Passaggi, storie di straordinaria integrazione


Indice

Introduzione: Da migrante a nuovo cittadino

Articolo: Come ti libero le schiave del sesso

Box: Noi, della prima generazione

Articolo: Missione: costruire i «nuovi cittadini»

Box: l’integrazione che si coltiva

Articolo: L’angelo dei sans papiers

Box: il calcio che conta

 



Da migrante a nuovo cittadino

Secondo l’Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) nel 2016 hanno messo piede in Italia 181.436 esseri umani. A questi si aggiungono i 5.096 morti in mare e gli invisibili, viaggiatori mai arrivati a vedere le coste dell’Africa del Nord, di-spersi nel deserto o dimenticati nelle carceri libiche. La somma dà un numero imprecisato di migranti, donne e uomini, accomunati da un’unica somiglianza: l’urgenza di fuggire dalla terra in cui sono nati.

Essere migrante non è uno status permanente, ma una fase di passaggio e c’è un preciso momento in cui lo si diventa. Succede quando una causa di forza maggiore – una guerra, un disastro ambientale o una persecuzione personale – esercita una pressione su una persona tale da obbligarla ad abbandonare una vita stanziale.

E così inizia il movimento che, nell’ultimo anno, ha portato centinaia di migliaia di disperati ad attraversare il Mediterraneo, per approdare in un centro di accoglienza in stati che, nella maggior parte dei casi, sono scelti dagli scafisti.

Ma c’è anche un preciso momento in cui si smette di essere migranti. La fuga dal proprio paese non si esaurisce in un viaggio tortuoso, ma in un ritorno alla stabilità. Ed è proprio quando si ha l’opportunità di piantare le proprie radici in una nuova cultura che si abbandona questa condizione. E si diventa un nuovo cittadino.

Gli stranieri regolarmente residenti in Italia nel 2016 – secondo i dati Istat – sono 5 milioni e 26 mila. Persone dalla doppia anima, allo stesso tempo stranieri e nuovi abitanti, hanno acquisito la lingua e la cultura del paese ospitante, senza dimenticare le peculiarità del mondo da cui sono arrivati. Esseri umani che chiamano «casa» l’Italia con la stessa forza con cui rivolgono il pensiero al paese di origine.

Tra di loro, qualcuno ha compiuto un passaggio ulteriore. Ha capito che il personale percorso di integrazione, fatto di tentativi, errori, ma anche successi, può essere tradotto in un bagaglio di esperienze utili e trasferibili ai nuovi migranti, per rendere più fluido e rapido il loro processo di inclusione.

Alcuni stranieri residenti hanno deciso di tendere una mano a chi è arrivato dopo di loro, aiutandolo a vivere l’approdo in Italia. Tra di essi c’è chi si occupa di fornire cure gratuite ai richiedenti asilo, chi prova a insegnare un lavoro, chi li ospita in casa, chi ne migliora le occasioni di socialità attraverso lo sport, chi ancora promuove un passaggio di competenze e conoscenze, con attività di educazione alla pari.

Stranieri, forse non più stranieri, che sfidano la retorica di chi li vede come invasori, dimostrandosi, al contrario, anelli forti nei processi di integrazione, ponti tra due mondi, in grado di semplificare e ammorbidire il dialogo tra chi arriva e chi invece è sempre vissuto in Italia.

E così facendo contribuiscono non solo al perfezionamento del sistema di accoglienza italiano, ma alla costruzione di una società in cambiamento, dove migranti, ex migranti, stranieri e italiani hanno la possibilità di incidere sul futuro del paese in cui vivono e fare, tutti insieme, un passaggio in più. Diventare esempi di cittadinanza attiva.

Simona Carnino


 

Fatima Issah e Princess Inyang Okokon, Ghana e Nigeria

Come ti libero le schiave del sesso  

Loro, trafficate con l’inganno, riescono a liberarsi grazie alla propria tenacia e a un’associazione. Rimaste in Italia, sono diventate un riferimento per le ragazze che continuano ad arrivare numerose e sono sbattute sulle nostre strade. Molte di loro vogliono fuggire, ma hanno bisogno di tutto. Altre sono ricattate. Fatima e Princess ci sono passate.

Fuori è ancora buio. Sono le 7.30 di un giorno di una settimana qualsiasi. Fatima tira sù le tapparelle, scosta le tende e guarda verso il palazzo davanti a casa sua. Nell’alloggio di fronte, la luce spenta e la mancanza di movimenti lasciano trasparire un piccolo mondo addormentato.

«Le ragazze non si sono ancora svegliate – pensa Fatima -. Ora le chiamo perché altrimenti fanno tardi a scuola».

Squilla il telefono. Dopo pochi minuti, giovani donne dalla pelle d’ebano si affacciano al balcone. A pochi metri in linea d’aria vedono Fatima appoggiata al davanzale. La salutano. Dall’altra parte la donna sorride, le guarda e nella sua mente le conta una a una. Ci sono tutte. La giornata può iniziare.

Dal 2009, Fatima vive ad Asti dove si occupa dell’accoglienza e della protezione di vittime di tratta. Lavora presso il Piam onlus (www.piamonlus.it), associazione nota in Italia e all’estero per il recupero psicofisico delle schiave del sesso. Un mestiere complesso, per cui ci vuole preparazione psicologica, conoscenza delle disposizioni in materia di protezione delle vittime di tratta e una buona analisi del contesto storico e geografico in cui il commercio di esseri umani avviene.

«In genere le ragazze arrivano dalla Nigeria e hanno una media di 18-20 anni – spiega la donna -. A volte sono minorenni. Il mio compito è accompagnarle verso una nuova vita e dare consigli utili».

Fatima sa che quello che dice viene ascoltato con particolare interesse. Sa di essere un punto di riferimento per le ragazze. E in effetti nessuno è più credibile di chi ha vissuto le stesse vicissitudini. Nessuno è più credibile di lei.

Una storia d’inganno e di riscatto

Ghanese d’origine, Fatima Issah arrivò in Italia come vittima di tratta, nel 2008. Raggirata da un uomo nigeriano conosciuto ad Accra, accettò di partire per l’Europa con l’illusione di un lavoro come cuoca o inserviente in qualche ristorante. Senza saperlo si mise al seguito di un trafficante, iniziando un viaggio rocambolesco: palleggiata da Accra a Dubai, da Istanbul a Pristina, fino in Macedonia. Da lì, in treno verso Tessalonica e poi in volo in Repubblica Ceca, dove il faccendiere la imbarcò per Milano Malpensa prima di darsi alla macchia, per schivare i controlli sul traffico di esseri umani. All’aeroporto, un secondo uomo la stava aspettando per condurla a Torino, a casa di una donna nigeriana che si rivelò essere una madam pronta ad offrire a Fatima una vita d’inferno, invece di un lavoro legale.

«Mi dissero che dovevo pagare un debito di viaggio di 45mila euro lavorando in strada come prostituta – ricorda Fatima -. Non volevo fare una cosa del genere, ma non sapevo come fuggire e allora ho finto di essere d’accordo».

La sera successiva Fatima, insieme ad altre donne, venne costretta a salire su un furgone con destinazione Asti. Un’ora dopo era in piedi sul marciapiede di fronte al cimitero. «Una ragazza mi disse che dovevo avvicinare le macchine e propormi per 50 euro – spiega la donna -. Se il prezzo fosse stato considerato troppo alto, dovevo chiedere 20 euro per prestazione. Volevo scappare ma non sapevo come».

E il modo arrivò, come quando in un film tragico sopraggiunge uno spiazzante lieto fine. Una giovane nigeriana si rese conto dell’atteggiamento restio di Fatima. «Mi chiese come mai non facessi come tutte le altre. Le raccontai che mi avevano ingannato e volevo scappare, anche se era pericoloso. Lei allora mi aiutò, consegnandomi un volantino dell’associazione Piam con un numero di emergenza». Fatima aspettò di non essere vista, prese coraggio e si mise a correre. «Era buio e non sapevo dove stessi andando. Poi ho visto degli alberi e mi sono nascosta. Al mattino sono andata alla stazione dei treni e ho chiamato il Piam». I volontari dell’associazione si presentarono immediatamente e portarono Fatima nel centro di accoglienza femminile, dove ebbe la possibilità di fare denuncia di tratta alla polizia e da lì a poco ottenere il permesso di soggiorno per motivi sociali rilasciato ai sensi dell’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione.

Il ricatto del malocchio

Stessa sorte è capitata alla vicepresidente del Piam, Princess Inyang Okokon, originaria della Nigeria. In questo paese spesso le ragazze, prima di partire, vengono convinte a partecipare alla cerimonia del juju, un rituale religioso tradizionale, presieduto da una guida spirituale, che suggella un patto tra i trafficanti e le donne. I primi si impegnano a garantire un trasferimento sicuro in Europa e le seconde giurano che pagheranno il debito contratto. Il juju assume una funzione repressiva e schiavizzante quando le giovani, ormai consapevoli di essere cadute in una condizione di sfruttamento, cercano di fuggire. I trafficanti lo utilizzano con fare intimidatorio, ricordando alle donne che si tratta di un giuramento sacro, un contratto da cui non si può recedere, se non pagando il debito di viaggio, pena la morte della ragazza stessa o dei suoi famigliari. La cifra per l’affrancamento dai responsabili del meretricio è molto più alta di un normale biglietto aereo e arriva anche ad alcune decine di migliaia di euro.

«Io sono scappata – ricorda Princess -. Oggi sono qui a testimoniare alle ragazze che di juju non si muore e si può provare a uscire da questo incubo».

Identikit delle vittime di tratta

«Sono una delle poche ghanesi finite nelle mani del racket della prostituzione – afferma Fatima -. La maggior parte delle donne di colore che si vedono sulla strada sono nigeriane».

Secondo i dati dell’Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati) il 15% dei migranti arrivati in Italia nel 2016 proviene dalla Nigeria.

Tra di loro circa 11mila sono donne, di cui l’80% è vittima di tratta, come confermato dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). Un numero elevato se confrontato con il dato del 2015 che riporta 5.633 arrivi di ragazze in fuga da una nazione resa instabile dalle incursioni di Boko Haram e da una iniqua ripartizione delle risorse economiche. Nel saggio «Sex Trafficking in Edo State, Nigeria», edito dall’Unicri (Istituto di ricerca interregionale per il crimine e la giustizia dell’Onu) nel 2013, si evidenzia che l’85% delle vittime di tratta nigeriane proviene dalla regione denominata Edo, in particolare da Benin City e dai villaggi vicini. Abusando delle condizioni di vulnerabilità economica delle famiglie, i trafficanti cercano nei genitori delle ragazze dei complici, facili da abbindolare con la promessa di un benessere garantito dagli introiti della prostituzione delle figlie in Europa. Un’illusione rafforzata dall’incontro con alcune madam, ex prostitute diventate sfruttatrici, che spesso ritornano nel paese d’origine sfoggiando simboli di ricchezza quali telefonini di ultima generazione e case di proprietà.

«Oggi alcune ragazze sanno che la prostituzione è il prezzo da pagare per essere portate in Europa – spiega Fatima -. Ma quando si trovano davanti all’inferno della strada, alcune provano a scappare e altre continuano il lavoro per paura di ritorsioni».

Spesso è bassa la consapevolezza delle ragazze rispetto al loro futuro in Europa. Il saggio «Nigeria – La tratta di donne a fini sessuali», prodotto dall’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo nel 2015, afferma che «le donne possono sapere che lavoreranno come prostitute, senza però rendersi conto delle condizioni in cui ciò avverrà o dell’effettivo ammontare del debito, oppure possono essere sottoposte a pressioni nell’ambiente in cui vivono, o ancora possono essere vittime di inganni o raggiri».

Che siano convinte di arrivare in Italia per fare le badanti, o che sappiano cosa le attende, le ragazze si affidano a persone senza scrupoli. «Spesso sono vittime di violenza e sfruttamento sessuale durante il viaggio e poi in Libia – continua Fatima -. Alcune rimangono incinte dei loro stessi trafficanti».

Protezione delle ragazze trafficate

Le giovani donne inserite nei progetti di accoglienza gestiti da Fatima e Princess hanno raggiunto la Sicilia in barcone, come la maggior parte delle loro connazionali. Ad aspettarle all’arrivo normalmente c’è un intermediario che, come è successo a Fatima, ha il compito di accompagnarle da una madam.

«Quando sono ancora in Africa, le ragazze ricevono un numero telefonico da chiamare una volta approdate – spiega Princess -. In questo modo si possono mettere in contatto con i trafficanti qui in Italia».

Proprio per evitare che le ragazze si consegnino ai propri aguzzini, nei primi giorni a ridosso dell’arrivo, Fatima e Princess si impegnano a dare tutte le informazioni necessarie perché le giovani donne decidano consapevolmente se denunciare i propri carnefici ed entrare in un progetto di accoglienza per richiedenti asilo politico.

«Se arriva una ragazza nigeriana non accompagnata, diciottenne o ventenne, è al 100% vittima di tratta – dice Princess -. Ci possono dire che la persona che le sta aspettando è loro cugino, zio o un amico di famiglia, ma noi sappiamo che non è vero. Ci siamo passate prima di loro».

Tuttavia sta alle ragazze denunciare la propria condizione e, ad oggi, poche nigeriane trafficate si identificano come vittime. Per la maggior parte di loro il pagamento di somme ingenti di denaro per approdare in Europa è considerato la normalità e la prostituzione un passaggio obbligato verso l’affrancamento. Altre sanno che una denuncia suonerebbe come una dichiarazione di guerra nei confronti dei trafficanti che potrebbero minacciare le loro famiglie.

«Alcune ragazze invece non vogliono andare sulla strada a nessun costo – dice Fatima -. Si sono affidate a trafficanti per riuscire ad arrivare in Europa, ma non hanno nessuna intenzione di svolgere quel lavoro. In questi casi, le aiutiamo a sporgere denuncia e le inseriamo in progetti di accoglienza e di protezione».

Un percorso di accompagnamento che Fatima e Princess svolgono con passione e dedizione, incoraggiando le ragazze ad andare a scuola di italiano, immaginare un futuro lavorativo e provare a sanare le ferite fisiche e psicologiche che hanno subito durante il processo migratorio.

«Non è semplice valutare se una ragazza è davvero fuori dal giro della prostituzione – spiega Princess -. Capita che denunci il trafficante, ma che dopo un periodo scappi dal progetto di protezione, perché teme gli effetti del juju per non aver pagato il debito». E così può accadere che una ragazza inizialmente strappata allo sfruttamento sessuale venga ricontattata dai suoi aguzzini e, intimorita per le possibili ritorsioni, cominci un percorso di miseria sulla strada, schiavizzata per un numero di anni difficile da calcolare.

«Quando ci accorgiamo che una ragazza viene minacciata da uno di questi delinquenti, proviamo a trasferirla in un’altra città, prima che scappi senza dirci nulla – conclude Princess -. È nostro compito provare a proteggerla fino a quando ne abbiamo la possibilità».

Guadagnarsi la fiducia delle vittime di tratta non è facile. Eppure Fatima e Princess non demordono. Dalla loro parte hanno un’esperienza, triste e dolorosa, che le rende un esempio concreto. «Io sono come te, ma sono cresciuta. Ho studiato e ho un lavoro», dice Fatima, ogni volta che incoraggia le giovani a trovare la forza di dire no alla tratta, ogni volta che le ascolta e le accompagna per diventare donne libere. E ogni volta che le chiama dalla finestra, perché non facciano tardi a scuola.

Simona Carnino


Noi, della prima generazione

Dalla cucina arriva un profumo di curcuma che si mischia alle note intense della cipolla e dell’aglio. I borbottii della casseruola sul fuoco annunciano un piatto dalla lunga cottura. Moussa, un 23enne originario del Mali, sta controllando che il riso non si attacchi al fondo. A intervalli regolari dà una mescolata, poi posa il cucchiaio e si mette a pelare patate e carote. Alle sue spalle Mallam, ghanese di 25 anni, lava le pentole. Poco più in là Alioune prepara la tavola per tutti. Qualche mese fa l’apparecchiava solo per sé.

Siamo nella primavera del 2016 Mallam e Moussa sono in Italia da circa 5 anni. Prima di conoscere Alioune avevano vissuto tra grandi centri e case occupate. Nel 2015 hanno ottenuto la possibilità di partecipare al progetto «Rifugio diffuso», un’accoglienza in casa di privati che prevede un contributo alla famiglia ospitante di circa 400 euro per ogni richiedente asilo o titolare di protezione alloggiato. Ad aprire la porta ai due giovani c’era Alioune Djouf senegalese di 58 anni, residente in provincia di Cuneo e in Italia da più di metà della sua vita. «Questi ragazzi appena arrivati hanno bisogno di essere aiutati – commenta Alioune -. Noi, che siamo di prima generazione, dobbiamo essere in prima linea».

 

L’accoglienza in casa è ancora poco praticata in Italia. In Piemonte ha cominciato ad avere una parziale diffusione nel 2008 ed è stata rilanciata nel 2014 dal comune di Torino, insieme all’Ufficio pastorale migranti della diocesi e altre associazioni. Questo tipo di servizio permette alle persone ospitate di avere un immediato contatto con il territorio, facilitato dal conduttore dell’alloggio che, in genere, è residente in loco da molti anni. E i risultati possono essere particolarmente interessanti quando il rifugio viene offerto da uno straniero che vive in Italia da parecchio tempo. «Noi che siamo arrivati in Italia da anni, conosciamo la lingua, il sistema culturale e sociale italiano, ma abbiamo anche una grande conoscenza dei paesi di provenienza. Siamo dei ponti naturali e possiamo dare una mano concreta a chi arriva ora», spiega Alioune che nel 2016 ha accompagnato i due ragazzi nel processo di iscrizione al centro per l’impiego, li ha messi in contatto con una ditta per svolgere un tirocinio e li ha sostenuti nella creazione di una piccola rete di amicizie e incontri sul territorio.

A volte possono subentrare delle difficoltà di convivenza, come tra normali coinquilini, certo è che l’accoglienza in casa permette un processo di integrazione più rapido di quello che avviene nei grandi centri.

«Quando i ragazzi arrivano, parliamo subito – racconta Alioune -. Non siamo più in Africa. Il sistema europeo è molto diverso da quello a cui sono abituati, per cui diventa prioritario per loro provare a capire la gente, rispettare le regole e farsi conoscere. In questo modo si riuscirà a fare un buon inserimento. E naturalmente è importante trovare un lavoro. Per questo faccio di tutto perché Mallam e Moussa abbiano un’opportunità di impiego». Un proposito che si scontra con le precarietà ormai tipiche del sistema lavorativo italiano, ma che non ha scoraggiato i giovani.

Marzo 2017: Mallam ha iniziato un tirocinio presso una mensa e si è trasferito più vicino alla sede di servizio, mentre Moussa ha cominciato il servizio civile e vive ancora a casa di Alioune.

Simona Carnino


Abdullahi Ahmed, Somalia

Missione: costruire i «nuovi cittadini»

È un ragazzo come molti altri. La paura del viaggio era tanta, ma quella di rimanere e non potersi realizzare ha prevalso. Una grande volontà di rendersi utile. Per caso diventa mediatore. Un naturale «ponte» tra due mondi. Capisce che occorre preparare i ragazzi italiani all’accoglienza e in un anno incontra 10.000 giovani nelle scuole.

Corre veloce, Abdullahi. Sulle spalle lo zaino con gli appunti per spiegare nelle scuole del Piemonte il motivo che convince i ragazzi come lui a fuggire dal proprio paese. Nelle mani l’orario dei colloqui con i richiedenti asilo appena arrivati in Italia, in tasca il biglietto di uno studente con scritto «grazie». E nello sguardo il guizzo vitale di chi sogna un dialogo pacifico tra italiani e stranieri. O per usare le sue parole, «nuovi cittadini, perché sono sicuro che se il processo di inclusione avviene in modo corretto, chi approda oggi, sarà il cittadino di domani».

Abdullahi Ahmed, classe 1988, originario della Somalia, oggi è cittadino italiano e fa il mediatore culturale a Settimo Torinese. Parla la nuova lingua come un libro stampato, conosce la Costituzione italiana a menadito, si destreggia tra i meandri della burocrazia e sa orientarsi lesto per le vie di Torino, città in cui abita. Difficile considerarlo straniero, migrante, rifugiato, profugo. Abdullahi è un ragazzo come tanti altri, somalo, italiano, europeo che si è messo in viaggio in cerca di stabilità economica, sociale e, nel suo caso, politica.

La traversata che ti segna

Abdullahi è arrivato in Italia nel giugno 2008, ma è partito dalla Somalia nel novembre 2007. Il paese è dilaniato da guerre civili e dittature fin dal 1960, anno dell’indipendenza. L’economia ne ha sofferto, piegata inoltre da ondate di carestia, che hanno accelerato i moti migratori e collocato la Somalia al terzo posto nel mondo per numero di richieste di asilo politico, con 1,1 milioni di abitanti in fuga, secondo il 3° Rapporto sulla Protezione internazionale 2016 (di Caritas Italiana e altre organizzazioni). «Da quando sono nato non ho mai vissuto un giorno di pace, fino a quando non ho deciso di partire – racconta Abdullahi -. La paura del viaggio era tanta, ma quella di rimanere, e non potermi realizzare come essere umano, era più forte». Compiuti 19 anni, ha preso il suo bagaglio e ha cominciato un viaggio di 7 mesi, affidandosi a organizzazioni di trafficanti che si occupano di gestire il viaggio dei migranti verso l’Europa. Mesi trascorsi ad attraversare l’Etiopia, il Sudan e poi la Libia. «Mi sarebbe piaciuto prendere un aereo, ma non è stato possibile – ricorda il ragazzo -. Con il passaporto somalo non si può andare neanche in Kenya, mentre con i documenti italiani si può viaggiare in 175 paesi. Oggi c’è chi ha diritto di viaggiare e chi no. E i somali non ce l’hanno», per cui il viaggio è stato precario e insicuro a ogni passo. L’attraversamento del mare tra Libia e Italia è stato più semplice del passaggio nel deserto, durato sette giorni. La paura che la macchina si inceppasse a causa della sabbia, che i soccorsi non arrivassero o che le riserve d’acqua terminassero, ha seguito Abdullahi fino all’arrivo in Libia, dove, pagando un biglietto salato, è salito sul barcone che lo ha portato in Europa. «Tu non scegli in che punto attraversare il Mediterraneo né dove arrivare – racconta -. Ti affidi e basta. Il viaggio in mare dura mediamente 24 ore. Se c’è un problema, speri di essere soccorso e preghi Dio».

Dopo quattro giorni dall’arrivo a Lampedusa, Abdullahi è stato imbarcato su un volo per Torino e accolto nel Centro Fenoglio di Settimo Torinese, gestito dalla Croce Rossa. Dopo tre mesi, ha ottenuto il permesso di soggiorno come rifugiato politico.

«Vorrei fare qualcosa di buono»

«Certezze non ce ne sono, ma per ora vorrei mettere qui il mio mondo e fare qualcosa di buono». Nel 2009, Abdullahi ha posato la pietra miliare della sua nuova vita in Italia, ma non ha smesso di muoversi. Almeno con le idee e con la volontà di rendersi utile.

A un anno dal suo arrivo in Italia ha iniziato a svolgere il mestiere di mediatore culturale. «Nel 2009 sono arrivati al Fenoglio 150 richiedenti asilo politico dalla Somalia – racconta Abdullahi -. Io mi sono messo a disposizione per aiutare gli operatori del centro a trasmettere le comunicazioni». Un’attività iniziata per caso, diventata una professione che lo ha reso indispensabile per la sua funzione di ponte linguistico. «Ma il mediatore è molto di più di un interprete. È una persona che conosce la cultura del paese d’origine e ha acquisito la cultura del paese ospitante», dice Abdullahi che da anni ha il compito di aiutare i ragazzi somali a iscriversi al sistema sanitario, alla scuola di italiano per stranieri, a conoscere il territorio e a seguire l’iter di ottenimento dei documenti.

«Se i ragazzi non hanno ancora fatto richiesta di asilo politico, li accompagno in questura per compilare i moduli necessari – spiega -. I tempi di attesa oggi sono molto più lunghi del 2008. A volte ci vogliono due anni per ricevere una risposta».

Secondo i dati mensili raccolti dal ministero dell’Interno, da gennaio a dicembre del 2016 sono state presentate 124.382 domande di asilo, mentre ne sono state esaminate 90.552, indipendentemente dall’anno di arrivo del richiedente in Italia. L’attesa è sfiancante e in più del 50% dei casi la risposta è negativa. Una doccia fredda. Esseri umani dichiarati illegali, spinti a lasciare il paese, nonostante spesso abbiano già imparato la lingua e magari trovato un’occupazione. «In quei momenti il mio lavoro si fa duro e posso fare ben poco – racconta Abdullahi -. In ogni caso, continuo a frequentare chi non riceve il permesso, aiutandolo a costruire una rete sociale. Non voglio che si senta abbandonato».

Due mondi che s’incontrano

L’avvicinamento tra due mondi è possibile solo se entrambi hanno la volontà di camminare verso l’altro. «Una volta pensavo che fosse compito solo di noi stranieri fare lo sforzo di integrarci – ricorda Abdullahi – ma mi sbagliavo. È importante preparare il territorio, coinvolgere i giovani nati in Italia, parlare con loro». A dargli l’occasione per iniziare una nuova tappa di dialogo è stato, paradossalmente, un evento tragico.

Il 3 ottobre del 2013 un barcone affondò al largo di Lampedusa causando 368 morti e 20 dispersi. Il giorno dopo in una scuola del Piemonte, un professore propose ai propri studenti un minuto di silenzio per le vittime del mare. Alcuni si rifiutarono. «Ma che ce ne frega a noi di questi. Facevano meglio a non venire», disse uno. Spiazzato dall’atteggiamento della classe, il docente provò a correre ai ripari, pensando di mettere i propri studenti a confronto con l’oggetto stesso della loro diffidenza. Alcune telefonate dopo, Abdullahi si presentò a scuola per raccontare la sua storia, in buona parte simile a quella dei ragazzi annegati il 3 ottobre. Due ore di resoconto serrato, un’antologia di emozioni mescolate a fatti di storia contemporanea incisi sulla pelle.

Grazie a quell’incontro il ragazzo che aveva detto di «fregarsene» iniziò invece a interessarsi e invitò Abdullahi a partecipare a un’assemblea di istituto per portare la sua testimonianza a tutta la scuola.

«Da allora ho deciso di raccontare la mia storia per ridurre le distanze tra italiani e migranti. È diventata la mia missione. In tre anni ho incontrato più di 10mila studenti e i riscontri sono sempre positivi». Un’attività di volontariato che Abdullahi svolge con spirito civico, ma anche autornironia e simpatia. Pronto a rispondere a domande senza filtri, come quella volta che gli chiesero perché non se ne fosse andato in Botswana, invece che in Italia. «Non ci sono domande scomode o cattive.
È stimolante discutere con chi la pensa diversamente, altrimenti che confronto sarebbe! – sorride Ahmed -. I ragazzi mi chiedono della mia famiglia, della mia religione, se vengo pagato dallo stato, se pago l’affitto, se lavoro. Io rispondo alle loro curiosità. E così ci conosciamo e siamo un po’ meno lontani. È un’esperienza magnifica».

L’impegno civile

L’impegno di Abdullahi non conosce confini e nel 2014, rimasto senza lavoro come mediatore, con diritto all’assegno di disoccupazione, ha deciso di rifiutare l’aiuto dello stato per svolgere il servizio civile nazionale e restituire una parte di sé a Settimo Torinese, la città che lo aveva accolto anni prima.

Un esempio di partecipazione civica che non è sfuggita alla giunta comunale che il 18 settembre 2014 ha insignito Abdullahi della cittadinanza onoraria. A marzo del 2016 è diventato cittadino italiano a tutti gli effetti, ottenendo la possibilità di votare, di viaggiare e di poter vivere dove vuole.

Anche nel tempo libero il giovane mediatore non perde occasione di portare un contributo all’incontro interculturale. Dal 2014 è uno degli organizzatori della cellula torinese, e da poco anche settimese, di Arte Migrante, un evento serale informale, una corrida senza pomodori, in cui persone provenienti da tutto il mondo, di ogni ceto sociale e di ogni età, si esibiscono in performance di danza, canto, recitazione e molto altro. «Si sta insieme per il piacere di farlo. Tanti richiedenti asilo, rifugiati e nuovi cittadini partecipano con me alle serate e per un momento smettono di pensare ai problemi quotidiani. Ci divertiamo e le occasioni di socializzazione si moltiplicano in un’atmosfera magica».

E mentre ricorda tutto questo Abdullahi si tocca il collo. Dalla camicia fa capolino una maglietta rossa. O meglio granata. Improvvisamente una luce di orgoglio illumina il suo sguardo. «Sì, sono del Toro. La più grande squadra del mondo», dice serio Abdullahi che, appena ne ha avuto la possibilità, ha cominciato a sedersi in curva Maratona.

«All’inizio della mia esperienza in Italia, i tifosi mi hanno aiutato a sentirmi parte di un gruppo. Ogni volta che il Toro faceva gol ci abbracciavamo e a nessuno importava se io fossi nero, somalo, straniero, migrante o altro. Ero come loro, un tifoso granata».

Quell’abbraccio che lo ha fatto sentire a casa lo restituisce ogni volta che fa quello che gli riesce meglio. Essere l’ingranaggio funzionante di un dialogo appena iniziato.

Simona Carnino


Mamadou Ndiaje, Senegal e Abdulwahab Afa, Eritrea

l’integrazione che si coltiva

«Maramao perché sei morto? Pan e vin non ti mancava. L’insalata era nell’orto e una casa avevi tu», cinguettava il trio Lescano nel 1939. Negli anni 2000 la stessa cantilena ha cominciato a riecheggiare tra alcuni contadini di Canelli (Asti) che la usavano per indicare, con atteggiamento beffardo, i braccianti migranti finiti nel giro del caporalato, sfruttati nelle campagne del Dolcetto e del Barolo.

Oggi però Maramao ha un nuovo significato. Dal 2014 è il nome di una cooperativa agricola fondata da rifugiati politici e alcuni italiani. Maramao, sì. Per farsi beffa della beffa.

