Piano Mattei, le condizioni per farlo funzionare


Il Piano Mattei per l’Africa, varato dal governo Meloni nel novembre del 2023 e lanciato con il vertice Italia – Africa a Roma lo scorso gennaio, sta suscitando molto dibattito in vari settori della società. Abbiamo provato a riunire alcuni punti di vista.

Il Piano Mattei per l’Africa, per ora, consiste in un decreto legge@ del novembre 2023, convertito in legge il 14 gennaio del 2024, e in un vertice internazionale tenutosi il 28 e 29 gennaio 2024 che lo ha lanciato davanti ai rappresentanti di 46 Paesi africani. Durante l’evento, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha detto@: «L’Italia ha tutte le carte in regola per diventare l’hub naturale di approvvigionamento energetico per l’intera Europa: è un obiettivo che possiamo raggiungere se usiamo l’energia come chiave di sviluppo per tutti».

È a realizzare questo sviluppo che si rivolge il Piano, concentrandosi su «cinque priorità di intervento: istruzione e formazione; salute; agricoltura; acqua ed energia», intorno alle quali costruire una relazione di «cooperazione da pari a pari», non predatoria e non caritatevole, con i Paesi africani.

Il Piano, ha annunciato Meloni, potrà contare su una dotazione iniziale di oltre 5,5 miliardi di euro tra crediti, operazioni a dono e garanzie, dei quali circa 3 miliardi dal Fondo italiano per il clima e circa 2,5 miliardi dalle risorse della cooperazione allo sviluppo, oltre che sull’impegno del governo italiano a coinvolgere altri donatori e istituzioni finanziarie internazionali e a creare assieme a Cassa depositi e prestiti, entro il 2024, un nuovo strumento finanziario per agevolare gli investimenti del settore privato nei progetti del Piano Mattei.

In questa prima parte del 2024 è presto per dire se siamo davanti a un cambio di paradigma in grado di reimpostare le relazioni con l’Africa rendendole paritarie, a un’operazione di maquillage, o a una terza variante fra questi due estremi.

Fra le preoccupazioni principali emerse subito dopo il vertice c’era quella che la priorità di intervento relativa all’energia finisca per fagocitare tutte le altre e che si concentri sul gas e altri combustibili fossili invece che sulla promozione di energia da fonti rinnovabili. Altre perplessità sorgevano poi dalla poca chiarezza riguardo la dotazione finanziaria: che cosa significa, esattamente, che i 5,5 miliardi verranno destinati dal Fondo per il Clima e dalle risorse per la cooperazione? Verranno ridefiniti i Paesi prioritari per la cooperazione? Verranno spostati fondi, ne verranno aggiunti? O ci si limiterà a quello che il sito «info-cooperazione» ha definito re-branding, cioè l’apporre un’etichetta con il logo del Piano Mattei sulle iniziative già esistenti, senza però modificarne la sostanza@?

L’operazione più onesta, in attesa di risposte certe a queste – e molte altre – domande, è quella di spacchettare ciò che si sa del Piano e individuare le condizioni per le quali potrebbe funzionare. È in questo che si stanno cimentando le varie articolazioni della società, italiana e africana, che si aspettano di essere più coinvolte di quanto lo siano state finora nella definizione del Piano.

Campo di rifugiati nelal regione di Capo Delgado, Mozambico.

Che cosa ne pensano gli africani

Pochi giorni prima del vertice, infatti, la campagna Don’t gas Africa, che riunisce decine di associazioni della società civile africana, ha diffuso una lettera e un comunicato stampa@ per lamentare la mancata consultazione proprio di quelle organizzazioni che cercano di dar voce alle comunità nel continente, incluse quelle più marginalizzate. Secondo il responsabile della campagna, Dean Bhekumuzi Bhebhe, il Piano Mattei è «un simbolo delle ambizioni dell’Italia sui combustibili fossili» e «minaccia di trasformare l’Africa in un mero canale energetico per l’Europa», rinunciando a sostenere il continente in una equa transizione energetica verso le rinnovabili.

Durante il vertice, il presidente della Commissione dell’Unione africana, Moussa Faki Mahamat, ha poi usato parole di apertura ma anche di monito: dopo aver elencato le priorità africane – agricoltura, infrastrutture, ambiente, energia, sanità, istruzione, digitalizzazione – e le difficoltà che il continente deve affrontare per realizzarle – il peso del debito, il cambiamento climatico, l’estremismo violento e il terrorismo, l’instabilità, la mancanza di finanziamenti adeguati e i gravi errori di governance – ha commentato che il Piano Mattei, «sul quale avremmo voluto essere consultati, appare coerente» con le esigenze africane. «L’Africa è pronta a discutere i contorni e le modalità della sua attuazione», ha concluso Faki Mahmat, sottolineando però «la necessità di far corrispondere le azioni alle parole. Capirete che non possiamo accontentarci di promesse che spesso non vengono mantenute»@.

Maguga Dam in eSwatini

Che cosa ne pensa il mondo della cooperazione

Anche dalle parole di Ivana Borsotto, presidente della Federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana (Focsiv)@, emerge una complessiva apertura di credito nei confronti del Piano Mattei: «Che l’Africa sia messa al centro del dibattito è un fatto positivo, mai avvenuto prima, e nelle parole della presidente Meloni ci sono alcune prese di posizione importanti: ad esempio, ha riconosciuto che il nostro destino è legato intrinsecamente all’Africa e che il modello di relazione non deve essere paternalistico». Gli organismi di volontariato, sottolinea Borsotto, sostengono e praticano questo approccio da sessant’anni ed è senz’altro positivo che ora risuonino anche nel discorso della premier.

Ma ci sono delle condizioni, oggettive e misurabili, da soddisfare perché il Piano sia efficace: «La prima è che le risorse finanziarie siano adeguate e garantite nel tempo». Borsotto è anche portavoce della Campagna 070@ per innalzare allo 0,70% del prodotto nazionale lordo i fondi destinati allo sviluppo, in linea con gli impegni presi dall’Italia in sede Onu. Fa notare che nel 2022 l’Italia è arrivata a destinare lo 0,32%: circa 6,15 miliardi di euro, cioè meno della metà dei 13 miliardi necessari per raggiungere l’obiettivo.

Famiglia di pigmei nelal foresta a Bafwasende, Congo RD

La seconda condizione riguarda la «condivisione a livello europeo». Il Global Gateway, la strategia dell’Unione europea per sviluppare infrastrutture e servizi in tutto il mondo, ha un valore complessivo di circa 300 miliardi di euro e il suo pacchetto Africa-Europa prevede investimenti per 150 miliardi: «L’iniziativa italiana deve armonizzarsi con questi strumenti e risorse messi a disposizione dall’Ue». Considerando la scala di grandezza del piano europeo, del resto, non è pensabile che l’Italia possa risultare davvero incisiva se mira ad agire da sola.

La terza condizione è quella di «evitare il superamento operativo della legge 125/14» (che ha riformato l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, ndr): con questo, la presidente Focsiv si riferisce al fatto che il Piano Mattei prevede la creazione di una struttura di missione in capo alla presidenza del Consiglio, finanziata con 2,3 milioni di euro l’anno a partire dal 2024, che rischia di sovrapporsi all’operato dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, entità già esistente, legata al ministero degli Esteri e incaricata, appunto, di coordinare le iniziative di cooperazione.

Nel suo intervento al vertice Italia – Africa, Giorgia Meloni ha annunciato come inclusi nel Piano Mattei nove progetti pilota in Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto, Costa d’Avorio, Etiopia, Kenya, Repubblica del Congo e Mozambico: «Noi organizzazioni della società civile» aggiunge Ivana Borsotto, «attendiamo fiduciose anche di essere coinvolte nella definizione di questi progetti». E conclude: «La politica estera dice chi siamo e come vogliamo stare al mondo: ricordiamo allora che è la legge 125 stessa a indicare nella cooperazione allo sviluppo una parte integrante e qualificante della nostra politica estera».

Che cosa ne pensa il mondo missionario

Anche padre Giulio Albanese, missionario comboniano oggi direttore dell’ufficio per le Comunicazioni sociali e di quello per la Cooperazione missionaria tra le Chiese della diocesi di Roma, appare cauto ma possibilista: accoglie come positiva la dichiarata volontà del Piano Mattei di andare oltre l’approccio caritatevole, se con questo si intende il superamento di quella «carità pelosa» alla quale padre Giulio da anni rivolge dure critiche. Ma, constata il missionario, il piano Mattei per ora è un contenitore di buone intenzioni: occorrerà vedere come si concretizzerà e su quante risorse potrà effettivamente contare.

Riflettendo poi sull’apporto che potrebbe venire dal mondo missionario, padre Giulio ricorda che questo ha fatto «senz’altro progressi nell’allontanarsi da uno stile paternalistico e da un modello emergenziale per concentrarsi di più sullo sviluppo sostenibile». Ma resta una certa frammentazione, una difficoltà a parlare con una sola voce, e questo rischia di rendere meno efficace il contributo dei missionari nell’eventualità in cui il Governo li interpellasse per delineare i contenuti del Piano.

«È mancata una reazione compatta e incisiva da parte del mondo missionario», aggiunge padre Antonio Rovelli, missionario della Consolata in servizio alla Casa generalizia di Roma. In effetti, non risulta a chi scrive che gli organismi missionari abbiano preso posizione in modo unitario e ufficiale, mentre farlo avrebbe aiutato a dimostrare che il mondo missionario è consapevole della necessità di vigilare sulla formazione delle politiche che riguardano l’Africa e si sforza di inserirsi nel dibattito per contribuire a determinarle.

Nigeria. Disastri da petrolio nel delta del Niger. Foto Sosialistik Ungdom, common credits

Il ruolo delle imprese

Il cuore del Piano Mattei riguarderà l’ambito imprenditoriale. Questa la previsione di Mario Giro, membro della Comunità di Sant’Egidio e sottosegretario, poi viceministro, degli Esteri fra il 2013 e il 2018, riportata sul numero speciale di gennaio 2024 della rivista «Africa e Affari» dedicato al Piano Mattei@. Si tratterà, a detta dell’esperto, di soft loans, cioè prestiti a tassi agevolati rispetto a quelli di mercato, «che verranno usati tendenzialmente per le imprese come tentativi di fare equity», cioè acquisto di azioni, «e di comprare imprese o parti di imprese africane e sostenere imprese o joint venture di imprese africane».

Giro giudica «intelligente, lungimirante» da parte del Governo, lo sforzo di rafforzare le relazioni con il sempre più vivace settore privato africano: operazione che altri membri Ue portano avanti da anni. Ma non manca di porre alcune domande cruciali: «Chi applicherà la teoria? Chi acquisterà tutta o parte di un’impresa africana? […] Esistono in Italia consulenti che conoscono talmente bene l’Africa da poter segnalare per un dato Paese quali sono le dieci imprese da finanziare e quali altre invece è meglio lasciare perdere?».

Se non si pone attenzione a questi aspetti, conclude l’esperto, si finisce per finanziare i progetti delle banche di sviluppo: scelta lecita, ma – aggiungiamo – che condividerebbe lo stesso limite mostrato negli anni dalla cooperazione allo sviluppo, per la quale l’Italia ha spesso usato il canale multilaterale – cioè le agenzie internazionali – molto più di quello bilaterale, di fatto delegando ad altri il ruolo e l’incisività in politica estera che nelle dichiarazioni di intenti rivendica per sé@.

Chiara Giovetti

Campo di rifugiati a Cabo Delgado, Mozambico

 




L’Africa dei militari

L’Africa, e in particolare il Sahel, ha vissuto una serie di colpi di stato dal 2020 a oggi. Due in Mali (18 agosto 2020 e 25 maggio 2021), uno in Guinea (5 settembre 2021), due in Burkina Faso (24 gennaio e 30 settembre 2022) e infine in Niger e in Gabon (26 luglio e 30 agosto 2023). Del golpe in Niger si è parlato molto, a sorpresa, anche in Italia. Forse perché è un paese strategico come crocevia delle migrazioni e di molti altri traffici. Forse perché vi sono presenti diversi eserciti stranieri, tra i quali un contingente italiano (sul quale si è spesso taciuto).

Sovente le popolazioni, soprattutto i giovani, hanno salutato con favore questi colpi di stato. In alcuni casi, le manifestazioni pro putsch sono state organizzate o promosse dalle giunte militari, mentre quelle contrarie prontamente represse (ad esempio in Niger).

La presa del potere con le armi è il sintomo di profondi problemi che sfociano in una deriva autoritaria e militarista.

La grave situazione di insicurezza dei paesi del Sahel, causata del proliferare e rafforzarsi di una galassia di gruppi armati legati ai diversi cartelli jihadisti (aggravatasi con la caduta di Gheddafi in Libia nel 2011, ma già iniziata in precedenza), ha portato a profonde crisi economiche e sociali. Il sociologo ed ex ministro del Burkina Faso Antoine Raogo Sawadogo ci diceva (MC maggio 2022): «Il colpo di stato è solo l’atto finale di una crisi istituzionale profonda, di società toccate da problematiche alle quali i regimi democratici non sono stati in grado di dare soluzioni». E ancora: «L’appoggio, almeno iniziale, delle popolazioni è dovuto al fatto che queste sperano che un governo forte, seppur non democratico, possa risolvere i loro problemi», e quindi «la democrazia all’occidentale è diventata una questione di secondo ordine, adesso si tratta di sopravvivenza».

Ma i militari non saranno la soluzione, neppure dei problemi di sicurezza, come già stanno dimostrando in Mali e in Burkina Faso. D’altronde sono gli stessi eserciti che non hanno saputo vincere i gruppi jihadisti prima dei colpi di stato.

Anzi, i golpe portano alla luce anche una crisi dello stesso esercito repubblicano. Un’istituzione che dovrebbe difendere la popolazione anziché prendere il potere con la forza.

Il risultato è una regressione dei diritti civili che, faticosamente, avevano fatto qualche passo avanti. Peggio, in molti casi, è la repressione violenta della popolazione. Come è avvenuto in diversi eccidi perpetrati dalle Forze armate maliane (Fama), affiancate dai nuovi alleati russi del gruppo Wagner. Un esempio tra i tanti è quello del villaggio di Moura, dove il 27 marzo 2022 sono state trucidate tra le 200 e le 400 persone dai militari loro compatrioti.

Tra i massacri di civili compiuti dall’esercito in Burkina Faso, ricordiamo quello a Karma, a 15 km dalla città di Ouahigouya, nel Nord del paese, il 20 aprile scorso. Qui i militari hanno ucciso almeno 147 civili inermi, tra cui 45 bambini.

Fa riflettere, poi, ascoltare le parole del presidente golpista del Burkina Faso, il capitano Ibrahim Traoré che, all’incontro Africa-Russia a San Pietroburgo, nel luglio scorso, ha fatto un discorso populista atteggiandosi a novello Thomas Sankara (il presidente rivoluzionario del Burkina Faso, assassinato il 15 ottobre 1987), consegnando però il paese nella mani della Russia di Putin. «Qui di Sankara non ce ne sono», ci dicono dal Sahel. E si vede: Sankara non avrebbe mai fatto massacrare il suo popolo.

Il sentimento antifrancese e antimperialista presente in tutta l’area è legittimo (noi in MC abbiamo sempre denunciato lo sfruttamento dell’Africa da parte delle potenze occidentali), ma chi applaude ai diversi golpe solo perché si contrappongono alla presenza francese ha una visione superficiale, se non miope. Intanto i golpisti si rivolgono a nuovi attori imperialisti, come il citato gruppo Wagner, dalla nota attitudine predatoria nei confronti dei paesi loro alleati. Inoltre in Niger è stato deposto un presidente che tentava di contrastare la corruzione della classe politica, e indirettamente anche il potere neocoloniale francese.

