto accorgersi del modo in cui comunichiamo: stiamo comunicando in modo sano o disfunzionale? Spesso, in famiglia si comunica in modo più efficace con i gesti e le occhiate – cioè tramite il linguaggio non verbale – piuttosto che con le parole. La comunicazione non verbale è più difficile da controllare e valutare, ma si può aumentare l’attenzione su di essa, in modo da arrivare a coordinare in modo armonico il linguaggio verbale e quello non verbale costruendo così una comunicazione sana.

Che cosa bisogna fare per avere una comunicazione verbale in sintonia con quella non verbale? Addestrarsi a essere chiari, coerenti, capaci di autocritica, capaci di autorettifica.

Il genitore attento fa «manutenzione» al suo ruolo almeno una volta alla settimana riflettendo, anche con il partner, su ciò che ha funzionato e ciò che non ha funzionato; facendo una riunione alla settimana con i figli nella quale tutti discutono sui problemi da affrontare o sugli argomenti importanti per i singoli, e prendendo decisioni insieme. Il genitore attento esprime l’affetto e lo lascia esprimere; costruisce regole chiare e non ha paura di sostenerle; gratifica i figli e valorizza le loro capacità; evidenzia chiaramente i comportamenti adeguati e quelli inadeguati; impara, insieme ai figli, ad affrontare le loro difficoltà; non teme di chiedere scusa.

La sintonia tra il verbale e il non verbale è il risultato di un lavoro interiore che il genitore fa con se stesso per rispettare i figli nella loro individualità e aiutarli a diventare quello che sono, non quello che il genitore vuole che siano.

Tutto questo serve a costruire strumenti che possono essere utili ai ragazzi per affrontare le sfide che si trovano di fronte nella complessa società globale in cui vivono, evitando loro di cercare aiuto in stampelle artificiali come alcol, droghe e altre dipendenze.

Maria Raffaella Rossin

(Photocapy/flickr com)

Bibliografia:

  • – Larn, Livelli di assunzione di riferimento di nutrienti, 2014.
  • – Tesi di laurea Università Luiss, Il mercato del vino italiano: scenario competitivo e strategie di internazionalizzazione in un settore in continua evoluzione, 2014.
  • – G. P. Brunetto, Alcol e giovani: cosa fare. Elementi di neuroscienze e dipendenze, Dipartimento politiche antidroga, Presidenza del consiglio dei ministri, 2010, pag. 269.
  • – G. Serpelloni et al., Cervello, mente e droghe. Struttura, funzionamento e alterazioni droga-correlate, Dipartimento politiche antidroga, Presidenza del consiglio dei ministri, 2014.

Di Alcol MC ha parlato anche in:

  • – S. Garini, Alcol, non abusare, MC aprile 2016.
  • – R. Novara Topino, tre puntate della rubrica Madre Terra in MC ottobre e novembre 2011 e gennaio 2012.

I dati dell’alcol in Italia

In base ai dati pubblicati dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms, Who in inglese) nel Global Status Report del 2014 (il più recente), l’Europa ha la più alta percentuale di consumo di alcol nel mondo, con una quantità procapite doppia rispetto alla media mondiale. Secondo il Report 2015 di Who Europa, il consumo di alcol nel nostro continente rimane il maggiore problema di salute pubblica insieme al tabacco e all’obesità. La riduzione dell’abuso di alcol e dei danni a esso correlati, in modo particolare del fenomeno del binge drinking, è un obiettivo del governo italiano, in linea con le politiche dell’Unione europea e dell’Organizzazione mondiale della salute.

Alcol: prima causa di morte tra i giovani

In Italia il consumo di bevande alcoliche sta mostrando un profilo nuovo e preoccupante, si registra un suo progressivo aumento in fasce orarie lontane dai pasti. Secondo i dati Istat, nel corso del 2015 ha consumato almeno una bevanda alcolica il 64,5% degli italiani dagli 11 anni in su (35 milioni di persone), con prevalenza notevolmente maggiore tra i maschi (77,9%) rispetto alle femmine (52,0%). Si registra un incremento dei consumi rispetto all’anno precedente. La percentuale dei bevitori a rischio, elaborata attraverso l’indicatore di sintesi e i dati dell’Osservatorio nazionale alcol dell’Istituto superiore di sanità, è stata nel 2015 del 23% per gli uomini e del 9% per le donne di età superiore agli 11 anni, per un totale di quasi 8 milioni e mezzo di individui, di cui 800mila tra i minori e altri 800mila tra i giovani dai 18 ai 25 anni.