«Io e il mio collega Afa siamo i vicepresidenti – spiega Mamadou Ndiaje, senegalese -. Noi due e una nostra amica italiana rappresentiamo il comitato direttivo. Abbiamo iniziato questo lavoro coltivando le terre che alcuni anziani del paese hanno deciso di darci in comodato d’uso gratuito». Mamadou è arrivato dal Senegal e Abdulwahab Afa dall’Eritrea circa 4 anni fa. Oggi sono due giovani imprenditori di 30 anni, con alle spalle un passato trascorso in uno Sprar gestito dalla cooperativa Crescere Insieme di Acqui Terme (Alessandria), dove hanno imparato a destreggiarsi tra vendemmie, raccolta di nocciole e trasformazionie di pomodori. Imparato il mestiere, i due ragazzi, insieme a chi li aveva accolti, hanno unito le forze per la creazione di Maramao, start up di produzione e vendita di prodotti agricoli biologici.

«Oltre a coltivare, abbiamo deciso di accogliere in tirocinio lavorativo dei ragazzi che stanno nei centri di accoglienza, per insegnare loro un lavoro», racconta Afa. Una scelta importante che ha portato i due imprenditori agricoli a estendere quello che hanno imparato sull’auto imprenditorialità ai ragazzi, in gran parte richiedenti asilo, che sono un passo dietro a loro nel cammino verso l’integrazione lavorativa.

«Quando parti dal tuo paese d’origine, pensi che una volta arrivato in Italia sia facile trovare lavoro – ricorda Mamadou -. Poi ti rendi conto che ci sono tanti limiti. Prima di tutto bisogna avere i documenti a posto e parlare la lingua. Senza lavoro qui non è facile». E così i due giovani vicepresidenti fanno quello che possono per rendere a chi è arrivato dopo di loro più fluido il passaggio a una nuova vita lavorativa. Un tirocinio non è certo una sicurezza, ma rappresenta un primo passo per migliorare le proprie competenze e per venire in contatto con la popolazione locale. Molti dei ragazzi in stage si occupano della vendita dei prodotti al mercato, dove hanno l’opportunità di parlare con i clienti ed essere apprezzati per il proprio lavoro. Una gratificazione che stimola i giovani richiedenti asilo a mettercela tutta per dare nuova dignità ai campi abbandonati per anni (molte sono infatti terre lasciate incolte). Almeno per un periodo. Almeno fino a quando non avranno le idee più chiare sul loro futuro. «A volte i nostri tirocinanti non ottengono il permesso di soggiorno, oppure vogliono andare in Nord Europa – conclude Mamadou -. Non tutti loro rimarranno in Italia, ma noi proviamo a coinvolgerli nella coltivazione, nella raccolta, nella vendemmia e in tutto ciò che c’è da fare in una cooperativa agricola, perché ovunque vadano possano portarsi un mestiere con loro».

Sim.Car.


Joelle kamgaing, Camerun

L’angelo dei sans papiers

Arrivata a 19 anni in Italia per studiare medicina. Ha sviluppato grande empatia con i pazienti stranieri. Forse per la sua esperienza di studentessa «diversa» che ha dovuto integrarsi. Spesso gli assistiti hanno bisogno di un supporto umano più che di un consulto medico. E lei si mette a disposizione come volontaria.

Studia, studia, studia. È il mantra che ha accompagnato Joelle Kamgaing negli ultimi sei anni e mezzo, da quando ha iniziato a frequentare la facoltà di medicina e chirurgia a Torino.

A 19 anni aveva l’atteggiamento determinato di una velocista ai blocchi di partenza, con la mente concentrata al traguardo, pronta a fare il miglior tempo su un percorso ad ostacoli. «Avevo un obiettivo difficile – dice Joelle -. Volevo fare il medico. Mi sono impegnata, ho dato tutta me stessa».

E Joelle ce l’ha fatta. Nel 2016 si è laureata in medicina e chirurgia, con lode e dignità di stampa. Ha superato l’esame di abilitazione alla professione all’inizio del 2017 e ora sogna la specializzazione in nefrologia. Non male per una ragazza di 25 anni. Per una giovane donna che bagaglio in spalla e coraggio in pancia, ha lasciato il Camerun ed è partita alla volta dell’Italia per diventare medico.

Solidarietà studentesca

«Appena arrivata non sapevo una parola di italiano e non conoscevo nessuno, né la cultura, né il cibo. Era tutto diverso e io mi sentivo diversa. Tutti mi guardavano perché ero nera. Poi i miei compagni di corso mi hanno dato una mano. Mi parlavano in italiano e io li aiutavo con i concetti di medicina, spiegandomi in francese. E così poco a poco mi sono sentita accolta».

Un inizio tumultuoso per la ragazza che allo studio doveva affiancare lo sforzo di imparare la lingua e la volontà di comprendere un sistema culturale dai punti di riferimento diversi da quelli conosciuti nei primi due decenni di vita in Africa.

Senza scoraggiarsi e con la metodologia tipica di una scienziata, Joelle ha trasformato una debolezza in opportunità. Quell’iniziale sentirsi straniera in un paese straniero le ha permesso di sviluppare doti di empatia e ascolto che oggi rivolge ai suoi pazienti, in particolare a chi è arrivato da poco in Europa e fatica a esprimere il proprio malessere.

Appena ha un momento libero, Joelle opera come dottore volontario in medicina generale presso Camminare Insieme (camminare-insieme.it), un’associazione torinese di volontariato con un poliambulatorio in via Cottolengo, che si occupa di fornire farmaci e visite gratuite a indigenti e a stranieri che, per ragioni diverse, non abbiano diritto al servizio sanitario nazionale.

Medico, donna e africana

A volte non credono ai loro occhi. Stupiti e meravigliati, i pazienti stranieri che si siedono di fronte a Joelle rimangono a bocca aperta nel vedere una ragazza dell’Africa subsahariana con stetoscopio al collo e cartellino recante la dicitura «dottore» sul camice. «Mi chiedono come abbia fatto a raggiungere uno status così elevato – sorride Joelle -. Pensano che sia stata adottata. A loro sembra incredibile che qualcuno nato in Africa e arrivato in Italia possa riuscire a laurearsi in medicina».

Chi si presenta presso gli ambulatori dell’associazione Camminare Insieme nella maggior parte dei casi parla la lingua di chi ha fatto un lungo viaggio, con ferite psicologiche oltre che fisiche, e un passato da dimenticare. Difficile per loro pensare a un domani e ancora più arduo immaginare di realizzare i propri sogni.

Tanti di loro fanno parte di quel 61,3% di stranieri che nel 2016 ha ricevuto il diniego alla richiesta di asilo, secondo i dati del ministero dell’Interno. Cittadini invisibili che si muovono sul territorio italiano senza la possibilità di rimanere, ma neppure l’opportunità di andare verso un altrove più favorevole alla loro vita. Esseri umani privi di documenti che non hanno il diritto di iscriversi al sistema sanitario nazionale e quindi si rivolgono a centri ambulatoriali gestiti da volontari per ottenere visite generali e medicinali gratuiti. Tra i 2.547 pazienti totali, sono 2.113 le persone provenienti da paesi non dell’Unione europea che si sono registrate ai servizi dell’associazione Camminare Insieme nel 2016.

Pazienti senza documenti

«Chi è senza documento preferisce farsi curare presso centri come il nostro perché noi non esigiamo la presentazione del permesso di soggiorno – spiega Joelle -. Ogni volta che una persona considerata irregolare si presenta in strutture pubbliche teme una registrazione formale e conseguenti ripercussioni amministrative o penali».

Una paura che non avrebbe ragione di esserci se fosse più conosciuto l’articolo 35 del testo unico sull’immigrazione che cita: «L’accesso alle strutture sanitarie da parte dello straniero non in regola con le norme sul soggiorno non può comportare alcun tipo di segnalazione all’autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano».

In Italia il dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’uomo, indipendentemente dall’etnia, dalla religione e dal sesso, in tempo di pace e guerra. Così recita ancora oggi l’articolo 3 del codice deontologico medico.

Certezze messe in dubbio qualche anno fa dal pacchetto sicurezza del 2008 e dalla successiva legge 94/2009 emanati dal governo Berlusconi che crearono panico diffuso tra gli stranieri e un acceso dibattito tra i medici determinati ad alzare le barricate per difendere il proprio dovere a operare nell’interesse del paziente.

Nel mirino c’era l’introduzione del reato di ingresso e soggiorno irregolare, punito con una sanzione fino a 10mila euro, e l’obbligo di denuncia per pubblici ufficiali e incaricati del servizio pubblico che venissero a conoscenza di una persona in condizione di clandestinità. Il mondo sanitario si trovò a dover fronteggiare una situazione ambigua. Da una parte il divieto di segnalazione propria della deontologia e dall’altra il possibile obbligo di denuncia del migrante irregolare, non perché avesse commesso un atto criminale, ma per il motivo di essere nella condizione di sans papiers.

«È stato un periodo difficile – spiega Fiorella Ferro, socio fondatore di Camminare Insieme -. Tutti i medici, paramedici e corpo sanitario italiano si sono allineati in una ferma opposizione alla legge». Sulla porta dell’associazione di Via Cottolengo campeggiava un grosso e rosso adesivo che recitava «Noi non segnaliamo» e in quell’anno le code di fronte alle porte si duplicarono, mentre il libero e spontaneo accesso alle cure pubbliche da parte degli stranieri senza documenti si riduceva.

La federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontorniatri alzò la voce in difesa del ruolo del medico e chiese al governo chiarimenti.

La vicenda trovò una sua conclusione nella circolare n. 12 del novembre 2009, in cui il ministero dell’Interno ribadì, come riportato dal portale sull’immigrazione del governo, «la vigenza del divieto di segnalazione anche dopo l’entrata in vigore del reato di ingresso e soggiorno irregolare sul territorio nazionale, precisando che l’obbligo di denuncia non si applica in riferimento al reato di ingresso e soggiorno irregolare sul territorio dal momento che si tratta di una contravvenzione e non di delitto».

Sebbene si fosse fatta chiarezza su un’ambiguità di fondo, la legge aveva contribuito a rendere diffidenti i pazienti senza documenti che, in quel periodo, preferivano rinunciare al proprio diritto all’assistenza sanitaria pubblica.

«Ancora oggi alcuni stranieri, a cui è stata rifiutata la richiesta di protezione internazionale, non sanno che si possono rivolgere al pronto soccorso liberamente – spiega Joelle -. Il mio compito in questi casi è provare a rassicurarli e convincerli ad andare all’ospedale in caso di emergenza».

Mediazione culturale e linguistica

Attualmente, davanti all’associazione Camminare Insieme si forma ogni giorno una fila che non di rado accoglie fino 70 persone. Al 98% sono stranieri, provenienti soprattutto da Marocco, Romania, Nigeria e Siria, che nel 2016 si sono affidati alle mani esperte di 76 medici volontari.

«La maggior parte delle persone si presenta per consulti di medicina generale e per visite odontorniatriche che privatamente non potrebbero permettersi – racconta Fiorella Ferro -. Tanti vengono da noi attirati dall’atteggiamento accogliente e attento dei nostri dottori».

E in fatto di empatia con i pazienti stranieri Joelle è naturalmente portata. Oltre al ruolo di medico, la giovane dottoressa svolge un’attività di mediazione culturale e linguistica fondamentale per comprendere, ma anche mettere a proprio agio, le persone che si presentano all’ambulatorio. «Quando i pazienti dell’area subsahariana mi vedono si sentono più rassicurati. Capita che mi spieghino le patologie in inglese o francese. Parliamo la lingua che conoscono meglio e in questo modo si sentono maggiormente compresi», racconta la dottoressa.

Pazienti che si sentono a casa anche se sono in un emisfero diverso da quello di provenienza e che riescono a raccontare i propri problemi medici senza inibizioni, sicuri che dall’altra parte della scrivania c’è qualcuno che sa capire anche le ansie relative a malattie tipiche dell’area geografica di origine.

«Mi è già successo che alcuni pazienti abbiano paura di essere affetti da malaria – continua Joelle -. Effettivamente è una malattia endemica della zona d’origine di numerosi stranieri. Io li capisco, ma cerco di spiegare loro che la maggior parte delle volte sono solo paure irrazionali e che in Italia è più facile contrarre l’influenza che la malaria». Consigli semplici, ma che suonano più autorevoli se pronunciati da qualcuno che può essere riconosciuto come un punto di riferimento famigliare da chi è appena arrivato in Italia.

«A volte i miei assistiti hanno bisogno di un supporto umano più che di un consulto sanitario – racconta Joelle -. Sono spesso abbattuti, senza un lavoro e rete sociale. Io dico sempre loro di non cedere, di darsi degli obiettivi e perseguirli, senza dimenticare da dove sono arrivati».

Così ha fatto lei, con la gioia e la risolutezza della giovane donna che ha pedalato in salita senza darsi mai per vinta, prestando la sua opera «con diligenza, perizia e prudenza secondo scienza e coscienza», come dice Ippocrate, e donando in più la sua esperienza di ex migrante per infondere ai pazienti il coraggio. Per affrontare il dottore e le sfide di un mondo nuovo.

Simona Carnino


Aboudala Dembelé, Mali

Il calcio che conta

Alle 6 del mattino è già sveglio. Per prima cosa rivolge la preghiera quotidiana a Oriente. Poi prepara il borsone. Tacchetti, calzettoni, parastinchi, scaldamuscoli, pantaloncini, una maglia a maniche corte, una felpa dell’Italia. Alle 7 è pronto per andare al lavoro, ma non prima di inviare il messaggio di rito: «Ricordatevi che stasera c’è allenamento. Cercate di essere puntuali. Vi aspetto davanti al cancello del campo alle 18.30». Il tono è quello compassato di un allenatore che convoca i suoi giocatori con la serietà asciutta di chi non fa tanti giri di parole. Proprio come Aboudala Dembelé, per gli amici Abu, che di giorno fa l’operaio e nel tempo libero è il mister di una squadra di calcio che unisce sotto la stessa maglia richiedenti asilo e rifugiati politici maliani residenti in alcuni centri di accoglienza di Torino.

Anche Abu è titolare di protezione internazionale. È arrivato dal Mali nel 2011, sulle rotte consuete che dalla Libia lo hanno portato in un centro di accoglienza torinese. «All’inizio non potevo lavorare e non conoscevo nessuno – racconta Abu -. Per cui ho iniziato a studiare l’italiano e poi, per non stare inattivo fisicamente, mi sono messo a giocare a calcio in un campetto vicino al centro».

Con un pallone, la fantasia e la forza dei suoi 25 anni, le cose hanno cominciato a muoversi. Da lì a poco è entrato a far parte dell’associazione sportiva dilettantistica Balun Mundial, fondata da un gruppo di ragazzi italiani e stranieri che, dal 2007, ogni estate organizza a Torino la «Coppa del mondo delle comunità migranti», una sfida all’ultimo gol per costruire uno spazio di incontro tra residenti e chi è appena arrivato in Italia.

Abu non ha perso tempo e ha portato il suo contributo costituendo la nazionale del Mali di cui è l’allenatore dal 2015. «Volevo comunicare a tutti che c’è una comunità di maliani a Torino», spiega Abu. La selezione dei giocatori è avvenuta nei centri di accoglienza, dove l’invito di Abu è stato accolto come un’opportunità per conoscere nuove persone in un ambiente divertente e multietnico. «Il calcio dà ai miei giocatori la possibilità di parlare italiano con i ragazzi delle altre nazionalità, di stare all’aria aperta e di imparare il concetto di puntualità che per noi africani a volte è un po’ vago – ride Abu -. All’allenamento non si sgarra. Chi non arriva puntuale non si allena. Così si impara la puntualità e la disciplina utile alla vita». In un passaggio educativo alla pari Abu cerca di insegnare quello che ha imparato sulla sua pelle. «So cosa significa stare in un centro di accoglienza – racconta il giovane -. La maggior parte della giornata non si svolge nessuna attività. Quando ho tempo libero, vado a trovare i ragazzi e parliamo. Provo a dare loro i miei consigli, li spingo ad andare a scuola e li ascolto. Fuori o dentro al campo, io ci sono sempre per i miei giocatori».

Sim.Car.

 


Fonti e Sitografia

  • www.iom.int -Sito dell’Organizzazione internazionale dei migranti (Oim), con l’aggiornamento di arrivi e decessi in mare.
  • www.ecoi.net -European Asylum Support Office, Nigeria. La tratta di donne a fini sessuali, ottobre 2015.
  • www.asgi.it -Assistenza sanitaria per stranieri non comunitari (scheda).
  • s2ew.caritasitaliana.it -Rapporto sulla protezione internazionale in?Italia 2016, Anci, Caritas Italiana, Cittalia, Fondazione Migrantes, Servizio Sprar.

Questo dossier è stato firmato da:

  • Simona Carnino Giornalista, è specializzata in diritti umani, migrazioni e cooperazione internazionale. Ha scritto per anni di temi ambientali e politici. Nel 2015 ha realizzato il documentario «Aguas de Oro» (www.aguasdeoro.org) sulla lotta di Maxima Acuña Chaupe (vincitrice del premio Goldman) in Perù. Ha lavorato 5 anni per Amnesty International e ha maturato esperienza nella gestione di progetti di cooperazione in America Latina. In Italia ha lavorato nel sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati politici. Attualmente vive e lavora in Guatemala.
  • Carolina Lucchesini Videoreporter e digital strategist. Si occupa di comunicazione e giornalismo da diversi anni, realizzando reportage video e multimediali, documentari e campagne di comunicazione per l’agenzia .puntozero, di cui è cofondatrice (www.puntozerohub.com).
  • A cura di: Marco Bello, giornalista redazione MC.
  • foto delle copertine: Le immagini di questo dossier sono tratte dalle puntate delle webserie «Passaggi». In prima di copertina Joelle Kamgaing e in ultima di copertina Abdullahi Ahmed.

 




Guanxi Italia


Questo dossier introduce una tematica – i Cinesi d’Italia – di cui Missioni Consolata non si è mai occupata, se non in maniera occasionale. Lo abbiamo affidato a un giovane sinologo, Gianni Scravaglieri, che insegna la lingua cinese nelle scuole superiori della Lombardia. Queste pagine sono soltanto un inizio. È nostra intenzione tornare sull’argomento in un vicino futuro. Chi – cinese o italiano – voglia raccontare la propria esperienza scriva alla redazione. Nel frattempo, buona lettura. (pa.mo.)

 


Testi di: Gianni Scravaglieri e Paolo Moiola

Foto di Roberto Brancolini – A cura di: Paolo Moiola


Introduzione

Siamo cinesi

I lettori mi perdoneranno se, per introdurre questo dossier, partirò da alcuni ricordi personali. Molti, troppi anni fa vissi per qualche mese a San Francisco, in Califoia. Abitavo in centro, vicino a Chinatown. Era quest’ultimo un luogo che mi attraeva perché mi offriva una sensazione di esotico fino allora estranea alla mia esperienza d’italiano. Per approfondire quella sensazione, un paio di anni dopo feci un lungo viaggio in Cina, via terra e via fiume. Era trascorso un anno e mezzo dalla protesta di piazza Tienanmen (aprile-giugno 1989) e la Cina era ancora quella delle biciclette e delle campagne. Poi, nel giro di circa un decennio, tutto è cambiato in forza della globalizzazione e delle nuove dinamiche geopolitiche. La Cina è diventata la potenza industriale e commerciale che tutti conosciamo. Grandi aziende occidentali sono state comprate dai cinesi. Addirittura importanti squadre di calcio italiane sono passate nelle loro mani. In quasi ogni città del pianeta si sono costituite forti comunità cinesi, coese e laboriosissime. Con esse sono cresciuti anche miti e stereotipi. Oggi in Italia ci sono – stando ai dati Istat del 1 gennaio 2016 – 271.330 cinesi, pari al 5,4% del totale degli stranieri regolarmente registrati (5.026.153). Gli studi dicono che la grande maggioranza dei cinesi arriva dalla provincia di Zhejiang e in particolare dalla città di Wenzhou. Nelle mia piccola città natale, Rovereto, i cinesi sono poco più di un centinaio (su 5.000 stranieri), ma hanno avviato decine di attività imprenditoriali. Sono ristoratori, parrucchieri, estetisti, gestori di supermercati. Non è una leggenda metropolitana che, in generale, essi siano dei gran lavoratori, anche se spesso a scapito della concorrenza. Un taglio di capelli da un cinese costa la metà o anche meno che da un italiano. Stessa cosa vale nei ristoranti. Eppure, anche qui le cose stanno cambiando. Le cosiddette seconde generazioni parlano italiano e, pur non rinnegando le «guanxi» (il complesso sistema di relazioni familiari e sociali proprie del mondo cinese), sono più inserite nella società italiana. Magari con dubbi, perplessità, domande senza risposta, ma ci sono e vogliono progredire nel paese d’adozione, pur senza mai dimenticare la patria dei loro genitori. Anche per questo è interessante andare a leggere le esperienze riportate – in perfetto italiano – nel sito di Associna. «Nell’Italia della grande migrazione – si legge nell’ormai datato I cinesi non muoiono mai -, alla voce segni particolari, gli stranieri devono esibire indicazioni precise: sul musulmano abbiamo pregiudizi nitidi come cristalli, all’albanese imputiamo la violenza, allo zingaro i furti, al cinese rimproveriamo innanzitutto il mistero». In questi anni il rapporto con la comunità cinese ha imboccato percorsi molto diversi e certamente meno banali.

Paolo Moiola

Brescello (Re). Lo storico Bar Peppone nel centro del paese rilevato da una coppia di cinesi


Dai primi immigrati alle seconde generazioni

Il cuore (e il peso dei valori)

Il pensiero confuciano e il sistema delle «guanxi» rimangono centrali nella comunità cinese d’Italia. I giovani sono sicuramente più integrati dei genitori nella società d’adozione, ma il ruolo delle tradizioni resiste. Nel frattempo, con l’esplosione economica della Cina e la crisi italiana, i flussi migratori sono diminuiti. E, a volte, si sono invertiti.

I secoli di vita contadina, caratterizzati dalla precarietà del raccolto, dalla fatica nei campi, dall’assenza di giorni di riposo, dalla gestione oculata delle risorse, dal dovere dell’accoglienza, dall’assoluta necessità di aiuto reciproco, tra gli abitanti di uno stesso villaggio, hanno forgiato il carattere dei cinesi.

Alessandro Cheung: «Ci aiutiamo moltissimo tra di noi, tra parenti, tra amici. E questo è un sistema che noi chiamiamo guanxi, basate sull’onore, il rispetto, l’amicizia. Ed è per questo che noi ragazzi anche piuttosto giovani riusciamo a far partire delle aziende di una certa importanza».

Le guanxi non sono soltanto un elenco dei nomi scritti sulla rubrica del telefono. Le guanxi sono tutte quelle persone a cui posso, nel bisogno, chiedere aiuto e a cui devo, nel bisogno, dare aiuto. Nelle guanxi, con un diverso grado di priorità, rientrano i familiari, i parenti, i vicini, i colleghi, gli amici. Questo meccanismo di reciproco aiuto ha reso possibile l’immigrazione cinese in Italia e il suo successo.

Malia Zheng: «Questo senso di appartenenza, di grande famiglia allargata, ha determinato il grande flusso migratorio in Italia: il primo arrivato ha aiutato il secondo, il secondo ha consigliato il terzo e così via».

L’influenza del pensiero confuciano

Le tradizioni e i rapporti all’interno della comunità, della famiglia, tra genitori e figli, in particolare, hanno a volte pesato molto sulla personalità dei giovani delle seconde generazioni, figli degli immigrati cinesi degli anni Ottanta. Il pensiero tradizionale confuciano prescrive che i genitori debbano occuparsi dei figli e i figli debbano rispettare i genitori. In concreto ciò significa continuare i loro affari, ascoltare i loro consigli, prendendosi cura di loro nella vecchiaia o nella malattia.

Valentina: «i miei genitori vorrebbero che io continuassi la loro attività lavorativa. Stiamo aprendo un altro negozio. Io non voglio deluderli. Penso che si sono sacrificati fino ad ora per darmi un’istruzione, quindi è giusto che li ripaghi, quindi alla fine ho deciso di continuare la loro attività».

Chi non rispetta però queste regole tradizionali, in qualche modo decide di rompere un patto culturale e familiare fortissimo, rischiando di ritrovarsi senza più appoggi da parte dei genitori.

Chen Lele:«ho avuto una bellissima bambina con un ragazzo italiano. Ho perso il vostro sostegno e non immaginate quanto abbia bisogno di avervi accanto, di avere la vostra approvazione e di sentirvi felici per la donna che sono diventata».

Da dove tutto partì

Nel 1984 Wenzhou, città nella provincia costiera del Zhejiang, da cui provengono quasi il 90% dei cinesi in Italia, insieme ad altre zone economiche speciali, venne aperta agli investimenti stranieri, grazie alle riforme promosse da Deng Xiaoping. Da quel momento l’arrivo di capitali, la possibilità di lavorare e di condurre buoni affari, ma anche la possibilità di ottenere finalmente un passaporto per emigrare, divenne il tema di discussione tra amici e parenti.

La stragrande maggioranza aveva già un mestiere e non emigrò per disperazione. Il progetto era quello di andare a lavorare presso i parenti o conoscenti già presenti da tempo in Italia o in altri paesi europei, seppur in numero esiguo, dai quali ricevere un supporto concreto all’inizio, per poi tentare di aprire una piccola impresa propria. Ovviamente non per tutti fu un successo.

Yang Shi: «I miei genitori in Cina avevano una discreta posizione sociale. Appena abbiamo avuto una possibilità di andare all’estero, subito ne abbiamo approfittato. Non pensavamo di impoverirci venendo in Italia e invece ci siamo impoveriti».

In quegli anni cominciarono a emigrare venditori ambulanti, falegnami, carpentieri, piastrellisti, muratori, cuochi, camerieri, insegnanti, contabili, ristoratori, baristi, gestori di locali. In un secondo momento sarebbero arrivate le mogli, grazie alla possibilità del ricongiungimento familiare o delle non rare sanatorie decretate dal governo. Infine i figli, arrivati dalla Cina o nati qui.

Le vie del successo

Questa prima generazione di cinesi, detta di nuova immigrazione, arrivò in Italia anche per vie traverse, grazie ai soldi raccolti tra i parenti e i conoscenti. Per ripagare il loro debito, gli immigrati di Wenzhou dovettero lavorare gratis per un certo periodo nei ristoranti o nei laboratori di pelletteria, di maglieria, di tappezzeria, nelle ditte per la lavorazione conto terzi di scarpe o di divani dei loro connazionali. Quando il debito veniva estinto, l’immigrato poteva cominciare a guadagnare. Inutile dire che durante questo esodo di persone si sono verificati anche casi di corruzione, di ricatto, di sfruttamento, di violenza e di truffa.

Tuttavia, l’immigrazione cinese portò sostanzialmente vantaggi all’Italia. A Prato, ad esempio,il tessile al momento dell’arrivo dei cinesi era già in crisi. Le imprese cinesi, anche grazie ai loro modi non sempre trasparenti di lavorare per conto terzi, hanno comunque ravvivato la produzione, permettendo anche oggi alle imprese e ai grandi marchi italiani del settore di avere prezzi concorrenziali su tutto il mercato europeo. Lo stesso fenomeno si è verificato a Milano, in zona Paolo Sarpi, che all’arrivo dei cinesi non era già più il vivace quartiere di negozianti e artigiani degli anni precedenti. La stessa amministrazione ha concesso ai cinesi le licenze per aprire negozi di vendita all’ingrosso sul finire degli anni Novanta, collegando il quartiere all’import-export con la Cina, che nel 2001 sarebbe entrata nel Wto. Non sono mancati momenti di conflitto tra comunità cinese e abitanti italiani del quartiere. Oggi la situazione appare sostanzialmente pacificata.

Roma. Ragazza cinese a passeggio nella zona di Piazza Vittorio

Le seconde generazioni

I giovani delle seconde generazioni in genere hanno vissuto con i genitori quando erano molto piccoli, poi rimandati in patria dai nonni per frequentare le scuole primare e imparare la lingua cinese, infine tornati in Italia, dopo qualche anno, a frequentare le scuole e ad aiutare i genitori magari nella piccola impresa familiare.

Lin Jie: «Tutto era nuovo per me: il cibo, la casa, la scuola, le facce, il colore dei capelli e degli occhi. Mi divertivo quando le maestre cercavano di insegnarmi la “R”, facendomi vedere la lingua tremante per minuti. Tuttavia avevo nostalgia della Cina, degli amici, dei compagni di scuola, della nonna, dell’alzabandiera che si faceva ogni mattina, dell’inno nazionale che alle prime note imprimeva energia, della campagna vicino a casa».

Famiglia e Cina, un legame che in questi ragazzini, seppur a volte attenuato non si è mai spezzato.

Qi Yan: «Abbiamo studiato nelle scuole italiane, abbiamo un sacco di amici italiani e ci sentiamo sempre in qualche modo legati alla Cina, un legame che difficilmente si interrompe, un legame soprattutto rafforzato dalla nostra curiosità e dall’orgoglio dei nostri genitori nell’essere cinesi».

Oggi, diventati grandi e assorbita anche la cultura italiana, in molti si ritrovano a dover rimettere insieme una identità multiforme, con l’intenzione e la difficoltà di tenere tutto insieme, quello che è Italia e quello che è Cina.

Yu Ruijue: «In Cina vengo considerata troppo italiana, in Italia mi sento troppo cinese. Delle due metà in cui il mio “io” si divide, nessuna riesce a prevalere sull’altra. Inoltre, so bene che, se mancasse anche una sola delle due, perderei inevitabilmente me stessa».

Quelli delle seconde generazioni sono in genere giovani con un diploma e sempre più spesso una laurea in tasca. Chi di loro non è riuscito o non ha voluto fare il libero professionista o il dipendente in una multinazionale, resta a lavorare nelle imprese di famiglia. Principalmente nel settore dei servizi: ristoranti, negozi di scarpe, di accessori, di vestiti, sartorie, lavanderie, tintorie, negozi alimentari, centri massaggi, bar, sala giochi, negozi di riparazione computer e cellulari.