Non saranno i militari a portare lo sviluppo e l’autonomia all’Africa. Il potere autoritario delle armi e di una classe – nella quale è presente a grandi dosi la corruzione – incapace di progetti politici non salverà il continente. Insomma: Africa indietro tutta.

 

 




Cina: esempio per l’Africa?


La Cina ha lanciato nel 2013 la Nuova via della seta, un progetto di cooperazione economica a livello planetario. E l’Africa è un continente chiave. Sia perché ha grandi riserve di materie prime, sia perché, con la sua popolazione giovane, è un mercato in espansione e la futura fabbrica del mondo. La strategia dell’impero di mezzo sta cambiando. E un libro ci rivela come.

«Nell’ultimo anno, a causa della guerra in Ucraina, l’aspetto politico della strategia cinese è emerso in maniera preponderante, ancora più di quello economico. Quello dei rapporti tra Cina e Africa mi sembra un argomento importante, anche per l’Italia, per cui ho deciso di approfondirlo». Chi parla è Alessandra Colarizi, sinologa e analista, con una grande esperienza, tra l’altro, come autrice per testate italiane ed estere, su questioni cinesi. Alessandra ha vissuto diversi anni in Cina, dove ha iniziato, nel 2016, a fare parte del collettivo «China Files» (vedi in fondo a questo testo), per poi diventarne coordinatrice editoriale.

Si è specializzata sui rapporti tra la Cina e i paesi membri della Belt and Road initiative (Bri, detta anche la nuova via della seta), affrontando prima la questione dell’espansionismo cinese in Asia centrale e poi, in tempi più recenti, in Africa. È da questo interesse che nasce «Africa rossa», il suo ultimo libro.

Il volume presenta un vasto studio delle relazioni tra l’impero di mezzo e il continente africano, a partire da alcuni aneddoti storici, tracciando il percorso degli ultimi decenni, fino ad arrivare a descrivere come la strategia si è modificata, e si sta muovendo.

«Africa rossa» è un testo notevole, che ha il pregio di tentare un approccio a 360 gradi della questione. Si consideri, inoltre, che in Italia mancava un approfondimento sul tema da diversi anni.

Leggendolo si scopre che la Cina, dal 2009, è diventata il primo partner commerciale del continente, e che nel 2021 l’interscambio ha raggiunto i 254 miliardi di dollari. La Cina detiene il 14% del debito sovrano dell’Africa.

Abbiamo avuto un colloquio online con Alessandra Colarizi, per parlare di questo suo lavoro.

The 26th Chinese medical team to Benin/Handout via Xinhua (Photo by Ai Fumei / XINHUA / Xinhua via AFP)

Retorica cinese

La Cina si è sempre posta, rispetto ai paesi africani, su un piano di uguaglianza: ex colonizzati, tutti paesi emergenti, sebbene sia la seconda economia mondiale. Ma il rapporto è, indubbiamente, asimmetrico.

«È una contraddizione in termini quella cinese. Il Paese compie piccoli gesti che mettono in mostra l’intenzione di porsi in modo diverso dall’Occidente. Caso simbolo è quello delle Comore, (stato indipendente composto da tre piccole isole nel canale di Mozambico, ndr), dove la Cina ha aperto un’ambasciata, e dove recentemente si è recato il ministro degli Esteri cinese.

Questo mostra una certa sensibilità della Cina. Penso, inoltre, che il comportamento dell’Occidente faccia gioco della strategia cinese. C’è molto risentimento verso alcuni paesi ex colonizzatori. Se ci fosse un comportamento diverso, l’attenzione degli stati africani verso la Cina forse sarebbe minore.

È chiaro che, nell’atteggiamento cinese, c’è molta retorica, ma allo stesso tempo, la strategia è portata avanti con i fatti. Ovvero: attenzione diplomatica, seguita da investimenti».

Alessandra ricorda che ci sono alcune questioni trascurate nel rapporto Cina-Africa: «Poi si può passare sopra ad alcune problematiche. Penso a quelle culturali, alla scarsa accettazione reciproca dal punto di vista umano, agli attacchi razzisti contro i cinesi presso alcune miniere in Africa, o dei quali sono stati vittime gli studenti africani in Cina. Sono problemi giganteschi, che però sono insabbiati a causa di un interesse maggiore».

Per decenni in Africa hanno avuto influenza quasi esclusiva i paesi ex colonizzatori (Francia, Regno Unito, Portogallo), con l’aggiunta di Usa e Urss durante la guerra fredda. Da una ventina di anni a questa parte, invece, gli attori in campo si sono moltiplicati. Oltre alla Cina, è presente con un certo peso la Turchia, e poi l’India, le monarchie del Golfo (come Qatar ed Emirati arabi uniti), e infine la Russia di Putin con una presenza di tipo militare non ufficiale (cfr. MC novembre 2022). Ogni paese con un approccio diverso.

Colarizi scrive in Africa rossa: «Per Washington l’Africa continua ad avere le sembianze di un ring da cui buttare fuori le sfidanti – Cina e Russia – accusate di agire con intenzioni predatorie». Le chiediamo se tra queste potenze straniere, che si incrociano in Africa, ci possa essere anche collaborazione, oltre che competizione.

«Ufficialmente la Cina promuove la cooperazione nei paesi terzi, come è scritto nel memorandum sulla Bri, firmato dall’Italia nel 2019. Aveva invitato Francia e Germania a portare avanti progetti insieme. La Cina collabora con realtà occidentali fino dai primi anni ‘90, in alcuni settori dello sviluppo.

Nel momento in cui gli Usa e l’Europa spingono per dei progetti che prenderebbero il posto della Cina, e non sono aperti a investimenti cinesi, allora diventa una competizione».

«Per quanto riguarda i rapporti con le potenze emergenti, come Russia ed Emirati arabi, non c’è una grossa contrapposizione ed è bassa la possibilità che gli interessi entrino in conflitto. Questi due paesi sono focalizzati sul settore della sicurezza, nel quale la Cina sta aumentando la propria presenza con l’export di armi, ma con un interesse più rivolto all’aspetto economico che a quello militare. Quando estende le sue relazioni sul piano militare, lo fa con programmi di formazione, e solo in rapporti ufficiali. Non vedo possibilità di scontro.

L’elemento Russia è particolare, perché sappiamo che opera non solo attraverso canali ufficiali. Ci sono stati episodi recenti che hanno coinvolto anche dei cinesi, come le morti nella Repubblica Centrafricana (il 19 marzo scorso, 9 cinesi lavoratori di una miniera sono stati giustiziati; ribelli centrafricani e gruppo Wagner si rimbalzano le accuse, ndr). Questi potrebbero essere un elemento destabilizzante, che la Cina non vede con favore».

Quando ci sono elementi d’instabilità, la Cina non è mai contenta. «Con la Russia ci sono anche tentativi di cooperazione a livello ufficiale (in Africa): ci sono foto ricordo di diplomatici dei due paesi in ambasciate africane. C’è poi l’altra dimensione, la questione dei mercenari russi, nella quale non è ben chiaro dove sia il confine tra lecito e illecito.

Con gli Usa, in questa fase, non mi pare ci possano essere grandi cooperazioni».

(Photo by Tang ke / ImagineChina / Imaginechina via AFP)

Mercenari cinesi

Parlando di sicurezza, lo studio di Colarizi riporta che l’84% dei progetti della Bri è a rischio medio alto, con attacchi di varia natura al personale, e rischi di terrorismo islamista. Gran parte dei paesi africani, infatti, ha visto negli ultimi vent’anni aumentare notevolmente la propria insicurezza interna. Tutto ciò crea grossi problemi agli interessi della Cina nel continente. Inoltre: «La vocazione cinese è mantenere la stabilità».

Scopriamo da Africa rossa che anche l’impero di mezzo ha i suoi contractors: «Secondo il

think tank americano Carnegie endowment for international peace, Beijing DeWe Security Service e Huaxin Zhong An Security Group da sole controllano 35mila contractors in 50 nazioni africane». Però, ci dice Colarizi: «I contractors privati cinesi, hanno un ruolo marginale, non possono usare armi da fuoco, sono impiegati in ruoli di consulenza, supporto tecnico e prevenzione dei rischi. Interessante è una cooperazione che si sta attivando con le forze di polizia e sicurezza, a livello di addestramento e fornitura di equipaggiamento».  La sinologa ci spiega inoltre che il governo cinese ha lanciato la Global security initiative. La seconda di tre iniziative, dopo la Global development initiative e prima della Global civilization initiative di pochi mesi fa. «Si tratta di slogan, di iniziative multilaterali che vorrebbero dare un aspetto più pacifico e bonario alla Cina. Ma si basano su principi generici e sono vaghi».

Soft power dalla grande muraglia

Chiediamo all’autrice l’importanza del soft power (cioè l’abilità di guadagnare consenso internazionale grazie all’appeal culturale e valoriale, anziché attraverso la coercizione, dalla definizione del politologo statunitense Joseph S. Nye Jr., riportato da Colarizi, ndr) cinese sul continente .

La domanda che si pongono i governanti cinesi è: come accrescere il favore delle popolazioni locali nei confronti della Cina?

«Mi sembra che, al momento, il soft power sia più evidente nella sua versione tradizionale, ovvero borse di studio per attrarre giovani africani nel Paese asiatico. È il metodo migliore e più efficace per tentare di avere un impatto forte sulle generazioni future.

A livello di prodotti culturali, la Cina non ha un’industria cinematografica in grado di competere con quella statunitense o sudcoreana, anche se ci sono stati alcuni prodotti più fortunati, ma senza una grande espansione.

C’è il settore controverso della cooperazione mediatica, per la quale sono stati siglati contratti che fanno trasferire le notizie della Xinhua (agenzia stampa ufficiale di Pechino, ndr) direttamente sui media africani, senza che ci possa essere un filtro da parte di giornalisti locali. Ma non tutti i lettori sono in grado di capire qual è la propaganda».

Ci sono anche i social media, che in Africa sono molto diffusi, come ad esempio il cinese Tiktok.

«Sì, ma non so quanto impatto abbia sulla popolazione locale. C’è stato il fenomeno degli influencer cinesi che risiedono in Africa, e fanno vedere la vita dal posto sui social. In Cina sono abbastanza popolari, ma non ho un riscontro su cosa succeda in Africa».

Una nuova strategia

Si assiste, mette in evidenza Africa rossa, a un’evoluzione strategica della presenza cinese in Africa.

Fino a un decennio fa si trattava prevalentemente di costruire infrastrutture e invadere il mercato di manufatti cinesi in sovraproduzione, facendosi pagare in materie prime da portare in patria per alimentare l’industria. Questo approccio ha creato un forte indebitamento degli stati africani, che per motivi diversi, tra i quali l’instabilità sociopolitica, hanno difficoltà a pagare.

Oggi si tratta di esportare il modello cinese, che prevede, tra l’altro, la creazione di Zone economiche speciali (Zes, aree con facilitazioni legislative e fiscali, create per attrarre investimenti stranieri) come quella di Shenzhen.

Fondamentale è questo passaggio del libro: «Abbiamo visto la Cina, riconoscendo se stessa nell’Africa, tende a replicare quanto già collaudato con successo durante il proprio percorso di crescita e sviluppo. Lo ha fatto in passato con la realizzazione di infrastrutture di trasporto in cambio di materie prime. Ci ha riprovato in seguito coniugando la costruzione di aree residenziali, Zes e distretti industriali. Il tutto con l’obiettivo di creare un ecosistema urbano integrato per risolvere il grande dilemma: a differenza della versione cinese l’urbanizzazione africana non è stata accompagnata da uno sviluppo industriale in grado di sostenere la crescita economica del continente. Per porre rimedio, negli ultimi dieci anni lo sviluppo di Zes e parchi industriali è diventato uno dei pilastri della collaborazione sino africana, con un focus particolare sul settore manifatturiero e il trasferimento di tecnologia. Nel 2020 erano già 25 le zone di cooperazione economica istituite dalla Cina e potenzialmente capaci di elevare il continente da fornitore di commodities a esportatore di prodotti industriali».

La svolta

«In Africa – ci spiega Colarizi – il prezzo della mano d’opera è ancora basso, mentre in Cina è in aumento. Inoltre, nell’ultimo anno è stato firmato un accordo per abbattere le tariffe doganali di molti prodotti da diversi paesi in via di sviluppo.

I leader cinesi stanno puntando sul settore agricolo, perché sanno che l’Africa ha un grande potenziale, che si può sviluppare. Stanno investendo in formazione, export di macchinari che possono aiutare i paesi del continente a rendere più produttive le coltivazioni. È anche il settore sul quale hanno ricevuto richieste da parte degli africani».

L’export africano, soprattutto di prodotti alimentari, è dunque aumentato verso la Cina, e si tratta di un’inversione di tendenza, segno di un grande cambiamento.

Colarizi: «Recenti dati sull’export cinese verso paesi emergenti, dicono che c’è un aumento del 30% di semilavorati, che vengono poi utilizzati nel manifatturiero. Questo da l’idea che ci sia l’intenzione di rafforzare lo sviluppo industriale».

Allora la Cina è un esempio per i paesi africani? «C’è l’intenzione da parte della Cina di replicare il proprio modello, anche se io non ci vedo un tentativo di imposizione dall’alto. Piuttosto una proposta. È come se i cinesi dicessero: “il nostro modello ha funzionato da noi, però non è detto che funzionerà da voi. Seguite il vostro percorso, trovate la vostra strada, sperimentate e non è escluso che ce la farete”».

Marco Bello

Ponte Generale Seyni Kountché, realizzato dai cinesi, inaugurato nel 2022, Niamey, Niger. Foto Marco Bello

 Cina-Africa su MC

China Files

  • È un collettivo di giornalisti, sinologi ed esperti di comunicazione specializzati in affari asiatici. Nata a Pechino nel 2008 come agenzia stampa focalizzata sulla Cina si è ampliata fino a coprire l’intera Asia. Ha già collaborato con MC.
  • Alessandra Colarizi, tra l’altro, cura la rubrica Africa rossa, per aggiornare sulle dinamiche tra Cina e i paesi del continente.
  • www.china-files.com

 

 

 




Otto miliardi


Questa è la soglia superata dalla popolazione mondiale lo scorso novembre. Un dato che va interpretato visto che nei paesi occidentali il numero si sta contraendo, mentre in quelli africani sta aumentando. Con importanti ricadute a tutti i livelli.

Non si conosce se si sia trattato di un nastro rosa o celeste, né su quale porta sia stato appeso, ma le Nazioni Unite sostengono che il 18 novembre 2022, da qualche parte nel mondo, c’è stata una nuova nascita che ha portato la popolazione globale oltre la soglia degli otto miliardi.

La popolazione cresce quando le nascite superano le morti, ma questo risultato può essere ottenuto attraverso una varietà di combinazioni che condizionano fortemente l’età media dei cittadini. Ad esempio, dove l’alto tasso di natalità convive con un alto tasso di mortalità degli adulti, la crescita della popolazione è caratterizzata da un’età media bassa: la popolazione è più giovane (come accade in gran parte dei paesi africani). Se, al contrario, la crescita è caratterizzata da una bassa natalità che si accompagna a una mortalità altrettanto bassa degli adulti, è probabile una prevalenza di popolazione adulta e anziana (come accade, ad esempio, in Italia).

Queste differenze si fanno sentire sul piano economico perché l’età condiziona la capacità di lavoro e, quindi, di produzione.

Storia della popolazione

Nel mondo, la popolazione ha cominciato a crescere in maniera significativa nel 1800 a partire dall’Europa.

