Clima, Cop28: meglio del previsto o solo parole?


Alla Cop28 di Dubai i Paesi del mondo hanno raggiunto un accordo che va oltre le basse aspettative della vigilia. Ma realizzarlo è tutta un’altra storia e le incognite continuano a essere tante.

A riguardarla ora, a mesi di distanza, la traiettoria della scorsa conferenza sul clima ricorda molto il profilo a saliscendi delle montagne russe. Partita con premesse poco promettenti e con aspettative bassissime, ha avuto un’apertura dei lavori incoraggiante, parecchi momenti tesi e perfino tragici durante lo svolgimento, una conclusione più positiva del previsto e, infine, un immediato ridimensionamento dell’ottimismo generato da questa conclusione.

La Cop28 – cioè la «Conferenza delle parti aderenti alla convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici» – si è svolta a Dubai, negli Emirati arabi uniti, dal 30 novembre al 13 dicembre 2023. Essa ci mostra un mondo che ha giudicato del tutto insufficienti gli sforzi fatti finora per mettere in pratica l’accordo di Parigi del 2015 sul clima, e ha deciso di intensificarli rinunciando ai combustibili fossili. Non è riuscita, tuttavia, a spingere le parti fino all’adozione di decisioni legalmente vincolanti.

Il dibattito fra chi vede nelle decisioni prese alla Cop28 un buon risultato e chi non lo vede si gioca in definitiva su questo: per la prima volta c’è un accordo ufficiale sul fatto che il mondo debba andare verso l’abbandono dei combustibili fossili, ma non c’è alcuna garanzia che i Paesi rispetteranno questo accordo e non tenteranno di piegare i suoi passaggi più vaghi ai propri interessi immediati.

Allagamenti a Rio do Oeste (foto Marco Favero / Governo de SC)

Dove eravamo rimasti

La Cop27 di Sharm El-Sheik, in Egitto, si era conclusa con un unico risultato degno di nota: la decisione di creare un «Fondo perdite e danni», destinato a compensare per i danni subiti finora i Paesi più vulnerabili, dove le conseguenze del cambiamento climatico sono già molto pesanti.

Sulla mitigazione, cioè su quell’insieme di interventi necessari per contrastare il fenomeno stesso del cambiamento climatico, e quindi prevenire danni e perdite, non c’erano stati progressi. L’Egitto, Paese ospitante, aveva anche approfittato della Conferenza sia per portare avanti la propria agenda di esportatore di gas, sia per tentare di ripulire l’immagine del governo di Al-Sisi, danneggiata dalle sistematiche violazioni dei diritti umani che il regime mette in atto e dal progressivo impoverimento della popolazione egiziana@.

La scrittrice e attivista Naomi Klein a questo proposito aveva commentato che il vertice sul clima stava andando «ben oltre il greenwashing di uno stato inquinante: è il greenwashing di uno stato di polizia»@.

L’annuncio, giunto come da tradizione nei giorni di chiusura della Cop, che la sede per il successivo summit sarebbe stata Dubai, uno degli Emirati arabi uniti – cioè un altro Paese la cui economia si basa sui combustibili fossili – aveva poi contribuito a creare il clima di rassegnata sfiducia che si è trascinato fino all’apertura della Cop28. Si era allora a fine novembre 2022, tempo nel quale tutti gli scienziati stavano già anticipando quello che ora sappiamo per certo: che il 2023 sarebbe stato l’anno più caldo mai registrato@.

Loyangallani, El Molo Bay, Ol Molo Village, l’isola di Komote nel 2009 (foto Gigi Anataloni)

Una conferenza tesa

La Conferenza del 2023, ospitata nella Expo city sorta nel 2020, si è aperta con l’accordo che rende operativo il Fondo perdite e danni, quello che la Cop27 aveva solo stabilito di creare. Secondo Jacopo Bencini, dell’organizzazione Italian climate network (Icn), la presidenza emiratina della Cop28, guidata dal sultano Ahmed Al Jaber, ha voluto con quella mossa «fugare il più possibile dubbi e sospetti rispetto a questa prima Cop presieduta da un Ceo (amministratore delegato, ndr) di un’azienda petrolifera»@.

Al Jaber è infatti direttore generale e amministratore delegato di Adnoc, la compagnia petrolifera di stato di Abu Dhabi, un altro dei sette emirati federati. Aveva ricevuto molte critiche quando, una settimana prima della Cop, aveva detto che non esistono prove scientifiche a dimostrare che eliminare i combustibili fossili permetterà di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali come richiede l’accordo di Parigi@.

La conferenza, raccontava Ferdinando Cotugno nei suoi dispacci@ pubblicati sul quotidiano Domani e nella sua newsletter Areale, è poi proseguita con negoziati costretti a farsi largo nella melma di risentimenti e tensioni che si agglutinava intorno a troppi elementi di disturbo: scorie delle fratture e dei conflitti del mondo esterno alla Cop che inquinavano l’atmosfera pacificata della Expo city.

Innanzitutto, il veto del presidente russo Vladimir Putin, ostile all’ipotesi che una capitale dell’Unione europea potesse ospitare la Cop29; ma anche le molte resistenze delle economie basate sul fossile, rivelate dalle agenzie Reuters e Bloomberg con la pubblicazione dei contenuti di alcune lettere inviate dall’Opec, l’Organizzazione dei Paesi produttori di petrolio, agli Stati membri. Le lettere contenevano una consegna inequivocabile: respingere ogni proposta di accordo che attaccasse direttamente i combustibili fossili invece delle emissioni@.

Secondo alcuni osservatori, nel rompere lo stallo potrebbe aver giocato uno strumento tradizionale della cultura araba, il majlis, che – riportava@ nella sua analisi sul New York Times il giornalista economico Peter Coy – è sia un luogo che un evento. È la zona di un’abitazione araba dove i padroni di casa si siedono con gli ospiti. Nella versione della Cop28, il majlis ha preso le sembianze di una riunione più informale, a porte chiuse, con i delegati seduti in cerchi concentrici a dar vita a una condivisione più personale e immediata.

El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Sullo sfondo l’isola di Komote nel 2024. (Foto Anna Pozzi)

La prima bozza

Ma, nonostante gli accorgimenti per rendere la negoziazione più fluida, la prima bozza di accordo uscita l’11 dicembre si è rivelata molto problematica@. La principale pecca era quella di non contenere il cosiddetto phase-out dei combustibili fossili (cioè la scelta di smettere del tutto di usarli), nemmeno per il carbone, sull’abbandono del quale la comunità internazionale sembrava invece più concorde. Il testo era più attento a promuovere i metodi per catturare e stoccare l’anidride carbonica, prevedendo una riduzione dei soli combustibili fossili le cui emissioni non possano essere abbattute appunto con quei metodi (unabated, nell’espressione inglese). Ma è noto che la ricerca sulle tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2 è ancora molto lontana dall’aver trovato soluzioni che permettano di abbattere emissioni su larga scala@.

Il culmine delle tensioni è stato probabilmente raggiunto con la frase – molto ripresa dai media – di John Silk, capo delegazione delle Isole Marshall, che così ha commentato la bozza: «La Repubblica delle Isole Marshall non è venuta qui per firmare la sua condanna a morte. Quello che abbiamo visto oggi è totalmente inaccettabile. Non andremo alle nostre tombe d’acqua in silenzio»@.

L’accordo che nessuno si aspettava

Aree allagate di Kinshasa dopo le piogge del 14 dicembre 2023 e 4 gennaio 2024 che hannop causato lo straripamento del fiume Congo (foto Cesar Balayulu)

Dopo un’ulteriore ultima nottata di negoziati, i delegati sono tuttavia arrivati a un documento finale – il primo Global stocktake, o Gst (in italiano: inventario globale)@ – che, a detta di molti osservatori, contiene alcuni passaggi storici. Un’analisi completa del documento è disponibile sul sito di Icn@; i punti che rappresentano una svolta sono i seguenti.
Per la prima volta in 28 anni, la conferenza sul clima fa ufficialmente proprie le posizioni della comunità scientifica, riconoscendo che il riscaldamento del pianeta è «in modo inequivocabile» causato dall’uomo, e invita tutte le parti a contribuire agli sforzi globali per allontanarsi (transitioning away, nel testo originale) dai combustibili fossili nei sistemi energetici in modo giusto, ordinato ed equo – ammettendo così di fatto che questo tipo di combustibili è, per così dire, il grosso del problema – e per triplicare l’energia prodotta con fonti rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica.