La crisi e l’ipotesi del ritorno

Dopo la crisi del 2008 però fare affari nel nostro paese diventa sempre più difficile e anche per molti cinesi si affaccia alla mente l’ipotesi di tornare in Cina. Quelli della prima generazione, verso i sessant’anni d’età e con decenni di lavoro in Italia, potranno decidere di ritirarsi nel paese natale a passare la vecchiaia. Ma per le seconde generazioni di ventenni e trentenni, magari già con figli piccoli che frequentano le scuole italiane e con una mentalità e un modo di vivere, che negli anni si è per così dire «italianizzato», sarà molto più difficile farlo.

Mary Pan: «Se ci pensiamo bene, non possiamo fare a meno dell’Italia. Perché ci ha dato la possibilità di crescere e migliorare, sebbene con molti sacrifici».

Per le seconde generazioni anche per un altro motivo, pur volendolo, sarà complicato tornare o trasferirsi in Cina, cioè a causa del suo costo della vita e del suo dinamismo sociale.

Yan Tianyou: «In Cina la concorrenza è feroce e il nostro potere d’acquisto si è ridotto. Adesso è più intelligente investire in Italia. In Cina non posso permettermi neppure un appartamento. Inoltre i miei parenti sono tutti in Europa».

Anche per i cinesi in Cina però, con la crescita del loro tenore di vita e la crisi in Italia, che dal 2008 blocca la ripresa, emigrare come un tempo è un gioco che non vale quasi più la candela. Oggi dalla Cina e verso la Cina si spostano solo gli imprenditori in cerca di affari e investimenti, compreso l’acquisto di aziende. E anche i giovani per studiare nelle accademie o nelle università, con i programmi Marco Polo e Turandot.

Qi Yan: «Ormai i cinesi poveri non spendono più tanti soldi per venire in Occidente senza documenti, rischiando mille avversità per affrontare una vita misera e povera senza molte possibilità di fare fortuna per via della crisi economica fuori dalla Cina».

Integrazione nella globalizzazione

Per le seconde generazioni la via del successo personale passerà sempre più attraverso una maggiore integrazione nel tessuto sociale italiano, ma senza rinunciare alla loro parte di identità cinese che, in un contesto di globalizzazione delle professionalità, li può portare ad essere un ponte ideale fra i nostri due paesi amici.

Angelo Hu: «Il cambiamento è in corso grazie ai giovani delle nuove generazioni, molti dei quali vanno all’università, e che stanno uscendo dalle attività commerciali tipiche della prima immigrazione di cinesi».

In questo però il Parlamento dovrebbe dare una mano, sboccando la proposta di legge di riforma della cittadinanza, già approvata dalla Camera il 13 ottobre 2015, ma ferma in Commissione affari costituzionali del Senato. L’Italia non può permettersi di deludere o di lasciarsi sfuggire questi giovani, proprio nel momento in cui diventano maggiorenni, trattandoli come semplici immigrati. L’Italia ha un debito nei loro confronti, quanto meno per la fiducia ricevuta. Anche se non nelle carte bollate, i cinesi nati o cresciuti qui sono già italiani nel cuore.

Lin Jie: «Finalmente arrivò il decreto di conferimento della cittadinanza. Dal momento in cui ho presentato la domanda mi sono sempre chiesto se mai sarei riuscito a identificarmi come italiano senza alcun indugio. Ogni dubbio mi svanì nell’ufficio del sindaco quando ho pronunciato queste parole: «Giuro di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato». Avevo trovato la mia risposta: «Il mio cuore è italiano tanto quanto cinese».

Gianni Scravaglieri


L’associazione Associna

Per togliere le spine serve tempo e pazienza

Quando arrivarono i primi gruppi di immigrati cinesi erano gli anni Ottanta. Da allora molto cose sono cambiate: dalla lingua cinese sempre più richiesta e studiata al primo carabiniere cinese. L’immigrazione cinese in?Italia in un convegno di Associna, associazione nata nel 2005.

Il 26 marzo 2005, a poco più di vent’anni dall’inizio della cosiddetta nuova immigrazione cinese in Italia, vedeva la luce Associna, l’associazione delle nuove generazioni sino-italiane. Associazione di ragazze e ragazzi nati o cresciuti in Italia, che nel tempo è diventata uno dei punti di riferimento nazionali per tutti gli attori istituzionali e privati, impegnati nella costruzione di una nuova società, più forte, più ricca, più libera e più inclusiva. A partire dal diritto di cittadinanza per tutti coloro che qui in Italia sono nati o cresciuti. Con un impegno volontario e quotidiano questi giovani sino-italiani continuano a testimoniare con le loro attività in modo vivo e tenace un punto di svolta storico e sociale, che non può più essere da nessuno cancellato: l’Italia ha dei nuovi cittadini, di fatto se non ancora di diritto, nati da genitori stranieri, ma che stranieri non sono mai stati, che parlano italiano, amano, come i figli degli italiani, il nostro paese, la nostra cultura, le nostre città.

Certo, la vita non è tutta rose e fiori, dice un antico proverbio. E un concetto simile è riportato nel loro sito internet: «La convivenza è la rosa della società umana, bisogna sempre ricordarsi di tagliare le spine dell’egoismo e della paura del diverso». Possiamo solo aggiungere che prima di parlare di diritti e di doveri, è necessario accettare l’altro come una presenza possibile. Ancora oggi però una parte della società guarda alla diversità non come a una ricchezza, ma come a una minaccia.

La lingua cinese è sempre più studiata

Sabato 15 ottobre 2016, Associna ha organizzato a Milano il secondo Convegno Nazionale delle Seconde Generazioni sino-italiane, presso l’Istituto Confucio dell’Università Cattolica. La finalità dell’incontro è spiegata dal Presidente di Associna Prof. Gianni Lin: «Quest’anno abbiamo deciso di organizzare il nostro convegno annuale a Milano, in quanto vogliamo evidenziare il ruolo delle seconde generazioni italo-cinesi nelle relazioni economiche e finanziarie tra Italia e Cina. Lo scambio economico tra Lombardia e la Cina costituisce il 40% del totale italiano (45 miliardi di Euro), per cui non potevamo scegliere luogo più emblematico». I lavori della giornata sono stati aperti con i saluti iniziali di Francesco Wu, vicepresidente di Associna, e moderati da Dario Di Vico, giornalista del Corriere della Sera.

La parola è quindi stata presa dalla professoressa Elisa Maria Giunipero, direttrice dell’Istituto Confucio presso l’Università Cattolica di Milano, che ha ricordato che la lingua cinese è sempre più studiata dai giovani italiani e dagli stranieri residenti, ma anche da un crescente numero di adulti.

Iacopo Lin, il primo carabiniere cinese

L’integrazione ha bisogno del suo tempo. Dei simboli però possono favorirla in modo decisivo. Come quello di Iacopo Lin, premiato in questa occasione per essere stato il primo carabiniere della storia di origine cinese. Egli ha avuto il grande merito di eliminare la sensazione del noi e del voi riportando in primo piano il servizio allo Stato e l’amore per l’Italia.

Mentre Cristina Tajani, assessore al lavoro, attività produttive, commercio e risorse umane, ha sottolineato il messaggio positivo, che emerge dalle statistiche della Camera di Commercio di Milano, specialmente nei settori della moda e del design, che dimostrano come le aziende e gli investimenti dei cinesi abbiano dato respiro al tessuto economico milanese, anche sotto l’aspetto dei posti di lavoro, dopo la grave crisi che ci ha colpito dal 2008. Evidentemente la sinergia creatasi con la comunità cinese, sottolineata anche dal gemellaggio di Milano con la città di Shanghai, ha portato i suoi frutti.

Il console Meng, si è fatto portavoce di un messaggio inviato dal console generale di Milano sig.ra Wang. Il cuore del messaggio è stato rivolto al carattere tradizionalmente laborioso, intelligente, tenace del popolo cinese. Ribadendo il fatto che ogni volta che gliene viene data occasione esso applica alla vita associata, come puntualmente è anche successo in Italia con le cosiddette seconde generazioni cinesi, i suoi talenti nel campo della politica e dell’economia. Infatti i giovani cinesi delle seconde generazioni sono riusciti ad essere degli apripista per promuovere i legittimi interessi di tutti gli altri cinesi, che magari nati qui in Italia sono tuttavia ancora privi della cittadinanza italiana. Sono moltissime le aziende, legate alle seconde generazioni, che quotidianamente incrementano l’integrazione sociale, anche grazie alla loro naturale capacità di mediazione tra lingue e culture diverse. Il mutuo beneficio tra generazioni italiane e cinesi deve essere strategicamente l’orizzonte che ci guida.

Il professor Daniele Cologna, dell’Università dell’Insubria e fondatore di Codici s.c., ha aperto il suo intervento con una sorta di monito, in quanto per tutti noi le seconde generazioni cinesi sono «uno squillo di tromba», che non si può non cogliere. Abbiamo infatti bisogno di un’Italia diversa, più matura, meno infantilmente atteggiata verso la Cina. Ma ci vogliono anche delle istituzioni più sensibili alle esigenze delle seconde generazioni di immigrati, persino verso coloro, che pur essendo nati in Italia, a causa di una legge farraginosa, non possono ancora ottenere la cittadinanza. Oggi in Italia abbiamo oltre 270 mila residenti cinesi. Il tema dell’acquisizione della cittadinanza resta fondamentale, anche se non tutti coloro che ne hanno diritto iniziano le pratiche per ottenerla.

Bologna. Un parrucchiere cinese alla Bolognina, nei locali che ospitarono la sede del partito comunista dove l’allora segretario Achille Occhetto sciolse il partito comunista dopo il crollo del muro di Berlino

Tra la prima e la seconda generazione

Il fatto macroscopico a cui si assiste è il passaggio di testimone tra la prima e la seconda generazione nelle imprese. Mentre i cinesi arrivati nei decenni precedenti avevano un grado di istruzione basso ed erano impegnati in lavori con minimo contatto con la popolazione italiana, oggi tra i giovani delle seconde generazioni crescono i laureati che parlano sia il cinese che l’italiano. Se è pur vero che i rapporti gerarchici all’interno delle famiglie cinesi rimangono quelli tradizionali e i giovani vengano chiamati ai loro doveri familiari, è anche vero che una volta nel mondo del lavoro tendono a scegliere approcci operativi non sempre in linea ai modelli di business comunitario ed etnico dei loro genitori. Così ad esempio a Milano i giovani cinesi puntano alle imprese di servizi, rivolgendosi a una clientela trasversale, spesso proprio a quella fascia di italiani maggiormente impoveriti dalla crisi economica. A livello culturale è importante notare che le reti familiari, le cosiddette guanxi, sono al centro dei rapporti sociali sia tra cinesi che tra italiani. Soprattutto le reti informali costruite negli anni, durante il percorso scolastico, dai giovani delle seconde generazioni anche col tessuto sociale degli italiani, costituiscono una carta in più da impiegare nella costruzione di una più ampia rete di relazioni rispetto a quella a disposizione dei loro genitori. In prospettiva quindi, soprattutto per i giovani italiani che studiano la lingua cinese, si apre un mondo di collaborazione reciproca con le seconde generazioni cinesi, che li proietta a livello internazionale a relazionarsi, a livello commerciale e culturale, in modo più efficacie anche con la stessa Cina. L’ideale per i nostri giovani sarebbe proprio l’acquisizione di un trilinguismo pieno, giocato tra italiano, cinese e inglese. Pensiamo soltanto 17 miliardi di euro investiti dall’impresa cinese in Italia e dalla crescita del turismo cinese nel nostro paese.

I cinesi e il sistema bancario

Andrea Orlandini presidente e fondatore di Extrabanca, unica banca presente nel sistema economico italiano nata per dedicarsi unicamente agli stranieri. Con sedi a Milano, Prato, Brescia, Roma. Con il 70% di clienti cinesi business. Apre il suo intervento ribadendo il concetto già espresso dall’assessore Rozza sulla predisposizione dei milanesi a considerare la dedizione al lavoro il vero passaporto dell’accoglienza e dell’integrazione. In questo la comunità cinese ha sempre dimostrato di essere all’altezza della sfida con la sua proverbiale laboriosità, che si è sempre espressa nella puntualità del rimborso delle rate dei prestiti bancari. Tuttavia il rapporto che essi hanno attualmente con le banche in genere pecca ancora di una certa mancanza di trasparenza nella tracciabilità degli investimenti e nell’impiego dei prestiti. Questo comportamento non favorisce i legittimi controlli delle autorità di vigilanza ed è un fatto a cui porre al più presto rimedio, anche considerando che sempre di più l’immigrazione cinese in Italia non sarà legata alla ricerca di una occupazione, ma alla ricerca di buoni investimenti. I problemi aumentano riguardo ai correntisti cinesi e allora serve una campagna di informazione capillare su quelle che sono le regole contabili, le scadenze di legge e i corretti comportamenti da seguire nei rapporti con la banca e con il fisco. Si nota infatti che una volta ben informati i correntisti cinesi tendono a rispettare tutte le regole. Un altro aspetto è dato dalla insufficiente professionalità dei consulenti a cui si rivolgono. Infatti un buon professionista è quello che trova la forza di imporre al cliente il rispetto delle regole nell’interesse dello stesso cliente e della sua attività economica sul medio lungo periodo. Una caratteristica tipica dell’economia degli immigrati cinesi è che ad esempio in banca lavorano più donne che uomini, ciò è dato dal fatto che il cinese appena possibile vuole aprire la sua attività in proprio, da questa propensione diffusa emerge che l’imprenditore cinese è molto legato all’economia reale piuttosto che a quella finanziaria.

Riflessioni pratiche e impegni reciproci

Wang Hong – responsabile in Italia della Zheijang Rifa Precision Machinery Co Ldt -, parlando della politica di investimenti in Italia della sua multinazionale, ha sottolineato che le lor recenti operazioni di acquisizione di aziende italiane non sono rivolte alla semplice acquisizione delle tecnologie, ma in generale a un radicamento nel contesto produttivo della nostra penisola. La finalità è di sviluppare tutte le potenzialità dell’azienda acquisita, compresa la professionalità dei lavoratori italiani, che con la loro esperienza e le loro competenze si situano nella fascia alta delle professionalità. Un appunto ai lavoratori italiani viene però fatto sull’aspetto della conoscenza delle lingue, in particolare l’inglese e il cinese, la cui conoscenza darebbe a tutti i lavoratori quella marcia in più assolutamente necessaria per competere sui mercati inteazionali. L’invito esplicito è quindi rivolto alle nuove generazioni di italiani a compiere uno sforzo in più e a non limitarsi soltanto allo studio della lingua cinese, ma spingersi oltre nella comprensione della cultura cinese, la cui familiarità è fondamentale per convivere e crescere in azienda. Una riflessione è rivolta quindi agli studi universitari. Esistono delle lauree che garantiscono più di altre la possibilità di trovare un posto di lavoro, come ad esempio ingegneria, soprattutto nelle aziende con un respiro internazionale. Tuttavia resta anche chiaro che se il territorio continuerà a non offrire importanti opportunità ai giovani, essi si rivolgeranno all’estero e questo sarebbe una gravissima perdita per tutti. Italia e Cina possono quindi collaborare per mantenere aziende e lavoro sul territorio a vantaggio di entrambi i paesi. Per fare questo serve che il legame tra generazioni cinesi in Italia sia mantenuto e non disperso, poiché le tradizioni culturali, così importanti nelle nostre relazioni inteazionali, passano attraverso i legami di sangue tra genitori e figli.

Jin Yangkun, direttore generale della sede milanese della Industrial and Commercial Bank of China, la banca più capitalizzata al mondo, ha impostato il suo intervento con una panoramica complessiva. Ha sottolineato che i rapporti tra Italia e Cina sono antichi di secoli e si sono sviluppati lungo l’antica Via della Seta. Anche memore di questi legami, nel contesto odierno della globalizzazione la Cina è il terzo partner commerciale sia per l’import che per l’export dell’Italia. I settori maggiormente interessati sono quello meccanico, alimentare, della moda e del design. Per fare in modo che questi rapporti continuino sul lungo periodo bisogna creare rapporti più solidi basati sul reciproco vantaggio economico e sull’approfondimento dei rapporti umani tra le popolazioni. In Cina ad esempio c’è necessità urgente di lavorare alla costruzione di uno stato sociale, che metta in relativa sicurezza sia la sua popolazione anziana, che quella bisognosa di cure e assistenza sociale. Le eccellenze italiane nel campo sanitario e della cura alla persona, nonché la vivibilità delle medie città italiane possono diventare un modello da cui la società cinese può prendere spunto. In tutto questo i giovani di oggi in generale e in particolare le seconde generazioni si devono considerare il futuro per i rapporti tra Cina e Italia. Il loro contributo è fondamentale nella definizione di nuove idee, energie, competenze nel mondo del lavoro. A tutto ciò si aggiungono due premesse indispensabili. Da parte italiana è necessario garantire di più l’ottenimento della cittadinanza da parte dei cittadini cinesi nati o cresciuti in Italia. Da parte cinese è necessario assumere l’impegno di fare in modo che i media nazionali si occupino di più delle seconde generazioni all’estero, anche quando esse cambiano cittadinanza, valorizzandone la loro preziosissima funzione di ponte culturale ed economico tra la Cina e il mondo e l’Italia in particolare.

Gianni Scravaglieri


Testimonianza di Francesco Wu

Erano due etti di prosciutto spalla

Con il fratello gestisce un ristorante, ma Francesco Wu è anche presidente dell’«Unione imprenditori Italia-Cina» (Uniic). Si è fatto così conoscere che è finito sulla copertina di un noto settimanale italiano. Ecco cosa ci ha raccontato.

Francesco Wu

L’ingegner Francesco Wu, giovane presidente dell’Uniic, «Unione Imprenditori Italia Cina – Nuove Generazioni», è un personaggio in vista nell’ambiente delle relazioni imprenditoriali e culturali italo-cinesi. La fiducia che negli anni ha saputo raccogliere tra i suoi connazionali residenti nel Bel Paese e tra le stesse istituzioni italiane, lo porta oggi ad essere uno degli interlocutori più affidabili e dinamici nel processo di integrazione in corso, tra società italiana e giovani delle cosiddette «seconde generazioni» sino-italiane.

I fratelli Wu, Francesco e Silvio, gestiscono a Legnano, a pochi minuti a nord di Milano, il ristorante-pizzeria Al Borgo Antico. Dal menù alla carta tipicamente italiano, compresa la cantina dei vini, si sottolinea subito un fatto importante: uscire dagli stereotipi può essere il primo passo per abbattere gli steccati della diffidenza reciproca e arricchire così la nostra società di nuove energie e nuova umanità. Così appare ovvio che la ricchezza e la varietà di cibi della tradizione culinaria italiana e cinese sono dei tesori tutti da scoprire e da gustare. Tuttavia ognuno dovrebbe essere libero di esprimere i suoi talenti indipendentemente dalla sua origine etnica. Un napoletano potrebbe scegliere di cucinare riso alla cantonese e bere tè verde, così come un cinese ha deciso di cucinare pizza alle quattro stagioni e bere vino rosso.

Francesco Wu, oggi potremmo dire «come tutti noi», ha la sua pagina Facebook, sulla quale scrive e condivide con gli altri inteauti pensieri, ricordi, riflessioni, più o meno personali, ma anche occasioni pubbliche di incontro e momenti più istituzionali legati al suo ruolo di rappresentanza. L’8 ottobre del 2016 ha scritto un post, intitolato «meglio la spalla cotta che il prosciutto gran biscotto», che descrive un episodio della sua infanzia, ma che può essere preso ad esempio per cominciare a riflettere sul passato e il comune vissuto di moltissimi giovani sino-italiani delle «seconde generazioni».

Genitori e figli: fatica e impegno

Racconta Francesco Wu che quando era piccolo, durante i primi anni in Italia, i suoi lavoravano duramente ma i soldi che giravano in casa non erano molti. Per fortuna, diremmo oggi, si arrivava a fine mese, ma per farlo bisognava farsi quotidianamente i conti in tasca. Non di rado la madre lo mandava a fare la spesa, che comprendeva anche pane e prosciutto, per preparare la merenda per lui e il fratello. Siamo nella Milano del secolo scorso, zona Affori, dal macellaio che a quel tempo aveva l’attività in via Brusuglio. Qui il piccolo Francesco Wu acquistava 1-2 etti di spalla cotta, invece che del buon prosciutto di qualità, che faceva bella mostra di sé in vetrina. Troppo costoso a quel tempo per le sue tasche.

«Vedevamo tuttavia che il buon prosciutto cotto di qualità costava molto di più e non ci passava per la testa l’idea di comprae, anche perché non sarebbero bastati i soldi per comprare tutto il resto, e inoltre la mamma ci avrebbe rimproverato».

Subito seconda tappa al panificio di fronte per le tigelle modenesi. Un’ottima merenda davvero, i due fratelli ne mangiavano anche tre panini a testa. Ma come spesso accade ai bambini che nascono in famiglie popolari, non è tanto riempire la pancia il problema vero, ma soddisfare il desiderio di essere all’altezza degli altri bambini. Tutti noi sappiamo e ci ricordiamo di quanto possano essere duri i momenti di confronto, ma di quanto nello stesso tempo siano fondamentali per darci una spinta in più verso la crescita e il successo personali. Un po’ questo è accaduto a moltissimi della generazione di Francesco Wu; essere stranieri ed essere poveri, ma con la consapevolezza che la fatica e l’impegno quotidiani nel lavoro e nello studio avrebbero quasi certamente ribaltato la situazione di partenza: «…la fetta unica di prosciutto dentro i panini in gita scolastica quando i tuoi compagni avevano 2-3 fette di quello buono».

Tra le difficoltà della vita quotidiana e l’esempio dei loro genitori si è formato il carattere di molti imprenditori delle seconde generazioni sino-italiane. Negli anni è stato un imparare privo di parole, un sapere non trasmesso attraverso i discorsi, ma con l’amore dei gesti, delle abitudini, degli sguardi. I valori dei genitori sono passati ai figli in questo modo, sul senso della vita, sulla dignità del lavoro, sul valore del risparmio, sulla fatica del guadagnare.

«Senza che i genitori ci facessero tanti discorsi, anzi non li hanno mai fatti, noi imparavamo molto dalla vita e desideravamo un giorno poter comprare il prosciutto buono. Oggi sia il macellaio che il panificio hanno chiuso mentre noi abbiamo aperto nel tempo alcune attività».

Milano, via Paolo Sapri, Chinatown

Una cultura doppia è una spinta in più

Francesco Wu, come vede il rapporto tra università italiane e mondo del lavoro? Sono utili per i giovani o si potrebbe fare di più?

«Io ormai mi sono laureato da diversi anni, quindi non ho in questo momento il quadro completo della situazione. Per quello che posso vedere io, il collegamento tra università italiane e mondo del lavoro è ancora debole. Forse in miglioramento rispetto al passato; soprattutto facendo riferimento ad un’istituzione come il Politecnico di Milano, che sta facendo molto e che viene in questo seguito anche da altre realtà culturali. Ecco, da questo punto di vista c’è ancora da fare, ma siamo in costante miglioramento rispetto al passato».

Un cittadino della Repubblica popolare, che ottiene la cittadinanza italiana, perde automaticamente quella cinese. Quindi come sono visti i giovani di seconda generazione, che vivono in Italia, da parte dei cinesi in Cina?

«Allora, cominciamo col dire che sulla cittadinanza l’Italia ha ancora una legge molto arretrata. Ed è davvero un peccato che l’iter di approvazione della nuova legge si sia fermato al senato, a causa di quelle forze politiche che si contrappongono alla necessaria riforma sulla cittadinanza. Poi c’è un altro aspetto collegato alla riforma, cioè quello del diritto di voto alle amministrative. Ma tornando al punto, io penso che il governo cinese non veda di cattivo occhio chi decide di prendere la cittadinanza italiana. Anche perché è chiaro a tutti che la situazione concreta di vita delle famiglie porta ognuno a decidere il proprio futuro in base a esigenze personali e oggettive. Sicuramente il governo cinese vuole che sia chi ottiene la cittadinanza italiana sia chi non l’ha ancora ottenuta mantenga dei buoni rapporti con la Cina; senza sottostimare la propria cultura di origine, continuando a provare affetto sia per la Cina, ma anche per l’Italia. Questo è quello che desidera il governo cinese e infatti ufficialmente non mette nessun tipo di ostacolo al cambio di cittadinanza da parte dei cittadini cinesi».

Quelli della sua generazione hanno vissuto in modo diretto la vita in Cina e in Italia, di fatto avete direttamente assorbito in modo pieno entrambe le culture e siete l’ultima generazione storicamente con queste caratteristiche. Pensa che questo vi dia una marcia in più nell’essere idealmente un ponte che rafforza i legami tra i nostri due paesi?

«Io penso che chi ha ricevuto la doppia cultura, persone come me e come tanti altri ragazzi, che sono nati in Cina e cresciuti in Italia, in questo momento storico hanno una spinta in più. Perché semplicemente hanno molta più esperienza degli altri. Non è assolutamente una questione di maggiore intelligenza, ma è proprio una questione di esperienza. Magari anche esperienze difficili, sacrifici, che hanno dovuto affrontare fin da piccoli e che li hanno forgiati. Sono quindi d’accordo con lei che forse siamo l’ultima generazione ad aver vissuto questo. I giovanissimi di oggi, che sono cresciuti in Italia, in generale in un ambiente sociale più avanzato, di quello dove siamo cresciuti noi, hanno di fatto avuto meno difficoltà a viverci e da questo punto di vista, per assurdo, hanno avuto meno esperienze potenzialmente conflittuali, in grado di forgiarli; a differenza nostra, che ne abbiamo invece dovute affrontare di più. Per queste considerazioni io credo molto nell’importanza del ruolo che quelli della mia generazione ricoprono. Poi ovviamente quello che sto dicendo vale solo in generale. Ci sono infatti ragazzi giovanissimi, cresciuti in Italia, che sono molto molto in gamba, che nonostante tutte le difficoltà personali riescono a migliorarsi, e non rinunciano a fare dei viaggi in Cina e a fare esperienza diretta della cultura cinese, propria dei loro genitori».

In conclusione, dove vede i suoi figli da adulti: in Italia, in Cina o in America?

«Io sono sposato e ho due figli, che sono ancora piccoli. Il primo ha già iniziato ad andare a scuola, così cercherò di insegnargli l’importanza dello studio e l’importanza di seguire le proprie passioni e le proprie ambizioni. Dove lavoreranno da grandi non è assolutamente un problema per me. Potrebbero lavorare in Italia, in Cina, in Germania, negli Stati Uniti, in ogni caso dove vogliono e dove si sentono realizzati».

Gianni Scravaglieri

Prato. Celebrazioni in occasione del nuovo anno cinese. Nella foto i rappresentanti della comunità


Testimonianza di Zhang Li

Rispettare la società è rispettare i genitori

Insegna lingua cinese alla Cattolica di Milano. Lavora come interprete e consulente per vari tribunali. Zhang Li racconta la sua decennale esperienza italiana.

Zhang LI

La professoressa Zhang Li viene dalla città di Nanchino, vicino a Shanghai. È in Italia da circa dieci anni. Insegna lingua cinese all’università Cattolica di Milano. E lavora come interprete in generale e in particolare come consulente per i vari tribunali lombardi. «Ovviamente vengo chiamata quando ci sono cinesi coinvolti in problemi legali, a livelli più o meno gravi».

La mentalità confuciana

I cinesi quindi non sono tutti pacifici, onesti e dediti al lavoro. Possiamo dire così?

«Voglio prima dire una cosa. Secondo la cultura cinese non è bello parlare male dei propri compaesani, soprattutto con gli stranieri. Un fatto naturale, istintivo. Penso che anche per gli italiani è la stessa cosa. Comunque alla tua domanda devo rispondere di sì. Certo che non tutti i cinesi sono buoni, ci sono anche i cinesi cattivi. I cinesi non sono speciali, sono uguali a tutti gli altri popoli. Poi devo anche dire che l’educazione e le situazioni economiche condizionano il comportamento. I cinesi pensano che l’educazione rende le persone più buone e più forti per affrontare le difficoltà della vita, anche le difficoltà economiche».

Interessante. In che senso?

«Per la filosofia cinese, che viene principalmente da Confucio, ogni persona non è sola, come un individuo isolato, ma vive insieme alla società e ha i doveri che ci sono quando si vive in una comunità. Quello più importante è il rispetto per i genitori, perché sono loro che ci hanno dato la vita. Allora quando uno non rispetta le regole, le tradizioni, le usanze oppure ha problemi con la giustizia è come se avesse mancato di rispetto ai propri genitori, perché li ha fatti vergognare, ha dato la possibilità alla comunità di dire che loro non sono stati bravi genitori. Invece comportarsi bene significa dimostrare rispetto verso i genitori. Poi un’altra cosa che aiuta molto a non avere tanta delinquenza è il fatto che la società isola chi non rispetta le regole, quindi non è una scelta facile mettersi contro la società. Ovviamente anche in Cina non sempre questa mentalità confuciana funziona e così deve intervenire la polizia e il giudice. Ma in generale i cinesi pensano che quando interviene la polizia e i giudici significa che la società ha fallito, perché non è riuscita a fare una prevenzione morale sulle persone».

Casi di vita quotidiana

Garantendo la privacy e senza dare particolari riferimenti, potresti descriverci qualche caso di cui ti sei occupata?

«Sì, ma i casi che ho visto nel mio lavoro sono uguali ai casi che riguardano italiani o altri stranieri. Ad esempio un uomo cinese in Lombardia è stato condannato dal giudice per spaccio di droga e reati connessi a diversi anni di prigione. La storia in breve è così. Lui ha famiglia in Cina. A un certo punto decide di venire in Italia per cercare opportunità e aprire una attività commerciale. La moglie rimane in Cina e lavora in proprio come designer e arredamento di interni. Hanno dei figli e possiamo dire che sono brave persone. Però a un certo punto la moglie dice che vuole investire di più nel suo lavoro e fa pressione sul marito per guadagnare più soldi. Ma in Italia c’è la crisi e il lavoro è poco. Non è facile fare soldi. Allora a un certo punto lui arriva a pensare che vendere un po’ di droga è una buona idea. Ma le cose vanno male. Un giorno litiga per la droga con altre persone, arriva la polizia e lo arresta e poi il giudice fa il processo e lo condanna. Forse se l’uomo non viveva solo e aveva vicino dei parenti o degli amici potevano proteggerlo da queste idee sbagliate di fare soldi vendendo droga».