Secondo la relazione del ministero della Salute al parlamento per l’anno 2016, sugli interventi realizzati in base alla legge 125/2001 (legge quadro in materia di alcol e di problemi alcolcorrelati, ndr.), «resta allarmante il fenomeno del binge drinking», che comporta l’assunzione di numerose unità alcoliche al di fuori dei pasti e in un breve arco di tempo. Nel 2015 è stato pari al 10,8% tra gli uomini e del 3,1% tra le donne di età superiore a 11 anni: 3 milioni e 700mila binge drinkers (persone che bevono per ubriacarsi). Le percentuali di binge drinkers aumentano nell’adolescenza e raggiungono i valori massimi tra i 18-24enni. Dei 900mila binge drinkers tra gli 11 e i 25 anni, circa 200mila sono 11-17enni e 325mila 18-20enni. Il 17% circa di tutte le intossicazioni alcoliche giunte in pronto soccorso si registrano tra giovani di età inferiore ai 14 anni.

Gli alcolici preferiti sono soprattutto aperitivi, superalcolici e amari e il loro consumo aumenta lontano dai pasti, quando è più dannoso per la salute.

In Italia l’alcol è la prima causa di morte tra i giovani (Istituto superiore di sanità), come in Europa e nel mondo, prevalentemente in correlazione con l’incidentalità stradale. Secondo l’Oms, il costo dell’alcol in Italia, in termini di sicurezza sociale, incidenti stradali e sul lavoro, e violenze è stimabile in 25 miliardi di euro l’anno.

Emanuele Scafato


La testimonianza di un giovane ex alcolista

«Mi sembrava impossibile, invece ci sono riuscito»

Sono Manuel di Milano. Ho 31 anni. Già dai 17 ho iniziato ad avere dei problemi: ero arrivato a bere fino a 4-5 bottiglie di Jägermeister al giorno.

L’abuso di alcol è un discorso di richiamo mentale. Tante volte si fa fatica a resistere perché manca la volontà oppure si è fragili o si sta attraversando un periodo difficile. Oppure può anche accadere che si vivano delle situazioni molto positive, gioie molto forti che conducono anch’esse a ricadere nel problema dell’alcolismo.

Ad un certo punto mi sono molto spaventato perché pensavo di non poter più tornare indietro. Mi sentivo veramente giù. Una volta mi ricordo di essere finito in psichiatria per abuso di alcol e psicofarmaci insieme, e sono rimasto legato al letto dell’ospedale per parecchi giorni. Lì mi sono accorto che rischiavo di finire sotto terra o comunque di avere dei problemi grandissimi nella vita.

Mi hanno proposto di entrare in comunità ed io ho detto sì. Stavamo bene, eravamo puliti e sentivi proprio la sensazione di essere amici non per qualcosa o qualcuno. Ero abbastanza motivato all’inizio e col tempo la motivazione è cresciuta sempre di più. Sono stato accompagnato ed ho avuto la fortuna di avere vicino delle persone che sono riuscite a trovare un giusto compromesso tra il dosaggio dei farmaci e la psicoterapia.

Sono riuscito a farmi accompagnare finché ho scalato tutti i farmaci. Neanche io ci credevo! Mi sembrava una cosa impossibile anche solo da immaginare: non prendere più alcun farmaco. Invece sono riuscito. Sono riuscito ad avere dei progetti, costruire delle cose. È stato bello e il tempo è volato.

Anche i genitori e l’intera famiglia, con il tempo, vedendo che stai bene, ti si riavvicinano e ci si scusa. Anche la fiducia piano piano la riconquisti. Questo riconquistare è una cosa veramente difficile: anche adesso non è ancora del tutto avvenuto.

Io non mi sento illuminato e completamente guarito. Il problema è comunque sempre lì. Devo sempre stare attento. Capitano dei momenti in cui ti senti a rischio: se uno per tanti anni ha usato delle sostanze, è normale che ogni tanto il corpo, in particolare il cervello, richieda la sostanza. Ciò è legato comunque agli stati d’animo. La sensazione di dire «vorrei…» è molto presente nell’inconscio. Non è una cosa che puoi toccare e sentire, però con la volontà, con la testa che ci pensa veramente 150 milioni di volte prima di ricaderci, ci si riesce.

Avere delle persone che ti sono vicine, con le quali condividi la tua vita, è fondamentale.

Può capitare a chiunque di avere dei problemi, non esiste la persona che sta sempre veramente bene, non esiste un mondo dove tutto va bene. L’importante è saper vedere che comunque ci sono delle persone che ti aiutano, che vedono che sei in difficoltà e non fanno finta di niente.

Adesso sono una persona che tutti i giorni cerca la sua strada, cerca di stare sempre attenta, ha dei momenti di alti e bassi e comunque, un po’ più di tutte le altre persone, ci sta attenta.

Manuel

Sul canale Youtube di Impegnarsi serve, si può visionare il video «Testimonianza di Manuel» da cui è tratto il testo.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=YOL1agDFumE?feature=oembed&w=500&h=281]

 


L’esperienza di due medici italiani

Spunti dall’Africa

Alcol è sinonimo di festa, di gioia, ma anche di stordimento: si beve per divertirsi e si beve per dimenticare la difficoltà di sopravvivere.