L’impegno a non superare la soglia del grado e mezzo rimane «la stella polare», ha detto l’inviato per il clima ed ex segretario di stato Usa, John Kerry e, anche se da Dubai non è uscita una tabella di marcia precisa, l’accordo dice in modo chiaro che per onorare questo impegno occorre limitare le emissioni del 43% entro il 2030, del 60% entro il 2035, e arrivare infine a zero emissioni nette entro il 2050.

Il Gst contiene un riferimento all’energia nucleare su cui il dibattito italiano si è molto focalizzato. Eppure, osservava Cotugno nella sua newsletter del 13 dicembre, il testo uscito da Dubai è ben lontano dal dare lo stesso peso a rinnovabili e nucleare: riconosce quest’ultima opzione come legittima, ma l’impegno verso le rinnovabili è molto più marcato.

Aree allagate di Kinshasa dopo le piogge del 14 dicembre 2023 e 4 gennaio 2024 che hannop causato lo straripamento del fiume Congo (foto Cesar Balayulu)

Tante incognite

Già durante la plenaria conclusiva della conferenza hanno cominciato a emergere gli elementi su cui occorrerà vegliare perché l’accordo non venga svuotato del suo senso.

A nome dell’Alleanza dei piccoli stati insulari, la capo negoziatrice samoana Anne Rasmussen ha rilevato la presenza nell’accordo di una «sequela di scappatoie»@. Il delegato del Senegal, a nome dei 46 paesi meno sviluppati, ha espresso preoccupazione per «i bassi contributi complessivi»@ che i vari fondi per il clima@ hanno nei fatti ricevuto, e che sarebbero vitali sia per finanziare interventi di adattamento, sia per limitare i danni subiti da una crisi climatica della quale i Paesi da lui rappresentati sono i meno responsabili.

Solo per fare un esempio: pochi giorni dopo l’effettiva creazione del Fondo perdite e danni con cui si è aperta la Cop, i Paesi ad alto reddito avevano promesso 700 milioni di dollari. La cifra però rappresenta solo lo 0,2 per cento dei 400 miliardi che, secondo la stima più citata negli ultimi mesi, sarebbe necessaria per le compensazioni.

Se la professoressa Valeria Termini, intervistata da Lucia Capuzzi su Avvenire@, vede la svolta di Dubai in un cambio di approccio della Cina – apparsa, dice Termini, più pronta a sostenere i Paesi in via di sviluppo e meno legata a quelli produttori di petrolio -, il giornalista esperto di clima David Wallace-Wells ha scritto che ai ritmi di emissioni attuali la soglia di 1,5 gradi di riscaldamento è già fuori dalla nostra portata@. Citando il Global Carbon Budget, pubblicazione coordinata dall’Università di Exeter, nel Regno Unito, che ogni anno sintetizza i risultati del lavoro di numerosi gruppi e centri di ricerca, Wallace-Wells riporta che le emissioni dovrebbero raggiungere lo zero non molto oltre il 2040: dieci anni prima di quanto indicato nell’inventario globale di Dubai.

A pesare sulle prospettive di gestione della crisi climatica c’è anche l’incognita delle elezioni negli Stati Uniti che, alla data di chiusura di questo articolo vedono l’ex presidente Donald Trump in largo vantaggio nelle primarie del partito repubblicano. Già durante il suo mandato, Trump aveva ritirato gli Usa – secondo Paese al mondo per emissioni – dall’accordo di Parigi e riempito le agenzie governative di lobbisti dei combustibili fossili, e c’è da aspettarsi un secondo mandato ancora più aggressivo, scriveva Politico lo scorso gennaio@.

Allo scenario del disimpegno degli Usa va poi aggiunta la disinformazione, che ha modificato forma e ha smesso quasi del tutto di negare che il cambiamento climatico esiste per dedicarsi invece ad attaccare le soluzioni, sostenendo ad esempio che le rinnovabili e i biocombustibili non funzionano o che le politiche per il clima ci impoveriranno.

È questo che emerge da uno studio del Center for countering digital hate, che ha analizzato l’evoluzione dei contenuti dei video negazionisti su YouTube. Il compito dell’ambientalismo nel 2024, twittava a proposito Ferdinando Cotugno, «è proteggere le ragioni della transizione dalla nuova ondata di bugie»@.

Chiara Giovetti

Mungitura in una stalla. L’allevamento intensivo degli animali è uno degli imputati principali del cambiamento climatico (foto Gigi Anataloni)




Rdc. Allagamenti in tutto il Paese

A inizio anno la piena del fiume Congo ha toccato 14 province sulle 26 totali. Il livello del fiume ha superato i 6 metri, quando 6,26 è il record assoluto. Il fiume è straripato in seguito alle piogge torrenziali del 4 gennaio scorso. Diverse strade e abitazioni di Kinshasa sono state colpite.

Le inondazioni sono state significative, soprattutto nei comuni che si affacciano sul fiume. Si tratta, in particolare, di Ngaliema, Bumbu, Limete e Maluku. Nel comune di Ngaliema, le acque hanno sommerso tutto, rendendo ancora più precarie le condizioni di vita già difficili della popolazione.

Nei comuni di Limete e Bumbu, dove le strade sono diventate impraticabili, le attività commerciali stanno affrontando molte sfide. Gli ambulanti sono i più colpiti da questa calamità. Inoltre, la maggior parte dei negozi non è più accessibile.

Vie e strade allagate, le persone usano le barche tradizionali o vanno a piedi per accedere alle loro attività quotidiane o ai loro affari, con il rischio di contrarre diverse malattie dalle acque inquinate.

Un magazzino divelto ha liberato il suo contenuto (bottiglie di bibite) nelle acque. Foto Archivio MC.

La popolazione cerca di costruire muri protettivi che possano aiutarla a prevenire il danneggiamento delle case: è l’unico modo per mettere in salvo le proprietà. Ma la situazione rimane insostenibile. La gente attende disperatamente che le autorità municipali intervengano in loro aiuto.

Kinshasa non è l’unica città colpita da queste piogge torrenziali. Anche molte altre province sono state coinvolte. Tra queste, la provincia del Kivu nella parte orientale del Congo, Boma, nella zona occidentale e Kananga nel centro. Tutte hanno dovuto affrontare gravi inondazioni e frane.

Trecento persone hanno perso la vita, circa 43mila case sono crollate. Inoltre, 1.325 scuole, 269 dispensari e 85 strade sono stati distrutti, e persiste un alto rischio di epidemie causate dalle acque.

Con la stagione delle piogge in corso, le popolazioni congolesi potrebbero affrontare ulteriori problemi di questo tipo, a meno che non vengano prese precauzioni urgenti. Kinshasa, come altre province, ha bisogno di un’adeguata pianificazione urbana per evitare disastri analoghi nel futuro.

Nel frattempo, le popolazioni colpite hanno bisogno di aiuto immediato.

Jean Kamuanga

In moto “sulle” acque, nei pressi di Kinshasa. Foto Archivio MC.




Kenya. Una terra estrema


L’area del lago Turkana è una zona isolata, nella quale il clima la fa da padrone. Non piove mai, anche
quando in altre zone si verificano alluvioni. È difficile procurarsi medicine e il cibo scarseggia sempre più. Anche andare a scuola è un’impresa. Eppure la gente non rinuncia a lottare.

«Qui i bambini non sanno che cos’è la pioggia. Perché non l’hanno mai vista!». Padre Mark Gitonga, missionario della Consolata a Loyangalani, sulle rive del lago Turkana, parla spesso per immagini. Immagini che, in questa terra estrema e affascinante del nord del Kenya, sono più efficaci di tante parole. Come «pioggia», appunto, «che per noi è solo un vocabolo nel dizionario».

Non la vedono da anni a Loyangalani, sulla sponda est di quello che è il lago desertico più grande al mondo: un vasto e luccicante specchio d’acqua, adagiato nella parte settentrionale della Great Rift valley – la più larga, lunga e cospicua frattura della crosta terrestre -, battuto dal vento e circondato dal nulla.

Il lago Turkana si trova in una delle regioni più inospitali del Paese: vaste distese di rocce laviche e sabbia, punteggiate qua e là da solitarie acacie. Qui, dove le temperature superano spesso i 50 gradi, si intrecciano e a volte si scontrano le vite di varie comunità di allevatori nomadi – in particolare Turkana, Samburu e Rendille – che, a causa della prolungata siccità, hanno perso circa l’80% del bestiame. Mentre gli El molo, che sono considerati la più piccola etnia dell’Africa e vivono in due villaggi lungo le rive del lago, cercano faticosamente di sopravvivere di pesca, nonostante le difficoltà sempre più grandi dovute ai cambiamenti climatici. Cambiamenti che sono all’origine anche di fenomeni estremi come, in altre zone del Paese, le devastanti inondazioni di fine ottobre e inizio novembre. Senza che qui scendesse una goccia di pioggia.

