Se l’acqua dipende dai «futures»

testo di Francesco Gesualdi |


I «futures» sono scommesse di borsa per speculare sulle variazioni di prezzo di una merce. Un’idea (perversa) di quell’economia finanziaria che ora ha preso di mira anche l’acqua, cioè un bene e un diritto essenziale.

Si sono aperte le scommesse anche sul prezzo dell’acqua. Si tratta di una minaccia non solo economica, ma pure politica. Al momento succede solo negli Stati Uniti per iniziativa della Chicago mercantile exchange (Cme), la più potente società mondiale specializzata nell’intermediazione di prodotti finanziari connessi alle commodities: minerali, prodotti agricoli, prodotti energetici e ora anche l’acqua. Oltre a innumerevoli piattaforme informatiche, il gruppo Cme gestisce quattro borse valori di dimensione internazionale: due a Chicago e due a New York. Il compito di Cme è fare incontrare ogni giorno milioni di attori interessati a stipulare contratti di acquisto o di vendita con consegna a data futura secondo prezzi concordati nel tempo presente. Operazioni spesso svolte senza l’interesse reale a vendere o comprare ciò che è stato pattuito, ma con la speranza di trarre vantaggio dalle variazioni di prezzo che, secondo le proprie previsioni, dovrebbero intervenire fra il momento della firma e la consegna. Genericamente tali contratti vanno sotto il nome di futures, alla lettera «futuri».

Contrattazioni

I futures nacquero a metà Ottocento assieme alla borsa di Chicago, lo spazio mercantile creato per favorire lo scambio di derrate agricole. Un luogo di contrattazione di livello nazionale dove i grandi produttori agricoli potevano incontrare i grandi mercanti di derrate alimentari per concludere accordi di compravendita.

Inizialmente si trattava di un mercato spot, un luogo cioè in cui si trattavano quantità fisiche giacenti nei magazzini. Potevano essere sacchi di grano, di mais, di riso, di zucchero, che gli acquirenti si sarebbero portati via una volta concluso l’accordo. Ma, andando avanti, subentrò anche l’abitudine di avviare contrattazioni su quantità ancora da raccogliere. Forse per interesse di entrambe le parti: di chi comprava per garantirsi la continuità delle forniture e di chi vendeva per avere la certezza che i suoi raccolti sarebbero stati venduti. Ma anche per avere garanzie rispetto ai prezzi. In fondo l’agricoltura è sempre piena di incognite: basta una pioggia in più o in meno, lo sviluppo di insetti di un tipo o di un altro e si può avere un raccolto scarso o abbondante con inevitabili ripercussioni sul prezzo: in crescita se i raccolti sono scarsi, in diminuzione se sono abbondanti. Comprare in anticipo a prezzo prefissato mette entrambe le parti al sicuro, anche se qualora dovessero intervenire variazioni importanti, una delle parti contraenti si mangerà le mani per la perdita potenziale subita, l’altra se le fregherà per lo scampato pericolo.

Sia come sia, i futures si affermarono così tanto che vennero addirittura accettati dalle banche come forme di garanzia per i prestiti che concedevano. In fondo se si trattava di futures di vendita la banca aveva la garanzia che, alla data prestabilita, sarebbe arrivato del denaro. Se si trattava di un future di acquisto la banca aveva la garanzia che sarebbe arrivato un carico di raccolto. Ma il vero elemento di novità che venne avanti con l’affermarsi dei futures fu l’entrata in campo degli speculatori, soggetti che non sono interessati a comprare e vendere nessun tipo di merce, ma solo a scommettere sull’andamento del suo prezzo in modo da guadagnare nel caso si sia visto giusto. Tradizionalmente le scommesse si fanno rispetto a delle gare, siano esse sportive, politiche, o di altro tipo, ed hanno come parti lo scommettitore e il botteghino che tiene il banco. Lo scommettitore punta una certa somma sulla vittoria di un giocatore e, in caso di successo, il banco si impegna a restituire la somma versata maggiorata di un premio. In caso di sconfitta, lo scommettitore perde tutto a vantaggio del botteghino.

L’acqua non è una merce da contrattare alla Borsa valori. Foto Gerd Altmann-Pixabay.

Scommesse dannose

Le scommesse attuate nell’ambito della speculazione finanziaria funzionano diversamente. Per cominciare, il rapporto si tiene fra due soggetti e si concretizza tramite un contratto di compravendita a consegna futura. L’abilità delle due parti sta nella capacità di indovinare come si muoverà il prezzo e, a seconda delle proprie previsioni, collocarsi nella posizione di compratore o di venditore. Chi avrà visto giusto guadagnerà, chi avrà visto sbagliato perderà. Per una migliore comprensione del meccanismo si vedano i semplici esempi contenuti nel box qui a sinistra.