Così anche l’Africa paga il suo contributo al dio Bacco: là dove la povertà non permette di comprare bevande alcoliche «controllate», se ne producono in modo artigianale con notevoli rischi per la salute. Il mercato illegale dell’alcol, nel quale sono frequenti la contraffazione e la sofisticazione, fiorisce tanto più quanto minore è la disponibilità economica dei consumatori.

I sistemi sanitari africani sono generalmente molto carenti e spesso a pagamento. La popolazione, naturalmente, ne subisce le conseguenze: grande incidenza di malattie dell’infanzia, alti rischi per la donna gravida e per quella che allatta, anziani e disabili costretti a vivere in condizioni molto dure.

In questo quadro, l’alcol dà il suo contributo aumentando la diffusione di malattie del fegato (e non solo), la denutrizione e soprattutto il degrado della persona umana, che nei casi di alcolismo cronico si concretizza in situazioni di marginalità e abbandono, talora anche da parte dei famigliari.

(foto Alfredo Feletti)

Il pericolo dell’alcol artigianale

La nostra esperienza in Congo Rd, a Kinshasa, nel 2015, ci ha messi di fronte a una società nella quale molte persone vivono ogni giorno una battaglia per giungere a sera. Molti, e tra essi tanti giovani, trovano nell’alcol la medicina che per qualche ora permette loro di estraniarsi dalla miseria, dall’abbandono e dalla desolazione in cui versano.

Per le stradine del quartiere nel quale eravamo ospiti dei missionari della Consolata, vedevamo tavolini su cui venivano proposte in vendita bottiglie di alcol artigianale. Abbiamo voluto comprarne alcuni campioni per farli analizzare in Italia e capire così cosa beve la popolazione che non ha i soldi per acquistare la birra o altre bevande alcoliche nei negozi. Una volta tornati dal Congo, li abbiamo portati a un laboratorio di analisi e ne è venuto fuori un quadro preoccupante: su sei campioni analizzati, ben quattro avevano un tasso alcolico superiore al 34% (come un nostro superalcolico), in più in essi erano presenti quantità considerevoli di sostanze tossiche (forse provenienti dalla falda acquifera) come rame e zinco.

Non solo sanzioni, ma cura e prevenzione

La cosa che più ci ha colpito, non solo in Congo, ma anche in altre realtà africane che abbiamo visitato, è la negazione del problema da parte delle istituzioni e anche dei colleghi medici che tendono a sminuire l’importanza del rischio dell’alcol per la salute. È vero altresì che spesso in Africa le priorità sono altre e più drammatiche (malnutrizione, Aids, malaria).

Anche nei paesi in cui il problema è preso in maggiore considerazione, come nello Swaziland, l’abuso di alcol viene affrontato più come un vizio da sanzionare (ad esempio con multe) che come una dipendenza da curare e per la quale fare prevenzione. Il risultato è che il problema rimane.

Che fare?

Che fare allora? La risposta, ci pare, sta nella prevenzione. Ad esempio nelle scuole, come in quelle dei missionari; negli ambulatori medici, dove già si fa prevenzione per Aids, Tbc, malaria; negli ambienti di vita, per esempio nei mercati.

Questo implica ovviamente formare gli operatori: a Manzini, in Swaziland, la Caritas che va nei villaggi ad assistere le famiglie più bisognose, si è dichiarata disponibile a svolgere educazione sanitaria per la prevenzione dell’abuso alcolico.

Ma prevenzione è anche aiutare i giovani a credere nel loro futuro. Là dove il bere è una risposta alla mancanza di speranza in una vita degna di essere vissuta, occorre adoperarsi per costruire occasioni di lavoro e di aggregazione sociale, occorre la fantasia e la creatività di chi sa operare il bene e anche il sostegno finanziario di chi non è in prima linea, ma vorrebbe poter fare qualcosa.

Mariacaterina Barcella e Paolo Franceschi

(foto Alfredo Feletti)


Swaziland: Le parole del vescovo di Manzini

Mi dicono: «Se apro una bottiglia, devo finirla»

Il piccolo paese incastonato nel Sudafrica è il terzo al mondo per consumo procapite di birra. Conta una popolazione di 1,2 milioni di abitanti e il 27% di adulti sieropositivi. In questo contesto la chiesa cattolica sta cercando di attivare programmi educativi che aiutino la popolazione a prendere coscienza dei rischi legati al consumo di alcol.

Sono nato in Argentina e, come missionario della Consolata, sono stato destinato al Sudafrica nel 1994, qualche mese prima che Mandela diventasse presidente. Dopo 11 anni sono stato chiamato a Roma per svolgere un altro servizio finché papa Benedetto mi ha nominato vescovo per il Sudafrica. Sono quindi ritornato nel paese nel gennaio del 2009 e vi sono stato altri 5 anni, fino a quando papa Francesco mi ha nominato vescovo di Manzini, in Swaziland, una nazione circondata dal Sudafrica e confinante per un breve tratto anche con il Mozambico.