El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Isolati

«In questo momento siamo completamente isolati», racconta padre Mark a fine novembre. Insieme al diacono congolese Jacques Lwanzo garantisce una piccola presenza missionaria in quello che è un luogo simbolo per i Missionari della Consolata, che arrivarono fin qui oltre settant’anni fa sulla via verso l’Etiopia. Ancora oggi, padre Mark – che vive qui stabilmente dal 2019 – accompagna la piccola comunità cristiana, composta da circa cinquemila fedeli sparsi su un territorio vastissimo, e realizza molte iniziative in campo sanitario e soprattutto educativo, per provare a stare accanto alla gente delle contee Samburu e Marsabit e a dare un’opportunità di istruzione ai bambini che ne rappresentano il futuro. «Per qualche settimana sarà difficile muoversi – conferma il missionario -: l’acqua proveniente dalle montagne e l’esondazione di alcuni fiumi hanno provocato molti allagamenti e reso impraticabili le vie di comunicazione. Già in situazione normale le strade sono in cattive condizioni e alcune piste non sono percorribili a causa dell’insicurezza provocata dagli scontri tra comunità». Questi conflitti sono ulteriormente aumentati negli ultimi anni proprio a causa della grave emergenza provocata dalla siccità con conseguente perdita del bestiame, aumento dei prezzi e una crisi umanitaria senza precedenti.

Innalzamento delle acque. El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Uno strano fenomeno

Ad aggravare la situazione, si è aggiunto un altro fenomeno complesso e ancora non completamente indagato dagli scienziati che riguarda direttamente il lago Turkana, le cui acque si stanno rapidamente innalzando, nonostante la mancanza di piogge. Pare sia legato non solo ai cambiamenti climatici, ma anche alle sorgenti sotterranee e ai movimenti delle placche tettoniche che provocano un analogo innalzamento di altri laghi della Rift Valley. A questo fenomeno si legano anche alterazioni della salinità del lago con riflessi sulle specie animali e vegetali che ci vivono, e anche sulla vita della gente.

Uno dei due villaggi degli El molo, ad esempio, quello di Tumkende, si ritrova oggi diviso in due: una parte sulla riva e un’altra che, a causa dell’inalzamento dell’acqua, è diventata un’isola. Anche la scuola e la chiesa sono minacciate: «Abbiamo già dovuto ricostruire la cucina e alcune aule, mentre ormai non si riesce più a entrare in chiesa perché l’acqua è arrivata sino alla porta», ci dice padre Mark, mentre ci mostra alcuni vecchi edifici che emergono appena dal lago.

Per le popolazioni, inoltre, è diventato ancora più difficile pescare, perché occorre allontanarsi sempre di più dalla riva per trovare il pesce. E se gli El molo, che sono tradizionalmente dediti alla pesca, riescono ad avventurarsi in acque più profonde, i Turkana, che sono fieri pastori e si sono avvicinati al lago solo perché hanno perso il bestiame, rischiano spesso la vita. Nessuno di loro, infatti, sa nuotare e per pescare usano esili zattere costruite con qualche tronco di palma, nonostante il forte vento e le onde spesso alte.

È una terra estrema in tutti i sensi quella del Turkana: una terra dove vita e morte si sfiorano continuamente. «La situazione umanitaria è catastrofica – ribadisce padre Mark -. Essere malnutriti è diventata la normalità per donne e bambini. E gli uomini non stanno molto meglio». In effetti, si fatica a capire come la gente riesca a sopravvivere. A maggior ragione ora che le alluvioni hanno distrutto quel poco che rimaneva loro a disposizione. Secondo le agenzie dell’Onu, «le inondazioni hanno danneggiato terreni agricoli, bestiame e attività commerciali, mettendo in pericolo i mezzi di sussistenza nelle aree nordorientali già colpite da siccità prolungata. I bisogni prioritari sono ripari, cibo, acqua e servizi di primo soccorso».

El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Emergenza diffusa

L’emergenza riguarda non solo alcune zone del Turkana, ma anche le contee di Isiolo, Mandera, Marsabit, quella di Garissa più a sud est e quelle di Lamu e Mombasa verso la costa. Anche i due grandi campi profughi di Dadaab (contea di Garissa) e di Kakuma (contea di Turkana) – entrambi con oltre 270mila persone – sono stati colpiti e hanno registrato morti e feriti. Migliaia di persone già sradicate dalle loro terre sono di nuovo in fuga. Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), «quasi 25mila persone nel campo di Dadaab sono state interessati dalle inondazioni e molte hanno cercato rifugio nelle scuole e nelle comunità vicine. Alcuni rifugiati hanno aperto le loro case per ospitare i nuovi sfollati, riducendo molte famiglie a una condizione di sovraffollamento. Le strade allagate hanno ostacolato gli spostamenti, rendendo particolarmente difficile l’accesso ai servizi per i più vulnerabili, tra cui le donne incinte che devono raggiungere gli ospedali. Nel campo di Kakuma, un centinaio di famiglie sono state costrette a spostarsi in aree più sicure a causa della massiccia erosione del suolo provocata dalle piogge».

Tutto ciò ha causato anche una situazione igienico-sanitaria molto preoccupante: «Centinaia di latrine sono state danneggiate, mettendo le persone a rischio di malattie infettive, tra cui il colera». Queste inondazioni fanno seguito alla più lunga e grave siccità mai registrata, il cui impatto è ancora drammatico in tutto il Corno d’Africa, dove più di 23 milioni di persone già soffrivano la fame e più di 5 milioni di bambini erano gravemente malnutriti, secondo il World food programme (Wfp).

Malnutrizione. El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Cibo e medicine

Per la gente del Nord Kenya convivere con la mancanza di cibo è diventata la quotidianità ormai da diversi anni. A pochi chilometri da Loyangalani, alcune operatrici sanitarie provano a distribuire degli alimenti terapeutici per i bambini più piccoli. Sono loro a spostarsi da una comunità all’altra, perché la gente non riesce neppure a recarsi nei pochi dispensari presenti nei centri più grossi, come Loyangalani, appunto, o Moite più a nord. Oppure non ha nemmeno pochi spiccioli per pagare le medicine. Sempre che queste siano disponibili.

Un’infermiera consegna alcune bustine di cibo energetico a un bimbo di sei anni che pesa solo sei chili. Sua madre sembra pure lei una bambina, anche se porta le tradizionali collane e gli orecchini che la identificano come donna sposata. «Quando tornano nelle capanne, ne mangiano anche le mamme – ci fa notare l’infermiera -, ma che cosa possiamo fare? Pure loro non hanno niente…». Non c’è cibo e non ci sono medicine. «Da diversi mesi il governo non manda nulla», mentre padre Mark fa quello che può per rifornire almeno il dispensario della parrocchia, ma i pazienti sono pochissimi perché quasi nessuno è in grado di pagare cure e medicinali, per quanto costino cifre irrisorie. Se poi qualcuno sta veramente male, deve recarsi a Marsabit, a più di cinque ore di viaggio su piste dissestate, con una sorta di ambulanza che quasi nessuno può permettersi. E che comunque adesso non potrebbe muoversi a causa degli allagamenti con piste trasformate in fanghiglia.

Scuola. El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Le scuole

Sul fronte istruzione le cose non vanno meglio. La missione cattolica gestisce otto scuole con circa 800 studenti. Il governo dovrebbe pagare gli insegnanti, ma sono pochissimi quelli a carico del sistema pubblico. Per tutti gli altri ci devono pensare i genitori o la parrocchia, con l’aiuto di qualche Ong. «In questa regione – fa notare padre Mark – circa il 90% delle persone scolarizzate lo deve ai missionari della Consolata che sono stati qui». Anche lui ha particolarmente a cuore il tema dell’istruzione, come strumento prioritario per «pensare a migliorare globalmente la situazione e le condizioni di vita delle popolazioni locali».

Per il momento, però, la situazione è alquanto precaria: «Da mesi il governo non ci manda il cibo per la mensa», si lamenta Teresalba Sintiyan, direttrice delle scuole elementari cattoliche di Loyangalani. «Istruzione e salute sono le grandi sfide di questo territorio e riguardano innanzitutto le bambine e donne che continuano a essere discriminate e marginalizzate. Non hanno voce, non vengono mandate a scuola e sono forzate a sposarsi giovanissime. La crisi climatica, poi, ha aggravato la situazione e accresciuto i conflitti intercomunitari».