Oltre a un’alta natalità (una media di 4 figli per donna feconda), varie altre ragioni hanno contribuito al fenomeno: una migliore alimentazione, città più pulite grazie alla costruzione di sistemi fognari più moderni, scoperte mediche e farmaceutiche che hanno iniziato a limitare la mortalità infantile e adulta. Si calcola che, fra il 1800 e il 1850, la popolazione europea sia passata da 187 a 266 milioni di abitanti, un aumento del 42% che ha fatto parlare di rivoluzione demografica. La crescita demografica, però, non è stata accompagnata da un’uguale crescita di posti di lavoro. Di conseguenza, sono stati tantissimi coloro che hanno scelto di cercare miglior fortuna all’estero. In totale, si stima che, fra il 1800 e il 1930, i migranti europei siano stati 60 milioni, soprattutto verso le Americhe e l’Oceania.

Intorno al 1910 la popolazione europea o di origine europea (includendo Stati Uniti, Canada, Oceania e anche paesi latino-americani di forte immigrazione, come l’Argentina) rappresentava più di un terzo di quella mondiale (contro il 20 per cento di un secolo prima), e cresceva più rapidamente di quella del resto del mondo. Ma poi la corsa è rallentata e, pur con un breve sussulto negli anni Sessanta (conosciuto come «baby boom»), il numero di nascite per donne feconde (tasso di fertilità) è sceso sotto il due: un livello cioè che porta la popolazione a contrarsi.

Nel frattempo, la popolazione stava cominciando a crescere nei cosiddetti paesi del Terzo Mondo: pratiche come la bollitura dell’acqua, le vaccinazioni e le disinfestazioni con il Ddt nelle regioni malariche, riducevano la mortalità, mentre la natalità rimaneva a livelli sostenuti. Basti dire che nel 1950, in Rwanda, Kenya, Filippine, la media di figli per donna fertile era superiore a sette, mentre in Cina e India era attorno a sei. Fatto sta che, fra il 1950 e il 1987, la popolazione mondiale è raddoppiata passando da 2,5 a 5 miliardi di individui. Un raddoppio in 37 anni non si era mai visto nella storia dell’umanità.

Siamo in otto miliardi. Foto di Eberhard Grossgasteiger – Unsplash.

Il caso Cina

Dopo il 1987 la popolazione mondiale ha continuato a crescere, ma non allo stesso ritmo perché il tasso di natalità si è ridotto quasi ovunque. A ogni latitudine, ma per ragioni diverse: dove per il diverso ruolo sociale conquistato dalle donne; dove per la maggiore istruzione che ha permesso a esse di avere un maggiore controllo del proprio corpo; dove per la promozione massiccia di anticoncezionali; dove, ad esempio in India, per l’istituzione di premi per tutti coloro che accettavano di sottoporsi a sterilizzazione; dove per il divieto alle coppie di oltrepassare un determinato numero di figli.

Quest’ultima pratica è stata assunta in particolare in Cina nel 1980 quando Deng Xiaoping ha proibito alle coppie di avere più di un figlio. Chi trasgrediva la regola rischiava di perdere il posto di lavoro e di pagare multe esorbitanti. Si poteva addirittura arrivare all’assurdo che il secondo o il terzo figlio non potesse essere registrato all’anagrafe condannando i malcapitati a non avere nessun riconoscimento sociale.

Nel 2015 la regola del figlio unico è stata tolta tornando a quella di due figli che era in vigore durante gli anni Settanta. Poi, nel maggio 2021, è stato addirittura introdotto il permesso di avere fino a tre figli. Troppo tardi. Nel 2022 la popolazione cinese è calata di circa 850mila persone. Secondo le Nazioni Unite, se dovesse persistere la tendenza alla perdita di popolazione, la Cina passerebbe dagli attuali 1,4 miliardi di abitanti a 1,2 nel 2050 e scenderebbe sotto il miliardo entro il 2075. Stando così le cose, già nel corso di questo 2023, l’India dovrebbe sorpassare Pechino come nazione più popolosa del pianeta. Nel frattempo, la Cina è diventato il paese con il più alto numero di anziani: nel 2019 le persone oltre sessanta anni erano 254 milioni; nel 2040  si prevede che saranno 402, il 28% dell’intera popolazione. Con gravi ripercussioni per il sistema economico: la riduzione del numero di persone in età lavorativa potrebbe provocare un calo della produzione, un aumento del costo del lavoro e una crescita vertiginosa della spesa sanitaria e sociale per l’assistenza ai più anziani.

Il caso africano

A livello mondiale il tasso medio di fertilità è di 2,4 figli per donna fertile, appena sopra il 2,1, detto «tasso di conservazione», perché considerato il livello minimo utile a impedire alla popolazione di contrarsi. Ma moltissime nazioni sono ormai sotto questa soglia. In Italia, ad esempio, siamo a 1,24, in Spagna a 1,23, in Corea del Sud addirittura a 0,85. Le Nazioni Unite prevedono che la popolazione di 61 nazioni si ridurrà di almeno l’1% fra il 2022 e il 2050.

Gli unici paesi in controtendenza sono quelli più poveri, soprattutto dell’Africa, continente con un tasso medio di fertilità di 4,3, lo stesso che avevamo in Europa nel 1800.

Secondo i dati della Banca mondiale, relativi al 2020, il primato spetta al Niger con 6,9 nascite per donna fertile. Seguono la Somalia con 6,4, la Repubblica Democratica del Congo con 6,2, il Mali con 6, l’Angola con 5,4, la Nigeria con 5,3. In conclusione, l’Africa subsahariana è l’area del mondo con il più alto tasso di crescita demografica, tanto da aspettarsi un raddoppio entro il 2040, passando da 1,1 a 2,1 miliardi di persone.

Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, la popolazione mondiale continuerà a crescere fino a raggiungere 10,4 miliardi nel 2100, poi dovrebbe stabilizzarsi o addirittura diminuire. Ma continuare a trattare il tema della popolazione mondiale come un tutt’uno non ci dà il vero quadro della situazione. In effetti in tema di popolazione il mondo va diviso in tre fasce: quella a rapida crescita demografica, quella a modesta crescita, quella a crescita zero o negativa. Ognuna di esse presenta i propri problemi e le proprie specificità.

Siamo in otto miliardi. Foto di Sam Chen – Pixabay.

Paesi in denatalità

Nel 2021 si sono contati una quarantina di paesi con crescita negativa, guidati dalla Lituania che ha subito una riduzione demografica dell’1,19%. Fra essi compare anche l’Italia che nel 2021 ha avuto un calo complessivo di residenti dello 0,3% rispetto al 2020. Già nel 2008 il Parlamento europeo aveva lanciato grida di allarme precisando che la denatalità avrebbe voluto dire invecchiamento della popolazione, meno persone al lavoro e quindi meno soldi per sanità e previdenza sociale a causa delle minori entrate fiscali.

Nel 2021 gli over 65 in Italia erano 13,9 milioni e rappresentavano il 23,5% della popolazione totale. Nel 2050 la loro quota è attesa al 34,9%, e c’è chi trema pensando alle difficoltà che ci attendono. Una popolazione di vecchi non può badare a se stessa: senza un’adeguata base di giovani disposta a farsene carico è destinata a soccombere sotto il peso degli enormi bisogni economici, sociali, sanitari, assistenziali.

Nella situazione opposta si trova l’Africa con tre quarti della popolazione al di sotto dei 35 anni, 900 milioni di individui. Quasi metà di loro, 35% dei residenti, è in età da lavoro collocandosi fra i 15 e i 35 anni. E, tuttavia, un terzo dei giovani africani è disoccupato e un altro terzo sottoccupato. Solo il 17% ha un lavoro salariato regolare, ed è lontana la prospettiva che questa quota possa crescere. Ogni anno in Africa il mercato del lavoro vede l’ingresso di 10-12 milioni di nuovi giovani, ma l’offerta di nuovi posti non supera i 3 milioni. Di questo passo, avverte la Banca per lo sviluppo africano, nel 2025 i giovani africani senza alcuna prospettiva di lavoro saranno 263 milioni. Situazione destinata ad aggravarsi considerato che, nel 2050, le persone fra i 15 e i 35 anni in Africa sono attese a 850 milioni. In conclusione, l’unica prospettiva di vita per molti giovani africani è la migrazione, principalmente dalle campagne verso le città e dai paesi africani a più bassa capacità produttiva verso quelli a maggiore capacità produttiva. Già oggi 19 milioni di africani si trovano in un paese del continente diverso da quello di nascita. Ma altri 17 milioni si trovano in continenti diversi dall’Africa.

Il ruolo delle migrazioni

Considerato che il mondo è formato da aree con una penuria di giovani e altre con un eccesso,  sarebbe interesse di tutti un riequilibrio attraverso una maggiore libertà di movimento delle persone. I paesi che stanno invecchiando potrebbero ringiovanirsi e i paesi con molti giovani potrebbero migliorare la propria economia tramite le rimesse degli emigranti. Ma in Europa, e in particolare in Italia, solo pochi hanno messo a fuoco che questa è la strada da battere. Fra essi Tito Boeri che, da presidente dell’Inps, non ha perso occasione per ricordarci il ruolo insostituibile dei migranti: senza i due milioni e mezzo di lavoratori stranieri che pagano le tasse e versano i contributi, il sistema previdenziale italiano non ce la farebbe. Chi invece sembra non averlo capito è la politica che pure avrebbe il compito di individuare i problemi e trovare le soluzioni. Il fatto è che i fenomeni si mettono in moto da soli, e quando la politica li intercetta, spesso succede che invece di gestirli in un’ottica di bene comune li cavalca per fini elettorali. Paradossi della democrazia.

Francesco Gesualdi
(prima parte – continua)

Siamo in otto miliardi. Foto di Humberto Chavez – Unsplash.

 

 




Wagner e i suoi fratelli


Operano da oltre dieci anni, ma solo di recente si è iniziato a parlare di loro. Agiscono nell’ombra, ma calcano i principali teatri di guerra. Sono organizzazioni strutturate, e orientate al business, nelle quali l’ideologia non c’entra. Facciamo il punto sulle compagnie dei contractor russi.

Su un punto tutti sono d’accordo: il Gruppo Wagner esiste. Su un altro punto tutti sono altrettanto d’accordo: il mistero avvolge ogni cosa riguardi questa società di mercenari. Su di essa si rincorrono voci, si parla di interessi e influenze importanti, ma anche di una sorta di invincibilità. Tutto però è avvolto in quella nebbia tipica degli ambienti militari o paramilitari che flirtano con i servizi segreti, la politica, l’industria. A maggior ragione se si parla di Russia, un paese che vanta, fin dagli anni sovietici, una tradizione di assoluta riservatezza e opacità in materia militare. Per parlare del Gruppo Wagner, bisogna, quindi partire da quelle poche cose certe che si conoscono sulla sua esistenza.

Wagner in Centrafrica (Photo by FLORENT VERGNES / AFP)

Le origini

Secondo l’intelligence militare britannica, la nascita di questa moderna compagnia di ventura risale alla fine degli anni Duemila per iniziativa di un ex ufficiale dell’esercito russo di 51 anni, tal Dmitri Utkin. Si pensa che sia stato lui a fondare questo gruppo e gli abbia dato il nome di Richard Wagner, suo compositore preferito e molto apprezzato anche negli ambienti dell’estrema destra europea.

Utkin è un veterano delle guerre cecene, un ex ufficiale delle forze speciali e del Gru, il servizio di intelligence militare russo.

Il battesimo del fuoco di Wagner sarebbe avvenuto (ma non è certo) nel 2014, nella guerra che ha portato all’annessione russa della Crimea. «Si pensa che i suoi mercenari siano alcuni di quegli “omini verdi”, senza alcuna insegna addosso che occupavano la regione – ha spiegato alla Bbc, Tracey German, professore di Conflitto e sicurezza al King’s College di Londra -. Un migliaio di suoi mercenari ha poi sostenuto le milizie filo russe che combattevano per il controllo delle regioni di Luhansk e Donetsk».

La nascita e l’impiego del Gruppo Wagner è però controverso fin dall’inizio. In Russia, come in Italia e in molti altri paesi occidentali, le attività militari «private» sono espressamente vietate dalla Costituzione. Anche se una forza militare ben addestrata e di pronto impiego può tornare utile in caso di operazioni nelle quali la Russia non voglia esporsi ufficialmente. «Wagner può essere coinvolto all’estero e il Cremlino può dire: “Non ha nulla a che fare con noi”», ha detto alla Bbc, Samuel Ramani, membro associato del Royal United Services Institute.

Anche se la questione è più complessa di quanto sembri. «In Russia – osserva Mattia Caniglia, ricercatore dell’European Council on foreign relations -, a differenza di quanto possa apparire a un occhio esterno, non c’è un soggetto unico a prendere le decisioni. Il sistema del governo è molto competitivo, al suo interno c’è una grande gara fra centri di poteri: ministero della Difesa, ministero degli Affari esteri, le diverse agenzie di intelligence, ecc. In questo contesto, il Gruppo Wagner e le altre agenzie private agiscono in collaborazione con alcuni di questi centri, oppure si muovono addirittura da sole. Bisogna pensare che sono società strutturate, come conglomerati di industrie e aziende che si occupano non solo di difesa, ma anche di minerali, comunicazione, formazione. Questo conglomerato opera con uno spirito imprenditoriale e cerca i business laddove pensa possano esserci. Se il business porta a far crescere la rete della Russia, Mosca sostiene le compagnie mercenarie. Altrimenti ne prende le distanze».

Proteste in Mali (Photo by FLORENT VERGNES / AFP)

Aree d’influenza

La Russia, è l’analisi di Mattia Caniglia, al contrario dell’Unione europea, della Cina, della Turchia, non ha strumenti di soft power (cioè la fornitura di aiuti economici e influenza culturale). Quindi, queste compagnie di mercenari (Wagner non è l’unico gruppo di contractor russo) si configurano come uno strumento di influenza non ufficiale per Mosca in aree in cui può avere interessi geostrategici. Nell’Africa occidentale, per esempio, la Russia può infastidire la presenza dell’Unione europea (che in loco ha la sua missione più grande) e la Francia. Wagner e altre compagnie simili possono facilitare i rapporti tra Russia e paesi africani. Una volta in Africa poi, le società dei mercenari si ritagliano uno spazio nell’economia locale.

E proprio in questo contesto si inseriscono i legami di Utkin e il Gruppo Wagner con Yevgeny Prigozhin, l’oligarca russo noto come «lo chef di Putin», perché in passato ha fornito i servizi di ristorazione e catering al Cremlino. Prigozhin ha sempre negato ogni legame con Wagner, ma a fine settembre scorso, sui social della sua società Concord, ha detto di aver fondato il Gruppo. Sono infatti i contractor a proteggere gli interessi dell’oligarca in diverse parti del mondo e, in particolare, in Africa.

Nel 2020, il dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha affermato che Wagner ha agito da «security» in diverse nazioni per le società minerarie di Prigozhin, come M Invest e Lobaye Invest. Tanto è vero che Washington le ha poi sanzionate.

«Ci viene detto che i soldati di ventura sono un fenomeno tipico dell’Occidente e che il mercenarismo è un prodotto dell’idra capitalista, ma anche noi (la Russia, ndr) ce ne siamo serviti per promuovere gli interessi del nostro paese all’estero – ha scritto Marat Gabidullin in Io, comandante di Wagner (Libreria Pienogiorno, euro 18,90, pp. 288) -. I nostri uomini politici mantengono un silenzio pudico sull’esistenza di compagnie militari private russe e respingono in blocco qualunque allusione al ricorso a tali formazioni non governative. Da parte loro, i propagandisti indottrinano pesantemente i russi inculcando loro l’idea di una politica estera propria della Russia ed eludendo qualunque risposta diretta alle domande riguardanti l’uso dei mercenari».