Piccolo regno, grandi problemi

Lo Swaziland è un piccolo regno di circa 200 per 150 km. I suoi abitanti sono 1.200.000. Al centro si trova Manzini, la cittadina più importante a livello commerciale e in posizione ottimale per gli spostamenti. La capitale è però Mbabane, dove ha sede il governo. Il parlamento e il Re stanno invece a Lobamba.

La nostra bandiera riporta al centro uno scudo con lance che identificano la nazione. I colori sono nero su bianco e bianco su nero per esprimere la relazione pacifica tra i popoli. A differenza del Sudafrica, infatti, lo Swaziland non ha vissuto il problema della segregazione razziale.

C’è un parlamento, e un capo di stato che è il Re. Come per il Sudafrica, la poligamia qui è legale e parte della nostra cultura.

Una cosa molto bella del paese è l’artigianato: la lavorazione dei tessuti, dai colori molto vivaci, la fabbricazione di candele e la lavorazione del vetro.

Sfortunatamente siamo conosciuti anche per l’Aids. Siamo la nazione con la percentuale più alta al mondo di sieropositivi: quasi una persona su tre – il 27,2% – tra i 15 e i 49 anni. Oggi, grazie ai farmaci non è più una condanna a morte. A causa dell’Aids l’aspettativa di vita alla nascita nei decenni passati era crollata, oggi è di 57 anni per gli uomini e 61 anni per le donne.

(foto Alfredo Feletti)

Alcol, problema individuale e sociale

In questo contesto, uno dei motivi di preoccupazione per la salute dei cittadini e per le condizioni generali del paese è anche l’abuso di alcol. Non si tratta solo di una sensazione: le statistiche governative ci dicono che il 50% degli incidenti stradali sono provocati dalla guida in stato di ebbrezza.

Da noi accade una cosa che non ho mai visto da nessun’altra parte: una volta alla settimana il giornale ci dà le statistiche di coloro che sono stati sorpresi nel fine settimana a guidare in stato di ubriachezza. Il fine settimana successivo al 20-22 del mese, quando si prende lo stipendio, il numero di coloro che vengono colti alla guida ubriachi sale. Avendo i soldi, è più facile bere. Si arriva anche a 170/180 persone. Negli altri fine settimana i numeri sono attorno a 100/120 persone. Di una ventina di loro il giornale riporta nome, cognome e la multa che dovrà pagare. Se non hanno i soldi, vanno in carcere per un certo periodo. Tutto è proporzionale al livello di alcol trovato nel sangue.

Di queste persone arrestate i giornali raccontano anche le storie: un ragazzo che aveva il livello di alcol tre volte maggiore a quello consentito ha testimoniato: «Sono andato con i miei amici e mi hanno fatto provare il whisky. Io avevo preso sempre delle cose più leggere. Non ero abituato». Il magistrato gli ha risposto: «Ringrazia pure i tuoi antenati, perché io dovrei portarti via la patente». Allora gli è stato fatto scegliere tra due anni di prigione oppure pagare 130 euro.

Un altro caso che mi ha colpito è stato quello di un ragazzo che, mentre guidava, quando ha visto la polizia, invece di fermarsi, ha accelerato. Una volta preso e portato in tribunale, lui ha spiegato: «A me piace giocare alla playstation. E allora ero convinto di giocare. Quando ho visto la polizia dietro di me sono andato ancora più veloce, più forte, pensando di vincere».

«Bevo per divertirmi», «bevo perché sono arrabbiato», «bevo per questo o per quello». La cosa che mi colpisce è che tutti salgono su una macchina e guidano senza accorgersi di mettere a rischio la propria vita e quella degli altri.

(foto Alfredo Feletti)

Educare contro le bugie dell’alcol

Di fronte a questa situazione, noi vogliamo poter fare qualcosa per educare sia i nostri giovani sia gli adulti. L’alcol infatti è presente anche tra questi ultimi. Lo constatiamo quando il titolare di una ditta ci dice: «Io il lunedì devo avere un po’ di pazienza perché so che, se hanno bevuto nel fine settimana, arriveranno al lavoro più tardi, o addirittura non ce la faranno a lavorare». Lo riscontriamo anche nelle situazioni di alcune delle famiglie che conosciamo, quando i giovani ci raccontano che la mamma o il papà bevono e che, se sono fortunati, quando tornano a casa non parlano con nessuno, se non lo sono, quando tornano a casa sono violenti.

L’alcol è un bugiardo: ti fa credere che hai tu il controllo, che puoi decidere tu quando smettere di bere, e invece non è così. Mi ricordo di un giovane con il quale ho parlato un po’ di tempo fa. Gli dicevo: «Sei mal messo, devi fare qualcosa. Tutti i tuoi amici e familiari parlano di te. Devi smetterla di bere, devi chiedere aiuto». Lui mi ha risposto: «No, no, vedrai che non mi capiterà mai più». Era un mercoledì, poi ha bevuto da giovedì fino a domenica, quando abbiamo dovuto metterlo in un centro per poterlo veramente aiutare.