È d’accordo padre Mark: «Quella dell’educazione è la grande sfida e la grande soluzione – dice convinto -. Ed è quello che mi tiene qui». Per questo non risparmia energie per garantire un’istruzione al maggior numero possibile di bambini e bambine.

Le strutture, a volte, sono molto rudimentali, piccole capannucce fatte di rami e paglia, mentre nei centri più grandi, come Loyangalani e Moite, sono in muratura e spesso prevedono anche uno studentato per permettere a quelli che vengono da lontano di poter frequentare le lezioni. «Purtroppo ancora oggi molte famiglie non mandano i bambini a scuola perché non ne capiscono l’importanza. Se lo fanno, a volte, è solo perché possano avere almeno una tazza di porridge al giorno».

A Moite, tutti devono contribuire alla cucina portando un po’ di quel bene preziosissimo che è l’acqua. Non appena albeggia, file di bambini si recano nel greto disseccato di un fiume, dove alcune ragazzine un po’ più grandi scavano nella sabbia finché non trovano un po’ d’acqua. Con alcune tazze riempiono pazientemente le piccole taniche degli alunni che le depositano nella cucina con il fuoco a terra prima di recarsi in classe.

Dall’inizio dello scorso anno, il cibo è fornito dall’Associazione Papa Giovanni XXIII, che ha avviato proprio qui e in due villaggi vicini un progetto di sostegno nutrizionale per i piccoli allievi.

El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Teresa

«Stiamo combattendo con le poche forze e le poche risorse che abbiamo per risollevarci», ci dice Teresa Lopowar Etapar, che è la prima e unica donna laureata di questo villaggio grazie ai missionari. Teresa, che è veterinaria, ha deciso di mettere i suoi studi e le sue competenze a servizio della sua comunità. Un esempio e uno stimolo importanti per tanti giovani del posto. Non sono molti, infatti, quelli che tornano da queste parti una volta che sono partiti per altre regioni del Kenya. Lei però, come altri che i missionari hanno fatto studiare, ha voluto rimettersi in gioco qui, per il bene della sua gente.

Attualmente, il missionario sostiene altri 150 studenti in diverse scuole superiori del Kenya, grazie all’ospitalità di tante famiglie locali e al sostegno dei benefattori italiani, che purtroppo, però, si è molto ridotto dopo la pandemia di Covid-19.

«L’insicurezza alimentare è gravissima – ci fa notare Teresa -. Molta gente, nel suo cuore, vorrebbe tornare a dedicarsi alla pastorizia e alla vita che ha sempre fatto. Le comunità hanno chiesto alle autorità della contea di risarcirle del bestiame morto a causa della siccità, ma per ora hanno ricevuto solo promesse».

Qui, sul lago Turkana – come un po’ ovunque in Kenya – ci sono molto malcontento e molta disillusione rispetto alla classe politica locale e nazionale. Tante promesse, appunto, e pochissimi fatti concreti. Tutto il Paese è afflitto da una grave crisi economica acuita dall’innalzamento dei prezzi. Una situazione che ha un impatto ancora più drammatico in regioni poverissime, isolate e abbandonate come quelle del nord.

Lo scorso 25 novembre, il presidente William Ruto ha voluto dare un segno di solidarietà alle popolazioni del lago, recandosi personalmente a Loyangalani in occasione del tradizionale Festival culturale che si è svolto nonostante le difficoltà logistiche. Il presidente, arrivato in elicottero, ha lanciato un piano d’azione (2023-2027) per contrastare il cambiamento climatico con la partecipazione delle comunità locali, piegate da una crisi senza precedenti. Ma poi è volato via. E molti temono che, con lui, si siano involate anche le sue promesse.

Anna Pozzi

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Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

La freccia della pace

Anche a Dar es Salaam (Tanzania), dove opero, i ragazzi vanno a scuola zaino in spalla. Persino i bambini dell’asilo indossano lo zainetto, decorato con paperette e caprette. Pochi bimbi, però, perché la scuola materna è un lusso da queste parti.

A questi zaini e zainetti ho pensato, cari missionari della Consolata, visitando il vostro «Polo culturale» Cam, Cultures and Mission, di Via Cialdini 4, Torino. Già. Iniziando la visita, sono stato «accolto» proprio da uno zaino e da un paio di sandali. Corredo essenziale per chi affronta un viaggio a piedi.

Un viaggio, quello nel Cam, attraverso reperti culturali di valore assoluto, esperienze di missionari e missionarie, danze e musiche coinvolgenti, che mi hanno avvicinato ai Kikuyu del Kenya, ai Wahehe del Tanzania, ai Pigmei del Congo, agli Amara dell’Etiopia. Senza scordare gli Yanomami del Brasile e altre popolazioni dell’America Latina. Realtà affascinanti, documentate da foto dell’«archivio Missioni Consolata». E l’Asia? L’Asia non manca nel «Polo culturale». Così ho attraversato le steppe gelide e sterminate della Mongolia…

Anno 1241, Cracovia (Polonia). Dal campanile della chiesa di Santa Maria un trombettiere lancia l’allarme: «I Mongoli sono alle porte!». Ma un arciere mongolo colpisce a morte quel trombettiere polacco. Ancora oggi, a Cracovia, ogni ora un trombettiere suona quell’allarme del 1241.

E dalla Mongolia il 10 giugno 2018 Paola Giacomini è partita a cavallo con nello zaino una freccia simile a quella dell’arciere mongolo che trafisse il trombettiere polacco. Paola ha cavalcato per 15 mesi, fino al 16 settembre 2019, allorché entrò nella basilica di Santa Maria, a Cracovia, per deporre la freccia della … pace.

Grazie Mongolia, grazie Polonia. Grazie Paola, ambasciatrice di pace.

Francesco Bernardi,
Dar es Salaam, 13/10/2023

In memoria di padre Paolo Tablino

Don Paolo Tablino, prete della diocesi di Alba, è stato missionario fidei donum e poi missionario della Consolata a Marsabit, nord del Kenya, dalla fine degli anni Cinquanta al 2009.

Per ricordare la sua opera e il suo impegno pastorale che negli anni ha favorito l’istruzione, l’accesso alla sanità, l’inculturazione del Vangelo nella valorizzazione della cultura locale, lo scorso 28 ottobre è stato inaugurato ad Alba un monumento, opera del giovane artista albese Samuel Di Blasi.

L’installazione dal titolo «Marsabit», opera d’arte alta più di quattro metri che rappresenta un albero, è stata posta nell’area verde che l’amministrazione comunale aveva già dedicato al missionario, in prossimità della chiesa Cristo Re, tra via Romita e via san Teobaldo.




Comunità di Famiglie


Sommario


La comunità di Bethesda a Padova
Essere insieme è salvifico

Quattro coppie, sedici figli, uniti attorno a un sogno che si realizza da cinque anni in un antico casolare, nell’ordinarietà di una vita quotidiana vocata all’accoglienza. Un’esperienza di Chiesa domestica che annuncia il Vangelo con la semplicità della vita di famiglie che sanno di non bastare a se stesse.

Via Adige, nella periferia nord di Padova, attraversa uno spicchio di campagna incuneato nel quartiere Sacro Cuore. Siamo in città, a 20 minuti di mezzi pubblici dalla basilica del Santo, ma attorno a noi c’è molto verde e campi coltivati.

Al civico 35 troviamo un cancello aperto che invita a percorrere il viale alberato fino all’antico casolare in fondo. Entriamo: il colpo d’occhio è molto bello e ci indica qual è uno dei motivi per cui questo posto è tanto apprezzato dalla Chiesa locale e dalla città. Il portico del corpo centrale della cascina è sostenuto da pilastri che formano cinque archi. Lì un tempo c’era la stalla sormontata dal fienile. Ai due lati, la struttura ospita gli appartamenti delle quattro coppie che, con i loro sedici figli, abitano qui. Siamo arrivati alla comunità di Bethesda che il 15 ottobre scorso ha celebrato i suoi primi cinque anni. Alla messa nel giardino, presieduta da monsignor Paolo Bizzeti, Vicario apostolico di Anatolia (Turchia) e amico delle quattro famiglie, erano presenti diversi sacerdoti e molti amici padovani. La comunità, infatti, nonostante la sua storia breve, intervallata anche dagli anni del Covid, è molto conosciuta a Padova. Tutti i fine settimana qui sono accolti gruppi, associazioni, singoli.