La scommessa è una forma di gioco d’azzardo altamente discutibile da un punto di vista morale e sicuramente dannosa da un punto di vista umano e sociale. Ma quando si viene alla speculazione finanziaria, molti pensano che possiamo disinteressarcene perché riguarda solo i ricchi. Della serie: che si derubino pure fra loro, tanto noi non ne siamo toccati. Ma non è così. Le conseguenze delle scommesse realizzate tramite futures difficilmente rimangono confinate alle due parti contraenti, molto più spesso ricadono su tutti perché alcuni soggetti finanziari hanno una tale potenza di fuoco da poter spingere, con le proprie scelte, i prezzi nella direzione voluta. Così i mercati finanziari determinano le sorti dell’economia reale. Varie volte in passato i prezzi del petrolio hanno subìto bruschi rialzi o ribassi a causa delle scelte effettuate dagli speculatori. Lo stesso dicasi per il caffè, un settore che ogni anno vede la stipula di contratti a scopo puramente finanziario per volumi di merci anche venti volte più alti di quelli stipulati a scopo commerciale. Con somma gioia di chi gestisce le borse perché l’attività di intermediazione rende bene: complessivamente nel 2019 Cme ha registrato una media quotidiana di 19 milioni di contratti che le hanno procurato commissioni per quasi cinque miliardi di dollari. Detratte le spese e le tasse, i suoi azionisti, principalmente fondi di investimento come Capital Research & Management, Vanguard, BlackRock, si sono spartiti profitti per oltre due miliardi di dollari.

Penuria e tariffe

L’idea di promuovere i futures sull’acqua, a Cme è venuta in mente osservando la penuria di acqua che, da qualche tempo, colpisce la California. Uno dei periodi di maggior siccità è stato quello fra il 2012 e il 2016, durante il quale molte parti della Central Valley sono sprofondate anche di 60 centimetri come risultato della scarsità di piogge e della sete insaziabile di acqua da parte degli agricoltori. Per decenni le aziende agricole hanno pompato acqua in maniera indiscriminata fino a provocare un tale abbassamento delle falde acquifere da fare sprofondare strade, ponti, edifici. Ora lo stato della California ha deciso di proteggere i suoi acquiferi tramite una tripla strategia: migliore irreggimentazione delle acque piovane, limiti ai prelievi da parte dei pozzi privati, aumento dei prezzi applicati sull’acqua prelevata dai corsi d’acqua superficiali. Il tutto tenendo presente che anche negli Stati Uniti, come in molti altri paesi, le acque di fiumi e laghi sono gestiti da autorità pubbliche che però consentono, a chi ne fa richiesta, di prelevare acqua in cambio di una concessione a pagamento. Solitamente le richieste sono avanzate da imprese (siano esse pubbliche o private) che gestiscono i servizi idrici urbani, da industrie e centrali elettriche o anche da aziende private che poi rivendono l’acqua agli agricoltori a scopo irriguo. In California, la tariffa di concessione per il prelievo di acqua è passata approssimativamente da 224 dollari ogni mille metri cubi, nel 2009, a 446 nel 2015. E, dopo alcuni mesi di retrocessione, nel luglio 2020 la tariffa è tornata a impennarsi raggiungendo 703 dollari ogni mille metri cubi.

L’acqua è un diritto

Un andamento che ha attirato l’attenzione degli esperti finanziari di Cme i quali si sono convinti che l’acqua è ormai entrata in una fase di scarsità che la destina a un aumento costante del prezzo, seppur con lievi contrazioni transitorie interpretabili come le classiche eccezioni che confermano la regola. E sono giunti alla conclusione che i tempi erano maturi per avviare un mercato dei futures dedicato all’acqua, perché quando i prezzi si fanno instabili, emergono due gruppi di attori che si rivolgono al mercato dei futures: le aziende commerciali in cerca di meccanismi di stabilità e gli speculatori che sperano di guadagnare dai prezzi in movimento.