Hai un altro caso da raccontarci?

«Sempre in una città della Lombardia una madre cinese aveva un impegno e ha affidato il figlio piccolo di circa sette anni alla zia, mentre stava lavorando nel suo negozio di estetista. Il bambino era seduto sul divano a guardare i cartoni animati sul telefonino. A un certo punto la zia si allontana per discutere con un cliente e non guarda più il nipote. Dopo circa mezz’ora la zia torna e non vede più il nipote. Subito comincia a cercare il bambino e pensa che forse si è nascosto, ma dentro il negozio non c’è. Allora esce in strada e vede in mezzo alla strada nel traffico la macchina dei carabinieri con dentro il nipote. Va dai carabinieri e dice che il bambino è il nipote. I carabinieri cominciano a chiedere i documenti e a fare domande. Ma la zia non parla bene italiano e non capisce perché i carabinieri non le ridanno il nipote. In pratica i carabinieri giravano in macchina e a un certo punto hanno visto il bambino da solo. Allora si sono avvicinati, ma il bambino, che non parla italiano, si è spaventato ed è scappato, perché non era abituato a vedere i poliziotti. In Cina se vivi in campagna non ci sono i poliziotti per strada. Alla fine i carabinieri denunciano la zia al giudice dei minori, che dopo il processo la condanna per abbandono di minore».

Vedo dalla tua espressione che non sei molto d’accordo con la condanna. Ho visto giusto?

«Più o meno. Certamente è giusta la condanna perché il giudice ha visto cosa è successo, ha visto la legge e ha deciso. Ma se vogliamo capire di più la mentalità di quella donna cinese, dobbiamo dire che lei è abituata a vivere in campagna dove i bambini giocano fuori di casa e sono curati da tutti i vicini di casa. Anche in Italia nei paesi piccoli succede così. Abbiamo detto prima che le abitudini culturali sono importanti. Così la zia del bambino pensa di avere seguito una abitudine giusta e pensa che la condanna del giudice è sbagliata. Posso dire che la zia doveva capire che l’Italia non è la Cina e che la città non è la campagna. Quindi un lato positivo c’è se la zia del bambino ha imparato questa differenza».

Reggio Emilia. La zona intorno alla stazione ferroviaria, dove numerosa è la presenza della comunità cinese

Sulle tutele dei lavoratori

Ti è mai capitato un caso civile, magari una vertenza di lavoro?

«Mi ricordo un caso di lavoro, anche un po’ divertente. Un ragazzo sud americano lavorava in nero in un ristorante cinese. Un giorno litiga con il capo per lo stipendio basso. Voleva un aumento. Ma il capo dice di no. Allora il ragazzo va dai sindacati perché lavorava in nero e voleva i contributi. Il capo però ha detto di non conoscere il ragazzo e che non lavorava nel suo ristorante. Anche un testimone cinese ha detto che il ragazzo non lavorava nel ristorante. Però il ragazzo sud americano con il cellulare aveva fatto le foto e i video durante il lavoro. Adesso non so come è finita la causa, ma penso che il capo cinese è stato molto ingenuo. Forse perché in Cina ancora non c’è una grande tutela per i lavoratori. Ci sono anche in Cina delle buone leggi, ma poi spesso i capi fanno come vogliono. Però devo dire che anche il ragazzo ha sbagliato, perché non si può lavorare in nero. Lui doveva protestare subito non solo quando gli conviene, intendo moralmente non è giusto».

Per concludere, secondo la tua esperienza, cosa potrebbero fare le istituzioni per migliorare in generale i rapporti con i cinesi residenti in Italia?

«Allora, a parte qualche caso, non penso che le cose vanno male tra cinesi e italiani. Esiste nella lingua italiana una parola magica: comunicazione. Dobbiamo imparare prima a comunicare, perché senza comunicazione non nasce la fiducia e si rischia di andare su vie sbagliate. Così il governo, le regioni, i comuni devono informare i cinesi delle leggi e delle tradizioni italiane. Devono fare scuole di lingua italiana per i cinesi. Non è facile, ma è necessario. Adesso ci sono le seconde generazioni, i giovani cinesi che parlano bene l’italiano, hanno frequentato le scuole italiane e sono il nostro futuro. Però i cittadini italiani devono anche capire la cultura cinese. Questo è importante. Anche studiare la lingua cinese può essere utile. Come dicevamo prima, la persona cinese in generale ha paura di restare isolata dalla comunità. Così è importante che le istituzioni costruiscano una comunicazione con la comunità cinese, magari proprio con i giovani delle seconde generazioni».

Ma le sponde non si uniscono mai

L’ultima domanda. Come vedi la situazione dei bambini cinesi in Italia e come immagini il loro futuro?

«Di solito i bambini rimangono in Cina con i nonni, mentre i genitori sono in Italia per lavorare. Quando la situazione economica dei genitori migliora allora vengono portati in Italia anche i figli. Se i bambini sono ancora piccoli possono andare alle elementari con gli altri bambini italiani, perché imparano velocemente la lingua. Se invece arrivano qua già adolescenti allora è un problema grande perché devono ripartire da zero con la lingua, con le amicizie. Un’altra cosa. La maggior parte dei genitori cinesi in Italia non sono impiegati, ma fanno lavori manuali per molte ore al giorno, come dipendenti, ma anche come piccoli imprenditori. Con la crisi economica non hanno molti soldi e non possono mandare i figli alle attività di svago e culturali, molto utili per trovare amici e imparare la cultura italiana. Così dobbiamo creare delle opportunità culturali per questi bambini. Dobbiamo cominciare subito. Infatti per attraversare un fiume ci serve costruire una barca o un ponte non possiamo aspettare che le due sponde si uniscono da sole».

Gianni Scravaglieri

Curiosità / Gli ideogrammi

Vi rimandiamo al nostro «sfogliabile».


Infodossier:

Bibliografia italiana

  • Lidia Casti, Mario Portanova, Chi ha paura dei cinesi?, Bur 2008.
  • Raffaele Oriani, Riccardo Staglianò, I cinesi non muoiono mai, Chiarelettere 2008.
  • Donatella Ferrario, Fabrizio Pesoli, Milano multietnica, Meravigli edizioni, 2016. Il primo capitolo di questo bel lavoro è dedicato alla comunità cinese (27.363 persone).

Filmografia

  • Davide Demichelis, Cina: Malia Zheng, in «Radici», serie di documentari della Rai, giugno 2013 (www.radici.rai.it).
  • Francesca Bono, A Bitter Story, un documentario presentato al 34.mo «Torino Film Festival» (Tff), novembre 2016; storia di un gruppo di adolescenti cinesi che vivono nei piccoli comuni di Barge e Bagnolo, nelle valli occitane della provincia di Cuneo, dove la comunità cinese lavora quasi per intero nelle locali cave di pietra.

Sitografia

  • www.associna.com
    Il sito dell’omonima associazione, in italiano e in cinese.
  • www.cinaforum.net
    Il sito fondato da Alessandra Cappelletti, sinologa e collaboratrice di MC.

Assisi. Una ragazza di origine cinese ad un meeting delle scuole organizzato dalla Tavola della pace. (Roberto Brancolini)

Autori

Questo dossier è stato firmato da:

  • Giovanni Scravaglieri – È docente di lingua e civiltà cinese nelle scuole della Lombardia. Scrive per la rubrica «Visto da Pechino» sulla testata giornalistica on line «Cinaforum.net». È tra I fondatori dell’Associazione Shuren per la diffusione della lingua e della cultura cinese in Italia.
  • Roberto Brancolini – Fotografo indipendente, ha scoperto viaggiando la sua passione per la fotografia. Si occupa prevalentemente di reportage. Il suo lavoro può essere visionato sul sito: www.brancolini.com.
  • Paolo Moiola, giornalista redazione MC.

Foto delle copertine: Chen Chen, ragazza cinese a Modena per seguire un corso universitario; giovane di origine cinese ad Assisi per un meeting organizzato dalla Tavola della Pace. L’ideogramma riportato indica il termine «guanxi», scritto in grafia tradizionale (non semplificata).




Profughi voci perseguitate dal coro


È una rete internazionale che aiuta un particolare tipo di profughi: intellettuali scomodi, minacciati dai regimi dei loro paesi. Connette città ospitanti in Europa e nel mondo. Dal 2006 sono 160 le persone accolte. Piccoli numeri che rappresentano intere popolazioni.

«Col primo, uno scrittore, la reazione dei vicini è stata di grande sconcerto. Non lo capivano, lui non salutava, spesso usciva in tuta mimetica, poi per molti giorni non usciva affatto, perché stava lavorando al suo libro. Poi è arrivata una coppia di iraniani, un teologo perseguitato per apostasia e la moglie, entrambi di mezza età, e sono stati subito molto amati. Potevano sembrare una coppia di contadini delle nostre colline». Così Maria Pace Ottieri, figlia dello scrittore milanese Ottiero Ottieri, a sua volta giornalista e scrittrice (è autrice, tra l’altro, di Quando sei nato non puoi più nasconderti dedicato all’immigrazione irregolare), ricorda le prime esperienze di accoglienza di scrittori perseguitati a Chiusi, cittadina di 8.000 abitanti sulle colline senesi.

Il primo, nel 2008, fu Victor Pelevin, popolare scrittore russo del dopo perestroika, seguito nel 2010 da Hasan Yousefi Eskevari con la moglie Golbabei Aliahmad Mohtaram. «Eskevari, studioso di storia, aveva fatto sette anni di prigione per avere affermato che la prescrizione di indossare il velo non si trova nel Corano», ricorda Maria Pace. La casa della famiglia Ottieri e la città di Chiusi sono inserite nella rete Ico, acronimo di «Rete internazionale delle città rifugio» (in inglese: Inteational Cities of Refuge Network). Della rete fanno parte 60 città in 16 paesi, per lo più in Europa, ma anche negli Stati Uniti e in Messico. Le «città rifugio» accolgono scrittori, giornalisti, artisti e musicisti costretti a lasciare il proprio paese. Il cornordinamento della rete, con sede nella città norvegese di Stavenger, riceve le richieste e propone gli abbinamenti tra artisti e città.

Intellettuali perseguitati

«La valutazione si fa in collaborazione con Pen Inteational, associazione di scrittori. La persecuzione deve essere documentabile. Altri criteri sono la quantità di produzione giornalistica o artistica, e la correlazione tra questa e le minacce», spiega Cathrine Helland, responsabile della comunicazione di Ico. «Per scegliere la città, dobbiamo valutare se sono aperte anche a coppie o famiglie o solo a singoli. Guardiamo anche alle relazioni diplomatiche tra paesi, per capire quante possibilità ci sono che l’autore possa ricevere un visto in tempi ragionevoli».

Gli oneri pratici e quelli economici, dall’alloggio a una borsa di studio con la quale gli autori si sostentano, spettano alle città.

Nel caso della Toscana, a farsi carico della parte economica è la Regione, mentre i comuni, di cui ora Chiusi è l’unico attivo, devono mettere a disposizione un cornordinatore che segua le persone nell’ottenimento del visto, nell’inserimento sociale, nell’accesso ai servizi. A Chiusi, la famiglia Ottieri dà la casa gratuitamente. In Norvegia i referenti del progetto sono in genere le biblioteche, mentre in città come Bruxelles o Cracovia sono associazioni letterarie o festival. Da paese a paese, costo della vita e burocrazia possono variare molto. «La formula che abbiamo trovato noi è chiedere visti per motivi di studio. Di fatto, gli scrittori cercano rifugio all’estero per continuare il proprio lavoro e la propria ricerca», racconta Marco Socciarelli, referente di Ico per il comune di Chiusi.

«C’è una forte correlazione tra le evoluzioni della situazione geopolitica e le richieste che riceviamo», riprende Cathrine Helland. «Nel 2014 abbiamo avuto un picco dalla Siria, e di recente sono molto aumentate quelle provenienti dalla Turchia, o dal Bangladesh, dove i blogger laici subiscono attacchi e minacce di morte, o ancora dal Burundi, dove le persecuzioni riguardano molti giornalisti radiofonici». In Bangladesh, nel 2015, per la prima volta uno scrittore che aveva presentato domanda a Ico, Ananta Bijoy Dash, è stato ucciso prima che potesse essergli proposta una città rifugio.

Dal 2006, anno della fondazione di Ico, le persone accolte sono state 160. Ma già dal 1999, molte delle città che aderiscono all’attuale rete partecipavano a un analogo progetto, nato su iniziativa di quello che allora si chiamava «Parlamento internazionale degli scrittori» presieduto da Salman Rushdie. Nell’ambito di quella prima iniziativa la Toscana ospitò diversi autori perseguitati, tra cui la premio Nobel 2015 Svetlana Aleksievic.

Piccoli numeri, grande significato

I numeri sono piccolissimi, soprattutto se si pensa di paragonarli agli oltre 400 mila fuggiaschi che hanno tentato di entrare illegalmente in Europa, via terra o via mare, solo nei primi 9 mesi del 2016, secondo i dati dell’agenzia Frontex. Ma a chi ottiene ospitalità attraverso questa rete è concesso non solo un approdo, ma anche un viaggio sicuro.

«Per le città, l’adesione ha un valore allo stesso tempo concreto e simbolico», spiega Helge Lunde, tra i fondatori di Ico e suo attuale direttore. «Concreto, perché si può materialmente aiutare una persona a mettersi in salvo, e simbolico perché scrittori, giornalisti e artisti rappresentano in qualche modo il pensiero e i bisogni di altre persone, del loro pubblico, del loro paese. Ogni città che aderisce alla nostra rete consente a una voce fuori dal coro di continuare a farsi sentire».

Nel 2015, le richieste sono state 110 e le residenze offerte 27, quasi il doppio rispetto all’anno precedente. Nei primi nove mesi del 2016 sono arrivate 90 domande, 15 delle quali hanno potuto essere accolte.

Anni difficili

Il periodo di ospitalità è normalmente di due anni. «Nel caso di Malek Wannous, giornalista siriano, che si trova a Chiusi con la sua famiglia – riprende Marco Socciarelli – abbiamo deciso in via eccezionale di allungare la residenza per un altro anno. Loro vorrebbero tornare in Siria, ma è impossibile. E ora che la bambina più grande va a scuola non volevamo fosse costretta a un nuovo, traumatico spostamento».

Per gli scrittori e gli artisti, la città rifugio rappresenta la possibilità di continuare a lavorare, non senza difficoltà. «Si perdono fonti di guadagno, punti di riferimento, status», evidenzia Cathrine Helland. «A meno che un autore non sia molto conosciuto, non è semplice lavorare da un paese estero», fa eco Socciarelli. «Io sono contenta di arrivare a casa e sentire voci di bambini, sentire abitata questa casa, che mai si sarebbe aspettata persone da così lontano», dice Maria Pace Ottieri. «La cosa amara è che, per loro, questi due anni sono tra i più infelici della loro vita. Sono sradicati, sono dovuti partire per forza, non sanno quando e se potranno tornare indietro».

La loro voce, però, continua a farsi sentire. Anche con le scuole. «Molte volte i ragazzi nemmeno sospettano che si possa essere incarcerati o minacciati per le proprie idee», spiega Socciarelli. «La soddisfazione che abbiamo – aggiunge – è che qui a Chiusi sono stati completati libri importanti, che forse non avrebbero visto la luce senza il nostro aiuto».

Giulia Bondi


Intervista a Malek Wannous, rifugiato a Chiusi

Un posto dove andare

Malek Wannous

Gioalista e scrittore freelance siriano, Malek Wannous è originario di Tartous, città portuale di 150mila abitanti, affacciata sul Mediterraneo. Vive a Chiusi dal 2014, con la sua famiglia. Ha tradotto in arabo il libro di Vittorio Arrigoni «Gaza. Restiamo Umani».

Quando ha cominciato a sentirsi in pericolo, e quando ha deciso di partire?

«Appena iniziata la guerra ho sentito che non ero al sicuro. O che non lo sarei stato nei giorni e nei mesi successivi. Non ho pensato subito di lasciare il paese, perché avevo lavoro, casa, famiglia, e speravo che la guerra sarebbe finita presto. Ma erano speranze vane. Dopo tre anni di guerra, ho iniziato a cercare un modo per andarmene».

Come ha saputo dell’esistenza di Ico?

«Me ne avevano parlato degli amici. Ero a conoscenza delle vicende di alcuni scrittori che erano stati aiutati da Ico. Ho presentato domanda, ho aspettato l’esito e infine sono potuto partire per approdare in questo posto sicuro».

Come si è svolto il vostro viaggio fino a Chiusi?

«Da Tartous siamo partiti per il Libano, e da lì abbiamo preso un volo diretto, da Beirut a Roma. È andato tutto liscio, per me, per mia moglie che era incinta, e per mia figlia. Ma, allo stesso tempo, è stato molto difficile lasciare il nostro paese. Quando siamo arrivati a Roma faceva caldissimo, più caldo che da noi. Ho comprato il biglietto del treno per Chiusi e per la prima volta in vita mia ho usato una macchinetta automatica! Da noi i treni sono molto vecchi, non li rinnovano da anni, e per viaggiare usiamo soltanto i pullman. Alla stazione di Chiusi ci aspettava Marco Socciarelli, di Ico, con sua moglie e sua figlia. Ci hanno accompagnato loro alla nostra nuova casa».

Qual è l’ultima immagine che ha della Siria, e il suo primo ricordo all’arrivo in Italia?

«L’ultima immagine sono le persone. Vedevo la gente camminare, andare al lavoro, dal medico, o a fare spese. Tutti sapevano che il loro futuro era incerto, o molto oscuro. Quando siamo arrivati, ho pensato a mia madre, alla mia famiglia, ai volti delle persone che ho lasciato in Siria. Ho pensato perfino alle strade su cui camminavo ogni giorno, per andare al lavoro o per fare sport».

Com’è la vostra esperienza a Chiusi? Come riesce a lavorare da qui?

«Inizialmente è stata dura, perché non conoscevamo la lingua. Gli unici amici che avevamo erano Marco e la sua famiglia. Ci hanno aiutati in tutte le esigenze pratiche: la burocrazia per il permesso di soggiorno, l’assistenza sanitaria, l’iscrizione a scuola di mia figlia. Pian piano abbiamo fatto amicizia con i vicini, con le famiglie delle compagne di scuola, e abbiamo cominciato a uscire per una pizza, o una gita al lago. Il lavoro lo faccio a distanza: articoli e analisi politiche che trasmetto ai giornali via email, e di tanto in tanto qualche traduzione».

Che rapporti avete con la vostra ospite, Maria Pace Ottieri?

«Maria Pace e suo figlio ci hanno telefonato subito al nostro arrivo. Poi sono venuti a incontrarci, e ci hanno invitato nella loro casa di Milano. Siamo amici, e quando lei o suo figlio vengono a Chiusi passiamo ore insieme, a discutere di politica e di letteratura. Maria Pace è conosciuta per la sua generosità. Ci ha offerto la sua casa, come aveva fatto in precedenza per altri scrittori».

Con quali differenze culturali vi siete scontrati al vostro arrivo?

«Abbiamo trovato molte somiglianze tra la società siriana, libanese o palestinese e quella italiana. Anche i volti sono simili, forse perché apparteniamo tutti al Mediterraneo e abbiamo un’antica storia di scambi e relazioni. La società italiana è più modea e organizzata, perché per molti anni i governi dei paesi arabi non hanno fatto abbastanza per migliorare il tenore di vita delle popolazioni. Non abbiamo fatto troppa fatica a integrarci. Le differenze non mancano ma molte persone ci hanno aiutati a capire gli usi locali».

Come ha deciso di tradurre gli scritti di Vittorio Arrigoni (attivista e pacifista italiano ucciso a Gaza il 15 aprile 2011)?

«Avevo chiesto a un amico, traduttore e poeta siriano, di portarmi il libro dall’America, dove viveva, perché dalla Siria non potevo ordinarlo. Volevo solo leggerlo, ma quando sono arrivato alla ventesima pagina ho capito che dovevo tradurlo. Ho acceso il computer e iniziato subito. Pensavo che le storie di cui parla meritassero di essere conosciute, perché sono una testimonianza diretta dei crimini israeliani contro i civili palestinesi a Gaza. Ascoltare queste voci è indispensabile per “restare umani”. Ogni giorno sentiamo storie come quelle che lui racconta, e credo che ciascuno di noi sappia che il male fatto ad altri, oggi, potrebbe essere fatto anche a lui, in qualsiasi momento».

Cosa pensa del conflitto in corso in Siria? Come ha fatto a inasprirsi fino alla situazione odiea e cosa potrebbe fare la comunità internazionale per fermare il massacro di civili?

«La guerra siriana si è inasprita perché ogni guerra, dall’inizio, è destinata a diventare sempre più dura, fino all’apice della violenza, se non la si ferma. Un’altra ragione dell’escalation sono le interferenze di altre potenze. Sembra che la Russia stia fomentando la guerra per trae vantaggi quando sarà finita. Putin ha definito la Siria “il migliore campo di addestramento per il nostro esercito”. Usa la Siria per promuovere le proprie armi, sta firmando contratti per vendere armi a molti paesi. Credo che la comunità internazionale non abbia fatto seri tentativi di fermare la guerra, fin dall’inizio. Non hanno mai nemmeno cominciato a pensarci, fino a quando l’Isis e le ondate di profughi non hanno iniziato a bussare alle porte. Ora stanno cercando di intervenire, sono in ritardo, ma non è troppo tardi. Se agissero sulla Russia e sull’Iran, che tutto sommato sono paesi piuttosto deboli, questi obbedirebbero».

Cosa pensa della crisi dei rifugiati in Europa? La maggioranza delle persone, sebbene abbiano diritto alla protezione internazionale una volta arrivate, viaggiano lungo rotte pericolose e spesso mortali. Quale potrebbe essere, secondo lei, un’alternativa?

«Fermare la guerra, in modo che i siriani che ora sono in Europa possano rientrare in Siria. Fino a quel momento, credo si dovrebbero accogliere i rifugiati diversamente. Andrebbero migliorate le condizioni di vita dei campi profughi in Turchia, Libano, Giordania, sostenendo l’apertura di scuole in questi campi e assegnando borse di studio universitarie agli studenti siriani. In questo modo credo che i paesi europei subirebbero meno conseguenze e si tutelerebbero anche dal rischio che molti giornali hanno evidenziato, di fare entrare terroristi nascosti tra i rifugiati».

Dove vede il suo futuro quando lascerà Chiusi?

«Non sono ottimista. Tra pochi mesi dovrò lasciare l’Italia, a meno che non trovi un lavoro o qualche altra opportunità. Sarà difficile per me e la mia famiglia, e sarà un nuovo shock per mia figlia lasciare un luogo e degli amici con i quali si è ambientata per spostarsi di nuovo in un luogo sconosciuto. Sarà difficile imparare una nuova lingua ora che sa benissimo l’italiano. Ma al momento non abbiamo un posto dove andare».

Giulia Bondi




Cari missionari

Giustizialismo e furbetti

Dinnanzi a coloro che usano la parola «giustizialismo» i giudici hanno uno spettro di reazioni che va dall’arricciamento di naso all’indignazione profonda. Sicuramente anche il giudice Caselli (cfr. MC. 7/2016 p. 33) è tra coloro che non vanno matti per questa parola.

Per quanto mi riguarda, perplessità e disagi ancora più grandi me li creano anche la parola «furbate», la parola «furbetti» e certi complementi di specificazione che molti cultori della legalità o sedicenti tali, hanno preso l’abitudine di aggregare a queste parole. La domanda che vorrei porre è questa: i giudici del caso Tortora, che invece di chiedere scusa, invece di essere biasimati e di pagare per i grossolani e catastrofici errori compiuti, hanno fatto – grazie ad altri uomini di legge -, tutti quanti, una carriera da Mille e una notte, vogliamo definirli dei fedeli e integerrimi servitori dello stato?

Se è vero che la lotta contro i furbetti del quartierino, i furbetti dello scontrino, i furbetti del cartellino, deve continuare perché rappresenta un pezzo importante della lotta contro la corruzione, non è altrettanto vero che anche i furbetti del verbalino, i furbetti del bilancino, i furbetti del bisognino, dovrebbero essere adeguatamente sanzionati e condannati a restituire il maltolto? Siete sicuri che il vigile urbano beccato a timbrare in mutande sia più colpevole dei colleghi che, per far cassa e carriera, multano (e a volte ammazzano) i disabili, multano i veri invalidi, multano i senzatetto e il possesso del cartone da essi utilizzato come giaciglio per la notte?

Chi è più sporco, chi è più corrotto? Il soggetto che, in mancanza di meglio, fa un goccio di pipì dietro il cespuglio o i poliziotti che gli fanno la posta (o stalking?) per affibbiargli cinquemila euro di contravvenzione?

Vi sembra degno di un paese democratico e di una nazione civile – e qui mi rivolgo anche al giudice Caselli – che chi reagisce a tutto ciò dicendo «vergogna», dicendo «smettete di dir bugie», dicendo «smettete di mettere l’etica professionale dietro le esigenze di bilancio» debba beccarsi una condanna penale per oltraggio a pubblico ufficiale?

Distinti saluti.

Bartolomeo Valnigri
22/07/2016

Quello che lei dice purtroppo si basa sull’esperienza quotidiana. Ed è un fenomeno che ha radici antichissime, se anche un profeta come Isaia sentiva il bisogno di stigmatizzare con parole molto forti la corruzione dei potenti e di chi è in autorità: «I tuoi capi sono ribelli e complici di ladri; tutti sono bramosi di regali, ricercano mance, non rendono giustizia all’orfano e la causa della vedova fino a loro non giunge» (Is 1,23).

In questi anni, osservando certi stati africani, ho visto con tristezza il dilagare della corruzione, accelerata proprio dal cattivo esempio di chi è ai posti più alti del governo. Qui da noi, la disaffezione crescente verso la politica e i politici è aumentata esponenzialmente con il crescere della corruzione nei loro ranghi. Ma il rischio più grosso è che si perda il senso di quello che è giusto, il senso del dovere e della responsabilità sociale e che il cattivo esempio dei «grandi» diventi giustificazione per comportarsi male come loro.

È bello invece che rimangano delle persone, indipendentemente dalla categoria cui appartengono, che sono ancora capaci di avere un pensiero critico e autocritico e hanno il coraggio di dire la verità, anche quando è scomoda. Guai a noi se ci rassegnassimo perché «tutti sono corrotti».

Accoglienza

Egregio Padre,
ho letto il suo commento al mio scritto che avete pubblicato in MC 10/2016 con titolo «Tempo di crisi». Segno che l’argomento trattato è tuttora pressante. Dice, giustamente, che è spesso affrontato in termini fuorvianti. Certi commenti, come quelli da lei citati, sono il prodotto di ignoranza ed egoismo, tuttavia ciò, spesso, ha radici nel caos della gestione di una immigrazione di massa fuori controllo, con illegalità a tutti i livelli. Innanzitutto i nuovi schiavisti che gestiscono l’immondo commercio umano che le autorità di qualsiasi istituzione politica sociale o religiosa si guardano bene dal contrastare. Non è da molto che abbiamo smesso di criminalizzare gli schiavisti dei secoli passati mentre ora «tolleriamo» vergognosamente quelli attuali. Ciò ha generato migliaia di morti (solo quest’anno l’Onu dice che sono già 3.800 tra morti e dispersi).

L’accettazione indiscriminata senza regole spesso è fonte di comportamenti illegali da parte di questi «ospiti». Quasi ogni giorno viene violata la regola di ospitalità con comportamenti delinquenziali fino all’assassinio. Pertanto dire semplicemente: «Accoglienza accoglienza», senza regole, non fa che renderci complici, anche se indirettamente, di quelle migliaia di poveri esseri in fuga che sperando in una vita più degna di essere vissuta finiscono in fondo al Mediterraneo oltre a subire maltrattamenti e violenze durante le «trasferte» prima dell’imbarco, a cui si aggiunge il sospetto fondato del traffico di organi.

Questa «complicità», che viene tollerata per non offendere i buonisti a tutti i costi, fa pensare al pattume che si vuole nascondere sotto il tappetto. Purtroppo è verità scomoda e graffiante. Però la verità non fa sconti a nessuno. Mai. Come liquidare semplicemente per populismo la pressante richiesta di severe regole di ospitalità? Persino una signora di colore africana giunta anni fa in Italia ha detto recentemente durante una trasmissione televisiva «voi italiani siete bravi, mi avete accolto con amore, mi avete aiutato, ma ora con tutti quegli arrivi state esagerando». Anche lei populista allora?

Molto criticate le barriere anti immigrati in vari paesi. Certo. La causa principale è frutto della mancanza di regole che nessuno intende far applicare. Se in Europa ci fossero regole che a ogni manifestazione di insofferenza o peggio delinquenza l’immigrato venisse espulso non sarebbero necessarie barriere. Tutti populisti quelli che vogliono regole?

Persino Papa Francesco ha fruito di regole portandosi a casa dall’isola di Lesbo 12 migranti con passaporto, e (dicono alcuni giornali) con il visto per l’espatrio, mentre sulle nostre coste arrivano quasi tutti senza documenti. Populista anche lui?

Angelo Brugnoni
Daverio (VA), 02/11/2016

Continuiamo allora il dialogo iniziato su queste pagine lo scorso ottobre. Aggiorno solo la triste statistica dei morti nel Mediterraneo: 4.420 al 3/11/2016.

Comportamenti illegali e furbizie dei migranti.

Pochi giorni fa un amico mi raccontava, tra lo stizzito e il rattristato, di aver assistito a un corso di formazione per migranti nel quale 9 su 10 chattavano imperterriti sul cellulare invece di seguire la lezione. Altri amici mi hanno invece invitato ad andare a vedere un certo orto di cavoli ridotto peggio di quello, famoso, di Renzo.