Ordinarietà accogliente

È lunedì sera. Andremo via domattina: vivremo un pezzo della vita ordinaria di questo piccolo villaggio dove, oltre alle quattro famiglie, ce n’è una quinta «accolta» che vive da quasi tre anni nel piccolo alloggio ricavato nella struttura allo scopo di offrire una sistemazione temporanea a qualcuno che ne abbia bisogno.

Quando abbiamo sentito Mauro Marangoni, 44 anni, per darci appuntamento, ci ha invitati a cena con l’idea di dedicarci con calma all’intervista dopo il rosario della sera.

Arriviamo nel pieno dell’andirivieni che precede il pasto serale. Bambini che tornano da una gita, altri dallo sport, gli adulti dal lavoro.

Barbara e Luana ci accolgono con un succo di frutta, poi ci mostrano il soppalco ricavato nel salone comune, l’ex fienile, dove dormiremo, e corrono a preparare la cena.

Mentre ci sistemiamo, sentiamo arrivare e andare auto e bici.

Poco dopo compare Mauro per portarci nel suo alloggio dove vive con la moglie Chiara Bolzonella, 43 anni, e i cinque figli: Giosuè, 15 anni, Pietro, 14, Teresa, 12, Martino, 9 e Lorenzo di 2.

Dal 2011 al 2013 Mauro e Chiara sono stati in Kenya come laici missionari fidei donum per la diocesi di Padova. A Nyahururu, 2.400 metri di altitudine, quasi 200 km a nord di Nairobi.

«Quando siamo tornati sentivamo il bisogno di continuare a vivere in comunità – racconta Chiara -. Lì eravamo insieme a sette sacerdoti. È stato bello, ma ci mancava il confronto con altre famiglie. Una famiglia da sola non basta a se stessa».

La cena è allegra. Tra il racconto della gita di un figlio, quello di un lavoretto fatto a scuola di un altro, battute e aneddoti, arriva presto l’ora del rosario nel porticato.

Oltre ai membri della comunità, ci sono anche alcuni amici. Le Ave Maria sono recitate dai bambini che un paio di volte si confondono saltando un verso. Gli adulti sorridono benevoli. Il clima della preghiera è semplice. Molto caldo.

Finito il rosario, Mauro ci invita a salire nel salone per l’intervista insieme a Damiano. Sono già le ventuno e l’indomani ci si alza presto per il lavoro. Salutiamo tutti gli altri che, dopo aver messo via le panche, vanno a prepararsi per la notte.

Nella grande sala si tengono gli incontri quando fuori non si può stare. Può ospitare un centinaio di persone. Diversi gruppi scout vi hanno già pernottato per le loro uscite.

A un’estremità, sotto il soppalco, c’è un bagno. All’altra estremità una piccola cappella, bella e accogliente. In un angolo c’è una cucina attrezzata.

Desiderio di comunità

Mentre Damiano ci prepara una tisana, Mauro inizia a raccontare: «La comunità è composta da quattro famiglie. Luana e Alberto di 36 e 38 anni, con Giovanni di 10 anni, Giacomo di 4 e Tommaso di 1, sono i più giovani. Lei è insegnante alla primaria, lui è ingegnere e lavora nella ricerca.

Roberto e Barbara, 46 e 45 anni, lui ausiliario del traffico in autostrada, lei erborista, hanno cinque figli: Maria di 19 anni, Matilde di 17, Tobia di 12, Agnese di 10 e Gioele di 7.

Elena e Damiano hanno 43 e 44 anni, lei è ostetrica e lui lavora nella disabilità. I loro figli sono Giosuè di 13 anni, Tobia di 12, Giorgio di 8.

E poi ci siamo noi. Io lavoro in azienda come responsabile di amministrazione e controllo, Chiara è insegnante di religione alle superiori. Come vedi, 12 figli su 16 sono maschi».

La storia della comunità di Bethesda potremmo farla iniziare con il rientro di Mauro e Chiara dal Kenya e con la contemporanea ricerca di un’esperienza di comunità da parte di Roberto e Barbara. «Noi nel 2013 tornavamo da tre anni di missione – racconta Mauro -. Roberto e Barbara, che conoscevamo da tempo, in quel periodo vivevano il fallimento di un progetto di una casa di accoglienza con alcune suore.

Loro frequentavano il centro Antonianum di Padova, gestito dai gesuiti, dove il direttore ai tempi era padre Paolo Bizzeti, che sarebbe poi stato nominato Vicario apostolico dell’Anatolia nel 2015.

Padre Paolo ha una ricca storia di comunità di famiglie: ha contribuito a fondarne due a Bologna, una in Toscana. Insomma, sentendo il nostro desiderio ha “annusato l’affare”, e abbiamo organizzato una serie di serate per chiunque fosse interessato a un’esperienza di comunità tra famiglie.

La prima sera sono venute ventiquattro coppie: alcune convinte, altre meno, con diverse motivazioni e idee di comunità. Da lì è iniziato un percorso di “scrematura” che in tre serate le ha portate a dodici.

C’erano poche linee guida, ma molto chiare: che fosse un’esperienza dentro la Chiesa cattolica, che fosse prevista una convivenza e un progetto di accoglienza, che ci fosse una guida spirituale».

Attorno a un sogno

Dopo i primi incontri, le dodici famiglie hanno iniziato a trovarsi una volta al mese. Nel giro di sei mesi, sono diventate quattro. Era dicembre 2014. «È stato un ritrovarsi e un discernere sul desiderio comune. Sin dall’inizio era chiaro che non era un progetto in nome di un’amicizia, ma di un sogno da realizzare», chiarisce Mauro.

Damiano ci mostra una tavoletta di legno appesa sopra la cucina. Sopra sono incisi il nome della comunità e il logo. Questo raffigura in forma stilizzata i cinque archi del porticato.

«I cinque archi rappresentano i pilastri su cui si fonda “il sogno” di Bethesda – ci dice -: fraternità tra famiglie, Parola di Dio, servizio alla Chiesa, accoglienza di bisognosi e misericordia. Quest’ultima è un po’ il collettore di tutto il resto».

«L’idea è che lo stare insieme passa attraverso l’esercizio della misericordia», aggiunge Mauro. E prosegue: «Quando noi quattro famiglie abbiamo deciso di partire, abbiamo iniziato a trovarci tutte le settimane per pregare, ragionare e sognare insieme. È nata l’idea di cercare un nome simbolico. Era il 2015, l’anno del giubileo della Misericordia, e Bethesda, versione inglese di Betzaetà, significa “Casa della misericordia”. È il nome della piscina di cui racconta il Vangelo di Giovanni al capitolo 5 che aveva cinque portici, come i cinque archi di questo cascinale. Gesù entra a Gerusalemme dalla Porta delle pecore, vede il paralitico e gli chiede: vuoi guarire? La cosa per noi interessante è la risposta del paralitico: sì, ma non ho nessuno che, quando passa l’angelo, mi butta nell’acqua. Siccome l’idea della comunità di famiglie è quella di prendersi cura l’uno dell’altro, ci piaceva l’immagine di essere gli uni per gli altri quelli che, quando hai bisogno, ti prendono e ti buttano dentro la piscina. Crediamo fermamente – prosegue Mauro – che una delle grandi fatiche delle famiglie in questo tempo è la solitudine. Essere insieme non è facile, perché ti pesti i piedi, ti arrabbi, l’altro ti mette di fronte ai tuoi limiti, ma è salvifico».

Una cascina in città

Una volta radunate attorno a un progetto, ora le famiglie dovevano trovare un luogo nel quale realizzarlo. Inizialmente avevano pensato a una struttura della diocesi, nella quale andare in comodato d’uso o con altre formule, in modo che l’impronta ecclesiale della comunità fosse esplicita fin dalle mura. Ma quella ricerca non ha dato frutti e, quando si è orientata verso l’acquisto di una casa, è spuntato il vecchio cascinale di via Adige, abbandonato oramai da anni.

Mauro ci mostra un album fotografico. Nelle foto della messa di apertura del cantiere dell’8 maggio 2017, sullo sfondo, si vedono muri scrostati, scritte, erbacce. Il luogo era noto nel quartiere per essere frequentato da spacciatori e vandali.

Un po’ di pagine dopo, le foto del 14 ottobre 2018 mostrano il cascinale ristrutturato con una folla di mille persone, 24 sacerdoti e un vescovo (padre Paolo) radunati nel prato di fronte al porticato per la messa d’inaugurazione della comunità.

«La cosa bella è che la Chiesa locale ci riconosce tantissimo – racconta Mauro -. Tutte e quattro le nostre famiglie hanno un’importante storia ecclesiale, e tutti abbiamo da subito raccontato a molti il nostro sogno. E quando racconti un sogno, la gente se ne prende cura.