Così nel dicembre 2020 Cme ha inaugurato il mercato dei futures per l’acqua. Ma l’iniziativa non è piaciuta a tutti. Fra i critici Pedro Arrojo-Agudo, rappresentante speciale della Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite con delega particolare all’attuazione del diritto all’acqua potabile. In una nota dell’11 dicembre afferma con forza che «l’acqua non si può quotare a Wall Street alla stregua dell’oro o del rame. L’acqua è di tutti, è un bene comune. È direttamente connessa alle nostre vite e al nostro benessere». E ha continuato: «Sul mercato dei futures operano anche banche e fondi speculativi che usano i futures come strumento di scommessa. Se il loro interesse dovesse essere quello di spingere il prezzo dell’acqua sempre più su, si assisterebbe a una bolla speculativa come si ebbe nel mercato dei cereali nel 2008. Se dovesse succedere, milioni di famiglie e di piccoli agricoltori perderebbero l’accesso ad un diritto fondamentale come l’acqua».

Non è una merce

L’iniziativa di Cme minaccia l’acqua come diritto non solo per le ripercussioni economiche, ma anche per quelle culturali e politiche. Visto da questo punto di vista, il mercato dei futures è un altro tassello aggiunto al castello delle privatizzazioni, affinché pezzo dopo pezzo ci abituiamo a considerare l’acqua una merce qualsiasi da fare gestire al mercato. Tanto più che il mercato si presenta come il migliore gestore delle risorse scarse. E qui scopriamo che oltre all’inganno c’è anche la beffa perché lo stato di crisi profonda in cui si trova l’acqua non è dovuto solo ai cambiamenti climatici, ma anche al sovra sfruttamento e all’inquinamento che ha reso l’acqua inservibile. L’acqua, insomma, è una delle tante vittime di una concezione economica che dando valore solo a ciò che ha prezzo, maltratta tutto ciò che è comune semplicemente perché è gratuito. Ma, ciliegina sulla torta, dopo aver trasformato le risorse abbondanti in risorse scarse, il mercato pretende di essere lui a gestirle, sostenendo di essere l’unico a disporre dei mezzi per farlo. Il mezzo è quello del prezzo, altamente classista, perché dà non a chi ha bisogno, ma a chi ha denaro da spendere. L’unica alternativa possibile è quella di papa Francesco che, al punto 158 della Laudato si’, scrive: «Nelle condizioni attuali della società mondiale, dove si riscontrano tante ingiustizie e sono sempre più numerose le persone che vengono scartate, private dei diritti umani fondamentali, il principio del bene comune si trasforma immediatamente, come logica e ineludibile conseguenza, in un appello alla solidarietà e in una opzione preferenziale per i più poveri».

 Francesco Gesualdi




Se è vendibile, appartiene al mercato

testo di Francesco Gesuladi |


Ci sono due logiche: una liberista e una solidaristica. La prima guarda al profitto, la seconda alla dignità delle persone. Per quest’ultima sono nati i diritti umani e lo stato sociale. Uno stato, però, che diventa sempre più ristretto. Come dimostrato, in Italia, dalla vicenda dell’acqua.

Nella logica liberista la separazione dei compiti fra mercato ed economia pubblica è determinata da un criterio molto semplice: tutto ciò che è vendibile appartiene al mercato, tutto ciò che è indivisibile è assegnato al comparto pubblico. Che si tratti di cioccolatini o cure mediche, di cravatte o di acqua, di servizi alberghieri o  istruzione, non fa differenza:  nella misura in cui si tratta di beni e servizi parcellizzabili, e quindi vendibili a singoli soggetti, il mercato li rivendica come suoi. Col solo obiettivo di permettere alle imprese che li commercializzano di realizzare un profitto. Se invece si tratta di cura del territorio, di difesa dei confini, di mantenimento dell’ordine pubblico, ossia di servizi  non acquistabili da individui singoli, ma godibili obbligatoriamente in forma collettiva, allora sono lasciati alla dimensione pubblica.

Al contrario, nella logica solidaristica il criterio usato per stabilire cosa competa all’ambito pubblico e cosa al mercato non è economico, ma etico: tutto ciò che condiziona la dignità della persona appartiene alla comunità, tutto il resto può appartenere al mercato. La dignità è un concetto ampio che può essere espresso come l’insieme delle condizioni necessarie per permettere a chiunque di condurre una vita che possa definirsi umana. Condizioni che spaziano dalla politica (il godimento della libertà e della possibilità di partecipare alla vita democratica) alla fede religiosa (la libertà di professare il proprio credo); dall’ecologia (la possibilità di vivere in un ambiente sano) all’economia (la possibilità di soddisfare i bisogni di base). Aspetti che vanno garantiti a chiunque e per questo sono definiti diritti. Da un punto di vista etimologico, diritto viene da dirigere, verbo molto vicino a stabilire. Se ne può dedurre che diritto può essere tradotto «ciò che è stabilito dalla legge universale». E ciò che è stabilito è la possibilità per ogni individuo di godere di una serie benefici, tutele, garanzie, indipendentemente da ricchezza, razza, età, sesso. L’esistenza come unico criterio di ammissibilità.