Former Russian mercenary of the Wagner group Marat Gabidullin poses during a photo session on May 11, 2022 in Paris. (Photo by STEPHANE DE SAKUTIN / AFP)

Chi sono

Il Gruppo Wagner, secondo quanto riportano i servizi di intelligence britannici, è composto principalmente di veterani dei reparti speciali russi. L’analista Samuel Ramani afferma che l’organico attuale dovrebbe contare su un totale di cinquemila mercenari. Si tratta di personale ben addestrato sia all’uso delle armi (anche di sistemi d’arma complessi) sia sotto il profilo tattico. Secondo quanto trapelato da fonti interne, Wagner recluterebbe principalmente ex militari che hanno bisogno di saldare debiti e che provengono da zone rurali dove ci sono poche altre opportunità per fare soldi. Sono quindi soldati di professione che non hanno alternative e che sono disposti a continuare il mestiere delle armi una volta congedati dalle forze armate. La paga si aggirerebbe sui due-tremila euro al mese, ma la cifra varierebbe a seconda del tasso del rublo e non sarebbe mai stata costante negli anni. Si sa che Wagner ha dato vita anche a un sistema di «assistenza sociale» per i propri uomini. Chi rimane ferito in combattimento dovrebbe ricevere, a seconda della gravità delle ferite, tra i 500 e i tremila dollari di indennità. E alle famiglie dei caduti verrebbe promessa una cifra tra i 35mila e i 50mila dollari.

I contratti sono sempre «a tempo determinato» o, meglio, «a progetto». Per la campagna nel Donbass, sono stati offerti contratti di pochi mesi, per la Siria fino a un anno (con ferie ogni sei mesi). La formazione è affidata a ex ufficiali russi e, durante il periodo di addestramento, gli uomini prenderebbero circa mille dollari. Sono cifre e condizioni che rappresentano un incentivo notevole per uomini che non hanno prospettive nella vita civile. Ma, sebbene nei ranghi di Wagner siano presenti emarginati e disadattati, ciò non toglie che il Gruppo abbia grandi capacità militari. Secondo quanto riporta il New York Times, in Siria, proprio i mercenari russi sarebbero stati in grado di resistere per più di quattro ore a una formazione statunitense composta da uomini della Delta Force e dei Berretti Verdi. Le forze speciali Usa, per avere la meglio sui russi, avrebbero dovuto chiedere l’intervento dell’aviazione. Prima di far bombardare l’area, però, avrebbero chiesto al comando delle forze armate russe in Siria di ritirare i propri uomini. Ma Mosca avrebbe negato di avere propri militari nell’area condannando, di fatto, i contractor a morte certa.

Ma chi finanzia il Gruppo Wagner? Su questo punto la nebbia è fittissima. Secondo fonti dell’intelligence britannico, sarebbe il Gru, i servizi segreti militari russi, a sostenere economicamente e a supervisionare segretamente Wagner. Fonti mercenarie hanno confessato ad alcuni media che la base di addestramento di Wagner si trova a Mol’kino, nel Sud della Russia, e sarebbe vicina a una base dell’esercito russo.

Bangui, Centrafrica. Manifestazione a sostegno della Russia (Photo by Carol VALADE / AFP)

Dove ha operato e opera

Nel 2015 il Gruppo Wagner ha iniziato a operare in Siria, combattendo al fianco delle forze filogovernative e facendo la guardia ai giacimenti petroliferi. Un’operazione condotta con le truppe di Mosca, per la quale i mercenari avrebbero pagato un prezzo altissimo. È ancora Marat Gabidullin a descrivere la situazione: «I generali russi in Siria hanno messo in campo con successo una strategia che avrebbero potuto battezzare “qui non ci sono”, creando l’illusione di vittorie poco costose in termini di vite umane nei ranghi dell’esercito. Ma le cifre reali dei cittadini russi morti nella guerra contro lo Stato Islamico non corrispondono ai dati ufficiali. Il numero dei mercenari morti è superiore, e di gran lunga, a quello dei soldati regolari. E tuttavia, ai russi viene tenuta nascosta perfino la partecipazione della compagnia militare privata, sempre per alimentare il mito di una guerra non sanguinosa. I militari russi di ogni grado presenti in Siria si crogiolano nella gloria e si lasciano adulare dal popolo ignorante».

Ma è in Africa che Wagner ha iniziato a farsi conoscere. «La strategia russa in Africa si muove su due livelli – sottolinea Mattia Caniglia -. Quello ufficiale, lavora attraverso diversi strumenti: diplomazia, scambi culturali, accordi che prevedono lo scambio di sistemi d’arma per risorse naturali, ecc. Poi c’è un livello non ufficiale. Di questo fanno parte le azioni di disinformazione portate avanti attraverso la collaborazione tra i media russi e quelli africani. Ma anche le azioni delle compagnie militari private. Uso volutamente il plurale perché se il Gruppo Wagner è la compagnia russa di mercenari più famosa, non è la sola. La presenza di mercenari russi, in questo momento, è forte in Botswana, Guinea Bissau, Guinea Conakry, Libia, Mali, Mozambico, Madagascar, Zimbabwe, Centrafrica».

Che ruoli ha

Come si muovono sul terreno? «Noi abbiamo in mente i mercenari come soldati combattenti. In realtà, spesso svolgono ruoli di addestramento e di formazione. In altri casi, come in Libia e in Centrafrica sono schierati sul campo, ma a protezione di impianti.

Nel 2016 i contractor russi sono stati impiegati in Libia a supporto delle forze fedeli al generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. Rapporti delle agenzie di intelligence occidentali stimano che nel 2019 siano stati impiegati fino a mille mercenari Wagner nell’avanzata di Haftar verso Tripoli. Un’avanzata fallimentare, fermata dalle milizie fedeli al presidente Fayez al Sarraj, sostenuto dall’esercito e dagli armamenti forniti dalla Turchia.

Nel 2017, il Gruppo Wagner è stato invitato nella Repubblica Centrafricana. Testimonianze di missionari cattolici in loco parlano di una presenza massiccia di un gruppo di uomini determinati e senza scrupoli. «Nella Repubblica Centrafricana abbiamo il coltello dalla parte del manico – osserva Marat Gabidullin -: i leader dipendono totalmente dai mercenari». Ciò fa sì che la compagnia possa fare affari milionari sfruttando le miniere di diamanti senza minimamente curarsi del rispetto dei diritti umani della popolazione locale.

«Il continente africano rimane terreno vergine per la diplomazia russa e gli intrallazzatori politici – è ancora Gabidullin a parlare -. Il potere è in mano a leader senza scrupoli che hanno saputo apprezzare l’aiuto fornito da Mosca a Damasco e si sono mostrati pronti a lasciare che la Russia mettesse le mani sulle risorse naturali dei loro paesi ricchi d’oro, diamanti e petrolio. Il ricorso ai mercenari da parte della Russia è un fatto assodato, irrefutabile».

Con la stessa logica, Wagner è stata impegnata in Mozambico per contenere la ribellione jihadista nel Nord. Dietro l’operazione militare, che è stata un fallimento, c’erano interessi economici forti. Nella regione sono presenti ricchi giacimenti di rubini, ora, in parte, sfruttati da imprenditori conniventi con gli islamisti.

Più recentemente, il Gruppo Wagner è stato invitato dal governo del Mali, nell’Africa occidentale, sempre per fornire sicurezza contro i gruppi militanti islamisti. Il suo arrivo nel 2021 ha influenzato la decisione della Francia di ritirare le proprie truppe dal paese. In Mali, il Gruppo Wagner avrebbe circa 600 effettivi che avrebbero compiuto azioni brutali. Il ministero degli Esteri francese ha diffuso un comunicato nel quale ha fatto sapere di essere «preoccupato per informazioni che parlano di massicce esecuzioni nel villaggio di Moura da parte di elementi delle forze armate maliane accompagnate da mercenari russi del Gruppo Wagner che avrebbero causato la morte di centinaia di civili» (fine marzo 2022, ndr).

Contractor russi avrebbero inoltre partecipato all’operazione antiterrorismo realizzata a fine marzo dall’esercito maliano nel Sahel. Secondo il quotidiano francese Le Monde, nel paese sarebbero presenti «paramilitari bianchi identificati da fonti locali e internazionali come appartenenti alla società di sicurezza privata russa Wagner».

Tripoli, Libia (Photo by Hazem Turkia / ANADOLU AGENCY / Anadolu Agency via AFP)

L’ultimo fronte

In Ucraina, il Gruppo Wagner ha avuto il suo battesimo del fuoco nel 2014, e vi è tornato a febbraio allo scoppio della guerra tra Mosca e Kiev. Reparti di mercenari sono stati segnalati da diverse fonti di intelligence occidentale sul territorio ucraino. Secondo quanto riporta il quotidiano britannico The Times, almeno 400 avrebbero operato intorno a Kiev nelle prime settimane del conflitto. Il loro obiettivo era di uccidere il presidente Zelensky e altre importanti figure politiche governative e locali.

La Brigata delle tenebre, come viene anche chiamata la compagnia di ventura, avrebbe poi spostato i suoi effettivi verso il Donbass, nell’Est del paese, e cioè nell’area strategica balzata in cima alla lista degli obiettivi russi. Non ci sono certezze, ma pare che la Wagner abbia inviato in Ucraina seimila uomini, mille dei quali attivi proprio nel Donbass. Combattono a fianco delle forze regolari del Cremlino e di altri combattenti provenienti da Medio Oriente e Siria e, anche in questo quadrante, si sono distinti per le atrocità.

Secondo quanto riporta il settimanale tedesco Spiegel, l’intelligence tedesca avrebbe intercettato trasmissioni radio del personale militare russo in cui si discuteva di omicidi di civili a Bucha. Alcune delle conversazioni sarebbero legate a specifici cadaveri fotografati a Bucha e il materiale dimostrerebbe anche come membri del Gruppo Wagner sarebbero coinvolti nelle atrocità. Gli omicidi di civili, secondo gli 007 tedeschi, non sarebbero stati né casuali, né azioni di singoli soldati, ma operazioni abituali delle forze armate russe e dei mercenari loro alleati.

Anche su questo fronte però i soldati della Wagner sono come ombre e come tali trattati dallo stato maggiore di Mosca. «I mercenari russi – scrive Marat Gabidullin nel suo libro – sono scritti in una colonna a parte dell’elenco delle vittime, coperta dal segreto. E in Ucraina sono molto numerosi, in tutte le ramificazioni della cosiddetta operazione speciale. Le formazioni militari delle repubbliche del Donbass, riconosciute solo dalla Russia e che in otto anni hanno perseguito unicamente una strategia difensiva, non sarebbero in grado di condurre operazioni offensive senza il supporto di un’altra forza, quella dei contractor. Fino a poco tempo fa, attorno a Kiev c’erano almeno due distaccamenti di mercenari, assegnati specificamente a questa operazione. Inoltre, tre distaccamenti di Wagner partecipano ai combattimenti a Mariupol e Kharkiv.
I mercenari sono pagati in dollari. La nuova tendenza, all’interno delle forze d’invasione, è scambiare il patriottismo con i dollari. L’ideologia non c’entra, quello che conta è riempirsi le tasche».

Enrico Casale

 




Heineken in Africa

testo di Chiara Brivio |


Il libro inchiesta del giornalista Olivier van Beemen

Un giornalista olandese alla scoperta degli affari africani, non sempre limpidi, di una delle multinazionali più conosciute e amate del suo paese.

Olivier van Beemen, ha dedicato sei anni a investigare il giro d’affari in Africa di una delle più grandi multinazionali della birra al mondo: l’olandese Heineken. Un’azienda dalla reputazione impeccabile, con 165 birrifici in 70 paesi, i cui profitti nel continente superano del 50% la media dei suoi profitti nel mondo, che considera l’Africa, per bocca del suo stesso amministratore delegato Jean-François van Boxmeer, «il segreto meglio custodito dell’imprenditoria internazionale».

Inviato dal quotidiano olandese «Financieele Dagblad» a seguire la Rivoluzione dei gelsomini in Tunisia nel 2010, van Beemen ha scoperto per caso alcuni legami tra il gigante della birra e un uomo d’affari vicino all’ex dittatore Ben Ali.

Da lì ha avuto inizio una lunga inchiesta che ha portato a risultati sconcertanti: in diversi paesi africani van Beemen ha portato alla luce casi di collusione, corruzione, abusi sessuali, prostituzione, elusione fiscale, violazione dei diritti umani, nei quali sarebbe coinvolta la Heineken. Fino al genocidio ruandese del 1994, nel quale, secondo la ricostruzione fatta dall’autore, la multinazionale della birra avrebbe avuto un ruolo importante.

La sua inchiesta è confluita in un libro, Heineken in Africa. La miniera d’oro di una multinazionale europea, pubblicato recentemente in Italia da ADD editore (Torino 2020, pp. 336, euro 16,00). In esso l’autore solleva molti dubbi sul ruolo di Heineken che dichiara di essere un forte agente di sviluppo in molti paesi africani, ma anche sulle multinazionali che operano nel continente in generale.

Abbiamo intervistato il giornalista in occasione dell’uscita dell’edizione italiana.

Perché ha scelto Heineken per la sua inchiesta?

Foto Dingena Mol

«È stato in Tunisia che è iniziato tutto, quando ho scoperto che lì Heineken aveva intrapreso una collaborazione con un membro del clan familiare dell’allora dittatore Ben Ali. Sono rimasto scioccato dal fatto che una multinazionale di quel calibro potesse mentire così apertamente: Heineken infatti negava di aver mai fatto affari con qualcuno che facesse parte di quel clan, mentre in realtà era il contrario e aveva legami con la dittatura.

Successivamente ho scoperto che Heineken aveva un enorme giro d’affari in Africa e che possedeva birrifici in diversi paesi. Il mio stesso governo negli anni ha elargito a Heineken milioni di euro dei contribuenti olandesi sotto forma di sussidi, perché crede che l’azienda contribuisca allo sviluppo in Africa.

Ho pensato che sarebbe stato interessante approfondire se veramente Heineken aiuta lo sviluppo.

Attenzione agli spoiler: è vero il contrario».

Il consumo di birra in molti paesi dell’Africa è molto elevato. Come mai?

«Molte società africane hanno delle tradizioni birraie che risalgono a tanti secoli fa. Le birre locali hanno una percentuale di alcool del due o tre per cento, e hanno come base il sorgo, la cassava, il miele e altri ingredienti. La birra a volte svolge anche un ruolo importante nei rituali e nelle cerimonie. Ciò significa che l’Africa è un mercato molto allettante per l’industria della birra occidentale, che fa di tutto per spingerne il consumo.

La misura standard di una bottiglia nella maggior parte dei paesi africani è di 60 cc (ad esempio in Nigeria) e di 75 cc (in Sudafrica).

I consumatori bevono facilmente anche cinque, sei, persino dieci bottiglie al giorno.

Senza dimenticare che Heineken e i suoi concorrenti sono riusciti con successo a trasformare le loro birre in uno status symbol. Per esempio, lo slogan del marchio Mützig, di proprietà di Heineken, è «il gusto del successo». Così fa credere agli africani che, bevendo birre occidentali, faranno parte di una nuova classe media. La conseguenza di tutto questo è che molti spendono i loro guadagni comprando birra, invece di prodotti più utili».

Come lei sottolinea nel libro, è molto difficile giudicare il ruolo che le multinazionali hanno nello sviluppo in Africa. Da una parte creano lavoro, costruiscono infrastrutture, collaborano con le Ong. Dall’altra, invece, sono coinvolte con i governi locali, spesso dittature, e sembrano sottrarre risorse a questi paesi già in difficoltà. C’è una via d’uscita?

«Penso che le aziende, incluse le multinazionali, possono ricoprire un ruolo positivo in Africa. Ma è importante anche guardarle con occhio critico, senza sottovalutare i loro slogan.

Queste aziende cercano il profitto, e non c’è niente di male in questo, ma oggi, sempre più, vogliono convincerci che sono loro la soluzione per un mondo migliore. Vogliono farci credere che sono genuinamente preoccupate per l’ambiente e per l’umanità.