Lui non mi diceva delle bugie, era veramente convinto di farcela. Invece è caduto di nuovo per quattro giorni di seguito.

«Se apro una bottiglia, devo finirla»

Parlavo con un giovane swazi riguardo questa situazione dell’alcol. Lui mi diceva: «Sai qual è il nostro problema? Quando abbiamo una bottiglia, dobbiamo finirla. Che sia birra o vino o qualcosa di più forte, non siamo capaci di prenderne un bicchiere e poi dire basta. Se apro la bottiglia, devo finirla».

Io non sono un esperto, parlo soltanto di quello che vedo e vivo, che trovo nella mia diocesi, nella mia nazione. Vedo ad esempio che l’alcol dà un senso di appartenenza a un gruppo. Ti dicono: «Io bevo per poter stare con i miei amici». Ma questa è un’altra grande bugia dell’alcol. Perché inizialmente ti senti accolto, poi però, quando le cose vanno male, l’accoglienza finisce. Rimani più solo di prima. Quando mi dici che bevi per stare con gli amici, che amici sono quelli che ti lasciano salire in macchina anche se sei ubriaco?

Ricordo soltanto un’occasione in cui un gruppo di amici, dopo aver bevuto insieme, vedendo che uno  di loro aveva esagerato, hanno preso le chiavi della macchina dicendo: «Tu oggi dormi qui».

(foto Alfredo Feletti)

Alcol «dopo le lacrime»

L’alcol, in modo particolare da noi, trova sempre strade nuove per entrare nella tua vita. E non te ne accorgi neanche. In Sudafrica, dove ho lavorato diversi anni, è entrato in un modo molto «originale»: quando muore qualcuno noi facciamo, se possibile, il funerale di sabato. Si aspetta fino al sabato per permettere ad amici e parenti di arrivare. Tutto comincia venerdì sera con una veglia di preghiera nella casa di colui che è morto. Si legge, si prega e si canta tutta la notte fino al mattino. Al mattino si fanno discorsi: amici e parenti parlano della persona che è morta. Dopo un’altra preghiera si va al cimitero. Dopo il cimitero tutti tornano a casa della famiglia. Fin qui è tradizione. Da qualche anno, però, si è aggiunta una nuova «usanza» che si chiama after tears, cioè «dopo le lacrime»: abbiamo pregato, abbiamo pianto e adesso è il tempo di celebrare, e allora si va avanti bevendo.

Sognare un futuro diverso

La nostra sfida è: come educare al bere in modo responsabile? Non si tratta di non bere più, ma di avere una relazione diversa con l’alcol. Quando dico che in Swaziland un adulto su tre è sieropositivo all’Hiv, non sarà forse anche frutto dell’abuso di alcol? Dopo che uno ha bevuto, si sente più libero e non ci pensa tanto. E poi, la violenza familiare che troviamo quasi ogni giorno sui giornali in Swaziland, da dove viene?

La nostra intenzione allora è di lavorare sulla prevenzione. Se un po’ di anni fa la nostra sfida era come poter sognare un futuro diverso davanti all’Aids, oggi il nostro sogno è poter aiutare i nostri giovani a scegliere di vivere, a scegliere una vita diversa, ad appassionarsi alla vita.

José Luis Ponce de León

Trascrizione dell’intervento tenuto al convegno «Alcol e Giovani» di Torino, 3/11/2017.


(Foto Beppe Mola)

La Campagna in Swaziland

«Educare per prevenire»

«Educare per prevenire» è il nome del progetto che è stato impostato in Swaziland per allontanare i giovani dal pericolo dell’abuso di alcol.

Perché lo Swaziland? Lo Swaziland è un piccolo paese nel quale è presente un’unica diocesi il cui vescovo è monsignor José Luis Ponce de León, missionario della Consolata. La disponibilità sua e dei suoi collaboratori, in modo particolare di padre Giorgio Massa, ha permesso di conoscere da vicino la realtà in cui vivono i suoi abitanti.

Durante la prima esperienza missionaria di un gruppo di volontari nell’agosto 2016 è stato possibile capire quanto il problema dell’abuso di alcol fin dall’età giovanile sia molto diffuso. Successivamente, a marzo 2017, sono andati in Swaziland alcuni volontari medici che hanno potuto verificare la scarsa consapevolezza nella cittadinanza dei problemi fisici causati dall’abuso di alcol.

Per questo motivo è nato il progetto «Educare per prevenire» che ha l’obiettivo di sensibilizzare i ragazzi delle scuole secondarie sulla problematica, approfondendo le motivazioni che portano a cadere nella trappola dell’abuso di alcol e gli effetti di questo sul corpo. Nel mese di agosto 2017 un altro gruppo di volontari ha visitato sei scuole dello Swaziland incontrando oltre mille studenti e riscontrando tra essi grande interesse.