L’incompatibilità tra diritti e mercato

Nel 1215, Giovanni Senzaterra, re d’Inghilterra, pone la prima pietra dei diritti politici con l’emanazione della Magna Charta, ma bisogna aspettare il 1948 quando i diritti sociali sono riconosciuti e inseriti nella Dichiarazione dei diritti umani adottata dalle Nazioni Unite. L’articolo 25 recita: «Ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute, il benessere proprio e della propria famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari. Ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà».

I diritti non si garantiscono però con i proclami: essi esigono un’organizzazione adeguata. Per parte sua, il mercato è una grande macchina, capace di garantire di tutto: beni fondamentali e beni di lusso, oggetti comuni e oggetti rari, prodotti leciti e prodotti illegali, mezzi di pace e mezzi di guerra. Con le sue migliaia, milioni di imprese di ogni dimensione e settore, da un punto di vista dell’offerta è ineguagliabile. Ma ovunque ci sono regole, e anche il mercato ha le sue. La regola principale è che si può chiedere di tutto, ma per ottenerlo bisogna pagare. Scopriamo così che il mercato non è per tutti. Il mercato è solo per chi ha soldi: chi ha denaro da spendere è accolto, corteggiato, riverito; chi non ne ha è  rifiutato, escluso, disprezzato.

Per definizione, i diritti sono universali e inalienabili. Appartengono a tutti per il fatto stesso di esistere. Per questo non sono appannaggio di una macchina selettiva come il mercato. Non dipendono neanche dalla benevolenza, perché ciò che spetta di diritto non può essere affidato al buon cuore. I diritti non si mendicano. I diritti nascono con la persona, e il loro rispetto si pretende dalla comunità che deve farsene carico attraverso un patto di solidarietà collettiva. Ed ecco la sostituzione del meccanismo del prezzo con il meccanismo della fiscalità che rompe qualsiasi relazione diretta fra ciò che si dà e ciò che si riceve. Sul fronte del dare chi più guadagna più versa. Sul fronte del ricevere, chi più ha bisogno più riceve. Per questo il meccanismo della solidarietà esige anche un altro principio che è quello della gratuità.

Lo stato sociale

Principi ripresi dalla nostra Costituzione che, all’articolo 2, definisce la solidarietà «dovere inderogabile», mentre all’articolo 53 sancisce che «il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Del resto dopo la seconda guerra mondiale in tutta Europa si fa strada la formula socialdemocratica che vuole il capitalismo addomesticato alle esigenze sociali. La sua espressione più alta si manifesta nei paesi scandinavi negli anni Settanta: salari alti, forme di assunzione stabili, ma soprattutto scuola, sanità e previdenza per tutti. Agli imprenditori è riconosciuta libertà di investimento e accesso al profitto, ma la priorità ce l’hanno i diritti. Di qui uno stato forte che organizza una solida rete di previdenza sociale contro disoccupazione, invalidità, vecchiaia. Uno stato forte che avoca a sé la gestione dei servizi fondamentali, non solo scuola e sanità, ma anche acqua, energia, trasporti, telefonia. Uno stato che all’occorrenza non si fa scrupolo a nazionalizzare le imprese private di pubblica utilità.

Contro lo stato sociale

Nel 1962, in Italia si procede alla nazionalizzazione del servizio elettrico e nasce l’Enel. Negli anni Ottanta il vento cambia. Mantenere lo stato sociale costa. Richiede una tassazione elevata. Fra i ceti ricchi cresce il malumore, c’è insofferenza per la pressione fiscale e c’è rabbia per l’impossibilità di mettere le mani su settori appetibili di esclusiva competenza pubblica. Decidono di passare al contrattacco. Hanno i soldi, posseggono quotidiani e riviste, addirittura televisioni, possono organizzare un’offensiva in grande stile contro il modello socialdemocratico. Denigrano lo stato, lo accusano di inefficienza, parassitismo. Attaccano i diritti, si scagliano contro l’ugualitarismo che indurrebbe a scarso impegno lavorativo. Rilanciano le vecchie parole d’ordine: mercato, concorrenza, privato. L’opinione pubblica sbanda, ha qualche esitazione, poi si lascia convincere. Il primo sfondamento avviene in Inghilterra. Nel 1979 i conservatori vincono le elezioni, Margaret Thatcher, la «Lady di ferro», diviene Primo ministro (incarico che rivestirà fino al 1990). Un decennio durante il quale taglia le tasse sui redditi più alti, inasprisce le tasse sui consumi, notoriamente pagate dai più poveri, e soprattutto privatizza: telefoni, acqua, gas, energia. Blair, che le succede, benché laburista, completa l’opera privatizzando le ferrovie. Destra e sinistra unite dalla medesima fede neoliberista.