Per chi lavora per queste compagnie, può essere vero, ma un’azienda non è la stessa cosa della somma degli individui che ci lavorano. Risponde a delle sue dinamiche interne e, alla fine, si tratta sempre di generare profitti.

Quindi penso che i governi e le Ong non dovrebbero collaborare con loro, perché il ruolo dei governi e delle Ong è quello di stabilire le regole e di controllare che le aziende le rispettino.

Oggi questo non succede. In particolare, nei paesi in via di sviluppo, praticamente non esiste un sistema di controllo ed equilibrio.

Le multinazionali pagano i media locali perché scrivano storie di successo, e sono riuscite a convincere sia i governi che le Ong che siglare delle collaborazioni con loro per un obiettivo comune sia cruciale per il progresso di quei paesi. Penso che questo sia molto pericoloso.

Per fare solo un esempio che riguarda Heineken: l’azienda si è impegnata ad acquistare per 10 anni il 60% delle sue materie prime da produttori e agricoltori africani. A livello di pubbliche relazioni è stata un’incredibile storia di successo, e ha permesso a Heineken di ricevere aiuti sia dal governo tedesco che da quello americano. Ma i progetti agricoli sono falliti, e l’anno scorso Heineken ha comprato solo il 37% da fornitori locali, cioè meno di quello che acquistava all’inizio del progetto.

Normalmente nessuno va a controllare queste cose, e anche dopo che la storia è stata smascherata, l’azienda continua a presentarla come un successo».

Perché Heineken ha risposto alla sua inchiesta solo nel 2018, dopo l’uscita della seconda edizione? Forse perché sapeva che il libro sarebbe stato pubblicato in vari paesi del mondo e temeva per la propria reputazione? Ci sono state delle conseguenze per Heineken a seguito del libro?

«All’inizio Heineken aveva deciso di non cooperare con me in alcun modo. In realtà poteva essere una buona strategia, perché alcuni lettori avrebbero potuto pensare che i miei scritti fossero solo una parte della storia, anche se io ho presentato la versione dell’azienda attraverso interviste e documenti interni.

Invece per il secondo libro (giunto alla quinta edizione nei Paesi Bassi, nda), che è stato tradotto in diverse lingue, Heineken ha adottato una strategia più “seducente”. Sono stato invitato a una cena, la quale sicuramente si sarebbe tenuta in un ristorante di lusso di Amsterdam, ma io ho rifiutato, dicendo che avrei preferito prendere un caffè nella loro sede centrale.

Il libro ha avuto delle serie conseguenze per Heineken: una banca olandese ha deciso di disinvestire dall’azienda e il Fondo globale contro l’Aids, la tubercolosi e la malaria, che ha il supporto anche della Bill & Melinda Gates foundation, ha sospeso la sua collaborazione».




Lo spaccio passa per le autostrade d’Africa


Testo di Enrico Casale


All’inizio degli anni 2000 si apre la rotta della cocaina dal Sud America all’Africa dell’Ovest per l’Europa. Da Oriente, invece, arrivano gli oppiacei e le metanfetamine. Il traffico è gestito da organizzazioni dei 4 continenti molto interconnesse. Ma l’Africa da zona di transito è diventata terra di produzione e consumo. E mancano i fondi per i trattamenti e la riabilitazione.

Crocevia di traffici, ma anche mercato di consumo. Il rapporto dell’Africa con la droga si fa sempre più forte e per le grandi organizzazioni internazionali di trafficanti, il continente sta diventando una terra ricca nella quale gestire e potenziare un business miliardario.

Il quadro complessivo non è dei più rassicuranti. «La produzione e il traffico illeciti di cannabis – spiegano i responsabili di Unodc (United Nations office on drugs and crime, l’agenzia Onu che si occupa del rapporto tra stupefacenti e crimine) – è la sfida più grande che le forze dell’ordine e le organizzazioni internazionali si trovano ad affrontare in Africa in questi anni. La foglia di cannabis è prodotta in tutto il continente mentre la produzione di resina è limitata ad alcune zone del Nord Africa (in particolare Marocco, Algeria ed Egitto, vedi box). Sebbene la cannabis rimanga la droga più prodotta e consumata nel continente, l’abuso di cocaina, oppioidi, anfetamine e nuove sostanze psicoattive si sta diffondendo rapidamente. E anche l’eroina sta prendendo piede». Tendenzialmente, l’eroina arriva per terra e per mare dall’Asia centrale (Afghanistan, Pakistan e Iran) o dal Sud Est asiatico (Birmania, Cambogia, Laos, Vietnam, Thailandia). La marijuana arriva dall’Asia centrale, ma esistono anche una produzione europea (Balcani, in particolare Albania, Macedonia, Kosovo), una nordafricana (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto sul percorso del Nilo) e una nell’Africa orientale (Eritrea, Etiopia, Somalia, Tanzania). La rotta della marijuana è più mediterranea e si mescola ai traffici di esseri umani e di armi. La cocaina invece è una produzione tipicamente latinoamericana.

Contadino mascherato in campo di cannabis a Ketama in Marocco / Photo by FADEL SENNA / AFP

Cocaina sudamericana

Dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, le rotte dell’Oceano Atlantico settentrionale non sono state più sicure per i trafficanti. Troppi i controlli di polizia sui velivoli e sulle navi mercantili.

I narcotrafficanti sudamericani hanno così iniziato a guardare con sempre maggiore interesse alle rotte dell’Atlantico meridionale. Nei primi anni Duemila, l’Africa e, in particolare l’Africa occidentale, era ancora un terreno vergine per il traffico di cocaina. Esistevano però rotte collaudate per il traffico di sigarette ed esseri umani. Piste che dalla costa occidentale risalivano il Sahel, attraversavano il Sahara per giungere fino alla costa mediterranea e, da lì, all’Europa meridionale (Italia e Spagna). I narcotrafficanti sudamericani hanno così iniziato a sfruttare le lunghe coste africane per sbarcare i loro carichi di polvere bianca. Facilitati da istituzioni statali fragili e da funzionari facilmente corrompibili hanno creato le loro basi in alcuni paesi.

Il caso più eclatante è quello della Guinea-Bissau. Nell’aprile 2008, la polizia locale ha sequestrato 635 chilogrammi di cocaina, in un periodo in cui la Guinea-Bissau aveva solo 60 agenti addetti alla lotta al narcotraffico. Ovviamente il flusso di droga era grandemente superiore e i narcotrafficanti godevano della complicità di alcuni alti gradi delle forze armate. Nel traffico si dice fossero coinvolti anche esponenti dei movimenti jihadisti saheliani (al Qaeda per il Maghreb islamico, Aqmi, in particolare) che, attraverso la droga, cercavano fonti di finanziamento.

Nonostante il rafforzamento delle autorità preposte al controllo del traffico di stupefacenti, secondo Unodc, in Guinea-Bissau «l’intero bilancio del settore sicurezza e giustizia del 2018 è inferiore alla metà del valore medio di una tonnellata di cocaina venduta in Europa». «Nonostante un calo della quantità di cocaina sequestrata negli ultimi anni, il flusso di droghe che attraversa la Guinea-Bissau rimane significativo, con i trafficanti che spostano le rotte e utilizzano metodi meno tracciabili per contrabbandare la polvere bianca – osserva Antero Lopes, direttore del dipartimento legge e sicurezza presso la missione delle Nazioni Unite a Bissau -. La Guinea-Bissau è vittima del narcotraffico a causa della vulnerabilità delle sue istituzioni. Qui, il crimine organizzato corrode anche la stabilità e la democrazia». L’Onu stima che «non meno di 30 tonnellate» di cocaina passino ogni anno attraverso la Guinea-Bissau. I carichi vengono paracadutati nelle isole al largo del paese e da lì trasportati da pescherecci, verso il Nord, mentre il resto viene trasportato sulla costa da pescatori locali e poi portato da militari corrotti al di là dei confini.

Sacchi di cannabis dal Marocco sequestrati dai Doganieri francesi / Photo by Handout / Douanes Francaises / AFP

La via del Marocco

A partire dal 2015, è proprio il Marocco a essere diventato uno dei principali hub per il commercio di cocaina. Nel 2017, le autorità di Rabat ne hanno sequestrato 2,5 tonnellate in una sola operazione. Sempre nel 2017 sono stati scoperti 116 kg di cocaina nel porto di Tangeri. La droga proveniva dal Brasile ed era destinata in larga parte all’Europa e in misura minore alla stessa Africa.

Ma se Guinea-Bissau e Marocco sono i punti di riferimento più importanti per i trafficanti, non sono gli unici. Grandi sequestri di cocaina sono stati effettuati, per esempio, in Tunisia. Nel 2016 la polizia è riuscita a intercettare quasi una tonnellata di polvere bianca nel porto di Tunisi diretta verso l’Italia. Altri sequestri importanti sono stati eseguiti in Ghana, Madagascar, Mali, Mozambico e Nigeria.

Passaggio ad Est

Sulla costa orientale è Gibuti il principale snodo. Nel 2017 è stata sequestrata mezza tonnellata di cocaina nel porto gibutino, il sequestro più importante dal 2004. «Negli ultimi anni – osserva Giuseppe Dentice, ricercatore dell’Università Cattolica di Milano e dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), autore, tra gli altri, di studi sui traffici illegali -, Gibuti è stata ritenuta il ventre molle del traffico di droga in Africa orientale. Dai docks del suo porto passa la droga proveniente dall’Asia in modo incontrollato. Nelle ultime indagini di polizia e in alcune inchieste giornalistiche si evidenzia il ruolo del porto di Gibuti nel traffico di armi e di droga. Anche Kenya e Tanzania sono, negli anni, diventati punti di approdo della droga e le rotte che partono da lì si uniscono a quelle di Gibuti e vanno verso Nord».

Spesso i trafficanti, secondo quanto riporta Unodc, corrompono gli agenti di polizia o i funzionari pagandoli in parte in contanti e in parte in droga. Questi ultimi, rivendono gli stupefacenti creando e alimentando un mercato che, fino a pochi anni fa, era sostanzialmente inesistente.

Cittadino brittanico arrestato a Mombasa, Kenya, per trasporto di 100 kg di cocaina dal Brasile / Photo by CARL DE SOUZA / AFP

Non solo eroina

Se l’Africa occidentale è invasa dalla cocaina, quella orientale è la patria degli oppiacei (eroina in primis). Nei porti di Tanzania, Kenya, Gibuti arrivano carichi sempre maggiori di stupefacenti dall’Asia centrale e, in particolare, da Afghanistan e Pakistan. La droga viene trasportata sulle stesse rotte che seguono i migranti verso l’Europa, ma si diffonde anche in altre nazioni. Nel 2017 sono stati sequestrati carichi fino a 800 kg in Algeria, Egitto, Libia e Marocco, ma anche in Ghana, Madagascar, Mozambico, Sudafrica.

A combattere il traffico sono le varie polizie locali (come quella tanzaniana che ha sequestrato 27 kg di eroina nei primi sei mesi del 2017), ma anche le forze armate occidentali che mantengono una forte presenza nell’Oceano Indiano in funzione antipirateria. Le navi militari spesso intercettano i trafficanti e operano sequestri ingenti. Nel maggio 2017, la Royal Navy della Gran Bretagna ha sequestrato 266 kg di eroina che erano nascosti nel fondo del freezer di un peschereccio.

All’eroina si aggiungono anche altre sostanze. Tra esse, la metanfetamina, un derivato sintetico dell’anfetamina che, rispetto a essa, raggiunge più rapidamente il cervello con un effetto stimolante più intenso e con un maggiore potenziale di dipendenza. Prodotta in Oceania e in Asia, arriva nell’Africa occidentale e in quella centrale. Tra il 2016 e il 2017, la National Drug Law Enforcement Agency nigeriana ha sequestrato ingenti quantitativi di droga, in particolare 40 kg di metanfetamine. Sequestri sono stati compiuti anche da Kenya e Sudafrica rispettivamente 9 e 440 kg.

Oltre alla metanfetamina, vengono trafficate sostanze quali il tramadol, un oppioide sintetico, e il metaqualone, un farmaco con azione sedativa-ipnotica, simile agli effetti di un barbiturico. Sono farmaci e non rientrano nelle tabelle degli stupefacenti veri e propri, ma sono considerati pericolosi se non vengono assunti sotto il controllo medico.

Il tramadol è contrabbandato soprattutto nella regione del Sahel. Nel 2016 ne sono stati sequestrati in Niger 8 milioni di tavolette, in Nigeria 3,1 tonnellate. Negli ultimi anni la Libia è diventato un punto di transito di tramadol verso l’Egitto. Il metaqualone invece arriva dall’Indonesia e sbarca sulle coste mozambicane e sudafricane. Alla fine del 2016, la polizia sudafricana ne ha sequestrate 8 milioni di tonnellate.

Mercato in Somaliao / © Kirill Ivaniskin

Il mercato africano

Negli anni, l’Africa si è trasformata da regione di passaggio in mercato della droga. «Il fenomeno dell’abuso di sostanze stupefacenti nel continente – spiegano gli esperti di Unodc – non è facilmente quantificabile. Le autorità non effettuano un monitoraggio continuo e quindi le statistiche disponibili sono parziali o datate». Secondo le ricerche di Unodc, la sostanza più utilizzata è la cannabis. Le stime dell’agenzia dicono che il 7,5% della popolazione di età compresa tra i 15 e i 64 anni ne fa uso (circa il doppio della media mondiale). L’Africa centrale e quella occidentale sono le regioni in cui l’utilizzo è più massiccio attestandosi intorno al 12,4% della popolazione.

Anche l’eroina sta prendendo sempre più piede. Le autorità sanitarie di Costa d’Avorio, Kenya, Mozambico, Nigeria, Tanzania, Sudafrica e Zambia hanno segnalato un incremento dei tossicodipendenti che fanno uso di questa e di altre sostanze derivate dall’oppio.

Sempre secondo Unodc, nel continente quasi due milioni di persone si iniettano o fumano eroina.

Solo un terzo dei paesi in Africa ha però un budget per il trattamento dell’abuso di sostanze. Strutture di trattamento e riabilitazione, nonché trattamenti di base e servizi sanitari correlati alla droga, sono ancora scarsi. La maggior parte del trattamento fornito è la disintossicazione, a volte solo attraverso il supporto psicosociale. In passato veniva fornita assistenza in ospedali psichiatrici sovraffollati e senza farmaci specifici. Anche se in molti paesi qualcosa si sta muovendo. Negli ultimi due anni, Burundi, Capo Verde, Eritrea, Etiopia, Kenya, Liberia, Madagascar, Mauritius, Mozambico, Nigeria, Senegal, Seychelles e Tanzania hanno investito maggiori risorse. In Kenya, per esempio, è stato introdotto un protocollo per far fronte all’abuso. Il governo di Nairobi vuole sradicare un fenomeno che colpisce i giovanissimi (il 50% dei tossicodipendenti ha tra i 10 e i 19 anni) ed è veicolo di trasmissione dell’Aids-Hiv. In Egitto e nelle Seychelles si stanno sperimentando terapie sostitutive degli oppioidi. In Senegal, nel 2017, 178 pazienti sono stati ammessi a una terapia a base di metadone. Anche in Tunisia sono stati aperti centri ad hoc mentre in Kenya, Mauritius e Tanzania hanno varato progetti per fornire aghi e siringhe sterili ai tossicodipendenti per evitare la trasmissione di malattie infettive.