Se uno volesse fare la lista di tutte le negatività nel comportamento dei migranti accolti in Italia, potrebbe scrivere un libro per la gioia di chi li considera semplicemente un problema e un pericolo.

Non sono un esperto in materia, ma credo che ci siano due ragioni fondamentali alla base dei comportamenti negativi: la prima è che molti di loro non vogliono stabilirsi in Italia, la seconda è che non si fidano degli operatori che incontrano. Senza la fiducia la relazione che ne risulta è quella di «guardie e ladri». Fare finta di non vedere queste situazioni difficili («buonismo»?) o vedere solo le situazioni negative («populismo»?) non aiuta né le persone che vogliamo accogliere né noi stessi.

Regole.

Se «buonismo» è chiudere gli occhi e dire «poverini loro», trattandoli patealisticamente e quasi con un senso di colpa, allora sono d’accordo a condannarlo. Ma neppure il moltiplicare le regole serve a molto. Anzi, più regole ci sono, più diminuisce la responsabilità e la libertà.

Avendo vissuto per molti anni in Africa, ho notato con preoccupazione come proprio in Europa si stia uccidendo la libertà, il buon senso e la responsabilità con un moltiplicarsi infinito di regolamenti su ogni cosa: dai cibi al commercio, dalla sanità all’etica, dalla famiglia al lavoro … Regolamenti che diventano poi così intricati da permettere ai furbi di abusae.

Detto questo, so bene che tra i rifugiati e migranti ci sono quelli che pensano di avere solo diritti e niente doveri, e anche coloro che sono arrabbiati con tutto il mondo (chi non lo sarebbe dopo aver passato quello che molti di loro hanno dovuto subire?). So anche che c’è chi crea nei migranti aspettative sproporzionate e fomenta i loro sospetti e diffidenze nei confronti di chiunque li voglia aiutare. Lo stesso succede anche per i cittadini dei luoghi di accoglienza. La strumentalizzazione politica in questo campo è ben nota.

L’accoglienza, complicata dal numero crescente dei migranti e rifugiati, è una realtà oggettivamente difficile da gestire. Per questo mi viene da chiedere se tutto il personale impiegato dalle moltissime cornoperative e onlus che con generosità si occupano di accoglienza, sia davvero all’altezza del delicato servizio che è chiamato a rendere e abbia ricevuto una formazione adeguata per diventare autorevole interlocutore di chi è nel bisogno.

Le regole ci sono, è importante osservarle e farle osservare, con fermezza sì, ma non con la forza, la paura o le botte (come ha denunciato recentemente Amnesty Inteational), piuttosto con persuasione, accompagnamento, formazione e necessaria autorevolezza.

Ricordo una storia contadina che ho sentito da bambino quando ancora si arava con l’aratro trainato dai buoi. C’erano quattro fratelli che, prestissimo al mattino, uscivano ad arare con un aratro trainato da due coppie di buoi. Tre di loro uscivano insieme, uno all’aratro e uno ciascuno per ogni coppia di buoi usando sempre urla e botte per farsi obbedire. Invece il quarto fratello usciva da solo per fare lo stesso lavoro, senza urla e senza pungolo. Il segreto? I tre fratelli si alzavano all’ultimo minuto e andavano subito fuori nei campi ad arare. Il quarto invece si alzava un’ora prima, nutriva e abbeverava bene i buoi e poi usciva ad arare, e gli bastava la voce per farsi obbedire.

Forse questa parabola c’entra poco, ma se invece di trattare i «miranti e rifugiati» come una categoria aliena e problematica, cominciassimo a considerarli semplicemente persone e a stabilire con loro rapporti «umani», faccia a faccia, forse sarebbe meglio per tutti. È la differenza tra chi erige barricate contro il «nemico» e chi improvvisa una festa di paese per il «fratello».

Probabilmente chi è trattato da «persona» è più disponibile a rispettare le regole di chi invece è trattato come un numero, un problema, un nemico.

Nel nostro paese, accanto a episodi negativi che finiscono facilmente in prima pagina – soprattutto quando servono agli interessi elettorali di alcuni -, abbiamo una marea di esperienze positive – vissute da persone normali – di cui si parla poco o niente, ma che sono la vera risposta «buona» a un dramma che è più grande di noi e di cui non si vede ancora la fine.

Fondamentalisti

Spett. redazione,
in merito alla risposta (il riferimento è a MC 7/2016 p. 5) vorrei fare alcune osservazioni. Definire fondamentalisti cristiani quelli che non riconoscono il papa è proprio degno di chi pensa di avere la verità in tasca come i cattolici. Fin dai primordi i padri fondatori del cristianesimo infischiandosene del detto: ama il tuo nemico, hanno creato apostati, eretici, hanno perseguitato e ucciso ebrei, pagani distruggendo i loro templi, streghe con una ferocia veramente paragonabile o anche superiore alle torture di oggi compiute da altri fondamentalisti, che sono soltanto assassini con una scusante religiosa, come lo erano gli inquisitori e persecutori del passato, non troppo passato. Pio IX applicava la pena di morte come gli altri papi ordinando di impiccare senza alcun rimorso. Inoltre molto prima delle multinazionali il Congo è stato terra di traffico di schiavi da parte dei gesuiti (ne possedevano12.000 nel 1666 così come i benedettini in Brasile fino al 1864). In Congo poi i belgi del cattolicissimo Leopoldo hanno creato uno sfruttamento superiore ad ogni concezione umana. Per i congolesi però nessun digiuno, come per i ruandesi o i vietnamiti. Come vede ogni setta ha la sua parte di orrori, come le ideologie e ogni credo. Che i sauditi abbiano fatto cadere i dittatori tolleranti è un fatto, e che siano amici di gruppi finanziari americani altrettanto, ma sono sempre le singole persone che compiono gli atti quindi loro vanno punite e non i libri da cui traggono idee. Non possiamo incolpare satana dei crimini umani visto che non si può arrestare come mandante, o no? Speriamo che in America vinca un pacifista che la smetta di impicciarsi del mondo e non un’ipocrita incapace di fare il segretario di stato. Come se la cava il cattolico Kerry per i conflitti in Africa? O se ne frega come tutti, tranne i sinceri missionari e volontari? La saluto cordialmente.

Luna verde
30/07/2016

Facciamo un’eccezione pubblicando una email anonima. Ecco alcune precisazioni.

Schiavi. Può darsi che i gesuiti avessero schiavi, ma certamente non in Congo (allora Regno del Congo) che era riservato ai frati Cappuccini.

I fondamentalisti cristiani non sono tali perché «non riconoscono il papa». Ci guardiamo bene dal considerare fondamentalisti gli Ortodossi, gli Anglicani, i Luterani, e via dicendo. Ma ci sono cristiani che sono fondamentalisti, nel mondo protestante, come anche in quello cattolico. L’enciclopedia Treccani così definisce il fondamentalismo: «Denominazione, sorta in ambito cristiano negli Stati Uniti agli inizi del 20° sec., ed estesa poi alle due altre religioni monoteiste, ebraica e musulmana, per indicare genericamente i movimenti, dapprima religiosi e culturali, poi anche sociali e politici, che, opponendosi a qualsiasi interpretazione evolutiva dei propri principi originari e fondamentali, ne propongono un’applicazione rigorosa negli ordinamenti attuali».

Verità in tasca e nefandezze varie.
Mi pare che i Cattolici abbiano cercato di imparare dai loro errori e che siano tra i pochi che abbiano chiesto perdono delle ingiustizie da essi perpetrate in nome della religione. Ha iniziato il Concilio Vaticano II, e papa Giovanni Paolo II e papa Francesco ne hanno continuato il cammino con coraggio. Mi sembra pretestuoso continuare ad andare a rivangare storie di secoli fa per togliere autorità morale oggi a chi cerca, senza nascondere un suo passato di errori, di vivere con coerenza il messaggio più originale e profondo del Libro (o dei «Libri» della Bibbia). Tenendo poi conto che questa testimonianza di amore, servizio e dialogo è stata pagata con oltre 100mila martiri nel solo XX secolo.

Quando queste righe saranno carta stampata sapremo già da un po’ chi ha vinto tra la Clinton e Trump (di fronte ai quali viene proprio da chiedersi cosa è successo agli Usa da essersi ridotti ad avere due candidati così). Ma definire Trump un pacifista, mi sembra proprio fuori luogo, anche solo per le simpatie che ha per Putin e il sostegno che riceve dalla lobby delle armi.

Bestemmie

Gentile redazione,
da parecchi anni si è notato un aumento di caccia a coloro che bestemmiano: non tanto nei nostri ambiti cristiani ma più da parte dell’Islam, ciò che conduce al sacrificio della vita stessa di coloro che non sanno difendersi e porre una adeguata spiegazione a titolo di scusa davanti ad enti competenti ed accusanti.

Dopo tanto tempo di riflessione, penso che la bestemmia, interpretata come offesa alla divinità, non può esistere: essa è indiscutibilmente nata come grido di aiuto rivolto a Dio, che poi è entrata in usanza come insulto. Ma come si può offendere la divinità? Può l’essere umano fare ciò? Come potrebbe essere giunto a tale idea? Assolutamente impossibile, per me è il grido a Dio di aiuto che aspetta ciò di cui più non riesce a rinunciare. La nostra religione cristiana per questo neppure ci condanna se chiediamo perdono, ma per i credenti dell’Islam è prevista perfino la pena mortale. Penso che si possa iniziare una ricerca atta a fare luce sulle origini della bestemmia. Distinti saluti, un vecchio lettore.

Gabriele Azzolini
21/10/2016

Non penso che la bestemmia sia nata come come «grido di aiuto», piuttosto come insulto e ribellione agli dei di un altro popolo (sia occupante e invasore o ritenuto inferiore al proprio). È infatti interessante che la bestemmia – come la intendiamo noi – non esista in mezzo ai popoli africani o altri popoli indigeni.

Che l’Antico Testamento e l’Islam abbiano sentito il bisogno di punire con la morte la bestemmia, è comprensibile se si guarda alla storia fatta di guerre di offesa e di difesa, combattute nel nome del proprio Dio quando non c’era distinzione tra sfera politica e quella religiosa.

Che poi Dio sia davvero offeso da una bestemmia è poco probabile. Parlare di «offesa» è un modo di dire nostro. Quando a metà ottobre, fermo ad un semaforo, ho sentito un motociclista snocciolare a gran voce le bestemmie più fiorite, non ho pensato che Dio fosse offeso da tanta stupidità – ero io a sentirmi offeso! -, piuttosto che provasse tanta pena per quella persona. Non sono le parole che offendono Dio, ma quello che c’è nel cuore delle persone, soprattutto quando ostinatamente rifiutano la sua logica di amore e si sentono realizzati nella loro rabbia, nella loro violenza e nel materialismo più egoista.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2148 scrive: «La bestemmia […] consiste nel proferire contro Dio – interiormente o esteriormente – parole di odio, di rimprovero, di sfida, nel parlare male di Dio, nel mancare di rispetto verso di lui nei propositi, nell’abusare del nome di Dio. […] È blasfemo anche ricorrere al nome di Dio per mascherare pratiche criminali, ridurre popoli in schiavitù, torturare o mettere a morte». Lo stesso vale per l’uso del nome di Dio per scopi di magia (n. 2149) o per giurare il falso (n. 2050).

Un super like

Io sono comunista e non credente, ma nella vostra pagina e nella vostra rivista ho trovato molto di buono. Ad esempio, tutto ciò che riguarda l’Africa. E se siete riusciti a piacere a un comunista, sempre acerrimo critico verso le gerarchie cattoliche, come potete non piacere a chi è credente e cattolico?

Salvatore T.
su FB il 21/10/2017

Sulla nostra pagina Facebook (www.facebook/missioniconsolata) c’era questo commento in risposta alla nostra richiesta di mettere un like e superare la soglia dei 4.000. Con oltre 47.000 copie distribuite in Italia e nel mondo, dovremmo poter andare oltre i 10.000 presto! Metti il tuo like!

 




Accoglienza piccoli numeri grande efficacia


Nello scorso numero abbiamo raccontato dei migranti del Cas di Alpignano (Torino),  dell’appartamento di Porta Palazzo, in centro città, che ospita ragazzi afghani e del rifugio diffuso, cioè presso le famiglie. Continuiamo il racconto, cercando di fare un po’ di chiarezza sull’accoglienza ordinaria e sui famosi 35 euro al giorno per migrante, sui tipi di protezione internazionale e sui professionisti che lavorano in questo settore.

Cominciamo con una fotografia della situazione al 20 settembre 2016: secondo i dati del ministero dell’Inteo, i migranti sbarcati sul territorio italiano nel 2016 sono stati oltre 130 mila, in aumento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso ma meno rispetto al 2014. Nei centri di accoglienza si trovano 158 mila persone, di cui 740 negli hotspot, 13.700 nei centri governativi di prima accoglienza (Cara, Cpsa, Cda), 22.192 nei 430 centri governativi di seconda accoglienza (Sprar) e 120 mila negli oltre tremila centri temporanei come i Cas (Centri di accoglienza straordinaria), gestiti attraverso bandi dalle prefetture e collocati in spazi che vanno dall’appartamento alla struttura alberghiera.

Gli esempi di mala gestione che guadagnano le prime pagine dei giornali riguardano soprattutto i Cas, centri temporanei nati dalle ceneri dell’Emergenza Nord Africa del 2011: nonostante questi ospitino oltre tre quarti dei richiedenti asilo, si legge nel «rapporto InCAStrati» pubblicato nel febbraio 2016 dalle associazioni Cittadinanzattiva, Libera e LasciateCIEntrare, «non esiste una mappa pubblica dei Cas e non sono a disposizione informazioni chiare e accessibili sui gestori, convenzioni, gestione economica e, soprattutto, rispetto degli standard di erogazione dei servizi previsti da convenzioni e capitolati d’appalto». È questa opacità che rende possibile mascherare di accoglienza quello che è semplice business: dall’albergo che, come struttura turistica, non guadagna più e che si ricicla in veste di Cas foendo posti letto ma non i servizi ai richiedenti asilo, fino alle strutture fatiscenti, sovraffollate e prive di servizi igienici i cui gestori si intascano i 35 euro abbandonando i migranti a se stessi.

Da dove vengono e dove vanno i 35 euro?

A proposito dei 35 euro, il rapporto «La buona accoglienza» della Fondazione Leone Moressa di Mestre, del gennaio 2016, dettaglia i costi coperti con questa cifra analizzando i preventivi dei progetti Sprar presentati dai comuni al ministero: su 34,67 euro di costo pro capite giornaliero, 13,16 vanno in costi del personale, 4,30 in oneri relativi all’adeguamento e gestione delle strutture, 8,24 in spese generali per l’assistenza, 2,15 in spese relative ai servizi di integrazione, 1,31 in consulenze (ad esempio quelle legali), 0,30 in costi indiretti e 5,21 in altre spese. Volendo essere più precisi, si può confrontare queste voci di spesa con il modello di preventivo, facilmente reperibile sul sito Sprar, che gli enti devono presentare per ottenere l’affidamento dell’incarico: il pocket money dato ai richiedenti asilo, pari a circa due euro e mezzo al giorno, fa parte delle spese generali per l’assistenza, insieme a vitto, salute, trasporti, scolarizzazione e alfabetizzazione. Le spese per l’integrazione comprendono, fra le altre voci, i corsi di formazione, le borse lavoro e i tirocini. I costi indiretti sono il carburante, la cancelleria e l’allestimento degli uffici, mentre le generiche «altre spese» sono i costi di formazione, trasporto, assicurazione del personale, fideiussioni, spese per pratiche burocratiche come il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno, le tessere telefoniche per gli accolti. Questo modello di preventivo nasce per l’accoglienza ordinaria nei centri governativi; il costo di 30-35 euro, a cui si giunge attraverso gli standard Sprar, si estende poi all’accoglienza straordinaria.

Le ricadute sul territorio dell’accoglienza fatta bene

«Quando gli enti gestori foiscono veramente i servizi previsti, il vantaggio non è solo per i richiedenti asilo: si crea anche un effetto di restituzione al territorio». A parlare è Davide Bertello, responsabile della cornoperativa Pietra Alta Servizi che gestisce diversi progetti fra cui quello al Cas di Alpignano (vedi puntata precedente). A Lemie, paesino a cinquanta chilometri da Torino, la cornoperativa gestisce un altro centro d’accoglienza all’interno di una struttura di proprietà del Cottolengo. «Lì abbiamo assunto sei operatori, tutte persone della zona», spiega Bertello, «ci serviamo nei negozi di alimentari locali, ricorriamo a elettricisti e idraulici del posto».

Nel 2015 la spesa prevista dal Viminale per l’accoglienza ai migranti sul territorio italiano è stata di un miliardo e 164 milioni di euro, pari a circa lo 0,14 per cento della spesa pubblica. Pier Carlo Padoan, il ministro dell’Economia e delle Finanze, ha riferito al «Comitato parlamentare Schengen, Europol e immigrazione» la cifra complessiva, che considera anche le operazioni di salvataggio in mare, le spese sanitarie e quelle per l’istruzione dei migranti, costi sostenuti da enti diversi dal ministero dell’Inteo. La spesa totale, nei dati del Mef, è pari a 3,3 miliardi per il 2015 e altrettanti (stimati) per il 2016, di cui i costi per l’accoglienza rappresenterebbero la metà, cioè circa un miliardo e seicento milioni. Se tutti gli enti gestori fossero «virtuosi», questa cifra toerebbe per la maggior parte sul territorio sotto forma di stipendi, affitti, acquisti di beni e servizi.

Ulteriore ricaduta è quella legata ai tirocini formativi per i migranti: ad esempio al Cas di Alpignano, riferisce Fabrizio, operatore del centro, ne sono partiti undici, sostenuti dalla cornoperativa Pietra Alta con trecento euro al mese per venti ore settimanali, mentre l’azienda paga i costi assicurativi e i versamenti Inail. Ad oggi, due dei richiedenti asilo lavorano nella manutenzione delle scuole, cinque in alcuni ristoranti di Torino come aiuto cuoco, due in aziende agricole, uno in un vivaio e uno in un negozio di conserve e olio.

Gli ostacoli all’accoglienza fatta bene

Il punto è che, data la poca chiarezza sugli enti gestori lamentata nel rapporto InCAStrati, è difficile quantificare l’accoglienza fatta bene. Il sistema governativo, o Sprar, è riconosciuto come il più efficiente perché ha meccanismi di affidamento e rendicontazione più rigorosi. Nelle parole, riportate da Vita.it, del prefetto Mario Morcone, capo del Dipartimento libertà civili e immigrazione del Viminale, «i Cas vanno eliminati, trasformandoli man mano in Sprar, progetti dove i capofila non sono privati ma i Comuni». Ma la partecipazione dei comuni è del tutto volontaria e, nell’ultimo bando, due su cinque dei posti Sprar disponibili sono rimasti vuoti. Segno che i comuni faticano ad aderire.

Il risultato, paradossale, è che magari in quei comuni i richiedenti asilo arrivano lo stesso, proprio nei Cas gestiti da privati e enti vari. «E così la comunità locale si trova una specie di astronave che atterra sul suo territorio», racconta Davide Bertello: decine, a volte centinaia di persone che vengono letteralmente catapultate in un quartiere, in un paese, senza essere state preparate a entrare in relazione con gli abitanti del posto e senza che questi siano pronti a riceverle, perché nessuno ha fatto un lavoro di mediazione.

La mediazione è fondamentale

Jacqueline è originaria dell’Africa Occidentale, fa la mediatrice interculturale e collabora con diversi enti che si occupano di accoglienza. «Che cosa risponderei a chi pensa che questo lavoro lo facciamo solo per i soldi?», dice con un sorriso un po’ amaro. «Credimi, se lo facessimo per quello non reggeremmo a lungo le dieci, quindici ore al giorno che ti capita di lavorare e la responsabilità umana che hai quando una persona che assisti ti chiama di notte in lacrime». Il ruolo del mediatore interculturale, continua Jacqueline, è quello di permettere agli italiani e ai migranti di conoscersi e magari di capirsi. Inoltre segue i migranti assistiti nelle procedure sanitarie e legali e garantisce un accompagnamento – anche se non di tipo psicologico – alle persone che hanno subito traumi dovuti alle violenze nel paese d’origine e durante il viaggio verso l’Italia.

Traumi come quelli patiti da Peter (nome di fantasia), che stava dormendo quando i terroristi di Boko Haram, una notte del gennaio 2014, sono arrivati nel suo villaggio nel Nord Est della Nigeria e hanno iniziato a sparare, distruggere e incendiare. Hanno preso lui per mostrare agli altri abitanti del villaggio che cosa sarebbe successo a chi si rifiutava di farsi reclutare, gli hanno colpito la mano con una pietra da mortaio fino a rompergli le ossa. Si è risvegliato nell’ospedale di una cittadina vicina, dove ha trovato due dei suoi figli, mentre della moglie e della figlia più piccola non ha avuto notizie. Durante tutto il suo racconto, che va dalla notte dell’attacco all’arrivo in Italia passando per la Libia, resta calmo e lucido; cede soltanto al ricordo dell’umiliazione subita in Libia quando, cercando lavoro per poter sopravvivere insieme ai due bambini che ha portato con sé, si è sentito rispondere: «Come fai a lavorare, tu? Sei solo uno storpio senza una mano». Arrivato in Italia nel giugno del 2015, ora ha ottenuto il ricongiungimento familiare con la moglie e la figlia, che – come ha saputo solo mesi dopo l’attacco al villaggio – erano riuscite a mettersi in salvo ed erano poi state trasferite, insieme ad altri del villaggio, in un campo rifugiati in Niger.

La preparazione per l’audizione in Commissione

«Un altro degli impegni a cui cerchiamo di fare fronte è proprio quello di mettere persone come Peter in condizioni di fare una descrizione chiara alla Commissione territoriale, che valuta la loro richiesta d’asilo», spiega ancora Jacqueline. Di questa descrizione chiara fanno parte, oltre che un racconto comprensibile e circostanziato, le prove da presentare alla Commissione, ad esempio le verifiche sanitarie che dimostrano le violenze subite.

«Questo è un lavoro fondamentale», insiste Davide Bertello. «È assurdo che una persona rischi di avere un diniego perché non è riuscita, magari a causa dell’emotività, a spiegare bene quello che le è successo». «E no – risponde Davide a domanda diretta – non facciamo da suggeritori. Anche in questo un ente gestore serio fa la differenza: aiuta i richiedenti asilo a capire che l’unica cosa che davvero conviene è dire la verità. Noi ascoltiamo le loro storie e li sproniamo a spiegarci meglio le parti lacunose e non credibili. E non ci chiediamo se hanno o meno diritto a una forma di protezione: questo non spetta a noi deciderlo, ma alla Commissione territoriale». Anche perché stabilire «chi ha diritto e chi no» non è per niente semplice e richiede una valutazione attenta delle singole situazioni. Le equazioni «persona in fuga dalla guerra uguale rifugiato che può rimanere in Italia, persona che non viene da zone di guerra uguale migrante economico che deve tornarsene al suo paese» sono semplicistiche. Vi sono infatti due tipi di protezione internazionale: la prima prevede il riconoscimento dello status di rifugiato a chi rischia di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, mentre la seconda riconosce il diritto alla protezione cosiddetta sussidiaria, di cui può beneficiare chi non rischia una persecuzione ma corre comunque il rischio effettivo di subire un grave danno se rientra nel proprio paese. Vi è poi la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Qualche storia per capire

Per farsi un’idea, è utile leggere alcune decisioni delle Commissioni territoriali e ordinanze dei tribunali ordinari nei casi di impugnazione. Se ne trovano raccolte dal sito meltingpot.org. Solo per citae alcune: la Commissione ha riconosciuto lo status di rifugiata a una cittadina nigeriana di Lagos vittima di tratta a scopo di sfruttamento sessuale perché c’era un effettivo rischio di persecuzione per la donna, mentre il Tribunale di Bari ha accolto il ricorso contro il diniego della Commissione presentato da un cittadino pachistano, riconoscendolo come rifugiato perché omosessuale e cittadino di un paese dove l’omosessualità è reato. Ancora, il tribunale di Genova ha accordato la protezione sussidiaria a un cittadino del Gambia, perché il giovane è figlio di un oppositore torturato e ucciso in prigione e lui stesso era stato arrestato, riuscendo poi a fuggire dal carcere; il rientro in patria lo esporrebbe, secondo il giudice, al rischio di subire un danno grave. Un suo connazionale, un tecnico informatico arrestato per aver consultato un sito web vietato perché critico nei confronti del governo, si è visto invece riconoscere lo status di rifugiato dal Tribunale di Lecce. Infine, due cittadini del Bangladesh hanno ottenuto dal Tribunale di Trieste la protezione umanitaria: il giudice nella decisione ha tenuto conto di una serie di elementi, fra cui la situazione di «violenza indiscriminata nel paese d’origine, la giovane età e la peculiarità della vicenda».

Aumentano dinieghi e ricorsi

Ad agosto 2016 le venti Commissioni territoriali, più le sezioni, avevano respinto oltre il sessanta per cento delle richieste. I ricorsi, che danno diritto ai richiedenti asilo a restare sul territorio italiano in attesa delle sentenze, sono aumentati di altrettanto, intasando i tribunali ordinari a cui spetta l’esame. A detta del ministro della Giustizia Andrea Orlando, i ricorsi accolti sono stati pochissimi ma altre fonti, secondo le quali le Commissioni territoriali giudicano in modo troppo superficiale, parlano invece di un alto numero di ricorsi accolti dai Tribunali proprio a riprova del cattivo operato delle Commissioni.

Quel che è certo è che i tempi si allungano: ad agosto la durata media di un procedimento di primo grado era di 167 giorni ma, rispetto ai quindicimila ricorsi presentati, le sentenze erano meno di mille. E qualcuno avanza anche dubbi sull’effettiva preparazione dei giudicanti sulle realtà di provenienza dei richiedenti asilo. Vie Di Fuga, l’osservatorio permanente sui rifugiati legato all’Ufficio Pastorale Migranti di Torino, riportava nel 2105 uno studio di Ecre – European Council on Refugees and Exiles in cui si discutevano, fra l’altro, le fonti di informazione sui paesi d’origine dei richiedenti asilo utilizzate dai vari enti europei che valutano le domande. Per quanto riguarda l’Italia, i risultati lasciano perplessi: le Commissioni territoriali raramente menzionano queste fonti, mentre i tribunali – che invece le indicano più spesso – citano anche siti come Viaggiaresicuri del ministero degli Esteri, che però è pensato per gli italiani, turisti o lavoratori, che devono intraprendere un viaggio all’estero e contiene informazioni di «dubbia pertinenza con l’ambito della protezione internazionale».

Chiara Giovetti




Mussulmani seconda generazione Italia


Introduzione

Seconda generazione

Terrorismo e fondamentalismo islamico rischiano di riaccendere uno «scontro di civiltà» nei paesi europei. In questa situazione, che ruolo possono giocare le seconde generazioni?

Negli ultimi mesi terrorismo e fondamentalismo islamico sono tornati prepotentemente sulle prime pagine dei giornali, portando con sé un’isteria collettiva che richiama le paure dello «scontro di civiltà». Il terrorismo e i suoi effetti collaterali hanno, infatti, ricadute importanti sulle stesse comunità islamiche in Europa e sul faticoso processo di integrazione nelle comunità in cui si trovano. Ai musulmani che vivono nei paesi europei viene chiesto con forza di prendere posizione: condannando, dissociandosi dagli estremisti, cercando spiegazioni ai gesti folli, per «tranquillizzare» le società in cui vivono. Gioalisti e accademici si sforzano allora di inquadrare nuove figure con cui poter dialogare, da poter «integrare» o già «integrate»: il «musulmano moderato», il «musulmano europeo». Cercando di dare etichette, però, talvolta, si viene a generare ancora più confusione, rendendo sempre più difficile trovare interlocutori adeguati perché, al di là delle prese di posizione pubbliche e ufficiali, molti sono i punti critici che rimangono aperti: l’esistenza o meno di un Islam europeo o italiano, l’influenza dell’Islam politico, il rapporto tra sfera politica e sfera religiosa, il ruolo della secolarizzazione.

A questi elementi va aggiunta la crescita di una nuova generazione di musulmani di origine straniera in Italia che, nell’ultimo decennio, ha raggiunto l’età adulta, e il confronto (talvolta lo scontro) tra padri e figli sulla diversa visione della religione e del ruolo di questa nella società d’adozione, sulle nuove forme di riappropriazione di rituali, tradizioni e usanze, sulla rivisitazione e rinegoziazione di pratiche e credenze, che riflette una crescente autonomia soggettiva dei più giovani dalla cultura ereditata. La partecipazione a un contesto democratico, l’uso di una lingua differente da quella della propria comunità d’origine, l’immersione totale in luoghi di socializzazione italiana condizionano, infatti, le scelte dei giovani musulmani, contribuendo significativamente a una messa in discussione e, spesso, a una reinterpretazione critica dell’appartenenza religiosa. Come ha scritto la ricercatrice Anna Granata, i giovani spesso scelgono «una loro via, cercando compromessi e nuove sintesi, ponendosi domande sulle tradizioni che hanno ereditato, vivendo la fede in un modo personale e autentico e non sull’onda di un’adesione acritica».

Si riscontra, insomma, un progressivo distacco da un Islam «etnico» e l’affermazione di una relazione personale con la dimensione religiosa. I giovani musulmani non vedono più l’Islam come una mera riproduzione di pratiche religiose del paese di origine dei genitori in un nuovo contesto. L’appartenenza religiosa delle seconde generazioni si configura piuttosto come uno stile di vita legato a una scelta: scelta che aiuta a comprendere sé stessi e sentirsi parte attiva della società.