Ma questo è stato solo l’inizio: dopo la fase di sperimentazione dell’estate scorsa, nell’agosto 2018 ci sarà una sessione di formazione di animatori locali che potranno dare continuità al progetto, diffondendo e approfondendo i temi della prevenzione in più scuole (almeno nelle 60 gestite dalla diocesi).

Laura Scomazzon

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=cuclE122cWQ?feature=oembed&w=500&h=281]


La Campagna in Italia

Tende e scuole

Impegnarsi Serve, forte della sua decennale esperienza con i giovani, unisce a una informazione corretta sull’alcol e sui rischi connessi al suo consumo, un’apertura sul mondo per stimolare un confronto al fine di una formazione umana globale nella logica dell’interculturalità.

Oltre ai convegni con medici, operatori, testimoni e missionari e a giornate di animazione, due sono le attività su cui ha scelto di investire.

 

(Foto Beppe Mola)

Tende Live AlcolOltre

Un coinvolgente percorso che affronta il tema dell’alcol tramite stimoli diversi offerti in tre tende nelle quali giovani e adulti trovano racconti di chi l’alcol l’ha vissuto sulla propria pelle in Italia e in Africa; grandi immagini, video, dinamiche di animazione e esperienze sensoriali; un labirinto creato per far sperimentare lo smarrimento di chi cade vittima dell’alcol; stimoli alla riflessione per fare scelte alternative.

Filo conduttore è una rete: rete liberante di relazioni umane o rete da pesca che imprigiona.

Un animatore interagisce con i partecipanti per presentare l’atteggiamento costruttivo del personaggio Nemo che offre una via alternativa.

Progetti educativi interculturali

La Campagna propone alle scuole un percorso didattico che avvicina ad alcuni paesi africani presentando i loro modi diversi di vivere, le loro culture con le loro ricchezze e povertà. Sottolineando che in tanta diversità però i desideri sono gli stessi e anche le difficoltà: la fragilità delle relazioni e il disagio interiore che oggi più di ieri vengono colmati dall’alcol, in Italia come in Africa. Partire da lontano aiuta a superare la diffidenza iniziale dei ragazzi e rende possibile il confronto con l’esperto che li aiuta a riflettere sull’influenza del mondo esterno e delle reti sociali sulle proprie scelte di vita. Il fine è quello di sostenere cambiamenti positivi.

Il progetto prevede tre incontri nelle singole classi:

  1. Conoscenza del problema alcol in Africa.
  2. Avvicinamento alla realtà italiana, con dinamiche di gruppo e visione di filmati.
  3. Intervento dello psicologo sulle esperienze dei ragazzi.

I destinatari sono gli alunni delle classi terze delle scuole secondarie di primo grado e del biennio delle secondarie di secondo grado.

Laura Poretti

(M. Nikitin/flickr com)


Questo dossier è stato firmato da:

• Giordano Rigamonti – missionario della Consolata, è fondatore dell’Associazione Impegnarsi Serve Onlus – Odv e coordinatore della Campagna «AlcolOltre».
• Mariacaterina Barcella – è dirigente medico di 1° livello. Ha esperienza di volontariato internazionale in Africa e recentemente in Congo e Swaziland per la Campagna «AlcolOltre».
• Paolo Franceschi – dirigente medico di ° livello del Noa (Nucleo operativo alcologia) di via Perini, Milano. Ha esperienza di volontariato internazionale in Africa.
• José Luis Ponce de León – missionario della Consolata, vescovo della diocesi di Manzini in Swaziland. Argentino, già superiore regionale dei missionari della Consolata in Sudafrica e segretario generale dell’Istituto Missioni Consolata, è partner della Campagna «AlcolOltre».
• Laura Poretti – da 10 anni nell’Associazione Impegnarsi Serve, ne è attualmente consigliere nazionale con rappresentanza legale e amministratrice della Campagna «AlcolOltre».
• Maria Raffaella Rossin – è psicologa e psicoterapeuta responsabile del Noa di via Perini, Milano e del coordinamento tecnico scientifico del Noa Asst Fatebenefratelli-Sacco. È membro del direttivo nazionale della Società italiana di alcologia.
• Emanuele Scafato – direttore del Centro dell’Oms per la ricerca sull’alcol; direttore dell’Osservatorio nazionale alcol, Centro nazionale dipendenze e doping dell’Iss; presidente della Società italiana di alcologia e vicepresidente della Federazione europea delle società scientifiche sulle dipendenze (Eufas).
• Laura Scomazzon – referente dei progetti dell’Associazione Impegnarsi Serve in Swaziland.
• Lino Tagliani – missionario della Consolata in Colombia ed Ecuador, antropologo.

• Per approfondire: www.impegnarsiserve.org




Italia alcol non abusare


Ogni anno oltre tre milioni di persone nel mondo perdono la vita a causa dell’alcol. Ma il problema non riguarda solo il singolo individuo. Da qui la creazione di «club» in cui intere famiglie si riuniscono per superare insieme le difficoltà.