Mafie e jihadisti

Il traffico di stupefacenti è gestito da più attori. «La base – continua Dentice – è formata da piccoli criminali, poveri disperati che fanno da manovalanza della malavita per procurarsi da vivere. Questa manovalanza è gestita da grandi organizzazioni criminali africane, europee e latinoamericane che collaborano nei vari settori. Il traffico di cocaina, per esempio, è gestito dalle organizzazioni sudamericane. L’eroina che proviene dall’Asia invece è in mano alle mafie asiatiche. Quando cocaina ed eroina arrivano in Europa, la protagonista assoluta è la Ndrangheta calabrese che ne gestisce il commercio fino al dettaglio. La Ndrangheta ha fortissimi legami sia con i cartelli latinoamericani sia con quelli asiatici. La Sacra corona unita, invece, gestisce tutto il traffico di marijuana ed eroina sul lato adriatico della nostra penisola. Cosa Nostra ha perso un po’ di peso nel traffico di droga, ma rimane attiva e ha collegamenti con il Nord Africa per la marijuana. La Camorra si inserisce in più mercati soprattutto nel settore della cocaina».

Anche in Africa si stanno rafforzando le organizzazioni criminali, in particolare la mafia nigeriana che oggi è la più forte e la più strutturata. Su questo cartello non si hanno grandi informazioni e sono in corso ancora investigazioni da parte delle polizie internazionali. Operazioni sotto copertura stanno cercando di definirne la struttura. Esistono poi una serie di cartelli minori in Ghana e Burkina Faso.

La zona di confine tra Burkina Faso e Niger è una zona transfrontaliera strutturata in cui operano a stretto contatto organizzazioni terroristiche e criminali.

In alcuni casi, la malavita ha collegamenti con organizzazioni politico-militari. «In Afghanistan – continua Dentice – c’è una vasta produzione di oppio che viene poi trasformato in eroina. Gran parte di questo ciclo produttivo è gestito dai talebani che poi vendono gli stupefacenti alle organizzazioni criminali che ne gestiscono il traffico. Anche in Africa occidentale ci sono complicità con governi deboli e corrotti».

In questo contesto, si inseriscono anche le milizie jihadiste. Le organizzazioni terroristiche entrano nel traffico di stupefacenti in una doppia funzione: come produttori e come gestori del traffico sui territori da esse controllati. Il caso più emblematico è quello di Mokhtar Belmokhtar, jihadista che nasce come trafficante di sigarette e droga (cocaina e marijuana), gestendo il transito dall’Africa occidentale verso l’Africa mediterranea. Quando aderisce al jihadismo militante, non abbandona la sua vecchia professione dalla quale trae importanti risorse per azioni militari terroristiche nell’Africa occidentale. Ciò fa il gioco delle organizzazioni criminali locali che sfruttano (pagando una «tassa») i collegamenti con i movimenti jihadisti per poter percorrere impunemente le vie dei traffici ed essere sicuri di avere, lungo queste rotte, l’assistenza logistica dei fondamentalisti islamici. «Qualcuno – conclude Dentice – potrebbe chiedersi: ma ciò non entra in contrasto con la fede islamica? Teoricamente sì, ma il jihadismo ha bisogno di fondi e il traffico di droga è un’ottima fonte di entrate».

Enrico Casale


Marocco: il paradiso dei fumatori

Coltivazioni «stupefacenti»

Il Marocco produce un terzo della marijuna e dell’hashish mondiale. La coltivazione è illegale, ma tollerata. E fa vivere oltre 90mila famiglie. Si è sviluppato anche un turismo legato all’«erba» da fumare.

Per il Marocco la droga è un business, illegale ma tollerato. Dalle montagne del Rif, la regione nordorientale al confine con l’Algeria, arriva circa un terzo della produzione mondiale di marijuana e hashish. Gli stupefacenti vengono poi smerciati in Europa e nel Nord America. Ma la coltivazione di cannabis alimenta anche un movimento turistico di europei e nordamericani che visitano il paese proprio perché sanno che possono trovare «erba» buona da fumare.

La produzione affonda le radici nella storia. Da secoli, le popolazioni berbere che vivono nella regione producono il kif, una droga leggera a base di hashish, pezzi di foglie e fiori di cannabis. Una coltivazione incoraggiata dai colonizzatori spagnoli, che così cercavano di mantenere la pace in una regione piuttosto turbolenta e poco incline a farsi sottomettere. Il boom esplode negli anni Settanta. In Europa, si diffonde l’uso della cannabis e nel Rif le piantagioni si estendono per ettari. Non solo, ma proprio quelle montagne diventano una delle mete privilegiate degli hippie di tutto il mondo.

Oggi, il Rif continua a essere il centro dell’industria della droga leggera marocchina. Sebbene la legge nazionale ne vieti la vendita e il consumo, fioriscono vaste piantagioni che garantiscono un reddito a più di 90mila famiglie. A ciò si associa il fenomeno del «turismo dello spinello». «Le persone sono attratte dalle montagne, dalle escursioni, dal clima – ha spiegato all’Agenzia France Presse un ristoratore -. I primi furono gli hippie che negli anni Sessanta venivano qui per cercare una vita diversa. In seguito, le autorità hanno stretto le maglie e lentamente il flusso di turisti è svanito».

Recentemente, però, i turisti sono tornati in massa. La marijuana e l’hashish sono diventati un’attrazione. Sono frequenti i festival a base di ganja (come è anche chiamato «il fumo»). Sono illegali, ma nella regione nessun agente si prende la briga di vietare le manifestazioni e di sequestrare «la roba».

«Qui – ha spiegato un coltivatore -, il clima è molto speciale e non cresce nulla eccetto il kif. Per questo è diventato per noi una fonte di reddito». I piccoli commercianti e le guide prive di licenza si rivolgono ai turisti per offrire loro hashish o un tour delle fattorie vicine per incontrare i «kifficulteurs», i produttori locali di cannabis. Le pensioni di Chefchaouen offrono un servizio simile per circa 15 euro, anche se fanno attenzione a non menzionarle nei loro opuscoli. «Qui, fumi dove vuoi – conclude un agricoltore -, eccetto davanti alla stazione di polizia».

En.Cas.

Pianta di Miraa (o Khat) coltivata in Meru, Kenya, le cui foglie sono esportate in Somalia e penisola arabica / © AfMC


L’Africa Orientale e il khat

La droga dei poveri

La chiamano «la droga dei poveri». Il nome vero è khat (o qat). Coltivato da secoli in Africa orientale (soprattutto in Etiopia e Somalia, ma anche in Yemen), il khat è un arbusto le cui foglie fresche, se masticate, producono un effetto paragonabile a quello dell’anfetamina. Il consumo porta a un aumento della pressione sanguigna, euforia, maggiore attenzione, parlantina, soppressione dell’appetito e del bisogno di dormire.

Fino al 1980 a livello internazionale non era considerato una droga, poi l’Organizzazione mondiale della sanità l’ha inserito nella lista delle sostanze stupefacenti e da allora è equiparato alle più famose eroina, cocaina e marijuana.

Da sempre in Yemen, Somalia e in alcune regioni di Etiopia, Eritrea, Gibuti e Kenya, gli uomini masticano le foglioline a partire dalle prime ore del pomeriggio. Gli uomini yemeniti e a volte anche le donne, ma separatamente e in privato, passano anche quattro ore tutti i pomeriggi senza far molto altro che masticare le foglie. Masticare il khat è un’importante attività di socializzazione, ma al tempo stesso costituisce un grave problema economico e sociale, oltre a comportare danni irreparabili alla salute. C’è chi spende oltre il 30% del proprio reddito per l’acquisto di questa pianta.

Fino a qualche anno fa, la produzione e il consumo sono rimaste limitate all’Africa e alla Penisola araba. Poi, con l’aumento dei flussi migratori, il khat ha iniziato a diffondersi anche in Europa, perché alcuni paesi europei ne tollerano l’uso. In Olanda, per esempio, nei famosi coffee shop lo si consuma senza troppi ostacoli. Ma anche in altri paesi dove pure è vietato, il khat è consumato soprattutto nelle comunità dell’Africa orientale.

Il traffico ha così preso piede. Nel 2017, la polizia spagnola ha sequestrato due carichi di khat provenienti da Kenya ed Etiopia. Anche le forze dell’ordine italiane hanno aumentato i controlli. Negli anni la Guardia di Finanza ha sequestrato, in vari aeroporti, diverse spedizioni di foglioline, con il boom nel 2015: una tonnellata e mezzo requisita e quantità poco inferiori negli anni successivi. Segno che «la droga dei poveri» si sta gradualmente diffondendo anche da noi.




Di pacchie e di abbagli


Negli ultimi mesi il dibattito su migrazione, cooperazione e sfruttamento dell’Africa si è ingarbugliato su frasi a effetto e invettive un tanto al chilo sul neocolonialismo. A farne le spese è la chiarezza su temi che, già complessi di loro, di tutto hanno bisogno meno che di essere resi più fumosi.

«Se riapri i porti tornano i morti». Così il vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini commentava lo scorso 19 gennaio in una diretta Facebook il naufragio di un gommone a 45 miglia da Tripoli e la morte di 117 su 120 dei suoi passeggeri. «Cuori aperti per chi scappa davvero dalla guerra», aggiungeva poi nello stesso video, «ma porti chiusi per Ong, trafficanti e tutti gli altri», precisando di tenere «a che in Italia si entri chiedendo per favore e dicendo grazie se si ottiene qualcosa» e rallegrandosi dei primi effetti visibili del decreto sicurezza: «Tanti fermi di richiedenti asilo che commettono reati e tante espulsioni». La soluzione del leader leghista al problema dell’immigrazione è presto detta: evitare le partenze direttamente nei paesi d’origine, dove «con Onlus e associazioni perbene, con Ong perbene e volontari perbene si distinguono coloro che scappano dalla guerra – che sono pochi – e coloro che non scappano da nessuna guerra e non hanno diritto a partire e ad arrivare». A questo, continuava Salvini nella diretta Facebook, si aggiunge il fatto che in questo mese di marzo il ministro dovrebbe tornare «in un paese africano che stiamo aiutando per mettere i primi mattoni di un’operazione di sviluppo, di cooperazione, che riguarda la scuola, riguarda la sanità, riguarda il lavoro per decine di migliaia di quei ragazzi».

Quanto a chi è già arrivato in Italia, Salvini aveva dichiarato all’inizio di giugno 2018 in un comizio a Vicenza che «gli immigrati regolari e perbene non hanno niente da temere in questo paese e i figli loro sono i figli miei. Per gli immigrati clandestini è finita la pacchia: preparatevi a fare le valigie»@. Pochi giorni dopo aveva ribadito il concetto chiarendo che «i 170mila finti profughi che in questo momento stanno guardando la televisione in albergo pagati dagli italiani è una pacchia che non ci possiamo più permettere»@.

© Daniele Biella

Pacchie petrolifere

A controbattere a quest’ultima accusa era stata nel giugno 2018 un’immigrata nigeriana, in una lettera pubblicata sul sito Raiawadunia curato dal giornalista Silvestro Montanaro.

«Vengo da un paese, la Nigeria, dove ben pochi fanno la pacchia e sono tutti amici vostri», rivendicava la donna, originaria di Port Harcourt, città industriale sul Delta del fiume Niger dove ha sede la maggior parte delle raffinerie nigeriane. «La regione in cui vivo,» si legge ancora nella lettera, «dovrebbe essere ricchissima, visto che siamo tra i maggiori produttori di petrolio al mondo. E invece no. Quel petrolio arricchisce poche famiglie di politici corrotti, riempie le vostre banche del frutto delle loro ruberie, mantiene in vita le vostre economie e le vostre aziende».

Paese scosso da diversi colpi di stato, deninciava la donna, la Nigeria ha visto andare al potere «personaggi obbedienti ai voleri delle grandi compagnie petrolifere del suo (di Salvini, ndr) mondo, anche del suo paese. Avete potuto, così, pagare un prezzo bassissimo per il tanto che portavate via. E quello che portavate via era la nostra vita».

La Nigeria è fra i primi 10 fornitori di petrolio dell’Italia e nel 2018 il greggio proveniente dal paese africano ha inciso sul totale per poco meno del 4%@.

Un anno fa si è aperto a Milano il processo «Scaroni e altri» per la presunta maxi tangente da un miliardo e 92 milioni di dollari che i vertici di Eni e Shell avrebbero pagato al governo nigeriano in cambio dei permessi per l’esplorazione del giacimento offshore Opl 245. I fondi sono transitati sul conto del governo di Abuja presso la banca JP Morgan a Londra, poi rientrati in Nigeria in due tranche versate su conti riconducibili alla Malabu Oil & Gas Ltd dell’ex ministro nigeriano del petrolio Dan Etete e ad Abubakar Aliyu, imprenditore petrolifero noto in Nigeria come Mr. Corruption e molto vicino a Goodluck Jonathan, che all’epoca dei fatti contestati era il presidente della repubblica di Nigeria. Lo scorso settembre per questa vicenda sono stati condannati in primo grado due mediatori, l’italiano Gianluca di Nardo e il nigeriano Obi Emeka, che hanno scelto di essere giudicati con rito abbreviato. Come riporta Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera@, nelle motivazioni della sentenza di condanna depositate lo scorso dicembre, la giudice per l’udienza preliminare Giusy Barbara afferma che «Tutti gli elementi di prova inducono questo giudice ad affermare che il management delle società petrolifere Eni e Shell è stato pienamente a conoscenza del fatto che una parte dei 1,092 miliardi di dollari pagati sarebbe stata utilizzata per remunerare i pubblici ufficiali nigeriani, che avevano avuto un ruolo in questa vicenda e che come “squali” famelici ruotavano intorno alla preda».

Lo scorso novembre, inoltre, un rapporto commissionato a un centro di ricerca da un gruppo di Ong – le britanniche Global Witness e The Corner House e l’italiana Re:Common, da un esposto delle quali è scaturito il processo in corso – mostra come le perdite per lo stato nigeriano non si limitano ai denari malversati della presunta maxi tangente, ma aumenteranno di ulteriori 6 miliardi di dollari a causa delle mancate entrate per il fisco nigeriano. L’analisi rivela infatti che l’accordo, del 2011, fra il governo di Abuja e le due compagnie petrolifere per l’esplorazione del giacimento Opl 245 include condizioni fiscali molto generose nei confronti di queste ultime. «I più alti funzionari nel Dipartimento delle Risorse petrolifere della Nigeria», si legge nel rapporto, «avevano protestato contro l’accordo, definendolo “altamente svantaggioso per gli interessi del governo federale”. Queste preoccupazioni sono state ignorate o respinte dai ministri dell’epoca, che sono attualmente accusati dai pubblici ministeri di aver ricevuto tangenti provenienti dal miliardo di dollari pagato da Shell e Eni per l’accordo»@.

© Valentina Tamborra

I mattoni di un’operazione di sviluppo?

Salvini rivendicava nella sua diretta Facebook atti concreti a sostegno della cooperazione allo sviluppo. Lo scorso agosto aveva anche annunciato di avere in cantiere un progetto che prevede almeno un miliardo di spesa e di investimento per sostenere l’economia e il lavoro di centinaia di migliaia di persone in Africa, soprattutto puntando sull’agricoltura, sulla pesca e sul commercio»@.

Su questo punto, i dati dicono però altro: «Negli ultimi anni», segnalano le Ong del network Link2007, «l’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) dell’Italia ha avuto un andamento crescente, passando dallo 0,17% del Pil nel 2013 a quasi lo 0,30% (0,294%) nel 2017. Tale progressione sarebbe dovuta continuare fino a raggiungere la media europea dello 0,5% del Pil, come indica la legge 125/2014 e lo stesso governo aveva programmato nella nota di aggiornamento al Def di settembre. Invece la legge di Bilancio inverte tale progressione fissando per il prossimo triennio un andamento decrescente: 0,289% nel 2019 e 0,262% per i due anni successivi»@.

E allora i francesi?