Storia della privatizzazione dell’acqua

In Italia l’ondata delle privatizzazioni coinvolge anche l’acqua, non quella in bottiglia che già  era nelle mani dei mercanti, ma quella degli acquedotti. Neanche Mussolini aveva osato tanto. Lui, anzi, aveva fatto costruire vari acquedotti fra cui il completamento di quello pugliese. Dal 1903 gli acquedotti, e molti altri servizi di pubblica utilità, erano gestiti dai comuni secondo la formula delle aziende municipalizzate, entità a metà strada fra l’azienda e l’ufficio tecnico, in ogni caso strutture senza fini di lucro. Una formula introdotta dal governo di Giovanni Giolitti, che pur essendo un liberale convinto, sosteneva che certi servizi non potessero essere delegati ai privati. Una convinzione che avrebbero conservato anche i governanti moderni se non avessero ceduto alla pressione di cui le imprese sono state capaci.

L’offensiva sull’acqua è partita in sordina a inizio anni Novanta, con modifiche di legge su questioni tecniche, di quelle barbose che capiscono solo gli avvocati e i ragionieri. È proprio di quei cambiamenti che bisogna avere paura. Fondamentalmente la strategia per fare passare gli acquedotti da una gestione pubblica a una privata è stata pensata in due tempi: prima la fase di preparazione del campo, poi l’attacco finale. Il primo obiettivo era fare cambiare mentalità, scardinare l’idea del Comune-comunità che si fa carico dei bisogni fondamentali secondo logiche di solidarietà, per rimpiazzarla con quella del Comune-bottegaio che vende servizi secondo logiche di mercato. E, per farlo, si è cominciato a cambiare la struttura giuridica degli strumenti economici a disposizione dei comuni. È stata l’aziendalizzazione, la privatizzazione ombra, citata nella precedente puntata. I bracci operativi fino ad allora utilizzati dai comuni per gestire i loro servizi erano le aziende municipalizzate, strutture autonome da un punto di vista tecnico operativo, ma un tutt’uno col Comune da un punto di vista economico e politico. L’azienda municipalizzata faceva pagare un prezzo per i servizi che forniva, ma l’ammontare era deciso dal consiglio comunale in base a criteri sociali e se l’incasso non bastava per fare fronte a tutte le spese o agli investimenti da effettuare, provvedeva il Comune con integrazioni di altra natura.

Nel 1990 s’incrina questa logica istituendo le aziende speciali. Da un punto di vista linguistico la differenza è impercettibile, ma da un punto di vista giuridico è abissale. L’azienda speciale, pur essendo di proprietà del Comune diventa un corpo a se stante, una sorta di figlio maggiorenne che deve arrangiarsi da solo. D’ora in avanti non può più ricorrere alla mamma Comune: deve coprire tutte le spese da sola con i proventi delle sue vendite. I prezzi li decide lei stessa non più secondo logiche di equità sociale, ma secondo logiche di contabilità di bilancio. Per di più è una Spa, società per azioni. Per legge il suo compito è garantire profitti agli azionisti. Un cambiamento totale di prospettiva: la municipalizzata guardava alla gente, la Spa guarda agli azionisti. Potremmo dire «all’azionista» visto che il capitale è del Comune, ma la Spa ha la caratteristica che le quote si possono vendere, e altri soci possono aggiungersi. Le leggi che seguirono aprirono l’ingresso ai privati con le multinazionali dell’acqua che calarono come cavallette per entrare nelle società pubbliche costituite per gestire gli acquedotti. Così oggi abbiamo mostri come Acea, Hera, A2A, aziende quotate in borsa a partecipazione mista pubblico privato che si comportano come delle multinazionali qualsiasi. E a nulla è valso la schiacciante vittoria del sì ai referendum del 2011 che, di fatto, ha bocciato la gestione privatistica dell’acqua e soprattutto la possibilità di fare profitti sull’acqua. Alla volontà popolare sono stati contrapposti cavilli giuridici che hanno avuto la meglio. Non per la forza dei loro argomenti, ma per la debolezza della nostra resistenza.

Francesco Gesualdi
(seconda parte – fine)

In quanto diritto umano, l’acqua non può essere privatizzata. Foto: Manuel Darío Fuentes Hernández-Pixabay.