Anche grazie alla “pubblicità” che ci ha fatto padre Paolo, abbiamo avuto aiuti da ogni parte per realizzare questa cosa che altrimenti sarebbe stata al di là delle nostre capacità. I nostri quattro alloggi, infatti, li abbiamo acquistati e ristrutturati con i nostri soldi, ma le parti comuni come questo salone, la cappella, l’alloggio per l’ospitalità, gli spazi esterni, che sono proprietà dell’associazione costituita ad hoc, non saremmo mai riusciti a comprarli e sistemarli senza il contributo economico, e poi anche fisico, di molti che hanno creduto nel nostro progetto.

È stata l’esperienza di Provvidenza più concreta della mia vita – chiosa Mauro -. La cosa bella della comunità è che è qualcosa di più della somma dei singoli. Qualsiasi cosa qua dentro nessuno di noi sarebbe stato in grado di farla da solo».

Accoglienza

Nella cascina, da tre anni, vive anche una famiglia accolta. Damiano racconta: «Dopo otto mesi che eravamo qua, abbiamo iniziato l’accoglienza con un ragazzo spagnolo venuto a Padova per lavorare qualche mese. Poi ci siamo rivolti alla Caritas, ed è arrivata questa famiglia che ora è in grado di fare un passo verso l’autonomia. Oggi abbiamo la possibilità di costruire nuovi spazi per l’accoglienza. Abbiamo infatti ricevuto molte richieste, le più varie, e quindi ci stiamo interrogando su come fare». «Ad esempio – aggiunge Mauro -, quest’anno abbiamo avuto tre richieste per padri separati che non sanno dove andare. Poi ci sono persone che vorrebbero venire nei fine settimana. Un sacerdote che voleva stare qua un mese. C’è tanta gente che ci chiede. E queste richieste ci interrogano».

Più relazioni che programmi

Gli appuntamenti annuali proposti dalla comunità di Bethesda non sono molti, eppure tutte le settimane c’è gente che va e viene per il viale alberato. Lo stile delle quattro famiglie è più improntato all’accoglienza e alle relazioni che ai programmi.

Anzitutto le «relazioni interne»: «Abbiamo degli appuntamenti fissi – elenca Mauro -. Il lunedì mattina le lodi. Il giovedì sera una preghiera più lunga per noi adulti. Il venerdì sera una preghiera con i figli. Il martedì abbiamo la riunione tecnica, dove decidiamo i compiti dei giorni successivi. La domenica è la giornata in cui invitiamo le persone a venirci a trovare e stiamo tutti insieme. Normalmente siamo da quaranta in su».

«Spesso vengono alcuni frati che sono a Padova per studiare. Provengono dall’America Latina e dall’Europa – aggiunge Damiano -. Vengono perché si sentono a casa, respirano un clima di famiglia».

«Poi ci sono coppie amiche – continua Mauro -, e compagni di scuola dei nostri figli, magari figli unici, che stanno qui dal venerdì alla domenica».

Per quanto riguarda gli appuntamenti con «esterni», «oltre al fine settimana di esercizi spirituali che organizziamo per famiglie una volta all’anno e due pellegrinaggi a Natale e Pasqua – ci dice Mauro -, quello che facciamo è principalmente accogliere. Ci chiedono di venire quasi tutte le settimane gruppi di diverso tipo: scout, coppie, associazioni.

Il nostro servizio poi lo offriamo in parrocchia: il coro, il catechismo, l’oratorio, il catecumenato.

Il bello della comunità è che siamo tanti e possiamo dividerci i compiti. Detto questo, però, bisogna fare un po’ di attenzione alla bulimia di attività: anche stare un po’ a casa è importante».

Il nucleo è la famiglia

A proposito di stare un po’ a casa e in famiglia, chiediamo come i figli vivono questa esperienza.

«Loro fanno molta più comunità di noi – risponde Mauro -. Noi facciamo riunioni infinite, facciamo attenzione agli equilibri, una volta al mese ci troviamo con una psicoterapeuta che ci aiuta nella gestione dei conflitti. I nostri figli, invece, sono liberi di mandarti a quel paese, di vivere la comunità dall’inizio alla fine. Chi è nato qui è proprio parte dei muri. Non starebbe altrove».

Domandiamo qual è il vantaggio, se c’è, di essere un ragazzino che cresce in un contesto come questo: «C’è un fortissimo senso dell’altro – dice Mauro -. Qui vedo crescere bambini che non si concepiscono da soli. A volte dicono: ma non posso avere una volta un gioco solo mio? Per le biciclette abbiamo messo i cartelli: questa è tua e guai a chi te la tocca; però vedo un bell’equilibrio relazionale dei nostri ragazzi».

Mauro prosegue: «Comunque la famiglia rimane il nucleo della comunità. La comunità deve essere al servizio della famiglia, se fosse il contrario non avremmo capito niente. Questo perché non siamo famiglie strane o speciali, siamo normali. La nostra non è una scelta assurda, nella quale devi buttare via tutto. L’unica cosa da buttare via è l’idea di non avere bisogno degli altri».

«La normalità – aggiunge Damiano – per noi riguarda la questione delle case che si fanno chiesa, della Chiesa domestica. La Porta delle pecore da cui entra Gesù a Gerusalemme è la porta da cui entrano le persone che vanno al tempio. Una specie di porta di servizio. Per noi è importante che questo posto, che è molto bello e speciale, sia anche molto normale, perché possa essere quella porta di servizio per la Chiesa, per quelli che, per mille motivi, dalla porta principale nella Chiesa non ci entrano».

Si è fatto tardi. Damiano e Mauro si congedano e ci augurano un buon riposo.

Il mattino successivo, dopo la colazione a casa di Mauro e Chiara tra zaini da finire di preparare e occhi assonnati, ci sediamo sotto il porticato prima di essere accompagnati in centro da Damiano. D’un tratto, il silenzio del mattino viene interrotto dalle voci allegre dei ragazzi che escono tutti simultaneamente dalle loro case con gli zaini in spalla. Si salutano, vanno al piccolo capanno delle biciclette, ci montano sopra, si aspettano finché non sono tutti pronti, e partono.

Li vediamo sciamare per il vialetto, oltre al cancello sempre aperto.

Luca Lorusso


Sichem, Efraim e Pachamama a Olgiate Olona (Varese)
Accogliersi per accogliere

Nel 1999 nasce Sichem, comunità formata oggi da nove famiglie che ne accolgono altre quattro in difficoltà. Da Sichem, nel 2011, nasce Efraim: giovani che sperimentano la vita assieme per tre anni. Infine, nel 2018, nasce Pachamama, sei famiglie, tra cui alcuni figli di Sichem. Un’esperienza generativa unica, ma non irripetibile. «Gentili corrieri e postini, siamo famiglie che vivono in comunità. Se non trovate qualcuno in casa, suonate per favore a qualche vicino, che ritirerà volentieri il plico. Grazie!».

Il pannello di legno che ci accoglie al portone della Comunità Sichem a Olgiate Olona (Varese) non lascia spazio a dubbi: stiamo per entrare in un luogo speciale. Abitato da persone del tutto normali che hanno scelto di fondare la propria vita quotidiana sulla condivisione, l’accoglienza e l’alleanza tra famiglie.

Al momento della nostra visita, in un assolato giorno di fine settembre, gli abitanti della comunità sono 76, di ogni età. Ogni nucleo con la propria abitazione e diversi spazi condivisi. Tra questi 76, le quattro coppie con i rispettivi figli, quindici in tutto, che nel settembre 1999 hanno varcato quel portone con ideali condivisi ma nessuna sfera di cristallo: non sapevano che un quarto di secolo dopo sarebbero state considerate un modello unico del suo genere in Italia e, forse, nel mondo.

Perché? «Perché dove prima c’era una comunità, ora ce ne sono tre», indica Alberto, 65 anni, sposato con Tiziana, cofondatore di Sichem.

Tre comunità, proprio così, tutte in un’unica area che comprende più strutture abitative e abbondanti aree verdi.

Sichem è quella originaria che conta oggi nove famiglie residenti e quattro nuclei in accoglienza temporanea impegnati in percorsi di autonomia.

Efraim è la seconda, nata nel 2011 dall’idea di alcuni figli delle prime famiglie: un luogo in cui giovani di diverse provenienze si sperimentano per tre anni nel «servizio» agli altri.

La terza, Pachamama, è nata nel 2018 da persone uscite dal percorso di Efraim che hanno a loro volta dato vita a nuove famiglie, sei in tutto.