Noi i cattivi? C’è chi fa peggio. Questa sembra essere la logica di fondo con cui diversi esponenti politici, anche dell’area di governo, hanno tentato di recente di sollevare l’Italia dalle proprie responsabilità in fatto di migrazione e cooperazione.

Lo scorso gennaio sia Alessandro di Battista (M5S) che Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) in due differenti trasmissioni televisive si sono lanciati in una teatrale e approssimativa invettiva sul franco Cfa. Si tratta in realtà di due monete distinte utilizzate in due gruppi di paesi dell’Africa centrale e di quella occidentale. Due monete che hanno lo stesso nome e lo stesso tasso di cambio fisso nei confronti dell’euro, pur non essendo interscambiabili. Monete eredità della dominazione coloniale francese. Cfa, infatti, stava per Colonies Fraçaises d’Afrique (colonie francesi d’Africa) e, dopo le indipendenze dei paesi africani, l’acronimo è rimasto lo stesso ma significa ora Communauté financière africaine (comunità finanziaria africana).

È attraverso questa moneta, hanno sostenuto entrambi i politici italiani, che la Francia controlla le risorse e le economie di quei paesi e li priva della sovranità monetaria@ @.

In particolare, ha detto Di Battista, i 14 paesi africani che utilizzano il franco Cfa «per mantenere il tasso fisso prima con il franco francese e oggi con l’euro sono costretti a versare circa il 50% dei loro denari in un conto corrente gestito dal Tesoro francese».

Non è il Cfa il problema

© Marco Bello

Le precisazioni e le smentite alle parole dei due politici non si sono fatte attendere. In particolare, quella proposta da Mariasole Lisciandro sul sito lavoce.info sottolinea come i paesi dell’area Cfa versino alla Francia la metà delle loro riserve in valuta straniera (e non «la metà dei loro denari»), per un ammontare totale di 10 miliardi di euro@.

Inoltre, Di Battista e Meloni non hanno fatto una grande rivelazione, anzi, sono loro ad essere in ritardo visto che il dibattito sulla questa valuta africana è in corso da decenni. Chi lo critica sostiene che il tasso fisso danneggia le esportazioni dei paesi africani che lo usano, perché i prodotti esportabili sono troppo costosi per essere appetibili e che, viceversa, rende conveniente alle multinazionali francesi (ed europee) investire in quella zona potendo contare sulla stabilità del tasso di cambio. Chi invece è a favore del franco Cfa sostiene che ha garantito una maggior stabilità economica e tenuto sotto controllo l’inflazione (che nell’area è circa al 2%).

Ancora, diversi osservatori hanno fatto notare che la proporzione dei migranti provenienti dall’area Cfa è bassa: «Nell’elenco dei paesi da cui sono arrivati i migranti in Italia, diffuso dal ministero dell’Interno e aggiornato a dicembre 2018», scrive David Caretta su Il Foglio, «il primo paese che adotta il franco Cfa è la Costa d’Avorio, ottavo in lista, da cui sono arrivate 1.064 persone su 23.370»@.

E anche a voler prendere, invece degli arrivi dell’anno scorso, la popolazione straniera non comunitaria residente in Italia, le persone provenienti dalle due zone sono in totale 202mila su 3,7 milioni: il 5,2%. Un quinto ha meno di 17 anni@.

Bisogna infine ricordare che l’adesione alla valuta è volontaria – e alcuni paesi come la Mauritania e la Guinea Conakry ne sono usciti – e che il presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato nel novembre 2017 a Ouagadougou (Burkina Faso) che del franco Cfa «la Francia non è la padrona, ne è il garante. Questo significa che è prima di tutto una scelta degli stati membri della zona Cfa (…).
Il presidente Kaboré [capo di stato del Burkina] decide domani: “non sto più nella zona franco”? Non ci sta più»@.

Non c’è dubbio che un conto sono le dichiarazioni pubbliche di Macron e un altro i reali rapporti di forza economici, il ruolo degli interessi in Africa di grandi gruppi come Bolloré o Bouygues e i legami con Parigi di tanti membri delle élite dell’Africa francofona, spesso formati in università francesi e vicini alla Francia anche per via di rapporti familiari, come è il caso del presidente ivoriano Alassane Ouattara, la cui moglie è la donna d’affari di origine francese Dominique Claudine Nouvian.

Ma è proprio questo il punto: a voler fare le pulci alla Francia per la sua condotta non sempre esemplare e i suoi interessi in Africa si ha davvero l’imbarazzo della scelta, a cominciare dalla a dir poco fallimentare Opération Turquoise, operazione militare dispiegata durante il genocidio in Ruanda, per continuare con l’Opération Licorne e il ruolo francese – da molti giudicato poco neutrale -nella guerra civile in Costa d’Avorio. Criticare Parigi per il franco Cfa, per di più con argomentazioni claudicanti, abbassa in modo imbarazzante il livello del dibattito. Come si dice spesso in questi casi, sono questioni complesse. E non si spiegano (né si capiscono) nei 280 caratteri di un tweet o in un minuto e mezzo di talk show.

Chiara Giovetti

© Simone Perolari


Chi è un rifugiato

 

Sono anni ormai che si parla di migrazione, di profughi e di asilo, eppure i vertici del governo e molti degli esponenti politici italiani continuano a parlare di «veri» rifugiati, che sarebbero solo quelli che scappano dalla guerra, e «finti» rifugiati o migranti economici, che sarebbero più o meno tutti gli altri. Corollario: se vieni dalla Siria hai diritto, se vieni dalla Nigeria no, salvo zone in cui c’è Boko Haram.

Non è così.

  • Un rifugiato scappa da una persecuzione, non dalla guerra, ed è chi «temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo paese» (Convenzione di Ginevra, articolo 1, lettera a @).
  • La protezione sussidiaria è invece regolamentata da due direttive europee (2004/83/CE e 2011/95/UE) e garantita a chi «non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno».
  • Sono considerati danni gravi: la condanna a morte o all’esecuzione, la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante o la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
  • Infine c’è la protezione umanitaria: può essere rilasciata per «seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano», anche in caso di diniego alla richiesta di asilo. Ma con il decreto sicurezza la protezione umanitaria è stata eliminata ed è stato introdotto un permesso di soggiorno per «casi speciali».

Chi.Gio.




Cercando la democrazia

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I burkinabè hanno eletto un nuovo presidente dopo 27 anni di potere di Blaise Compaoré. Ma è stato necessario fare un’insurrezione e sventare un colpo di stato. Riuscirà il nuovo regime, figlio del vecchio, a portare il cambiamento chiesto dalla popolazione?

Roch Marc Christian Kabore waves to supporters at party headquarter in Ouagadougou on December 1, 2015 after winning Burkina Faso's presidential election, official results showed, after a year of turmoil that saw the west African country's former leader deposed and the military try to seize power in a coup. AFP PHOTO / ISSOUF SANOGO / AFP / ISSOUF SANOGO

«Era il 29 ottobre [2014], verso le otto di sera. Decidemmo di dormire nei pressi della rotonda delle Nazioni unite, per essere i primi ad andare, il giorno dopo, all’Assemblea nazionale (Parlamento, nda)». Chi racconta è Daoda Soma, giovane ingegnere informatico burkinabè, ma soprattutto militante di Le Balai Citoyen (la scopa cittadina) tra le associazioni più agguerrite nell’insurrezione popolare del 2014. Il 30 ottobre era previsto che i deputati votassero la modifica costituzionale dell’articolo 37, che avrebbe permesso a Blaise Compaoré, al potere dal 1987, di ricandidarsi alle presidenziali. (cfr. Mc gen-feb 2015). «La polizia è arrivata e ci ha aggrediti con i gas lacrimogeni. Siamo dovuti partire. Ma molto presto, il mattino dopo, siamo tornati. C’era una folla enorme: fare un minuto di ritardo significava restare indietro di un chilometro. C’era di tutto: bambini, adolescenti, giovani e vecchi. Penso sia intervenuta la mano di Dio, perché i militari che erano appostati intorno al palazzo non hanno sparato sulla folla».

Quel giorno, la pacifica gente di Ouagadougou prese d’assalto la sede dell’Assemblea nazionale, il parlamento, mettendola a ferro e fuoco, per impedire ai deputati di votare. Daoda continua il suo racconto: «La maggioranza della gente non voleva questa modifica. Anche se i media e i comunicati ufficiali dicevano l’esatto contrario. Sarebbe stato come subire un colpo di stato. Per questo ci mobilitammo per evitare che succedesse. Voci dicevano che molti deputati erano stati “comprati” dal potere e che la modifica sarebbe passata. Una volta votata la legge, i politici avrebbero potuto fare quello che volevano». Così quel giorno non si votò perché i deputati non poterono riunirsi. Il 31 ottobre Blaise Compaoré fuggì, grazie alla Francia, in Costa d’Avorio, e si aprì una nuova stagione politica per il paese, dopo 27 anni di «regno» incontrastato.

Fu definito dalle forze della nazione un periodo di transizione di 12 mesi, con un governo, un presidente della Repubblica e il Consiglio nazionale di transizione (parlamento). Gli organi della transizione avevano il compito di portare il paese alle elezioni dello scorso 29 novembre.

Elezioni che si sono tenute nella calma, con un grande afflusso. Non le prime elezioni democratiche, come qualcuno ha scritto, ma certo le prime senza lo strapotere di un partito, il Cdp (Congresso per la democrazia e il progresso) di Compaoré, in grado di controllare tutto e tutti e assicurarsi la vittoria, anche in parlamento, con percentuali altissime.

L’esito è stata la vittoria del favorito Roch Marc Christian Kaboré, uno dei pilastri del regime Compaoré fin dalle origini, che si era staccato dal Cdp nel gennaio 2014 fondando il suo movimento, l’Mpp (Movimento del popolo per il progresso). Ma vediamo cosa ha portato a questo cambiamento epocale.

L’insurrezione burkinabè

Scrutineers are at work during the counting of Burkina Faso's presidential election votes at a polling station in Ouagadougou on November 29, 2015. After Voters in Burkina Faso cast ballots on November 29 for a new president and parliament, hoping to tu the page on a year of turmoil during which the west African nation's people ousted a veteran ruler and repelled a military coup. AFP / ISSOUF SANOGO / AFP / ISSOUF SANOGO

«L’insurrezione è un concorso di circostanze tra un processo storico e avvenimenti interni ed estei. La società civile non è la sola depositaria dell’insurrezione. Ha giocato un ruolo importante, significativo, ma non sufficiente. Occorrevano altre forze». Ci racconta Antornine Raogo Sawadogo, sociologo, presidente dell’istituto di ricerca Laboratornire Citoyennetés, ed ex ministro dell’Amministrazione territoriale e del decentramento.

«La grande manifestazione che ha cacciato Blaise si è svolta a Ouagadougou, ma c’erano anche i partiti politici, i sindacati, e il cittadino della strada non organizzato. Era una domanda collettiva. Le rivendicazioni dei diversi gruppi che hanno cacciato Compaoré riguardavano un maggiore stato di diritto, la richiesta di uno stato democratico capace di fare una redistribuzione di ricchezze, dei frutti della crescita e di praticare una giustizia uguale per tutti. È questo che ha motivato tutta la comunità nazionale».

«La maggior parte degli attori dell’ottobre 2014 non hanno conosciuto che Blaise Compaoré da quando sono nati. Avevano voglia di cambiare presidente». Ci dice Germain Nama, direttore del giornale burkinabè L’Événement. «Occorre fare un passo indietro. Storicamente i movimenti di contestazione in Burkina si organizzavano dietro ai sindacati. I partiti politici li utilizzavano per portare le loro rivendicazioni.

Ma, in questo modo, i sindacati facevano molta ombra ai partiti politici. E ultimamente si rifiutavano di fare questa parte. I partiti stessi hanno capito che occorreva prendere il proprio destino in mano. Sono così entrati in gioco. Negli anni 2012-13-14 si è vista la crescita dei partiti politici che hanno cominciato a organizzarsi intorno al capo fila dell’opposizione. Sono stati anni di profondo cambiamento e di presa di potere da parte loro. Le imponenti manifestazioni di piazza del 2014 sono state organizzate da loro.

Il 4 gennaio 2014, c’era stata la rottura in seno al partito di Compaoré, il Cdp che aveva portato alla crazione del nuovo partito Mpp».

Continua Nama: «Il 28 ottobre si è tenuta la più grande manifestazione che il Burkina abbia mai visto. Quel giorno, se Blaise Compaoré fosse stato furbo, avrebbe chiamato i partiti politici che lo contestavano per cercare un terreno d’intesa. Avrebbe dovuto capire che il limite era stato passato».

La fuga del dinosauro

«Ero nella piazza della Rivoluzione ricolma di gente, avevo la maglia nera di Le Balai Citoyen – ricorda Daoda -. Sono arrivati dei militari, tra loro Isaac Zida (membro della guardia presidenziale, ha preso il potere alla fuga di Blaise per poi renderlo ai civili. È stato quindi nominato primo ministro di transizione, ndr). Non lo conoscevo. Un militare mi tocca la schiena e mi chiede: “Come fate per far passare la gente?”. Rispondo: “Qui non c’è violenza. Dove volete andare?”. “Il capo deve passare”. E io: “Ok, seguitemi”. Ero davanti e, con il linguaggio del ghetto, della strada, ho detto: “il capo arriva e ci porta buone notizie”. La folla si è allora aperta e Zida, arrivato al centro della piazza, ha iniziato a parlare con il microfono. Quando ha annunciato che Blaise aveva dato le dimissioni l’euforia della gente è stata grande».

Continua Nama: «I partiti politici hanno acquistato molta importanza in questa occasione. Sfortunatamente per loro, però, non avevano previsto la partenza di Compaoré che li ha presi completamente alla sprovvista. Non avevano soluzioni pronte. Ancora una volta i militari si sono precipitati sul potere. L’esercito è sembrata la sola forza con una certa coesione».

Un anno dopo: il fulmine

Soldiers of Burkina Faso's loyalist troops stand guard near the Naba Koom II barracks, the base of the Presidential Security Regiment (RSP) in Ouagadougou on September 30, 2015, within the visit of interim leader Michel Kafando. General Gilbert Diendere, the leader of a failed coup by RSP in Burkina Faso, was in talks on September 30 on handing himself in to the govement that his elite force tried to unseat, after troops stormed the putschists' barracks. AFP PHOTO / SIA KAMBOU / AFP / SIA KAMBOU

Il 16 settembre 2015 i militari del Reggimento di sicurezza presidenziale (Rsp), durante una riunione del Consiglio dei ministri, prendono in ostaggio il presidente di transizione Michel Kafando e alcuni ministri. È golpe. Il generale Gilbert Diéndéré, fedelissimo di Compaoré, già coinvolto in numerosi crimini del regime, si proclama capo di stato. Parte una caccia all’uomo nei confronti dei responsabili dei movimenti che hanno guidato l’insurrezione di ottobre. Gli effettivi del Rsp, circa 1.300 uomini scelti e ben armati, si sparpagliano per la città allo scopo di bloccare ogni possibile reazione. Il pretesto del putsch è che le elezioni, previste l’11 ottobre, non sarebbero inclusive, perché escludono alcuni personaggi troppo vicini a Compaoré. Di fatto da mesi c’erano attriti tra il primo ministro Isaac Zida, lui stesso ex Rsp, e il reggimento. Ed era sul tavolo la dissoluzione stessa del corpo.

I burkinabè sono attoniti, si vedono scippare il cambiamento per cui hanno tanto lottato e alcuni di loro sono morti. «Sì, la notizia ci è arrivata addosso. Ci siamo subito detti: la lotta deve continuare. Era qualcosa davvero di inimmaginabile, anche se qualche preoccupazione in realtà io l’avevo avuta», ricorda Daoda.