Viviana Premazzi

SAYMA ILYAS, 29 ANNI, PAKISTAN
SAYMA ILYAS, 29 ANNI, PAKISTAN

Musulmani d’Italia

In Italia, l’appartenenza religiosa, in quanto dato sensibile, non viene rilevata dalle analisi Istat. Per questo le stime, foite dai diversi enti e istituti di ricerca, possono variare significativamente: il Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni) nel 2012 parlava di 115mila musulmani italiani, tra immigrati e convertiti, Camillo Regalia di Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità) alla conferenza Metropolis del 2014 li stimava in 258mila. Più alti sono invece i numeri foiti dal Pew Forum on Religion and Public Life: nel 2010, secondo l’istituto, i musulmani in Italia erano già 1.583.000, dato che si avvicina a quello dichiarato dal presidente dell’Ucoii (Unione delle comunità islamiche italiane) 1 milione e 700mila, e stimato nel Dossier Immigrazione 2015 curato da Idos (Centro studi e ricerche): più di 1 milione e 600mila. Tra i musulmani, oltre agli immigrati di prima generazione, troviamo ora anche una consistente presenza di «musulmani di seconda generazione», ossia giovani di fede musulmana e di origine immigrata, ma nati in Italia. (Vi.P.)

 

REGGIO EMILIA. MANIFESTAZIONE DI SOLIDARIETA' CON LA FRANCIA E CONTRO IL TERRORISMO, JE SUIS CHARLIE. NELLA FOTO I RAPPRESENTANTI DELLA COMUNITA' MUSULMANA DI REGGIO
REGGIO EMILIA. MANIFESTAZIONE DI SOLIDARIETA’ CON LA FRANCIA E CONTRO IL TERRORISMO, JE SUIS CHARLIE. NELLA FOTO I RAPPRESENTANTI DELLA COMUNITA’ MUSULMANA DI REGGIO


L’analisi

Stessa fede, modalità diverse

La prima generazione di immigrati musulmani ha visto l’Islam come un elemento di
riconoscimento e rafforzamento identitario e come un antidoto alla solitudine e all’isolamento. La seconda generazione (ovvero i figli) non rifiuta la religione, ma ha avviato un (lento) processo di revisione critica e di adattamento al contesto di vita del paese d’adozione. Nel contempo, l’affermazione delle nuove tecnologie ha anche facilitato la diffusione di visioni radicali.

Ragionare di religione in emigrazione spesso significa tracciare una linea di confine netta fra la religiosità della prima generazione e quella della seconda, ritenuta spesso più secolarizzata. Tuttavia, risultati di indagini empiriche recenti come quella realizzata da Abis Analisi e Strategia nel 2011, G2: una generazione orgogliosa1, hanno mostrato, invece, che la religione può giocare un ruolo significativo anche nelle vite dei giovani di seconda generazione, contrariamente a quanto l’esperienza degli immigrati europei dei secoli scorsi aveva evidenziato2.

L’esperienza migratoria, infatti, è certamente esposta a pressioni assimilazioniste, ma, per contro, è anche un’esperienza in cui, in presenza di un grado sufficiente di tolleranza e di possibilità d’espressione, i migranti tendono a riscoprire e riproporre le loro tradizioni e identità religiose3. Questo è particolarmente vero quando entrano in campo i figli e quindi la trasmissione dell’identità culturale.

Spesso per la prima generazione il fatto di trovarsi in una realtà nuova, senza riferimenti linguistico-culturali familiari, ha favorito il ricorso alla religione come elemento di riconoscimento e rafforzamento identitario, ma anche come antidoto alla solitudine e all’isolamento. Questo soprattutto perché la frequentazione delle moschee e dei luoghi di culto permetteva l’incontro con connazionali con cui condividere esperienze e bisogni. È però con il passaggio da una migrazione temporanea (o percepita come tale) a una di radicamento e stabilizzazione che si sono concretizzate nuove forme associative per la trasmissione della propria religione ai figli e nuove richieste nei confronti della società italiana, ad esempio riferite alla libertà di culto.

La pratica religiosa in un nuovo contesto

La socializzazione dei giovani in Italia dà vita a percorsi autonomi di relazione con il sacro: nascono nuove riflessioni sulla propria identità personale e sull’appartenenza religiosa personale e collettiva. La fede non viene abbandonata, ma rivista e adattata al contesto di vita quotidiano, traducendosi in un pluralismo valoriale che rivendica un proprio riconoscimento4. I giovani infatti spesso scelgono «una loro via, cercando compromessi e nuove sintesi, ponendosi domande sulle tradizioni che hanno ereditato, vivendo la fede in un modo personale e autentico e non sull’onda di un’adesione acritica»5. Studiando l’idea che i figli hanno del contesto religioso familiare, si riscontra l’avvio di un processo di revisione e reinvenzione delle pratiche religiose. Se per le prime generazioni vivere la propria fede in emigrazione significa spesso mantenere anche le tradizioni religiose-culturali del paese di origine, per i figli non è più così. Le strategie di adattamento sono molteplici e in alcuni casi si riscontra un certo interesse per l’approfondimento dei contenuti fondamentali della propria fede, per reagire a un contesto di vita in cui coesistono secolarizzazione e pluralismo religioso, fenomeni che mettono in discussione valori e principi tradizionali6.

Come evidenzia la professoressa Jocelyne Cesari (University of Birmingham) a proposito dei musulmani in Francia, anche la secolarizzazione in atto nel paese ha influenzato i giovani musulmani spingendoli, in molti casi, a individualizzare e privatizzare la loro religione. Questi processi, secondo Oliver Roy (Istituto universitario europeo), mettono anche in discussione l’idea stessa di una comunità musulmana «unica» in Europa: «Non esiste un Islam occidentale, esistono musulmani occidentali». L’individualizzazione può significare maggiore libertà di adattare alcune regole a determinati contesti o di sviluppare forme inedite di mescolanze e sincretismo, ma può anche portare a orientamenti fondamentalisti e radicali, tendenza ulteriormente complicate dalla diffusione delle nuove tecnologie che ha aggiunto nuove opportunità ma, parallelamente, nuovi rischi. L’uso di internet e dei canali satellitari può infatti portare allo sviluppo di interpretazioni «bottom up» dell’Islam (interpretazioni fai da te della religione), un Islam «cut and paste» (un Islam taglia e incolla che ognuno si costruisce prendendo quello che più gli piace o gli fa comodo), eclettico, dal quale le persone possono prendere ispirazione a seconda delle proprie preferenze. L’incontro online con particolari messaggi o predicatori può anche legare i giovani nati in Italia a pratiche religiose lontane dalle loro esperienze familiari e favorire la diffusione di visioni radicali e inconciliabili con il contesto di vita, producendo situazioni d’isolamento e straniamento che portano a rifugiarsi sempre più in ambienti «protetti», nella rete o nella vita reale.

Mirandola (Mo). Ziamri Imane una ragazza di famiglia di origine magrebina ha aderito al bando del Servizio Civile Straordinario nel periodo successivo al terremoto che ha colpito l'Emilia prestando la sua opera presso un Centro Diuo per anziani
Mirandola (Mo). Ziamri Imane una ragazza di famiglia di origine magrebina ha aderito al bando del Servizio Civile Straordinario nel periodo successivo al terremoto che ha colpito l’Emilia prestando la sua opera presso un Centro Diuo per anziani

Oltre le moschee e i centri islamici

Il crescente individualismo dei giovani musulmani con riferimento alla fede islamica può essere collegato alla perdita d’autorità delle organizzazioni religiose, che non sono più in grado di trasmettere i loro valori e di rispondere alle domande e ai bisogni delle nuove generazioni. Per gli adulti immigrati e quindi per le istituzioni da loro create (moschee e centri islamici) è infatti difficile comprendere fino in fondo il contesto in cui i giovani crescono e socializzano. Alle difficoltà e alle paure dei genitori che i figli seguano l’esempio dei coetanei italiani e quindi perdano i propri valori tradizionali, fa da contraltare, però, la cosiddetta «forza della numerosità», che sta diventando un aspetto importante nel rapporto fra giovani e religioni. Per i figli dell’immigrazione, infatti, la sensazione di essere «come un pesce fuor d’acqua» si manifesta quando essi assumono comportamenti che li distinguono dalla maggioranza dei coetanei. Tuttavia, l’aumento della visibilità delle famiglie musulmane, del numero degli studenti che a scuola si dichiarano musulmani, delle ragazze che indossano il velo e di un protagonismo associativo legato alla religione può diventare un terreno favorevole all’emersione di identità religiose latenti, inibite dal timore della discriminazione. La religione e le associazioni religiose create dalle seconde generazioni, in questi casi, sembrano soddisfare il desiderio di trovare un punto di riferimento morale e il proprio posto nel mondo, evidenziando la propria originalità, all’interno di una precisa appartenenza. L’Islam praticato insieme ai propri coetanei offre stabilità, un quadro in cui si può vivere da musulmani nella società italiana, continuando però a interrogarsi sia rispetto all’identità religiosa dei propri genitori in Italia, sia rispetto all’identità religiosa percepita nei paesi d’origine, in cui essere musulmano va per così dire da sé e determinati comportamenti non richiedono continue giustificazioni, come invece avviene in Italia.

Le associazioni musulmane dal «chi siamo» al «cosa possiamo fare»

La nascita di associazioni musulmane di seconda generazione, come ad esempio quella dei «Giovani Musulmani d’Italia», ha attirato l’attenzione degli studiosi sociali per la sintesi che tali realtà sembrerebbero esprimere tra religiosità dei padri e religiosità dei figli e per la capacità di porsi come musulmani in Italia, protagonisti nella costruzione della società italiana. Le associazioni sembrano infatti esprimere la richiesta di uguaglianza di questi nuovi italiani che non si limitano a chiedere di essere riconosciuti come cittadini liberi di professare le proprie convinzioni religiose, ma domandano anche di partecipare attivamente alla società, al pari dei loro coetanei non musulmani. Oltre quindi a offrire formazione e aggregazione per i propri membri, le associazioni superano l’atteggiamento rivendicativo di diritti tipico delle prime generazioni e, forse considerando ormai acquisito il loro riconoscimento in quanto associazioni di italiani musulmani, guardano al di là dei confini della propria religione e della propria cultura di origine per proporre e realizzare insieme ad altre associazioni e singoli italiani progetti e attività in ambiti diversi. Ci troviamo quindi in presenza di una nuova generazione che non si accontenta più solo di esserci, ma che vuole partecipare attivamente alla costruzione di significati, che cerca quotidianamente di conquistare i propri spazi di azione e rivendicazione, sia rispetto alle prime generazioni sia rispetto all’intera società italiana. Superato il passo del «chi siamo», ora le associazioni sembrano cercare di rispondere alla domanda del «che cosa possiamo fare» in relazione al contesto sociale in cui sono inserite. Per le seconde generazioni, il riferimento all’immigrazione e alla diversità deve essere abbandonato: la relazione è sullo stesso piano, tra (quasi) cittadini7, ovvero tra residenti che si impegnano per il bene comune della comunità e della città in cui vivono.

Il cambiamento è significativo: da immigrati considerati destinatari di interventi, i giovani musulmani vogliono diventare coprotagonisti nei processi di costruzione delle politiche pubbliche. La seconda generazione perciò non confina più l’Islam a una questione personale, «da immigrati», ma cerca di far entrare il discorso religioso nel più ampio dibattito pubblico sul pluralismo, liberandolo dai suoi legami con l’immigrazione, di cui spesso i nuovi attori non hanno alcuna esperienza.

L’obiettivo di partecipazione si è tradotto, nei fatti, in un’idea di cittadinanza «praticata». La seconda generazione aspira a essere riconosciuta come partner, ad avere un ruolo attivo negli eventi culturali delle città, a intervenire laddove possibile nei processi decisionali sostenendo l’idea che l’Islam è compatibile con forme di cittadinanza attiva.

Reggiolo (Re). Aulakh Sahar Shahzadi, di famiglia di origine pakistana ha aderito al bando del Servizio Civile Straordinario nel periodo successivo al terremoto che ha colpito l'Emilia prestando la sua opera presso un Centro Diuo per anziani
Reggiolo (Re). Aulakh Sahar Shahzadi, di famiglia di origine pakistana ha aderito al bando del Servizio Civile Straordinario nel periodo successivo al terremoto che ha colpito l’Emilia prestando la sua opera presso un Centro Diuo per anziani

Le associazioni: i punti critici

Le aspirazioni però spesso si scontrano con la realtà, che vede le associazioni di seconda generazione, pur apprezzate da gran parte dei gruppi politici locali, non ancora completamente in grado di rappresentare l’Islam davanti alle istituzioni, anche per tensioni intee alla comunità islamica soprattutto riguardo ai processi di selezione delle leadership.

Un altro aspetto importante da mettere in luce è la relazione di queste associazioni con i propri membri. Essa infatti pone anche dei rischi, come ad esempio, quello di porsi come l’«unica vera via», quasi che l’appartenenza associativa risulti più importante dell’appartenenza religiosa, al punto che solo l’associazione possa pretendere di porsi come rappresentante dell’Islam. Il rischio è anche che, per i membri, le associazioni possano trasformarsi in un ghetto che chiede alla società italiana spazi di partecipazione e di riconoscimento, ma esclude anime e visioni diverse al proprio interno. Se le associazioni possono infatti configurarsi come un ponte tra la cultura islamica e occidentale, come pure tra i padri e i figli della nuova presenza musulmana in Italia, il rischio è che si trasformino in realtà che aderiscono incondizionatamente al pensiero dei padri o che cercano di riproporre modi di vita e pratiche proprie dei contesti di origine. Si tratta di un rischio concreto soprattutto in relazione alle modalità con cui si strutturerà nei prossimi anni l’egemonia religiosa e culturale nel confronto tra le generazioni. La sfida è rappresentata dalle relazioni che si sviluppano con la generazione dei genitori e dal modo in cui interagiscono con le esigenze della fedeltà e il conformismo. Questioni come l’autorità e la rappresentanza hanno, infatti, strettamente a che vedere con le dinamiche intergenerazionali, anche in relazione al modo in cui le prime generazioni considereranno l’Islam dei figli: se confinato in associazioni giovanili di «eternamente giovani», se cornoptato per influenzae gli orientamenti o se riconosciuto come una «terza via» in grado di esprimere autorità e rappresentanza (viste le competenze relative al contesto italiano e a quello di origine). La sfida ancora tutta da giocare riguarderà proprio la capacità dell’associazionismo islamico di sviluppare processi trasparenti di formazione delle leadership, in grado di garantire indipendenza e pluralismo. Al momento la creazione di una propria leadership è una delle questioni più importanti con cui si sta confrontando l’Islam in Italia. Il processo di selezione, in particolare rispetto ad alcune realtà associative giovanili, rischia di essere connotato da derive nepotiste, soprattutto per quanto riguarda la formazione teologica e culturale dei quadri, restando ancora troppo orientata verso (e influenzata da) i paesi di origine.

Viviana Premazzi

Note

(1) Abis Analisi e Strategia, G2: una generazione orgogliosa, Rapporto di ricerca, Milano 2011.
(2) Joceyline Cesari, Sean McLoughlin, European Muslims and the Secular State, Ashgate, London 2005.
(3) Viviana Premazzi, Religioni in migrazione. Intervista a Maurizio Ambrosini (Milano, 27 novembre 2014), in Giovanni?Salmeri (a cura di), Troppa religione o troppo poca. Cristiani e musulmani alla prova della secolarizzazione, Marsilio, Padova 2016, pp. 75-77.
(4) Joceyline Cesari, Andrea Pacini, Giovani Musulmani in Europa. Tipologie di appartenenza religiosa e dinamiche socio-culturali, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2005.
(5) Anna Granata, Di padre in figlio, di figlio in padre. Il ruolo innovativo delle seconde generazioni nelle comunità religiose di minoranza, «Mondi migranti» 3 (2010), pp. 86-100.
(6) Cfr. Luisa Deponti, Migrazione e religione: la prospettiva dei giovani della seconda generazione, «Corriere degli Italiani», 3 ottobre 2012.
(7) Diciamo «quasi» perché molti musulmani, pur nati in Italia, non hanno ancora la cittadinanza, dato che la legge attuale non è basata sullo «ius soli».

Gavello (Mo). Un bambino di origine magrebina giocano a pallone presso la Casa Famiglia gestita dall' associazione Papa Giovanni XXIII
Gavello (Mo). Un bambino di origine magrebina giocano a pallone presso la Casa Famiglia gestita dall’ associazione Papa Giovanni XXIII


L’esperienza

Oratori, un passo avanti

Nato come luogo di rafforzamento della religione cattolica tra i più giovani, da qualche anno l’oratorio ha attenuato questa caratteristica originaria. Oggi, soprattutto nelle regioni del Centro Nord, l’istituzione accoglie molti ragazzi stranieri – i numeri parlano del 20-25% -, indipendentemente dal loro credo religioso. Per gli stranieri la motivazione è quasi sempre strumentale e la grande maggioranza dei genitori dei ragazzi non partecipano alle attività. Tuttavia, il ruolo che giocano gli oratori nel superamento delle differenze è rilevante.

Nel contesto italiano, in particolare nel Centro Nord, l’oratorio è rimasto nel tempo un luogo importante di socializzazione e punto di riferimento sotto diversi aspetti per molti bambini e adolescenti, oltre che per le loro famiglie.

Anche se la dimensione religiosa è la base e il cardine di tutte le attività che l’oratorio propone, non sembra rappresentare un elemento discriminante per chi non professa la religione cristiano cattolica. Oggi si assiste infatti a una diminuzione della partecipazione da parte dei giovani di origine italiana e un aumento nell’uso di strutture e servizi offerti dall’oratorio da parte dei giovani di origine straniera e delle loro famiglie, anche se, come vedremo più avanti, questo uso è nella maggior parte dei casi strumentale.

L’oratorio nasce come una struttura aperta a tutti e pronta ad accogliere anche coloro che esprimono bisogni peculiari: esso è, per sua natura, in dialogo con il contesto locale nel quale è inserito ed è attivo protagonista nei cambiamenti che coinvolgono la comunità alla quale appartiene e coinvolto nelle problematiche che emergono1.

Cosa dicono le ricerche

Nel 2015, secondo la ricerca Ipsos L’oratorio oggi, commissionata dalla Fom (Federazione oratori milanesi) e da Odielle (Oratori diocesi lombarde), gli oratori in Lombardia erano 2.307. Nel 15% di questi si svolgono attività specifiche per gli stranieri. In media, infatti, almeno un bambino su dieci che frequenta l’oratorio è straniero e di questi un terzo è musulmano. Anche in Piemonte, negli oratori salesiani, già nel 2008, il 21% dei ragazzi che li frequentavano erano stranieri2 e provenivano soprattutto da Maghreb, Perù, Ecuador e Brasile. In alcuni oratori delle diocesi lombarde – come, ad esempio, Cremona, Lodi e Milano – la presenza di minori stranieri raggiunge percentuali vicine al 40- 50% di tutti i frequentanti3. Nei diversi oratori si trovano racconti e pratiche diverse dovute anche alle diverse caratteristiche delle zone e della tipologia di immigrazione.

Secondo la ricerca Educare generando futuro. I minori di origine straniera in oratorio: dall’integrazione alla condivisione a cura di Ismu, Fom, Caritas Ambrosiana e Ufficio Pastorale Migranti Diocesi di Milano, l’oratorio viene scoperto per la prima volta dai ragazzi stranieri soprattutto grazie al doposcuola4 o ai corsi di lingua italiana, organizzati in genere per gli adulti, i genitori, che spesso devono portare con sé i figli piccoli, o grazie ad amici e compagni di scuola che invitano a giocare negli spazi all’aperto o nelle squadre sportive. Nel primo caso sono per lo più gli insegnanti della scuola a parlare ai ragazzi della possibilità di frequentare un doposcuola e dell’aiuto che potrebbe dare loro sia per l’apprendimento della lingua sia per un sostegno scolastico più generale.

Più rare sono le situazioni per cui la prima conoscenza avviene grazie all’iscrizione, da parte della famiglia, all’oratorio estivo, oppure attraverso la partecipazione alla messa e al catechismo5.

Secondo la ricerca condotta dalla Caritas Ambrosiana6 sui doposcuola nella diocesi di Milano, più del 40% dei ragazzi e delle ragazze che li frequentano è di origine immigrata con punte del 90% nei quartieri popolari di Milano. Questo dato supera il 50% nella città di Milano e nella zona di Lecco mentre nelle altre aree della diocesi tale valore si attesta intorno al 30- 35%. Nella sola diocesi ambrosiana sono presenti quasi 200 doposcuola, nella maggior parte di essi sono coinvolti prevalentemente volontari: universitari, insegnanti e pensionati.

In fila per l’oratorio estivo

L’oratorio estivo è uno dei momenti più importanti nella vita della struttura ed è, sempre più, un’occasione fondamentale di condivisione di esperienza tra italiani e stranieri e di educazione ai valori che sono comuni a tutte le nazionalità e le religioni: l’amicizia, il rispetto dell’altro, l’onestà7.

L’indagine Educare generando futuro mette in luce come l’oratorio estivo risulti essere tra le attività maggiormente frequentate dai ragazzi di origine straniera: la percentuale di minori stranieri si attesta, infatti, al 27% circa, sia per i maschi sia per le femmine. Sempre secondo i dati della ricerca, sul totale dei ragazzi stranieri presenti negli oratori estivi, la percentuale di cattolici si attesta al 60,2%; i musulmani tra i minori immigrati sono invece il 26,9% e coloro che appartengono ad altre confessioni cristiane rappresentano circa il 10%.

È possibile anche che alcuni ragazzi di origine straniera, i più grandi, dopo i primi anni da «utenti/usufruitori di servizi», prendano degli impegni e delle responsabilità in oratorio, come il compito di allenare una squadra sportiva, di fare l’animatore all’oratorio estivo o, più raramente, di partecipare agli incontri di catechismo o di confronto e riflessione settimanale del gruppo adolescenti. In quest’ultimo caso, può avvenire che i momenti di preghiera non siano vincolanti per loro (possano cioè non pregare) qualora siano di religione non cattolica. Come spiega il sociologo Maurizio Ambrosini (Università di Milano), infatti, «l’oratorio non viene percepito come un luogo di indottrinamento cattolico. Alcuni lo frequentano solo per le attività sportive, per altri invece è anche un’occasione di impegno»8. È quella che la professoressa Paola Bonizzoni (Università Milano Bicocca) chiama «inclusione non partecipante»: «I ragazzi hanno la possibilità di fare comunque un’esperienza di spiritualità e di riflessione che trascende (in quanto universale e connaturata alla natura umana) la specificità (e la padronanza) del linguaggio cattolico»9.

Don Andrea Plumari, della parrocchia di Precotto, indica (un suo commento anche a pagina 44, ndr) diversi atteggiamenti adottati da chi non è di religione cattolica rispetto alla preghiera: dalla partecipando alla preghiera, senza però pregare, per sentirsi comunque parte del gruppo a chi preferisce invece stae totalmente al di fuori per evitare problemi, probabilmente anche con la famiglia.

In poco più della metà degli oratori che compongono il campione della ricerca Educare generando futuro ci sono animatori di origine immigrata (52%) e il 44,4% delle parrocchie ha responsabili stranieri negli ambiti relativi alla pulizia e manutenzione, anche se in questo caso si tratta di adulti. Più scarsa è invece la partecipazione nei consigli pastorali di persone immigrate o tra i catechisti: 23,5% e 19%. Anche la quota di educatori (13,4%) e di allenatori sportivi (12,9%) risulta essere relativamente modesta.

L’oratorio e le famiglie: in cerca di cura ed educazione

Le famiglie intervistate, italiane e straniere, anche di religione non cattolica, considerano l’oratorio un luogo di educazione ed accudimento, un posto sicuro, controllato dagli adulti che lo gestiscono con un’attenzione educativa ai ragazzi, in cui viene chiesto il rispetto delle regole e vengono foiti stimoli positivi e non credono che la connotazione religiosa sia un problema per il proprio figlio. Esistono comunque casi, anche se più rari, di genitori che temono un luogo connotato dal punto di vista religioso. A Torino, ad esempio, un genitore, marocchino musulmano, voleva vietare al figlio di giocare nella squadra di calcio dell’oratorio perché temeva lo volessero convertire10.

L’approccio dominante nei confronti delle attività e dei gruppi presenti in parrocchia e in oratorio è, però, di carattere strumentale: per tutti – italiani e non, cattolici e musulmani e di altri credi – l’oratorio sopperisce al bisogno di cura e di educazione.

Sarebbe interessante capire se, nel caso ci fossero strutture simili, organizzate dalle proprie comunità religiose, la partecipazione si orienterebbe verso queste piuttosto che verso gli oratori che hanno il valore aggiunto di offrire ai ragazzi la possibilità di stare anche con ragazzi italiani. Il caso della comunità filippina, da questo punto di vista, è emblematico: i filippini, infatti, tendono a fare gruppo a sé e si concentrano soprattutto nelle cappellanie dove celebrano la messa nella propria lingua.

CAMPOSANTO (MO). ALCUNE ADOLESCENTI DI FAMIGLIE DI ORIGINE TURCA E MAGREBINA FREQUENTANO IL DOPOSCUOLA ORGANIZZATO DALL' ARCI IN COLLABORAZIONE CON IL COMUNE
CAMPOSANTO (MO). ALCUNE ADOLESCENTI DI FAMIGLIE DI ORIGINE TURCA E MAGREBINA FREQUENTANO IL DOPOSCUOLA ORGANIZZATO DALL’ ARCI IN COLLABORAZIONE CON IL COMUNE

Genitori stranieri: un coinvolgimento ancora limitato

Nonostante all’oratorio ci siano possibilità di incontro non solo tra i ragazzi, ma anche tra le famiglie, i genitori dei ragazzi stranieri sembrano relazionarsi maggiormente con i connazionali o con altri stranieri e meno con i genitori italiani, partecipando poco alle occasioni di festa e agli incontri dedicati ai genitori, mentre sembra cerchino occasioni di incontro e di confronto con chi si occupa del doposcuola e chi ha ruoli di responsabilità all’interno dell’oratorio11.

Le famiglie hanno un ruolo attivo nella fase del «contatto» poiché sono loro che devono iscrivere il figlio al doposcuola o all’oratorio estivo, ma sono meno coinvolti nelle fasi successive: i livelli di partecipazione, infatti, sono molto bassi. Sempre secondo la ricerca Educare generando futuro, nessuna attività/iniziativa vede il coinvolgimento di più del 7% di famiglie immigrate. Mentre, laddove presenti, sono impegnate in attività caritative/missionarie (6,3%), nel gruppo famiglie (6,2%) e nelle attività ricreative/culturali (5,2%). Ugualmente basso è il coinvolgimento in ruoli di responsabilità, come già segnalato in precedenza nella partecipazione ai consigli pastorali o tra i catechisti.

L’oratorio è un luogo dove si costruiscono e si sviluppano importanti relazioni tra pari e con adulti significativi: sacerdoti, suore, educatori ed educatrici e in cui la provenienza e l’origine dei genitori spesso passano in secondo piano rispetto alle dinamiche e ai processi classici di socializzazione dei ragazzi e degli adolescenti. I ragazzi vivono, infatti, nelle relazioni tra pari una dimensione di normalità e le differenze – che si vedono di più nella generazione dei genitori – sono spesso superate da un radicato senso di appartenenza al territorio in cui si abita e si vive e ai luoghi che si frequentano, come l’oratorio, appunto, più che alle proprie origini.

Per il dialogo serve la conoscenza

Dal punto di vista dell’offerta e della proposta valoriale ed educativa dell’oratorio gli intervistati per la ricerca Educare generando futuro concordano su due questioni: la presenza di ragazzi stranieri negli oratori e nelle parrocchie stimola l’innovazione nell’organizzazione delle attività e richiede, in particolare con riferimento alla presenza di minori stranieri di fede non cattolica, che vengano organizzate occasioni di mutua conoscenza e, allo stesso tempo, fa sorgere un bisogno di formazione specifica per gli educatori, i catechisti e gli animatori.

Quello della formazione e delle occasioni di incontro, non solo per catechisti ed educatori, ma anche per i ragazzi e le loro famiglie, è un tema ricorrente rispetto alle questioni poste dall’incontro e dal dialogo interculturale ed interreligioso: prima di dialogare è necessario conoscersi.

Sempre più urgente appare il bisogno di formazione e accompagnamento attraverso l’organizzazione di incontri, anche su temi molto specifici come quello della legislazione e regolazione dell’immigrazione e, soprattutto, dal punto di vista religioso, sull’Islam e le sue diverse correnti.

Già il cardinal Martini nel documento Noi e l’Islam del 1990 metteva in guardia contro il conflitto e il relativismo disinformato. Il fenomeno, infatti, va conosciuto, precisava, per evitare «uno zelo disinformato che può esprimersi sia attraverso atteggiamenti di chiusura pregiudiziale sia – più sovente – attraverso atteggiamenti superficiali che, in nome di un generico ottimismo, non colgono la complessità delle questioni e i problemi. La posizione corretta è un serio sforzo di conoscenza, un supplemento di cultura»12.

Come sottolinea don Andrea Pacini, rispetto all’Islam, l’obiettivo di questi percorsi di formazione dovrebbe essere quello di «fornire una conoscenza in grado di impedire il cristallizzarsi di pregiudizi e atteggiamenti conflittuali o irenici (in entrambi i casi espressione di zelo disinformato) sia per dare quel minimo di conoscenza che permetta di entrare in rapporto con l’altro in modo efficace (conoscendo l’essenziale che riguarda la religione e la cultura altrui e le questioni problematiche in rapporto alla propria cultura e fede religiosa)»13.

Anche il documento Musulmani all’oratorio dell’Ufficio Cei per l’Ecumenismo e il dialogo interreligioso considera l’opportunità di invitare imam locali per fornire agli educatori strumenti utili a una migliore conoscenza e comprensione dei ragazzi: «Il dialogo interreligioso e interculturale, infatti, esigono la conoscenza della propria e dell’altrui religione»14.

Aumentare la formazione e la sensibilità

È importante, però, proporre anche momenti di formazione al cristianesimo per le famiglie straniere non con l’obiettivo di convertirle, ovviamente, ma per far loro conoscere i valori che stanno alla base del «servizio di cui usufruiscono». In alcune realtà questo avviene già, come ha raccontato all’Inteational Joualism Festival di Perugia 2015 mons. Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo: «Molte famiglie di immigrati, ad esempio, si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica per una finalità di tipo culturale, per conoscere la cultura del paese in cui si trovano»15.