Il risultato è un micromondo che ha bisogno di essere descritto un passo alla volta, partendo dalla sua genesi. E da una canzone – l’inno di Sichem – che inizia così: «Il cuore è piccolo come un pugno, ma basta poco e se vuoi ci sta dentro tutta quanta la gente del mondo, e rimane ancora posto».

Mettersi in cammino con altri

Una comunità di famiglie non nasce dall’oggi al domani, anzi: tre delle famiglie che hanno dato vita a Sichem avevano cercato il luogo giusto per ben quattordici anni, percorrendo in lungo e in largo la Lombardia, incontrando privati, associazioni, parrocchie, amministratori comunali.

L’occasione è arrivata negli ultimi mesi del XX secolo, grazie a un agronomo ex compagno di classe di Franco (membro di una delle famiglie): è lui che li ha messi in contatto con Piero Balossi Restelli, imprenditore proprietario di un ampio terreno con alcuni cascinali, una storica dimora signorile e un bosco a ridosso di una conca del fiume Olona, non lontano dal centro cittadino di Olgiate.

In poco tempo è stata presa una decisione: Balossi – persona attenta e visionaria fino alla fine dei suoi giorni, avvenuta nel 2021 – avrebbe reso abitabile la cascina principale per le famiglie in cambio di un affitto a lungo termine, in piena condivisione dei valori fondanti delle quattro famiglie: condivisione, accoglienza e alleanza, appunto.

«La prima notte, il primo settembre 1999, l’abbiamo passata al buio, senza gas e luce, ma era talmente forte la voglia di iniziare a vivere assieme…», ricorda Alberto mentre passiamo sotto l’arco che dal parcheggio porta nella corte in cui ci sono le case delle famiglie di Sichem, dove incontriamo anche sua moglie Tiziana.

«Piano piano abbiamo messo a posto la struttura, poi la zona verde tutt’attorno» che ora è un immenso prato con alberi, un orto biodinamico, giochi per bambini e, nel bel mezzo, un forno per panificare. «Il forno? È l’esempio di come funzionano le cose qui», aggiunge Alberto. «L’abbiamo costruito per renderlo disponibile a tutti: a chi vive dentro le nostre case, ma anche a chi viene da fuori. Quando facciamo le feste, lasciamo acceso il forno tutto il giorno: la popolazione lo sa e viene a cuocere pane, pizza e altro».

Anche l’orto segue un modello comunitario: lo gestisce una persona, ma chi ne vuole usufruire paga una quota annuale e ha diritto a una cassetta settimanale di ortaggi. Le case hanno metrature simili tra loro, ma ovviamente ognuno l’ha personalizzata nel tempo, mentre gli spazi comuni – ad esempio la sala Beniamina e la Limonaia in cui si fanno riunioni, eventi e pranzi condivisi, la cappellina in cui ogni venerdì sera le famiglie pregano, la zona del deposito delle biciclette – sono stati pensati assieme a seconda delle esigenze.

È stato importante, per le famiglie fondatrici, conoscersi un po’ alla volta: «Non eravamo già amici quando siamo arrivati qui. Alcuni erano colleghi, altri conoscenti. Ci siamo uniti grazie all’idea», specifica Franco, 64 anni, quando ci raggiunge.

Lui e Bruna, genitori di quattro figli più tre adottati, già agli albori avevano orientato la propria unione al «servizio»: «Aprirsi agli altri, vivere assieme ad altre famiglie è per noi alla radice di tutto». Incalza Alberto: «Il matrimonio è già una comunità, anche a due, ma poi se ti metti in cammino con altri fai cose che non riesci a fare da solo. Dal forno comune fino all’accoglienza di persone in difficoltà».

Cinquantacinque nomi

Prima ancora che la comunità originaria si allargasse alle altre due, il cuore pulsante del «servizio» di cui parla Franco è stato fin da subito l’accoglienza di chi avesse bisogno di un luogo per uscire da situazioni di vita delicate. Oggi ci sono quattro appartamenti per questo.

Nella cappellina, quando più tardi la visiteremo, troveremo scritti i nomi delle cinquantacinque persone che in questi anni sono state accolte da Sichem, chi per alcuni mesi, chi per diversi anni.

«Attualmente stiamo accogliendo nove persone, un uomo italiano, una famiglia dello Sri Lanka e due originarie dell’Africa», spiega Franco. Fin dalle prime accoglienze «percepivamo all’esterno della comunità un pregiudizio sugli stranieri», poi la quotidianità con la sua normalità ha avuto il sopravvento. «Devi vedere con che energia alcuni di noi si dedicano alle accoglienze, dalle relazioni con le persone alla pulizia degli appartamenti, alla ricerca dei mobili», sottolinea Marco, che, con la moglie Rosaria, è arrivato a Sichem nel 2008.

«Io non mi occupo in modo diretto di accogliere perché mi ritengo poco paziente, ma vedendo gli altri ho imparato modi di fare che non avrei mai appreso altrove», aggiunge con un sorriso.

Oggi il metodo con cui si accoglie è rodato – a volte è il servizio sociale che invia le persone, altre volte associazioni che contribuiscono alle spese, almeno in una fase iniziale, in attesa che chi è accolto inizi a pagare l’affitto calmierato -, ma all’inizio non è stato tutto rose e fiori. Anzi: «La prima accoglienza è stata un disastro», ricorda Flavia, a Sichem con il marito Guido fin dall’inizio. «Non sapevamo come fare a gestire le emergenze, chi chiamare quando c’erano problemi. Ma dopo lo sbandamento iniziale ci siamo strutturati e sono emersi anche i valori individuali di ciascuno di noi: c’è chi ha un approccio più “educativo”, chi più “pratico”, entrambi molto utili».

Il pregiudizio positivo

A Sichem, ogni famiglia è titolare del proprio appartamento, ha i propri spazi e tempi di vita, ma le porte di casa rimangono aperte mettendo in comune una parte non secondaria delle vite di ciascuno, secondo lo stile della lettera ai Romani: «Gareggiate nello stimarvi a vicenda. Siate forti nella tribolazione. Solleciti per le necessità dei fratelli. Premurosi nell’ospitalità».

È questo un pilastro centrale della comunità: la stima, il pregiudizio positivo sugli altri.

Il nome stesso della comunità, del resto, ricorda il rinnovamento dell’alleanza tra le tribù d’Israele una volta arrivate nella Terra promessa, a Sichem, descritto nel libro di Giosuè.

Anche il metodo decisionale scelto dalla comunità è ispirato dallo stesso stile: «Va nella direzione del consenso, dell’avere l’accordo di tutti, quindi non a maggioranza», riprende Flavia. «Abbiamo discussioni infinite e complicate, ma poi provvidenzialmente si arriva a una decisione condivisa».

«All’inizio – ricorda sorridente Franco – condividevamo le vacanze. Era utile per mettere in ordine le idee, trovare l’identità collettiva. Una volta siamo andati in Svizzera per fare una sorta di concilio. Lì abbiamo deciso molte cose, dal regolare la vita dei bambini nelle strutture fino all’accoglienza».

«L’apertura al cambiamento è il tema portante di tutti questi anni assieme», riprende Alberto mentre ci accompagna tra gli edifici delle comunità.

Giovani in comunità

Nel cortile si sente il suono di un pianoforte. È Andrea che diffonde le note all’imbrunire.

Arriviamo alla villa signorile poco distante, la dimora ottocentesca che Restelli ha ristrutturato e assegnato, anche in questo caso in affitto, alla comunità Efraim, nata nel 2011 da alcuni dei figli di Sichem alla ricerca di un luogo in cui vivere anch’essi in condivisione ma fuori dalle case dei genitori. Qui abita, tra gli altri, Roberto, classe 1997: «In Efraim vivono sei giovani alla volta. Tre ragazze e tre ragazzi che gestiscono la struttura fondata sulle porte aperte ai bisognosi e sulle attività culturali per il territorio».

Mentre parliamo arriva la coetanea Silvia. I due decidono cosa preparare per cena e per quante persone, poi si raccontano la giornata e gli appuntamenti in programma.

Di passaggio ci sono un prete di Pisa e due suore congolesi che vivono in Toscana.

«Nei giorni scorsi – riprende Roberto, vedendo il nostro sguardo curioso su palloni e manifesti posti in un angolo dell’ingresso – abbiamo organizzato un torneo di pallacanestro in memoria di un ragazzo del paese che ha perso la vita non molto tempo fa»: il dinamismo della Villa si nota al primo sguardo. Tra i ragazzi che ci vivono oggi, dai 23 ai 26 anni, c’è chi studia, chi fa servizio civile, chi lavora: la dimensione comunitaria è una forte motivazione in più a riempire di senso le loro vite.