«Siamo andati alla rotonda della Patte d’Oie e abbiamo deciso di marciare verso Kosyam (il palazzo presidenziale dove presidente e primo ministro erano agli arresti, ndr) la sera stessa. Andando avanti, abbiamo incontrato uomini del Rsp che hanno cominciato a sparare. Siamo tutti fuggiti allo sbando».

«Abbiamo girato per Ouagadougou per riprendere la mobilitazione. La gente era irritata. I militari entravano nei quartieri e sparavano pallottole reali, facevano togliere le barricate. Ma appena se ne andavano, gli abitanti le rifacevano. I militari del Rsp non erano troppo umani in quel momento. Se li guardavi in faccia, sentivi l’alcornol, la droga, vedevi occhi di gente che non aveva più niente da perdere».

Durante una settimana la capitale del Burkina Faso rimane bloccata. I sindacati proclamano uno sciopero generale su tutto il territorio nazionale che ottiene la massima adesione. Nelle altre città si riescono a fare delle manifestazioni contro i golpisti. La repressione dell’Rsp causa almeno 17 morti e 108 feriti. Molte vittime sono colpite alla schiena.

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Mediazione insufficiente

Intanto si attiva una mediazione della Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest), che coinvolge mons. Paul Ouedraogo, vescovo di Bobo-Dioulasso, l’ex presidente Jean-Baptiste Ouedraogo e il capo di stato maggiore dell’esercito Pingrenoma Zagré. Il mediatore principale è il presidente del Senegal, Macky Sall, aiutato dall’omologo del Benin, Boni Yayi. La proposta di accordo che elaborano non piace però ai burkinabè che la respingono. È troppo filo putschisti: prevede l’amnistia per loro e la reintegrazione dei politici pro Compaoré alle elezioni.

La mossa decisiva arriva dall’esercito repubblicano. All’alba del 22 settembre colonne di blindati lasciano le città di Bobo, Kaya, Fada N’Gourma, Koudougou, Ouahigouya acclamati dalla folla lungo le strade. Gli ufficiali a capo di diversi corpi si sono cornordinati e hanno deciso di muovere verso la capitale. Sono momenti di grande tensione perché si teme uno scontro fratricida tra le due fazioni dell’esercito. Viene invece intavolato un negoziato. Molti ufficiali delle due parti si conoscono per aver frequentato i corsi insieme. È presente anche il Mogho Naaba, re dei Mossì, come autorità morale riconosciuta da tutti. L’accordo, prevede il rientro nella caserma del Rsp e l’allontanamento a 50 km dalla capitale delle truppe dell’esercito repubblicano.

Ma circa 300 irriducibili si asserragliano nel campo militare Naaba Koom a ridosso del palazzo presidenziale. L’esercito circonda la caserma, e il 29 mattina si odono colpi di obice. Naaba Koom viene bombardato e gli Rsp finalmente si arrendono. Il generale Diendéré era già fuggito e, rifiutato dalle ambasciate di Francia e Usa, si era rifugiato alla nunziatura, per poi consegnarsi alle autorità.

Nei foitissimi depositi del Naaba Koom si trovano anche armi provenienti dalla Costa d’Avorio e dal Togo.

Nei giorni successivi sono rese note intercettazioni telefoniche tra Guillaume Soro, presidente dell’Assemblea nazionale della Costa d’Avorio, e Djibril Bassolé, generale, già ministro della difesa di Compaoré. La casa di Soro a Ouagadougou viene perquisita mentre Bassolé è arrestato per essere giudicato come complice del golpe. Risulta chiaro un fatto gravissimo: la Costa d’Avorio, dove Compaoré è in esilio, ha appoggiato i golpisti.

Michel Kafando viene rimesso alla testa della transizione, è il governo ripristinato. Nel primo Consiglio dei ministri viene formalizzata la dissoluzione del Rsp. Successivamente è rivista la Costituzione e l’articolo 37 che limita i mandati presidenziali è reso non modificabile.

MC 1-16 Burkina 8Niente più come prima

«C’è una frase su tutte le labbra: “Nulla sarà più come prima”». Ricorda Antornine Sawadogo. «Sono d’accordo con questo, ma può essere in meglio o in peggio. Abbiamo appena evitato il peggio con il colpo di stato del 16 settembre. Se il presidente che è stato eletto non terrà conto di tutto quello che è successo, il paese sarà ingovernabile, perché la gente è abituata a sollevarsi spontaneamente, appena c’è una indelicatezza commessa da un’autorità.

Io penso che il nuovo regime deve dotarsi di una dimensione democratica, giocare il gioco della democrazia, dello stato di diritto. Quando la gente si renderà conto che il figlio del povero ha gli stessi diritti di quello del ricco, quando gli operatori economici vedranno che gli appalti pubblici non vanno sempre agli stessi personaggi, o quando si vedrà che studiare in periferia nelle cittadine offre le stesse opportunità che studiare in Europa, la gente sarà un po’ più tollerante».

Non sembra un’utopia? «Tutto questo non è irreale, perché i burkinabè sanno fare la differenza tra quello che lo stato può fare o no. Il problema in Burkina è l’esclusione massiccia di gran parte della popolazione. Politicamente è necessario trasformare il cittadino insorto in cittadino atto a fare il controllo di cittadinanza, a chiedere conto a chi governa, e organizzarsi per fare una censura quando gli eletti stanno deviando e o esagerando, poter dire “fermatevi”. L’insurrezione non può andare al di là dell’espressione cittadina, ovvero saccheggiare, bruciare l’asfalto, distruggere palazzi istituzionali.

Penso che il nuovo regime debba negoziare un periodo di transizione, di grazia, per fare le riforme essenziali, per arrivare a uno stato di diritto: giustizia, educazione, sanità, esercito».

L’avanguardia

«I responsabili dei partiti politici sono burkinabè, capiscono i problemi della gente. Hanno visto come Blaise è scappato. Penso che abbiano imparato la lezione», ci dice Germain Nama. «Nonostante questo, noi non possiamo incrociare le braccia, bisognerà organizzarsi, come contropotere, per pesare nella bilancia e ottenere i cambiamenti qualitativi necessari. La società civile deve restare vigilante, le organizzazioni del popolo, i partiti politici di opposizione, devono avere un ruolo di risveglio di coscienze».

Per questo i media sono particolarmente importanti: «I media burkinabè sono molto critici. Ci differenziamo dai media africani in generale. Come in Costa d’Avorio, Mali, dove c’è molta corruzione nei media. Un po’ anche in Burkina, ma ci sono dei limiti che non sono stati superati. In maggioranza la stampa burkinabè resta una stampa di qualità, impegnata, cosciente, responsabile, ed è questo che ha contribuito a un livello elevato al cambiamento politico che abbiamo avuto. L’insurrezione di ottobre è stata preceduta da un’insurrezione mediatica. Non abbiamo mai fatto regali a Compaoré. Siamo l’avanguardia della lotta per un cambiamento qualitativo in Burkina. La stampa ha giocato il suo ruolo e continua a farlo».

Marco Bello




La guerra facile dei droni

Si comandano da molto lontano. Utilissimi per cercare informazioni sul nemico in battaglia. Ma anche per sparare su convogli e bunker sospetti senza rischi. Tutti gli eserciti li vogliono. E ora sono anche diventati tascabili e ambiti giochi per appassionati e ragazzi.

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Nei cieli africani si combatte una guerra nuova e silenziosa, ma non per questo meno micidiale di quelle tradizionali. È la guerra dei droni. Sempre più presenti sui campi di battaglia del continente, i velivoli senza pilota rappresentano un sostegno alle truppe impegnate sul terreno, ma anche un’arma efficacissima per l’eliminazione mirata di capi politici o comandanti militari di movimenti ribelli.

Osservazione e omicidi mirati

A dispiegarli per primi sono state le forze armate statunitensi. Washington, stretta tra la preoccupazione per l’impatto mediatico che può avere la morte di soldati americani in Africa (ricordiamo la grande eco che ebbe nel 1993 la morte di 19 ranger nella battaglia di Mogadiscio che convinse Clinton al ritiro delle truppe Usa dalla Somalia) e la necessità di contrastare il fondamentalismo islamico jihadista, ha deciso di scommettere su quest’arma, sia a livello tattico che strategico. È così che nel 2001 gli Stati Uniti prendono in affitto dal governo di Gibuti la base di Camp Lemonnier, nella cittadina di Ambouli, sul lato meridionale dell’aeroporto internazionale di Gibuti. Oltre alle truppe delle forze speciali, Washington vi trasferisce alcuni droni. La posizione è strategica. Partendo da Gibuti si possono tenere sotto controllo sia la Somalia, dove dagli anni Duemila si è assistito a una progressiva radicalizzazione dei movimenti ribelli jihadisti, sia lo Yemen, per anni base delle milizie qaediste.

Dall’alto, i droni sono un alleato silenzioso che osserva gli spostamenti delle truppe nemiche, ne individua le basi, i rifugi dei comandanti. Inizialmente i vertici militari Usa li utilizzano prevalentemente con funzioni di osservazione e controllo. Un surrogato degli agenti dei servizi segreti. Qualsiasi operazione dei servizi speciali è preparata e accompagnata dai voli dei droni. Ma poi capiscono che essi possono diventare un’arma potentissima per le eliminazioni mirate, quelle che, in gergo militare, vengono chiamate «targeting killings». Sui velivoli senza pilota vengono montati missili aria-terra Hellfire che sono poi sparati sui rifugi o sulle vetture che trasportano i comandanti delle milizie.

«Non esistono, ovviamente, statistiche ufficiali – spiega Giulia Tilenni, junior analist di Caffè Geopolitico -, però, alcuni documenti riservati di cui sono venuta in possesso parlano di una ventina di attacchi offensivi in cui sono perite 108 persone. Le uccisioni mirate sono avvenute negli ultimi anni nel Coo d’Africa e hanno preso di mira i capi del movimento Al Shabaab».

Se su Camp Lemmonier ci sono notizie certe, poco si sa invece delle altre basi statunitensi sul continente. Anche in questo caso, di ufficiale non esiste nulla. Da alcuni leaks diffusi dalla stampa internazionale però si è venuto a sapere che Washington ne avrebbe diverse: Camerun, Ciad, Etiopia, Niger e Seychelles.

Quelle in Ciad (stanziati in una vecchia base francese) e in Niger (una ad Agadez e l’altra a Niamey) avrebbero l’obiettivo di tenere sotto controllo gli spostamenti dei miliziani jihadisti in Africa dell’Ovest.

Da questi aeroporti, oltre ai droni, decollerebbero anche piccoli aerei bianchi e senza alcuna insegna e con sofisticate apparecchiature elettroniche per l’osservazione a bordo. I velivoli verrebbero tenuti lontani dalle zone di combattimento per evitare che un eventuale abbattimento possa mettere a rischio i piloti. Questi ultimi sono agenti dei servizi segreti, ma anche contractors assunti ad hoc.

Dal Camerun i droni svolgerebbero funzioni di intelligence e sorveglianza sulla vicina Nigeria, offrendo informazioni alle truppe camerunensi, nigeriane e nigerine in azione contro le milizie di Boko Haram. Probabilmente verranno impiegati anche a sostegno del piccolo contingente Usa schierato al confine tra Camerun e Nigeria. In Etiopia, ad Arba Minch, e nelle isole Seychelles invece i droni vengono utilizzati prevalentemente per la sorveglianza delle rotte che dall’Oceano Indiano si spingono, attraverso lo Stretto di Aden, verso il Mar Rosso.

«Le forze statunitensi – sottolinea Luca Mainoldi, giornalista, esperto di Africa – utilizzano, anche a livello tattico, piccoli droni, molto simili a modelli radiocomandati, che volano nel raggio di pochi chilometri per osservare eventuali pericoli o minacce. Di questi velivoli sono dotate, per esempio, le truppe speciali Usa che danno la caccia al ribelle ugandese Joseph Kony» (cfr. MC luglio 2012).

Droni transalpini

Gli Stati Uniti non sono gli unici a utilizzare gli «aeromobili a pilotaggio remoto» in Africa. Anche Parigi ha iniziato a impiegare i droni a supporto delle proprie truppe. L’Aeronautica militare francese ha attualmente in dotazione quattro Harfang, velivoli derivati dagli Heron israeliani. Questi droni sono costati alle casse di Parigi 440 milioni di euro contro i 100 preventivati. L’aumento del costo è legato alla necessità di adeguarlo alle specifiche pretese dai comandi dell’Armée de l’air.

Nonostante l’alto costo, i generali transalpini non sono soddisfatti di questo apparecchio. Ha, infatti, impianti di videoripresa con risoluzioni basse, costi di volo alti e necessita di una manutenzione continua. Per questo motivo, Parigi ha deciso di acquistare dagli Stati Uniti tre Reaper (altri due sarebbero in arrivo) che hanno prestazioni decisamente migliori rispetto agli Harfang. Per il momento le truppe transalpine non hanno armato i velivoli. Ma, con l’omologazione per i droni dei missili prodotti da Mdba, un’azienda di proprietà di Airbus, Bae Systems e Finmeccanica, i comandi starebbero progettando di impiegarli anche sui Reaper.

Finora la Francia ha impiegato i suoi droni in Africa occidentale. A partire dal 2013, Parigi ha dislocato a Niamey (Niger) due droni a sostegno delle truppe dell’Operation Barkhane, la missione transalpina nel Nord del Mali. Le truppe francesi sul terreno impiegherebbero anche piccoli droni portatili che li aiuterebbero nelle operazioni contro le milizie ribelli, come già fanno le forze speciali statunitensi.

Stati Uniti e Francia non condividono solo le tattiche di combattimento, ma anche le basi. A Niamey infatti i velivoli a stelle e strisce e quelli transalpini partono dallo stesso aeroporto.

«In Africa – continua Luca Mainoldi – corre voce che Parigi e Washington abbiano aperto una base comune e segreta anche in Libia. Da lì farebbero partire i droni per tenere sotto controllo il Sud della Libia e l’Algeria. Difficile dire se si tratti di una diceria o se ci sia un fondamento. Così come è difficile confermare la notizia secondo la quale gli Stati Uniti avrebbero una base di droni proprio in Algeria. Secondo alcune indiscrezioni, infatti, Washington avrebbe riaperto una lunga pista che le era stata data in concessione da Algeri a Tamanrasset, in pieno Sahara, per gli atterraggi di emergenza dello Space Shuttle. Ma nessuna conferma ufficiale è mai arrivata dal Segretario alla Difesa Usa o dal Pentagono».

E anche i paesi africani…

Nei cieli del continente volano anche droni africani. I primi a svilupparli sono stati i sudafricani. Ai tempi del regime dell’apartheid (1945-1993), Pretoria aveva ottime relazioni con Tel Aviv e le industrie belliche dei due paesi collaboravano in diversi ambiti. Tra questi lo sviluppo dei droni. Negli anni Sessanta e Settanta si trattava soprattutto di modelli non dissimili dai normali aeroplani telecomandati, poi, col tempo, sono andati tecnologicamente evolvendo. La fine dell’apartheid non ha portato alla chiusura del progetto. Anche dopo il 1993 l’industria bellica ha continuato a sviluppare aerei senza pilota. Probabilmente la collaborazione con Israele è terminata, certamente c’è un rapporto con gli Emirati arabi uniti che, a loro volta, stanno sviluppando un progetto insieme all’Italia.

«In Africa – conclude Giulia Tilenni – possiedono droni anche la Nigeria, la Guinea Equatoriale e l’Angola. Ma non li usano per scopi militari quanto per tenere sotto controllo gli impianti petroliferi e gli oleodotti e difenderli da eventuali attacchi o minacce. Anche l’Algeria ha propri droni, acquistati dal Sudafrica, così come l’Egitto, che invece li ha comperati da Stati Uniti e Russia. Eh sì, perché anche Russia e Cina hanno propri velivoli senza piloti, anche se, per il momento, non volano sui cieli africani».

Enrico Casale