2016_04 MC Hqsm_Pagina_62
Clicca l’immagine per lo sfogliabile pdf.

C’è Franco, 68 anni, ex dirigente di una multinazionale, andato in crisi con il sopraggiungere della pensione; Maria, caduta in depressione in seguito alla morte del marito; Giulia e Gianni, che dopo molti tentativi hanno dovuto rassegnarsi a non avere figli; e poi Marcello, che ha solo 17 anni ma già da sette si ritrova ogni settimana con il padre e gli altri membri del club. Un club «speciale» dove si può ridere e scherzare, ma anche piangere e sfogarsi; dove tutti fanno amicizia e finiscono per brindare ai successi l’uno dell’altro: ma sempre, rigorosamente, senz’alcol. Stiamo parlando dei Cat, i Club alcologici territoriali fondati negli anni ‘60 dallo psichiatra crornato Vladimir Hudolin e presenti oggi in oltre 30 paesi del mondo.

Metodo ecologico-sociale

Nell’ospedale psichiatrico di Zagabria dove lavorava, Hudolin si era accorto che molti pazienti erano alterati non perché «matti», ma perché sotto i fumi dell’alcol. Si convinse allora che i bevitori non erano malati da trattare con i farmaci (o, peggio ancora, viziosi da disprezzare), ma persone che avevano sviluppato un’abitudine di vita scorretta, portatrice di sofferenze fisiche, psicologiche, relazionali. Per uscie, il bevitore doveva quindi cambiare le sue abitudini modificando il proprio stile di vita. Il che poteva avvenire in modo tanto più facile e duraturo quanto più nel processo di cambiamento era coinvolta l’intera famiglia. Nasceva così il metodo ecologico-sociale. Sociale perché, attraverso le famiglie, produce un effetto positivo sull’intera società: infatti i problemi alcol correlati (patologie fisiche e psichiche, incidenti d’auto o sul lavoro, violenze domestiche, ecc.) interessano il 75% della popolazione. Ed ecologico perché, per una vita più sana, occorre ripulire non solo l’ambiente ma anche la cultura (vedi box), liberandola dagli aspetti che favoriscono l’impiego di sostanze dannose. Esistono infatti in tutto il mondo tradizioni che favoriscono il consumo di alcol, ad esempio alcune popolazioni latinoamericane consigliano alle puerpere di bere birra per aiutare la produzione di latte. Anche in Italia ci sono credenze, soprattutto d’origine contadina, molto radicate: «Avevo 5 anni e il nonno nei giorni di festa insisteva per farmi bere lo spumante, dicendo: dai che ti fa bene, prima inizi e più ti rafforzi», racconta Mario, che da adulto ha dovuto rivolgersi ai club per risolvere quello che per lui era diventato un problema.

Lo spazio per i bambini

Oggi in Italia i club alcologici sono 2.050, e raggruppano 20.000 famiglie. La partecipazione di queste, spiega Stefano Alberini dell’Acat, l’associazione dei club, «costituisce una differenza significativa rispetto ad altri gruppi di auto mutuo aiuto (che spesso, inoltre, tendono a considerare il bere come una malattia a tutti gli effetti, nda)». Il coinvolgimento dei familiari nei club hudoliniani avviene quasi in maniera naturale: «È raro che un bevitore prenda l’iniziativa di chiedere aiuto, per vergogna o perché nega il problema anche a se stesso. Nella maggioranza dei casi sono proprio i familiari a contattarci e, specie all’inizio, sono loro che cominciano a frequentare il club per primi».

Ma come funziona la vita dei club? Ognuno comprende da 2 a 12 famiglie che si riuniscono a cadenza settimanale, bambini inclusi, insieme a un facilitatore detto «servitore insegnante» (lo si può diventare dopo una specifica formazione, aperta anche a chi è già membro di un club).

Negli incontri ognuno si esprime in libertà, racconta come ha trascorso la settimana, condivide dolori e difficoltà, ma anche conquiste e progetti per il futuro. «Ci si concentra sul qui e ora, evitando di rivangare gli aspetti penosi del passato e cercando di far emergere le risorse e le forze positive» spiega Alberini, da 26 anni servitore insegnante a Guastalla (Re). Le regole del club sono poche ed essenziali: puntualità, divieto di fumare o usare il cellulare durante gli incontri, ascoltare gli altri senza giudicare, rispetto della privacy e segretezza su quanto viene detto.