Nonostante venga posto il problema della formazione e della conoscenza reciproca, quello che si riscontra nei fatti è, però, una bassa partecipazione ai momenti di formazione organizzati. Dall’indagine Educare generando futuro emerge, infatti, che la maggior parte dei catechisti, degli animatori e degli educatori non partecipano ad attività di formazione sul tema dell’immigrazione e della multiculturalità. Questo sembra causato, per lo meno nelle risposte raccolte dall’indagine, principalmente dalla scarsa sensibilità sul tema che prevale negli oratori e nelle parrocchie  e dalla mancanza di competenze necessarie per l’organizzazione di queste attività.

Viviana Premazzi

Note

(1)  Ismu, Fom, Caritas ambrosiana e Ufficio pastorale migranti Diocesi di Milano, Educare generando futuro. I minori di origine straniera in oratorio: dall’integrazione alla condivisione, Milano 2014.
2)  Rosita Deluigi, La progettualità ricercata. Minori immigrati e intrecci educativi nel territorio, Edizioni Università di Macerata 2008.
(3)  Ismu, Progetto Oratorinsieme, Milano 2014.
(4)  Il doposcuola è un servizio di accompagnamento educativo, con particolare attenzione al sostegno allo studio. In alcune realtà i ragazzi stranieri costituiscono la maggior parte degli iscritti.
(5)  Anche perché per lo più i ragazzi stranieri non sono di religione cattolica, bensì musulmana, oppure cristiano ortodossa o cristiano copta.
(6)  Caritas Ambrosiana, I doposcuola parrocchiali nella diocesi di Milano, Milano 2010.
(7)  Laura Badaracchi e Claudio Urbano, Se in oratorio arriva lo straniero, «Popoli» aprile 2011.
(8)  Ibidem.
(9)  Paola Bonizzoni, Incroci. Traiettorie di socialità di adolescenti italiani e stranieri in un oratorio milanese in Ambrosini M., Bonizzoni P., Caneva E., Incontrarsi e riconoscersi. Socialità, identificazione, integrazione sociale tra i giovani di origine immigrata, Fondazione Ismu, Milano, p. 120.
(10)  Nell’ottobre 2015, sempre a Torino, un’altra polemica ha riguardato il ritiro da parte di alcune famiglie musulmane dei propri figli da un corso di musica organizzato dalla scuola. Di fronte a questo genere di incomprensioni che possono anche generare scontri è importante offrire occasioni di confronto aperto, coinvolgendo anche i responsabili religiosi di entrambe le comunità e cercando di trovare un accordo nel rispetto delle diverse sensibilità, quella del bambino, quella del genitore e quella dello spazio-oratorio o della scuola.
(11)  Cfr. Educare generando futuro, opera citata.
(12)  Andrea Pacini, Il dialogo interreligioso e le relazioni islamo-cristiane in Italia, p. 11.
(13)  Ibi, 12.
(14)  Cei – Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, scheda 3a e 3a bis, I musulmani in oratorio, p. 2.
(15)  Laura Lana, Come costruire il dialogo interreligioso. Cristiani, ebrei e musulmani a confronto, in www.perugiaonline.it, 15/04/2015.

REGGIO EMILIA. MANIFESTASZIONE DELLA COMUNITA' MUSULMANA
REGGIO EMILIA. MANIFESTASZIONE DELLA COMUNITA’ MUSULMANA

Il commento

Identità cercasi

Credo sia ormai chiaro a tutti che ci troviamo in un’epoca in cui la Chiesa in Europa si pone come una realtà tra le tante, non più come la realtà predominante tra tante piccole realtà religiose (e non): basta osservare l’attuale composizione delle assemblee nelle nostre parrocchie. È vero che vi è ancora un significativo senso di appartenenza alla Chiesa, almeno in Italia, ma è altrettanto vero che è debole la coscienza di cosa sia realmente la Chiesa; per esempio molti chiedono ancora i sacramenti per i propri figli – e qui si esprime un certo senso di appartenenza – ma questi stessi non hanno più chiaro cosa sia la Chiesa. Ci si potrebbe chiedere: ma è necessario essere coscientemente cristiani per essere in grado di incontrare il diverso? A questa domanda rispondo con un’altra domanda: ma quale altra personalità è riuscita a produrre la cultura non cristiana? Mi pare che l’uomo europeo da una parte rifiuti di riconoscersi cristiano o ne ha una coscienza debole, dall’altra non ha più un volto: non sa più chi è. Questa non coscienza di ciò che si è genera confusione nel rapporto con l’altro: più non sai chi sei, più l’altro ti fa paura.

Solo dove ci sono luoghi, anche con numeri esigui, dove si ha chiara quale sia la ragion d’essere della Chiesa e quindi della propria personale vocazione – quindi i ragazzi scoprono che la vita ha uno scopo – , si sta ricominciando a costruire. Gli oratori nelle nostre città spesso sono dei luoghi dove ciò accade, nel silenzio più totale dei mass media ma tra la gratitudine delle famiglie.

Solo un’identità chiara consente di guardare all’altro non come un problema ma come un’occasione anche per approfondire la propria identità. Da quando nasciamo, anzi già dal grembo materno, noi scopriamo chi siamo in rapporto con qualcuno che è altro da noi: fin dall’inizio della vita l’altro non è un problema ma un’occasione.

Con queste premesse non può fare paura avere tra i ragazzi dell’oratorio alcuni mussulmani: loro sanno di essere accolti dalla Chiesa e nessuno, né noi né loro, deve rinunciare alla propria identità o annacquarla. È un’arricchimento reciproco che costringe ad approfondire la propria identità e fa scoprire che l’altro è una risorsa per ciascuno.

don Andrea Plumari
parrocchia San Michele Arcangelo in Precotto, oratorio San Filippo Neri, Milano

 

REGGIO EMILIA. MANIFESTAZIONE DI SOLIDARIETA' CON LA FRANCIA E CONTRO IL TERRORISMO, JE SUIS CHARLIE. NELLA FOTO ALCUNE DONNE MUSULMANE ALLA MANIFESTAZIONE
REGGIO EMILIA. MANIFESTAZIONE DI SOLIDARIETA’ CON LA FRANCIA E CONTRO IL TERRORISMO, JE SUIS CHARLIE. NELLA FOTO ALCUNE DONNE MUSULMANE ALLA MANIFESTAZIONE


Le criticità

Stato italiano e islam, dialogo complicato

In Italia non esiste un solo Islam, ma una pluralità di soggetti islamici. Anche per questo per lo stato non è facile trovare un’«intesa» come per le altre confessioni religiose. A ciò vanno aggiunte le pesanti intromissioni di alcuni paesi stranieri (Arabia Saudita e Qatar, in primis) e le ambiguità insite nelle figure degli imam. E il piano «Moschee trasparenti» trova molte resistenze.

A titolo di premessa è opportuno ricordare che, al di là di un nucleo condiviso di elementi/principi/pilastri, l’Islam, e in particolare l’Islam sunnita, non può essere considerato un insieme monolitico; profonde sono le differenze che si possono registrare all’interno di un mondo che si estende dal Marocco all’Indonesia sia sul piano interpretativo che dottrinale. Su questo, inoltre, si innestano, si mischiano, talvolta si confondono, tradizioni e pratiche culturali proprie dei diversi paesi o di alcune aree all’interno di questi stessi paesi. A questa condizione intrinseca non sfuggono le diverse comunità islamiche presenti in Europa e in Italia. Questa pluralità si esprime, dunque, in una varietà di sale di preghiera e di centri culturali islamici. Inoltre, negli ultimi anni si sono costituite diverse associazioni di seconda generazione, che cercano di ritagliarsi un ruolo attivo nella società italiana e stanno cercando di proporsi come interlocutori per le istituzioni.

Il punto di partenza dovrebbe dunque essere il seguente: non si può far riferimento a un solo Islam né ancora, almeno per il momento, a un «Islam italiano» (e neanche europeo), esiste invece una comunità islamica composta da musulmani «provenienti da altrove» (dal Marocco al Pakistan, dall’Albania all’Iran), da musulmani nati e cresciuti in Italia e da convertiti. A livello locale, in molti contesti, si sperimentano forme positive di convivenza e integrazione che sembrano, per ora, reggere alla prova dei fondamentalismi, ma molte questioni devono trovare una risposta politica forte a livello nazionale, che poi si possa concretizzare e rendere operativa a ogni livello.

Le ingerenze di Arabia Saudita e Qatar

Tra le questioni che ancora non hanno trovato una soluzione c’è, sicuramente, la mancanza di un’intesa con lo stato italiano e la questione della costruzione dei luoghi di culto.

L’Islam ad oggi, non può contare, infatti, su alcun tipo di intesa con lo stato italiano1, al contrario di altre religioni minoritarie come ebraismo o buddismo. La causa principale di tale situazione risiede nella mancanza di una leadership unitaria, riconosciuta e realmente rappresentativa delle diverse organizzazioni e orientamenti. Questa difficoltà è inoltre aggravata dalla presenza di molteplici gruppi nazionali di immigrati musulmani sul territorio italiano e dagli interessi (ingerenze) e dai conseguenti finanziamenti dei paesi di origine o dei paesi del Golfo (Arabia Saudita e Qatar in primis) a determinate organizzazioni. L’intervento dei paesi del Golfo, in particolare, ha spesso sostenuto un Islam meno spirituale e più politico, promotore di battaglie politico-religiose talvolta molto distanti dal vissuto e dalle esperienze dei musulmani in Italia. La questione dei rapporti con i paesi di origine e con i paesi del Golfo deve trovare una risposta urgente, anche rispetto a punti come la costruzione di nuove moschee e il riconoscimento o la formazione degli imam in Italia.

La questione degli imam e il piano «Moschee trasparenti»

Per quanto riguarda gli imam e la loro formazione, se è vero che molti processi di radicalizzazione sono avvenuti online o in carcere e non in moschea, e a causa dell’incontro con determinati imam e predicatori, le moschee possono comunque giocare un ruolo fondamentale nella formazione e nel contrasto alla radicalizzazione. La mancanza di un’intesa con lo stato pone, però, il rischio che, in assenza di controlli, autoproclamati imam possano improvvisare moschee/centri islamici e fare propaganda per un Islam radicale. Nell’ambito del progetto denominato «Moschee trasparenti», lo scorso 11 luglio il ministro dell’Inteo Alfano ha chiamato a raccolta gli esponenti di varie anime della comunità musulmana italiana. L’obiettivo era di discutere il rapporto «Ruolo pubblico, riconoscimento e formazione degli imam»2. Il rapporto, datato 1 aprile 2016 e redatto da 12 esperti guidati dal professor Paolo Naso (Università La Sapienza), insiste sulla necessità di avere imam formati e certificati per guidare i fedeli verso l’integrazione. La formazione non entrerà nel merito delle questioni religiose, ma sarà un percorso civico di riconoscimento delle regole dell’ordinamento italiano3. Nel documento si legge che l’obiettivo è quello di «costituire un nucleo primario di interlocutori delle istituzioni che, per competenza e autorevolezza riconosciute da parte delle loro comunità, conoscenza della realtà italiana ed esperienza nella partecipazione alla vita pubblica del territorio in cui operano, possano svolgere costruttivamente il ruolo di «mediatori» nelle relazioni tra lo stato e le varie associazioni». Gli imam che sottoscriveranno lo statuto potranno ottenere maggiore libertà di accesso a «luoghi protetti quali ospedali, cimiteri, centri di identificazione e accoglienza dei migranti, «case del silenzio» e, naturalmente, le carceri, luoghi, come già detto, dove più forte è il pericolo della radicalizzazione violenta. Un altro punto della discussione, condiviso tra i partecipanti all’incontro, ma criticato aspramente sui social network, è stato l’uso della lingua italiana nei sermoni. Le accuse, rivolte, contro il ministro e la Consulta ponevano l’attenzione sull’idea che i musulmani siano «sorvegliati sociali» e non considerati al pari dei fedeli di altre religioni. Da ultimo, contro la radicalizzazione, è fondamentale che moschee e imam siano in contatto e collaborino a livello locale sia con la polizia e i servizi di sicurezza per condividere informazioni e contrastare esiti violenti di processi di radicalizzazione, sia con le famiglie, le scuole e le altre agenzie formative presenti sul territorio per prevenirla.

modena. preghiera del venerdi nella moschea cittadina
Modena. preghiera del venerdi nella moschea cittadina

L’elenco delle «giustificazioni» e i rischi

Il rischio di giustificare l’Isis (o altri movimenti violenti) con «le guerre fatte in Medio Oriente dagli occidentali» o di identificarlo come creazione del «complotto americano-sionista» e di giustificare i foreign fighters con la discriminazione e il disagio economico e sociale di cui alcuni immigrati sono vittime può generare gravissime conseguenze. Per quanto riguarda i foreign (o domestic) fighters, infatti, non sempre i soggetti radicalizzati sono scarsamente integrati (ancora meno il discorso vale per i convertiti). Se è vero che le scelte legislative e politiche dell’Italia possono determinare dinamiche di rifiuto, di isolamento sociale, di sentimenti contrari al senso di appartenenza civile e comunitaria, soprattutto di quei (molti) musulmani di origine straniera. La radicalizzazione (e tutti gli attentatori degli ultimi mesi lo confermano) ha molteplici cause e può innestarsi su debolezze, talvolta anche personali, di individui che finiscono per abbracciare la violenza, o persino il jihadismo internazionale, perché in cerca di «significato» per la propria vita e di appartenenza a un gruppo. Rispetto a critiche e autocritiche verso «l’Occidente», poste alcune responsabilità innegabili, sarebbe però importante rendere conto della complessità e delle responsabilità dei diversi attori coinvolti in specifiche situazioni. L’autocritica generalizzata non giova e anzi non fa altro che aumentare la credibilità di chi pone come unica soluzione lo scontro «Noi-Loro» e la giustificazione di atti di violenza come vendetta o ritorsione rispetto a ingiustizie e soprusi subiti, facendoci precipitare in una spirale di violenza senza fine.

Il ruolo dei media: tra buonismo cieco e condanna aprioristica

Un ultimo punto critico riguarda il ruolo dei mass media: da un lato i mezzi più tradizionali (televisioni, giornali) spesso presentano l’Islam attraverso generalizzazioni e semplificazioni, dall’altro internet e i social network veicolano varie immagini di questa religione, ma in uno spazio assolutamente non controllato né controllabile. Ne deriva che il discorso pubblico, specie quello diffuso e alimentato dai canali mediatici, oscilla spesso tra un buonismo, cieco di fronte alle problematiche oggettive di certi fenomeni, e una condanna aprioristica e corredata di stereotipi, che può creare il terreno per le derive più intransigenti o sentimenti di rivalsa. C’è il rischio, in fondo, che vengano mostrati solo gli aspetti politicizzati o mitizzati dell’Islam, lontani dalla realtà vissuta quotidianamente dai musulmani italiani. In questo terreno possono proliferare non solo i pregiudizi, ma anche le strumentalizzazioni politiche e conseguenti scelte basate sull’emozione di tutti quei soggetti che colgono solo in modo parziale la realtà islamica. La sfida deve essere, allora, quella di decostruire i pregiudizi e di dare conto della complessità dell’Islam.

Viviana Premazzi

Note

(1)  Sulle intese tra stato italiano e diverse religioni si vedano le puntate della rubrica «Libertà religiosa» in MC n. 1,3,4,5 del 2015 e n. 6 del 2016. Le puntate sono reperibili e/o scaricabili (in formato Pdf) dal sito della rivista.
(2)  Il documento è scaricabile dal web. Un secondo rapporto su moschee e luoghi di culto è di recente uscita.
(3)  Un’iniziativa simile sul tema è stato il corso per leader religiosi organizzato dal 2010 al 2012 dal Fidr («Forum internazionale democrazia e religioni», www.fidr.it) al quale hanno partecipato diversi rappresentanti di moschee e associazioni musulmane da tutta Italia. L’iniziativa era volta a offrire ai leader religiosi informazioni e approfondimenti necessari allo svolgimento di attività culturali e cultuali sul territorio italiano. Benché patrocinata dal ministero dell’Inteo e da quello per la Cooperazione internazionale e l’Integrazione, l’esperienza non ha avuto seguito, specie nell’elaborazione di politiche ufficiali sul tema della formazione degli imam.

Formigine (Mo). Doposcuola all' oratorio della parrocchia S.Giovanni Bosco
Formigine (Mo). Doposcuola all’ oratorio della parrocchia S.Giovanni Bosco

Bibliografia

  • Joceyline Cesari, Andrea Pacini, Giovani Musulmani in Europa. Tipologie di appartenenza religiosa e dinamiche socio-culturali, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2005.
  • Pietro Cingolani, Roberta Ricucci (a cura di), Transmediterranei. Generazioni a confronto fra Italia e Nord Africa, Accademia University Press, Torino 2014.
  • Annalisa Frisina, Giovani Musulmani d’Italia, Carocci, Roma 2007.
  • Anna Granata, Di padre in figlio, di figlio in padre. Il ruolo innovativo delle seconde generazioni nelle comunità religiose di minoranza, «Mondi migranti» 3 (2010).
  • Giovanni Salmeri (a cura di), Troppa religione o troppo poca. Cristiani e musulmani alla prova della secolarizzazione, Marsilio, Padova 2016.
  • Stella Coglievina e Viviana Premazzi, L’Islam in Italia di fronte al fondamentalismo violento, in Martino Diez e Andrea Plebani (a cura di), La galassia fondamentalista tra jihad armato e partecipazione politica, Marsilio, Padova 2015, pp. 126-138.
  • Viviana Premazzi, Secolarizzazione e nuove forme di protagonismo nella seconda generazione musulmana in Italia, in Giovanni Salmeri (a cura di), Troppa religione o troppo poca. Cristiani e musulmani alla prova della secolarizzazione, Marsilio, Padova 2016, pp. 106-116.

Bibliografia sugli oratori

  • Caritas Ambrosiana, I doposcuola parrocchiali nella diocesi di Milano, Milano 2010.
  • Paola Bonizzoni, Incroci. Traiettorie di socialità di adolescenti italiani e stranieri in un oratorio milanese, in Ambrosini M., Bonizzoni P., Caneva E. (a cura di), Incontrarsi e riconoscersi. Socialità, identificazione, integrazione sociale tra i giovani di origine immigrata, Fondazione Ismu, Milano 2011.
  • Ismu, Fom, Caritas Ambrosiana e Ufficio pastorale migranti diocesi di Milano, Educare generando futuro. I minori di origine straniera in oratorio: dall’integrazione alla condivisione, Milano 2014.

Sitografia

  • Chiesa cattolica italiana, Ufficio Nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei: www.chiesacattolica.it/ecumenismo.
  • Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose: www.olir.it.
  • Fondazione Ismu, Iniziative e studi sulla multietnicità: www.ismu.org.

HALIME YANMAZ, 26 ANNI, TURCHIA
HALIME YANMAZ, 26 ANNI, TURCHIA

Questo dossier è stato firmato da:

  •  Viviana Premazzi Esperta di immigrazione e, in particolare, di seconde generazioni di religione musulmana. Collabora con il Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione (Fieri) di Torino e la Fondazione Oasis di Milano. È stata consulente per la Banca mondiale e per l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). Le riflessioni contenute in questo dossier sono state elaborate nell’ambito del progetto «Conoscere il meticciato. Goveare il cambiamento» cornordinato da Fondazione Oasis e finanziato da Fondazione Cariplo.
  • Roberto Brancolini Fotografo indipendente, ha scoperto viaggiando la sua passione per la fotografia. Si occupa prevalentemente di reportage. Il suo lavoro può essere visionato sul sito: www.brancolini.com.
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista, redazione MC.



Accoglienza: piccoli numeri grande efficacia


Da venti persone in giù. Le esperienze di accoglienza a Torino e dintorni che racconteremo in questo reportage parlano di piccoli gruppi, dai venti rifugiati del Cas di Alpignano al rifugio diffuso e all’accoglienza in famiglia. Queste sono realtà che permettono di dare attenzione alle persone – quelle accolte e quelle che accolgono – e di gestire incomprensioni e difficoltà in maniera efficace.

Il «Centro di accoglienza straordinaria» di Alpignano

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Un ragazzo africano sta in piedi in un campo di cipolle, immobile. Poi si china sulle piante, strappa le erbacce, le ammucchia. Sono le sette di sera passate e fa ancora caldo, ma lui indossa stivali di gomma, pantaloni lunghi, una felpa e anche un berretto di lana. Per una volta, però, quella che descriviamo non è una scena di sfruttamento del lavoro dei migranti in qualche torrida campagna italiana: lui è James (nome di fantasia, nda), richiedente asilo originario del Ghana, e il campo di cipolle è un pezzo dell’orto comunitario del Centro di accoglienza straordinaria (Cas) di Alpignano, che occupa i locali di quello che prima era il centro di animazione dei missionari della Consolata. «In Ghana faceva il contadino», spiega Monia, operatrice della cornoperativa Pietra Alta Servizi cui è affidata la gestione del Centro con una presenza costante, notte e giorno, del personale. «Stare nei campi gli piace, appena ha un minuto libero corre nell’orto».

Anche gli altri giovani accolti dal Centro – venti ragazzi fra i diciotto e i vent’anni arrivati a partire da ottobre 2015 da diversi paesi dell’Africa occidentale – hanno ciascuno la propria attività d’elezione. «Ce ne sono alcuni», racconta Fabrizio, collega di Monia, «che se la cavano con l’idraulica o l’elettricità, altri bravi ai fornelli». «E poi c’è lui», dice Jacob, uno dei due mediatori interculturali presenti al Cas, indicando un giovane chino su un libro, «che ama studiare e appena può si mette in un angolo tranquillo a leggere. Oppure lui», e ride indicando con la mano un giovane nel cortile fuori dalla finestra, «che vuole fare il calciatore per forza: sta sempre in divisa e scarpette e prende a pallonate il muro».

Queste attitudini dei ragazzi sono state utili per capire a quali tirocini avviarli con le borse lavoro. L’inserimento lavorativo è un’ulteriore tappa di un cammino cominciato lo scorso inverno con il corso di italiano obbligatorio, che si è svolto presso il Centro per l’Istruzione degli Adulti (Cpia) di Grugliasco, oltre che presso il centro grazie all’aiuto dei volontari cornordinati dagli operatori. Parallelo a questa prima fase è stato poi il percorso di assistenza psicologica presso il Centro Migranti Marco Cavallo a Barriera di Milano.

A queste attività, il Cas di Alpignano ne affianca altre: i corsi di cucina, i laboratori teatrali, il calcio. Sono tutte iniziative, precisano gli operatori, utili per motivare i ragazzi – che hanno davanti una lunga attesa prima di ottenere il responso alla loro richiesta di asilo – a darsi obiettivi e assumersi responsabilità.

«Certo, non va sempre tutto bene», ammettono Monia e Fabrizio. Ci sono state incomprensioni. Una ha riguardato un ragazzo che ha lasciato Alpignano ed è andato in Austria per raggiungere dei conoscenti. «Vieni, gli avevano detto via cellulare: qui c’è lavoro». Una volta là, però, questo fantomatico lavoro si è rivelato inesistente; il giovane è rientrato in Italia e ha chiesto di poter tornare al Cas di Alpignano. «Ma noi, a quel punto, non abbiamo più potuto accoglierlo», racconta Fabrizio.

I migranti possono trascorrere fuori dal Cas fino a un massimo di tre notti, giustificando l’uscita e lasciando un recapito al quale trovarli. Passate le 72 ore, i responsabili del Centro segnalano alla prefettura il mancato rientro. In questi casi i migranti conservano il diritto ad aspettare l’esito della valutazione della loro domanda d’asilo ma perdono quello all’ospitalità presso la struttura che li aveva accolti.

«La parte frustrante», riprende Monia, «è che a volte i ragazzi si fidano di più delle notizie sentite attraverso il tam tam fra migranti – che rischiano di essere parziali se non false – che di quello che diciamo noi. C’è voluta un po’ di pazienza per “smontare” le informazioni sbagliate e superare la diffidenza di alcuni nei nostri confronti». Diffidenza che non di rado nasce ascoltando alla televisione le notizie relative al cosiddetto «business dell’accoglienza» e generalizzandole. «Magari un amico, un connazionale dice loro: “Altro che aiuto, questi dei centri d’accoglienza ci fanno i soldi su di te!”, e i ragazzi diventano guardinghi, ostili. Allora bisogna sedersi, parlare, smentire con dati reali quelli distorti, ricostruire un rapporto di fiducia».

È in queste situazioni che si rivela cruciale il supporto dei mediatori interculturali al lavoro con Monia e Fabrizio: Jacob e Mor sono entrambi di origine africana, della Guinea Conakry uno e del Senegal l’altro. «Io sono arrivato qui che ero un bambino», dice Jacob, ora poco meno che trentenne, «la Guinea la conosco poco, ma una parte della mia famiglia, che sento regolarmente, vive lì. Conosco quindi la realtà e le difficoltà di un paese dell’Africa occidentale e parlo le lingue degli ospiti del Centro. Per questo mi percepiscono come qualcuno che può capirli e aiutarli a capirsi con gli altri».

È quasi ora di cena e i ragazzi convergono al refettorio. Ogni volta che uno di loro passa davanti all’ufficio degli operatori, Monia, Jacob e Fabrizio lo chiamano, si informano di come ha risolto quel problema che aveva segnalato, scherzano, discutono. Di giorno i richiedenti asilo entrano ed escono dal Centro, vanno in paese, si muovono nella città. Ma, fra il corso di italiano, le attività organizzate al Cas e i tirocini, l’immagine dei migranti che stanno a bighellonare e delinquere qui non trova conferma. «Con venti persone lo puoi fare», concordano gli operatori, «puoi seguirli uno per uno e avere un confronto e un dialogo anche con i cittadini del quartiere, o del paese».

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L’accoglienza in appartamento

Se a misura d’uomo è un luogo che accoglie venti persone, altrettanto se non di più lo sono realtà ancora più piccole e più domestiche. Nell’appartamento di Porta Palazzo, Torino centro, dove vivono da più di un anno sette giovani rifugiati afghani, il clima è quello di una casa di studenti lavoratori. In cucina Mustafa, l’ingegnere civile del gruppo, dà il tocco finale al kabuli palaus, piatto afghano a base di riso, carne, uvetta e cumino, mentre Sardar, il più osservante dei sette – barba folta, pantaloni e lunga camicia bianchi, calotta da preghiera sul capo – stende sul pavimento del salone i teli su cui posare stoviglie e pietanze. Maruf, Moinkhan e Hawaldar intanto guidano gli ospiti nel giro della casa: un salone, un bagno, tre stanze da letto, e spiegano che si cenerà senza uno di loro perché lavora al negozio di kebab e, durante il Ramadan, è subito dopo il tramonto che i clienti arrivano numerosi.

I ragazzi, in attesa del responso alla loro richiesta di asilo, stanno studiando l’italiano. Alcuni hanno già iniziato i tirocini come aiuto-cuoco, addetto agli scaffali in un supermercato, incaricato della manutenzione in un centro sportivo. Mustafa è contento del suo tirocinio da operaio edile e ha trovato nel capo cantiere – anche lui straniero ma a Torino da tanti anni – un punto di riferimento. Certo, spera che questa sia una soluzione temporanea e che, una volta ottenuto il permesso di soggiorno, gli sia possibile lavorare in ruoli diversi. Ma un buon ingegnere deve conoscere il cantiere, dice, perciò per ora va bene così.

Antonello è uno degli operatori che segue i sette giovani. Lavora per la cornoperativa Terremondo, nata più di dieci anni fa da alcuni educatori attivi all’Asai, associazione fondata nel 1995 e fra i pionieri del lavoro con i migranti a Torino. Scherza con i ragazzi, guarda con loro la partita di calcio in Tv, si informa di com’è andata la giornata. «Allora, sei andato a scuola o ancora non ti senti bene?», chiede Antonello a uno dei giovani, che di recente ha avuto problemi di salute. «No scuola, no pocket money!», avvertono gli altri ridendo. «Ci sono delle regole precise», spiega Antonello, «e, sempre in un clima di dialogo e di disponibilità a confrontarsi, il ruolo degli operatori è anche di ricordare queste regole». Ad esempio, i ragazzi possono avere ospiti per i pasti, ma non di notte. I giovani afghani vivono soli in questa casa; gli operatori e i volontari di Terremondo passano a trovarli almeno un paio di volte a settimana e sono in contatto costante.

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Il rifugio diffuso

Ma c’è un modo di fare accoglienza ancora più «molecolare»: il rifugio diffuso, nel quale sono le famiglie ad aprire la porta di casa a un migrante. Alessia, dell’Ufficio per la Pastorale dei Migranti (Upm) della Diocesi di Torino, racconta com’è nata questa esperienza: «Tutto comincia nel 2008 con “Adotta un rifugiato”, iniziativa del Comune e di alcune associazioni, che ha avviato oltre un centinaio di accoglienze in famiglia. Dati i buoni risultati, poi, questa modalità è entrata nello Sprar», il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati istituito dalla legge «189/02 Bossi-Fini» e affidato dal ministero dell’Inteo all’Anci, l’Associazione nazionale dei comuni italiani. Le esperienze di accoglienza presso abitazioni private e nuclei familiari, si legge nel Rapporto annuale Sprar 2015, sono attivate nei comuni di Torino, Parma e Fidenza, con una sperimentazione in corso nel comune di Milano.

A Torino, sono l’Ufficio stranieri del Comune, diverse associazioni e l’Upm a cornordinare il progetto: quello attuale è iniziato nel 2014 e ha quasi concluso l’inserimento di 28 rifugiati usciti dai centri di prima accoglienza.

Il contributo alla famiglia che accoglie, finanziato con fondi Sprar per i sei mesi previsti, è di 413 euro al mese per le spese di vitto, alloggio e utenze della persona accolta; si consiglia alle famiglie di dare circa 90 euro al rifugiato come argent de poche.

«Il ruolo dell’Upm e delle associazioni», spiega ancora Alessia, «è quello di segnalare al comune i richiedenti asilo che hanno i requisiti. Per essere coinvolti nel progetto, infatti, queste persone devono conoscere la lingua e aver manifestato la volontà di investire le proprie energie per inserirsi nel territorio. Si fa una valutazione anche sul profilo professionale, per favorire l’inserimento lavorativo. Finora i beneficiari sono in maggioranza uomini fra i venti e i trent’anni che hanno competenze nella ristorazione, nell’agricoltura e nell’allevamento, spesso perché in questi ambiti lavoravano già nel loro paese. C’è una sola donna, nigeriana, ex vittima di tratta».