Potrebbe stupire la partecipazione dei bambini, visto lo «spessore» dei discorsi e degli argomenti affrontati, e visto l’orario (in genere i club si riuniscono dopo cena per un’ora e mezza, due). In realtà la loro presenza è molto positiva: «Portano freschezza, allegria e serenità», dice Franco, membro di un club di Livoo, e lo è sia per gli adulti che per loro stessi. Lo conferma Alessio, che oggi ha 20 anni e frequenta un club dall’età di 8. «A casa stavo male, mio padre beveva ed era spesso assente, non aveva mai tempo per me o per mia madre, rientrava tardi ed erano continui litigi. Anche mamma aveva iniziato a bere. La prima volta che siamo andati al club, a fine serata il servitore insegnante ci ha detto di buttare tutte le bottiglie che c’erano in casa, e noi l’abbiamo fatto. Ero piccolo, e durante gli incontri mi facevo i fatti miei, giocavo, disegnavo, però ogni tanto tendevo l’orecchio. Capitava anche che intervenissi, rimproverando mio papà se lo sentivo raccontare bugie…». Un’esperienza che, alla fine, è stata positiva per tutta la famiglia: il papà di Alessio ha smesso di bere, diventando poi lui stesso servitore insegnante di club. E Alessio (che, inutile dire, è astemio) ne ha seguito le orme: da un anno è facilitatore di un club, e da cinque fa sensibilizzazione nelle scuole sui rischi legati ad alcol, fumo, gioco d’azzardo.

Famiglie solidali

Ma se qualcuno è meno fortunato e non ha familiari che possano (o vogliano) partecipare al club? «Questo è stato il mio caso», racconta Bianca, 51 anni, che frequenta un club a Torino. «Ho iniziato a bere dopo la morte di mia madre, anche lei con problemi di alcol, e sono andata avanti per otto anni. A un certo punto ho sentito di aver toccato il fondo e, malgrado un’enorme vergogna, mi sono rivolta a un club. Ho trovato però incomprensione e ostilità da parte di mio fratello e di mio padre che, visti i trascorsi familiari, mi hanno liquidata dicendo di aver “già dato”». Nel club Bianca ha trovato una seconda famiglia, che l’ha aiutata a ricostruirsi una vita. «Adesso non bevo da quattro anni, ho di nuovo un lavoro, e c’è stato anche un riavvicinamento con mio padre. Ma, certo, non avere vicini i miei cari mi ha reso tutto più difficile».

In casi simili, all’interno del club è prevista la figura di «familiari solidali» che affiancano la persona sola: possono essere amici o altre famiglie del club. «Si tratta di una forma di cittadinanza attiva, quella solidarietà intesa come interdipendenza fra individui di cui parlava Giovanni Paolo II nella Sollicitudo Rei Socialis: non una vaga compassione o un superficiale intenerimento per chi si ritiene “portatore” del problema, ma un’autentica condivisione, perché comprendo che potrei essere io a trovarmi al posto dell’altro», spiega Alberini. «Come dice la Sollicitudo, tutti siamo responsabili di tutti. E alla fine, come sanno bene i servitori insegnanti e i membri del club, partecipare agli incontri è per ciascuno fonte di benessere e arricchimento personale, e occasione per sviluppare nuove amicizie». Spezzando il cerchio della solitudine in cui l’alcol imprigiona.

Astinenza e sobrietà

L’approccio hudoliniano punta non tanto all’astinenza, cioè la rinuncia all’alcol, quanto alla sobrietà intesa come percorso di crescita e maturazione. «Se, ad esempio, uno smette di bere ma continua con i suoi vecchi comportamenti, in famiglia e fuori, significa che non è ancora sobrio», spiega Alberini. A cambiare stile di vita dovrebbe essere l’intera famiglia, sia smettendo di bere, per rispetto e sostegno alla persona, sia cercando di intervenire sulle dinamiche relazionali che sono causa/effetto del problema.

Non bisogna però pensare che i club siano la panacea per tutti i mali. Roberto, 60 anni, la maggior parte dei quali passati a bere, ci racconta: «Sono in un club da un anno e mezzo, e adesso sto bene, ma ho dovuto seguire un lungo percorso in cui è stato fondamentale l’appoggio che ho trovato al Sert (Servizio per le tossicodipendenze). Non credo che ce l’avrei fatta solo attraverso la solidarietà e l’amicizia che si creano nei club o in altri gruppi di auto aiuto». Dietro l’angolo c’è poi sempre il rischio di ricadute, anche dopo molto tempo. «Sono stato 15 anni senza bere, poi un giorno, convinto di aver superato definitivamente il problema, sono entrato in un bar per un bicchiere. Ma dopo il primo non sono riuscito più a fermarmi», racconta Giovanni. «Per fortuna l’esperienza passata mi ha fatto risuonare un campanello d’allarme, e dopo una settimana ho deciso di tornare al club, che avevo lasciato da un paio d’anni. Lì sono stato accolto a braccia aperte e ho potuto ricominciare».

Ma se è vero che i club non risolvono tutto, è anche vero che vantano percentuali di successo molto alte: l’astinenza media (superiore ai 3 anni) per quanti li frequentano regolarmente è infatti del 73%. «Un risultato notevole, visto che solo il 20% di chi si rivolge ai servizi pubblici riesce a smettere di bere», osserva Alberini. «Inoltre, in tempi di crisi e tagli alla sanità, un metodo come quello dei club, praticamente a costo zero, andrebbe diffuso in maniera capillare su tutto il territorio».

Stefania Garini