Anche con le famiglie si fa un lavoro preparatorio per spiegare i dettagli del progetto e cercare di prevenire possibili problemi: «Quella che nasce è a tutti gli effetti una convivenza e il suo obiettivo è quello di rendere autonomi i rifugiati». Come? Permettendo loro di migliorare l’italiano, di conoscere altre persone e di venire a contatto con le opportunità di lavoro.

La preparazione con le famiglie cerca di evitare che queste ultime si creino aspettative, ad esempio quella di avere un po’ di compagnia – desiderio che emerge a volte quando ad accogliere sono persone anziane – o di ricevere un aiuto in casa, magari nell’assistenza ai malati. Nulla vieta che relazioni di questo tipo possano svilupparsi, se il rifugiato e la famiglia lo vogliono; ma il punto di partenza è quello di una condivisione di spazi nel reciproco rispetto.

Anche qui, non va sempre tutto bene. È il caso di una convivenza conclusa dopo soli quindici giorni per screzi legati al cibo e forse anche ad aspettative deluse. Ma non sono la norma, spiega Alessia, gli esempi positivi sono tanti: ci sono famiglie che accantonano i 413 euro e, alla fine dei sei mesi, consegnano al rifugiato il denaro così risparmiato. E ci sono migranti che a loro volta si offrono per accogliee altri, come a voler restituire l’aiuto che hanno ricevuto.

«Accomunare le realtà come il Cas di Alpignano, l’appartamento di Porta Palazzo o il rifugio diffuso alle accoglienze in massa, magari in strutture fatiscenti, o alle occupazioni è fuorviante», commenta Sergio Durando, direttore dell’Upm.

Chiara Giovetti
(fine prima puntata)




Disabilità: diritto e deboli


Circa 150 comunità sparse nel mondo. Persone con e senza disabilità condividono la vita quotidiana. L’idea di fondo è l’accoglienza reciproca, la promozione dei singoli. Far fruttare la ricchezza della debolezza. Una realtà nata in Francia nel 1964 da un’aspirazione evangelica del suo fondatore, cresce promuovendo anche il dialogo interreligioso e interculturale.

Nella Comunità dell’Arca (Arche in francese, ndr) tutto è pensato a misura delle persone con handicap. Tutti sono uguali e hanno lo stesso spazio.

Jean Vanier, il fondatore, insiste molto nelle sue conferenze e nei suoi scritti sulla ricchezza del «vivere con». Lui, che ha vissuto e lavorato per la maggior parte della sua vita con le persone con handicap, sostiene che una relazione fondata solo sull’assistenza non può portare a cambiamenti, né dal punto di vista sociale, né personale. Per favorire un cambiamento occorre creare legami che escludano la dipendenza. L’amore, la vulnerabilità, il perdono, dice, hanno infatti una capacità trasformante, sia nei confronti della persona accolta che in quelli dei volontari e degli operatori. L’ospite della Comunità dell’Arca non è una persona solo da assistere e curare, ma un mistero da scoprire. I disabili, spesso rifiutati e emarginati, desiderano vivere con degli amici, cioè con persone che li accolgano così come sono, non li giudichino, non li condannino quando vedono i loro limiti, la vulnerabilità, la fragilità.

In un mondo ossessionato dalla perfezione, dal bisogno di affermazione, di successo, di produttività, la debolezza spaventa. Proprio il contatto con persone disabili può aiutare a scoprire il diritto di essere deboli.

Secondo Jean Vanier la debolezza è un dono e un’opportunità, una forza che porta le persone a dare il meglio di sé.

Strutture semplici ma vitali

Esistono in Italia molte realtà che si occupano di persone con handicap fisico e mentale. Tra di esse, le comunità Papa Giovanni XXIII, le Case della Carità, le comunità di Sant’Egidio e numerose altre a carattere locale, sorte in tante città.

Avendo l’occasione di fare del volontariato in alcune di queste case, si conoscono strutture molto semplici ma vitali, gestite da équipe di operatori qualificati, a volte in collaborazione con religiosi. Si incontrano numerosi altri volontari che aiutano nei diversi servizi e nelle attività ludico-formative con l’intento di rispondere alle esigenze particolari di ciascuna persona accompagnata.

La comunità dell’Arca

Qualche tempo fa, durante una tappa formativa del mio cammino di vita religiosa nelle Suore Ausiliatrici1, ho vissuto quattro mesi in Francia prestando il mio servizio all’Arche di Lione. La Comunità dell’Arca è una realtà internazionale fondata nel 1964 a Trosly-Breuil, piccolo comune francese a circa 100 km a Nord di Parigi, da Jean Vanier. La Comunità dell’Arca si articola in singole case (i foyer) nelle quali vivono assieme persone con e senza disabilità. Alla base di ogni comunità c’è la condivisione della vita quotidiana, del lavoro e dell’amicizia.

La comunità di Lione si trova nella periferia Sud Est della città. È formata da tre foyer-focolari che accolgono in maniera stabile circa 30 persone con handicap fisico e mentale e da un Centro diuo con laboratori e spazi per le attività formative a cui partecipano, oltre alle persone ospitate stabilmente, circa 10 persone estee. Dei tre foyer, due sono nello stesso cortile, in due casette indipendenti accanto alla struttura del Centro diuo, in una zona residenziale della città, il terzo è in un appartamento di un palazzo in Centro città. Ogni foyer ospita una decina di persone, ciascuna delle quali ha la propria camera. Uno di essi è per le persone disabili più autonome che lavorano anche all’esterno e che sono più coinvolte nella gestione del foyer stesso. La suddivisione tra uomini e donne è circa del 50%, grossomodo hanno dai 30 ai 60 anni. Le loro famiglie sono generalmente presenti, ma spesso non riuscivano a occuparsi più di loro. Alcuni genitori sono già anziani. Diversi collaborano con la comunità come volontari. Una volta al mese o ogni due mesi gli ospiti passano un fine settimana nelle famiglie.

La quotidianità dei foyer

La vita quotidiana a L’Arche è molto semplice e molto ricca, con un programma uguale tutti i giorni, ma sempre variato dagli imprevisti inevitabili con persone con un handicap mentale.

Dopo la sveglia e la colazione, gli ospiti si ritrovano nella Cappella del Centro diuo per un tempo facoltativo di preghiera, che permette a ciascuno, secondo la propria fede religiosa, di donare un senso alla giornata che sta iniziando. La preghiera è prima in ebraico, in unione con i fratelli ebrei, poi in arabo, in unione con i fratelli musulmani e, infine, in francese, in unione con tutti i fratelli cristiani, accompagnata da un segno di croce, un gesto semplice che fa già respirare un senso di unità, di comunione.

Segue un ampio spazio comunitario, un tempo importante durante il quale gli ospiti dei differenti foyer raccontano aneddoti quotidiani. Ciascuno può prendere la parola e raccontare un vissuto, qualcuno stringe semplicemente la mano, dà un abbraccio, chiede attenzione.

Seguono i diversi laboratori: sport di gruppo, passeggiate, mosaico, lettura, attività con le perle, ricamo, teatro, cucina, cinema, giardinaggio, falegnameria. I responsabili, affiancati dai volontari, usano la creatività per inventare sempre nuove attività.

Il programma della giornata è segnato su una lavagna: di ogni partecipante c’è la foto, ogni laboratorio è rappresentato da un disegno, e il luogo in cui si svolge è identificato dal colore della porta della sala in cui ci si riunisce. In questo modo tutti sanno cosa faranno quel giorno.

Gli espedienti per favorire la partecipazione degli ospiti alla vita comunitaria sono molti. Anche durante il pranzo condiviso tra volontari e persone disabili ognuno ha un proprio compito: qualcuno intona la preghiera, qualcun’altro va a prendere in cucina le pietanze, altri sparecchiano o puliscono i tavoli o danno una mano a lavare i piatti.

Nel primo pomeriggio, dopo un tempo di attività libere, riprendono altri laboratori. Alle 17.00, dopo una merenda insieme, ciascuno dei residenti rientra nel proprio foyer, gli ospiti estei in famiglia.

La serata nei foyer è caratterizzata da uno stile semplice e familiare: si prepara la cena condivisa, anche con i volontari, e ci si aiuta nella preparazione per andare a letto. Infine, c’è un tempo di scambio e di distensione tra volontari, responsabili e assistenti (ragazzi, francesi e non, che vivono per un anno nei foyer, condividendo la vita con i disabili, una sorta di anno di Servizio Civile Volontario).

La vita insieme è attuabile

A L’Arche i disabili sono al centro e «invitano» altri a vivere con loro, creando relazioni nuove, luoghi di incontro tra persone diverse per religione, origine sociale, cultura, livelli intellettivi, e annunciano che l’unità, la riconciliazione, la vita insieme sono attuabili.

Nei Principi Fondatori della Comunità dell’Arca è scritto: «Le persone che hanno un handicap mentale spesso hanno qualità d’accoglienza, di meraviglia, di spontaneità, e di verità. Nella loro sobrietà e nella loro fragilità, hanno il dono di toccare i cuori e di chiamare all’unità. Per la società sono un richiamo vivo ai valori essenziali del cuore, senza i quali il sapere, il potere, e l’agire perdono il loro senso e sono sviati dal loro fine. La debolezza e la vulnerabilità della persona umana, lungi dall’essere un ostacolo alla sua unione con Dio, possono favorirla. In effetti è spesso attraverso la debolezza riconosciuta e accettata che si rivela l’amore liberatore di Dio».

Cristiana, ma non per soli cristiani

L’Arche è profondamente radicata nella fede cristiana, ma non è solo per i cristiani2. Ogni persona che vive nella comunità o la frequenta è invitato a scoprire e approfondire la sua vita spirituale, e a viverla secondo la fede e la tradizione che gli sono proprie. La comunità diventa così sia cristiana che interconfessionale e interreligiosa. I valori cristiani diventano valori umani su cui basare e fondare la comunità: al centro c’è il paradigma della lavanda dei piedi e l’esperienza pasquale, cioè la speranza nella vita che rinasce dalla ferita.

Chiara Selvatici*

* Suora Ausiliatrice (si veda nota 1) di voti temporanei, cresciuta nel mondo scout a Imola,
ha incontrato la spiritualità ignaziana negli anni di ingegneria a Bologna. Oggi vive a Roma.

 Note:

1- L’Istituto delle Suore Ausiliatrici delle Anime del Purgatorio è una congregazione religiosa femminile di diritto pontificio di spiritualità ignaziana, fondato nel 1856 a Parigi da Eugénie Smet. Oggi, a 160 anni dalla fondazione, le Ausiliatrici sono circa 500, presenti in 24 paesi in 4 continenti, con una missione molto diversificata che cerca di rispondere in modo creativo ai bisogni della Chiesa e delle diverse società. In particolare, cercano di farsi prossime a quanti sono nella prova e «vivono situazioni di passaggio», come migranti, persone senza dimora, vittime della tratta, ammalati, carcerati, anziani, ma sono anche impegnate nell’accompagnamento umano e spirituale, nella formazione e nella catechesi, nella pastorale giovanile, nei movimenti di promozione della persona e di lotta alle ingiustizie. (www.suoreausiliatrici.it)

2 – Nel 2006 e 2008 Christian Salenson, teologo e direttore dell’Istituto di scienze e di teologia delle religioni di Marsiglia, ha cercato di leggere i principi fondativi de L’Arche alla luce della fede cristiana: C. Salenson, L’Arche. Une spiritualité singulière et plurielle, L’Arche en France, 2009.


La storia de «L’Arche» e dei suoi fondatori

50 anni di accoglienza

«Prima per me non era vita: tutta la giornata in una sala, seduto. Non potevo fare niente, non potevo uscire, non c’erano impegni, occupazioni, niente».

La prima comunità dell’Arca nasce nel 1964 a Troly-Breuil, una piccola cittadina a Nord di Parigi, dove Jean Vanier, incoraggiato dal suo padre spirituale, padre Thomas Philippe, domenicano, invita Philippe e Raphaël, due persone con handicap, a vivere con lui in una piccola casa che chiamerà «L’Arche», l’Arca, nome che ricorda l’arca di Noè, la barca della salvezza, simbolo di sicurezza e di rinnovamento, della prima alleanza tra Dio e l’umanità, e che ricorda anche Maria, definita dai padri della Chiesa come Arca dell’alleanza.

La piccola comunità cresce velocemente accogliendo altre persone disabili, ma anche giovani di tutto il mondo che desiderano conoscere e condividere questa esperienza di vita. La Comunità dell’Arca, iniziata da Jean Vanier, si diffonde presto nel mondo. Già nel 1969, il desiderio di aprire nuove comunità si concretizza nella fondazione di una comunità a Daybreak, vicino a Toronto, in Canada, e in India, a Bangalore.

L’espansione, totalmente inaspettata per Jean, apre l’Arca a nuove culture, nuove lingue, nuove realtà sociali molto differenti da quella francese. Nel 1972 viene quindi creata la Federazione internazionale delle Comunità dell’Arca.

Sorte da un’ispirazione cattolica, dal desiderio di Jean di dare carne al suo percorso spirituale di incontro con il Signore delle beatitudini, le comunità diventano presto luoghi ecumenici e di dialogo interreligioso, luoghi di accoglienza e segni di speranza e di solidarietà.

Nel 2014, l’Arca festeggia i suoi primi 50 anni. Attualmente è presente nei cinque continenti con 149 comunità in 38 paesi1.

Jean Vanier.

Nasce il 10 settembre 1928 a Ginevra, in Svizzera, da una famiglia canadese. Vive la sua infanzia in Canada, nel Regno Unito e in Francia, dove suo padre viene inviato come diplomatico. Pochi giorni prima dell’occupazione nazista, insieme ai suoi quattro fratelli e a sua sorella, scappa da Parigi e, in previsione di una carriera da ufficiale della Marina, volendo seguire le orme del padre George, nel 1941 è ammesso all’accademia navale britannica. All’inizio del 1945 Jean visita Parigi dove suo padre era ambasciatore del Canada e, insieme a sua madre, si prende cura dei sopravvissuti dei campi di concentramento. Il contatto con queste persone, segno di un’umanità ferita, lo tocca profondamente. All’età di diciassette anni diventa ufficiale e si unisce alla Royal Navy. Tre anni più tardi viene trasferito alla Marina canadese, ma, nonostante una carriera promettente, nel 1950 lascia per studiare filosofia e teologia all’Istituto Cattolico di Parigi. Nel 1963 pubblica la sua tesi di dottorato su Aristotele e insegna filosofia all’Università di Toronto. Fondamentale per il cambiamento radicale della sua vita è l’incontro con la sua guida spirituale, padre Thomas Philippe, domenicano, cappellano di un centro per malati mentali a Trosly-Breuil, a Nord di Parigi. Tramite lui conosce la condizione di persone con grave disabilità, «ragazzi che […] si chiedevano “chi sono, perché sono così, perché nessuno mi crede, perché i miei genitori non sono felici che io esisto?”. Persone desiderose di sapere chi vuole loro veramente bene»2. Nel 1964 lascia il mondo accademico per proseguire la sua ricerca interiore e spirituale, compra una piccola casa a Trosly e invita a vivere con lui Raphaël e Philippe, due persone con handicap che vivevano nel Centro di Trosly-Breuil, ma che, abituati a vivere in famiglia, non riuscivano ad adeguarsi alla vita dell’Istituto. Mentre la comunità di Trosly cresce rapidamente, Jean inizia a viaggiare per tutto il mondo: partecipa a dibattiti, conferenze e ritiri, parlando della debolezza, del diritto di essere deboli, raccontando e testimoniando la sua esperienza, rivolgendosi soprattutto ai giovani.

Nel 1968, nell’Ontario, riunisce laici, religiosi e persone con handicap per il primo ritiro di «Foi et Partage», Fede e Condivisione, esperienza che dà origine a comunità, soprattutto in Canada, che si riuniscono e pregano insieme una volta al mese3. Nel 1971, dopo un pellegrinaggio a Lourdes con 12.000 persone, di cui 4.000 disabili, fonda, assieme a Marie Hélène Mathieu, «Foi et Lumière», Fede e Luce, un movimento che riunisce ogni mese gruppi di 20-40 persone con handicap, le loro famiglie e i loro amici, per momenti di amicizia, condivisione, preghiera e festa. Oggi esistono più di 1.500 gruppi di Fede e Luce in 82 paesi, tra cui una sessantina anche in Italia4.

Jean Vanier è molto impegnato anche nella vita della Chiesa e nel dialogo ecumenico: pronuncia il discorso di apertura dell’Assemblea generale del Consiglio ecumenico della Chiesa, a Vancouver, nel 1983, partecipa al Sinodo sulla laicità a Roma su invito del papa, nel 1998 partecipa al Comitato centrale del Consiglio ecumenico della Chiesa a Ginevra ed è invitato dall’Arcivescovo di Canterbury al consiglio dei vescovi della Chiesa anglicana durante la Conferenza di Lambeth.

Numerosi i riconoscimenti per la sua attività nell’ambito della difesa dei diritti umani e dello sviluppo dei popoli. Tra di essi riceve il Premio Internazionale Paolo VI nel 1997, il Pacem in Terris nel 2013, il Templeton nel 2015.

Nel 2000 fonda «Intercordia», un’associazione con lo scopo di offrire ai giovani universitari un anno di «formazione alla pace» mediante un’esperienza interculturale tra i poveri e gli emarginati nei paesi in via di sviluppo5.

Nonostante i suoi 87 anni, continua a fare conferenze e a dare ritiri, principalmente a Trosly. I suoi libri, diffusi in tutto il mondo, sono tradotti in più di 30 lingue6.

Raphaël Simi. Coetaneo di Jean Vanier, nasce nel 1928 a Marsiglia e cresce a Parigi con i suoi genitori, sua sorella e suo fratello. All’età di tre anni, a causa di una meningite e di altre complicanze, perde l’uso della parola e un’emiplegia gli causa problemi di deambulazione. Alla morte dei suoi genitori, nel 1962, viene mandato nella struttura per disabili di Trosly, dove si sente «rinchiuso». Cresce il suo malessere per il distacco dal mondo e dalle relazioni. Nel 1964 accetta l’invito di Jean Vanier ad andare a vivere con lui, insieme a Philippe. Resta in contatto con i suoi fratelli fino alla loro morte. Quando la comunità di Trosly si ingrandisce, nel 1988 chiede di andare a L’Arche di Verpillieres, a Nord di Parigi, per vivere in un ambiente più tranquillo. Fa il postino della comunità ed è sempre disponibile per piccoli servizi e nei laboratori fino alla sua morte, avvenuta il 24 marzo 2003.

Philippe Seux. Nasce nel 1941 a Casablanca, in Marocco. All’età di due anni contrae un’encefalite che gli procura danni cognitivi permanenti. Quando ha 20 anni, sua madre si ammala e, in cerca di cure, si trasferiscono in Francia. Due anni più tardi, nel 1963, alla morte della madre, viene mandato nel Centro per disabili di Trosly. Dopo un anno di sofferenza incontra Jean Vanier che lo invita a vivere con lui. Philippe si trasferisce il 4 agosto 1964. Racconta: «Quando sono arrivato a L’Arche, non c’era l’elettricità, non c’era niente. Si usavano candele per illuminare la casa, era divertente! Mancavano i sanitari e la doccia in bagno. Ho detto “Ok, non c’è problema!”, perché ero felice. Prima per me non era vita: tutta la giornata in una sala, seduto. Non potevo fare niente, non potevo uscire, non c’erano impegni, occupazioni, niente. Ho anche pianto. Non ero a mio agio. Poco a poco tutto poi si è messo in ordine a L’Arche». Nel 1975 si trasferisce a Compiègne, vicino a Trosly, continuando per 10 anni a frequentare i laboratori diui a Trosly. Oggi la sua salute e autonomia sono peggiorate, ma continua a vivere con gioia nella comunità.

C.S.

Note:

1- www.larche.org.
2- J. Vanier, Il sapore della felicità. Alle basi della morale con Aristotele, EDB, Bologna 2002.
3- http://foietpartage.net.
4- www.foietlumiere.org.
5- www.intercordia.org.
6- www.jean-vanier.org.

 


Due comunità crescono

L’Arca in Italia

Il Chicco, la prima comunità italiana, è nata nel 1981 quando Guenda e Anne hanno accolto in una piccola casa a Ciampino, vicino a Roma, Fabio e Maria, bambini con handicap. La storia della casa e della comunità è legata alle parole del Vangelo di Giovanni, 12,20-28: «Se il chicco di grano non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto».

Nel progetto iniziale Guenda e Anne avrebbero voluto accogliere la piccola Chicca che però morì poco prima del trasloco, e in suo ricordo la comunità ha preso il nome Il Chicco. In oltre 30 anni di vita la comunità si è ingrandita e attualmente è composta da tre foyer, Il Chicco, La Vigna e L’Ulivo, che ospitano circa 20 persone con handicap mentale, e un Centro di accoglienza diuo con quattro laboratori: Nido, Universo, Mulino e Natura.

L’Arcobaleno, la seconda comunità italiana, è nata nel 2001 a Quarto Inferiore, in provincia di Bologna, con l’accoglienza di Albertina e Cristina nel primo foyer chiamato Il Cedro. Dopo un anno è stato aperto il laboratorio La Formica per le attività diue, sia per i residenti nella comunità che per gli estei. Negli anni la comunità si è ingrandita con la costruzione di due nuovi foyer, Il Grano, nel 2007, e la Manna, nel 2013, con l’ampliamento del Centro diuo, con la creazione del laboratorio La Tartaruga e, nel 2012, del laboratorio La Civetta.

C.S.

 




Italia: italiani arcobaleno

 


Sono tre studenti universitari. Tre italiani con radici africane. Incontrandosi si rendono conto di avere qualcosa in comune. Trasmettere una consapevolezza dei propri diritti e doveri, distruggere alcuni stereotipi. Fondano un’associazione e hanno subito adesioni. Abbiamo ascoltato le loro voci.

«Ci siamo conosciuti a Padova, tra la mensa e le aule universitarie – ci dicono Ada, Emmanuel e Anabell -. Quando ci incontravamo capitava sempre di parlare della situazione degli stranieri qui in Italia. Venivamo tutti da realtà diverse eppure avevamo esperienze e pensieri molto simili; d’altronde i genitori africani cercano sempre di educarti in un certo modo, poi tu esci di casa e ti comporti in un altro! A forza di parlare di come volevamo cambiare le cose, delle ingiustizie viste e vissute o del fatto che le istituzioni ignorassero completamente una categoria di popolazione che è quella costituita dagli afro italiani come noi, abbiamo deciso di lanciarci in questo progetto». È nato così, nella primavera del 2015, Arising Africans, associazione con sede a Padova, che si è data la missione di riunire i giovani afro italiani, africani di seconda generazione, afro discendenti e, più in generale, afro simpatizzanti residenti in Italia per promuovere un’immagine più completa e veritiera del continente africano e della sua popolazione, decostruendo gli stereotipi. Ma non solo: «La nostra idea è quella di trasmettere una consapevolezza maggiore dei propri diritti e doveri a chi ha origini africane, per rafforzare la stima di sé nella società italiana». E ancora: «Vogliamo dire che l’Africa non ha bisogno della carità dei bianchi, vogliamo mostrarla alle persone per quello che è, fae conoscere la storia e i suoi personaggi al di là del colonialismo, di cui si è parlato troppo. Vogliamo che alla parola Africa si associno altre immagini e altre parole. Vogliamo inoltre dire alle istituzioni che noi ci siamo e che vogliamo lottare per affermare i nostri diritti. Vogliamo infine scuotere gli africani che vivono in Italia, dire loro di attivarsi perché abbiamo un obbligo morale verso la nostra comunità e la nostra cultura di origine». Parole consapevoli e determinate pronunciate dallo staff fondatore di Arising Africans composto da Ada, Emmanuel e Anabell, under-30, che con forza innalzano la bandiera del risveglio africano.

Africanismo 2.0

«Con risveglio africano intendiamo la costruzione dell’Africa di domani: una visione che chiamiamo anche africanismo 2.0, che non significa limitarsi a mettere «mi piace» sui social network, ma fare concretamente qualcosa. La costituzione di Arising Africans è un primo passo in questa direzione: gli studenti di origine africana che vivono in Italia saranno coloro che avranno la possibilità di influenzare le politiche di domani e noi sentiamo di avere la responsabilità di informarli correttamente su chi sono, da dove vengono e quali sono le loro risorse, spesso sottovalutate o persino ignorate».

Per farlo, usano soprattutto il web: il sito internet www.arisingafricans.com è aggiornato periodicamente con articoli su eventi promossi dall’associazione stessa, interviste o con le storie di illustri personaggi storici africani. I contenuti vengono poi rilanciati sulla pagina Facebook, dove alla rassegna stampa quotidiana sui temi cari all’associazione si alternano due rubriche originali: «Notizie dall’Africa», che riporta curiosità su cultura, folklore, storia e attualità del continente, e «Afro cliché» in cui si sfatano i miti più comuni.

L’afro italianità

«Per me Arising Africans rappresenta una svolta – spiega Anabell -. È arrivata l’ora che gli afro italiani siano riconosciuti per quello che sono, e cioè cittadini con una doppia cultura. L’armonia tra due o più bagagli culturali differenti, che abbiamo creato – a volte con fatica – durante il nostro percorso di crescita, rappresenta una potenzialità e una ricchezza. Non solo a livello sociale e linguistico, ma anche di carattere e personalità: ci siamo abituati a pensare in maniera laterale (pensiero in grado di prendere in considerazione punti di vista alternativi, flessibile, creativo, aperto a interpretazioni diverse della realtà, nda) e riusciamo ad adattarci facilmente. Arising Africans, quindi, è il modo che ho scelto per valorizzare sia la mia parte africana, che la mia parte italiana, in egual misura. E vorrei dire a tutti i miei coetanei afro italiani che si può essere sia l’uno sia l’altro senza vergognarsi».

«Ci sentiamo africani tanto quanto italiani, per noi è un dono quello di poter vivere e rappresentare entrambi i mondi – conferma Emmanuel, che aggiunge -, l’afro italianità è un concetto che non va definito con una formula: puoi avere entrambi i genitori africani o uno solo, puoi essere nato qui o altrove. Io, ad esempio, sono nato in Germania da una famiglia originaria della Repubblica democratica del Congo, ma vivendo in Italia da più di sei anni mi sento afro italiano tanto quanto Anabell che è arrivata a Pordenone a nove anni».

Eppure quello dell’afro italianità è il primo diritto a essere negato dalla società italiana. Secondo Ada i principali responsabili sono i media, che negli anni hanno costruito un’immagine distorta e strumentalizzata della figura dello straniero: «Più volte ho notato che viene fatta una distinzione non necessaria tra italiani, riconosciuti come tali, e afro italiani, chiamati stranieri o immigrati. Le parole con cui ci definiscono sono importanti, così come le immagini. Mostrare in tv un solo tipo di africano, a cui spesso si attribuisce un atto criminale, senza mai prendersi il tempo di presentare altro, come la realtà degli studenti di origine africana che frequentano scuole e università italiane, è una discriminazione che finisce per avere ricadute in altri ambiti della società, come quello del lavoro. Prendiamo l’esempio degli universitari: molti di loro per completare il percorso di studi devono fare uno stage in azienda. Ebbene, io conosco tanti studenti di origine africana che hanno avuto difficoltà a trovare uffici disposti ad accoglierli, per via della pelle nera e della diffidenza che questa continua a suscitare. Ma come biasimare il piccolo-medio imprenditore veneto, che quando accende la tv e sente parlare di Africa vede solo scene di bambini denutriti, calciatori alla moda o spacciatori? E ancora: sapete quanti sono gli afro italiani che lavorano nel mondo della cultura? Meno dell’uno percento: tutti gli altri sono confinati a lavori con bassa qualificazione. Questo, personalmente, è difficile da accettare considerando quanti sono gli studenti africani che si laureano ogni anno». Gli ultimi dati Almalaurea dicono che il 13% dei laureati con cittadinanza straniera, 3,4% sul totale della popolazione studentesca, proviene dall’Africa.

La negazione del diritto all’afro-italianità passa anche per un’altra, più sottile, discriminazione: «Quando qualcuno mi chiede da dove vengo e io rispondo che sono della provincia di Treviso, scatta l’incredulità – continua Ada -. Per soddisfare la curiosità del mio interlocutore devo aggiungere che sono di origine nigeriana e a quel punto, con un sospiro di sollievo, mi viene fatto notare che parlo davvero bene l’italiano! Purtroppo, soprattutto tra le persone più anziane ma non solo, esiste ancora una certa difficoltà ad accettare il fatto che io possa indicare come casa mia un paesino che si trova in Italia e che l’italiano sia – anche – la mia lingua».

Rapporto alla pari

«Li vediamo nelle piccole cose: quando qualcuno dei membri di Arising Africans ci dice che avrebbe voluto incontrare un gruppo come questo anni prima, quando non riusciva a convivere con la propria parte africana e se ne vergognava. Oppure quando scriviamo di uno dei grandi personaggi che hanno fatto la storia dell’Africa, perché sappiamo che è un piccolo seme che contribuisce a disegnare un altro immaginario del continente», spiega Emmanuel. E i vostri genitori che ne pensano? «Dicono che gli ricordiamo quando erano giovani. A differenza loro, però, che si sentivano stranieri e diversi, noi abbiamo più potere contrattuale: siamo cresciuti in Italia, ci sentiamo al pari dei nostri coetanei italiani e siamo perfettamente a nostro agio quando dobbiamo relazionarci con altre persone».

Serena Carta*

*Gioalista freelance, ha collaborato con Ong e agenzie delle Nazioni Unite. Ha curato la redazione dell’e-book «Guida introduttiva all’uso delle Ict per lo sviluppo». È tra gli autori del webdoc «Guinendadi – Storie di rivoluzione e sviluppo in Guinea Bissau» e cofondatrice di www.puntozerohub.com.