La terza nata

Nel 2018, i primi giovani di Efraim, tra cui alcuni figli di famiglie di Sichem, hanno fatto un passo ulteriore, aprendo la propria comunità: Pachamama, indipendente seppure legata alle altre, è posta a poche decine di metri dalla Villa.

Incontriamo Giovanni ed Enrica, figli di due delle famiglie fondatrici di Sichem. Sono sposati e hanno due figli maschi piccoli – che ci gironzolano attorno con bici senza pedali nel giardino – e un terzogenito in arrivo: «La prima femmina da generazioni», sottolinea Giovanni.

Pachamama, che oggi conta sei famiglie, fa parte della rete delle «comunità Laudato si’», nate dall’invito di papa Francesco a mettersi in gioco in favore della Terra come bene comune. «Ci dedichiamo soprattutto all’alta formazione ambientale, in particolare ogni anno a giugno promuoviamo il Web-weekend di bellezza», un’iniziativa che richiama anche decine di persone in presenza.

Un altro appuntamento oramai consolidato, organizzato da tutte e tre le comunità assieme, è la Tavola dei popoli. Un evento che riunisce centinaia di persone residenti nei dintorni ma che hanno origini da diverse parti del mondo.

Si può fare

«Ci siamo resi conto – ragiona Alberto mentre concludiamo il giro – che il messaggio di questo luogo è generativo: da Sichem è nata Efraim e poi Pachamama, la vita comunitaria si rinnova grazie alla passione di chi subentra». In effetti, questa sorta di rigenerazione continua della comunità originaria è qualcosa di tanto inedito quanto affascinante. Replicabile? «Direi proprio di sì – risponde Alberto -. Bisogna provarci, ognuno come può. Il mondo può essere brutto ma con coraggio si può dare il proprio contributo per migliorarlo».

Anche Bruna e Franco lanciano un messaggio: «In fondo la nostra è una scelta in parte egoista, quella di vivere in comunità, perché per primi fa stare bene noi: a casa sei sicuro di trovare un contesto di amici e relazioni che ti aiutano anche nei momenti difficili. Detto questo, la vita è nettamente più facile se la si “fa” insieme».

Daniele Biella


La neonata esperienza di Marene (Cuneo)
Segno di una vita possibile

È nata un anno fa con l’intento di formare una «famiglia di famiglie». L’esperienza di Marene riunisce quattro nuclei che si sostengono a vicenda nella quotidianità e nella fede, e mettono al centro le relazioni nel desiderio di essere un piccolo seme di Chiesa tra le case.

Arriviamo a Marene, piccolo centro del cuneese di 3.300 anime, alle 9 di un mercoledì mattina. Ai due lati di via Roma ci sono piccoli condomini, ville, cascine storiche, capannoni. Poco più in là, la campagna.

Matteo ha preso mezza giornata di ferie per accompagnare Elia al nido per l’inserimento. Approfittiamo di questo «incastro» per conoscere la fraternità di famiglie nata a fine 2022: otto adulti tra i 39 e i 50 anni, sedici figli tra i 18 mesi e i 19 anni.

Sopra il citofono della piccola palazzina di due piani una targhetta dice: «Condominio vicino».

Nonostante sia autunno, Matteo ci accoglie nel suo alloggio in jeans, maglietta e infradito. Accanto a lui ci sorridono Chiara e Daniela rappresentanti di due delle altre tre famiglie. «Ho lasciato Elia che piangeva», dice, mentre ci fa sedere al tavolo della cucina nel luminoso ambiente che fa anche da soggiorno e ci prepara un caffè.

Su una parete campeggia un batik che rappresenta la quotidianità di un villaggio africano.

Sentirsi a casa

«Siamo quattro famiglie – inizia a raccontare Matteo mettendoci di fronte un vassoio con diversi croissant -. Due abitano qui: io ed Eleonora al primo piano con i nostri tre figli; Daniela e Stefano al secondo con i loro quattro. Una abita nella casa accanto, Paolo e Ilaria, con i loro cinque figli. La quarta famiglia vive invece a Savigliano: sono Chiara e Matteo, con i loro quattro figli».

«Questa comunità nasce dal fatto che ciascuno di noi ha vissuto l’esperienza che una famiglia non basta a se stessa – spiega Chiara -. Benché noi abitiamo a 5 km di distanza, ci sentiamo comunità con le altre famiglie, ad esempio quando accogliamo i loro figli adolescenti che a Savigliano hanno la scuola e molte amicizie. Hanno le chiavi. Vengono per fare pranzo o una doccia, sanno che quella è anche casa loro».

«Io aggiungerei questo – riprende Matteo -: in un mondo in cui tutti più o meno si fanno i fatti propri, volevamo essere un piccolo segno, minuscolo, di una vita possibile un po’ diversa».

Il primo nucleo

Ogni comunità ha una storia a sé. Tutte iniziano ben prima del giorno del trasloco, nelle vicende delle singole famiglie che a un certo punto s’incontrano attorno al desiderio di condivisione.

«Io e Stefano – racconta Daniela – siamo dell’82. Sposati nel 2005, siamo quasi subito partiti per stare un anno in una comunità del movimento dei Focolari a due ore a nord di New York.

Ci animava il desiderio di metterci a disposizione. Immaginavamo l’Africa, le Filippine. Invece ci hanno accolti negli Usa: venticinque persone con un’età media di 60 anni, tutti consacrati o persone singole che desideravano avere con sé anche una coppia giovane. Gente che cercava di volersi bene e vivere il vangelo in modo semplice.

È stata per noi un’esperienza fondante, tanto che quando siamo tornati ci chiedevamo come avremmo potuto rivivere anche qua una simile dimensione di cristianità e di comunità.

Abbiamo affittato un alloggio a Savigliano in una palazzina dove poi, pochi anni dopo, sono arrivati Chiara e Matteo. Chiara è mia cognata, sorella di Stefano. Quello è stato il primo bozzetto di comunità vissuto per dieci anni in un condominio normalissimo, dove la gente non si parlava più di tanto, ma dove, un po’ per volta, abbiamo iniziato a trovarci in giardino, costituire un Gruppo di acquisto solidale, fare pranzi condominiali».

Stefano è un libero professionista che si occupa di pubblicità, grafica e web, e ha uno studio a Fossano. Daniela nel giugno scorso ha lasciato il lavoro «perché ci siamo resi conto che la famiglia aveva bisogno della mia presenza a casa». Fino ad allora aveva lavorato nel settore commerciale dell’azienda di Paolo, gestita secondo i principi dell’economia di comunione ideata da Chiara Lubich, fondatrice dei Focolari.

Anche Chiara e Matteo, lei del ‘79, lui del ‘73, sposati da 23 anni, fanno parte del movimento dei Focolari. «Mio marito lavora con Paolo e Ilaria – dice Chiara -, fa l’informatico e segue la logistica. Io dall’estate scorsa mi prendo cura dei miei genitori. Prima facevo un lavoro di segreteria per progetti educativi del movimento a livello mondiale».

L’intreccio di storie

Matteo ed Eleonora, entrambi del 1984, con i loro tre piccoli tra i 18 mesi e gli 8 anni, sono i più giovani. Matteo, prima di parlare di sé, racconta della quarta coppia, Paolo e Ilaria. «Anche loro partecipano al movimento dei Focolari. Tredici anni fa hanno vissuto sei mesi con altre famiglie di tutto il mondo a Loppiano, la cittadella del movimento, vicino a Firenze. Tornati arricchiti si domandavano: come fare qualcosa di simile qua?».

«Siamo amici di Paolo e Ilaria da tanto – aggiunge Daniela -. Guardando alla nostra esperienza di Savigliano dicevano, che bello sarebbe vivere vicini».

«Poi – riprende Matteo – nel 2019 hanno avuto a disposizione questi immobili. E poco dopo siamo arrivati noi che venivamo da due tentativi di aggregazione con altre famiglie che non si erano realizzati. Un giorno mio padre mi ha detto: “Guarda che Paolo Bertola a Marene vuole fare una roba come la vuoi fare tu. Chiamalo!”. E da lì è decollato tutto. Abbiamo conosciuto anche le altre due famiglie. Paolo e Ilaria intanto hanno completato l’acquisto degli immobili e insieme abbiamo pensato le ristrutturazioni: alloggi indipendenti, ma con alcuni spazi comuni. Ora noi e Daniela e Ste abitiamo qui con un contratto di affitto».

Matteo aggiunge qualcosa anche sulla sua famiglia: «Io ed Eleonora siamo sposati da undici anni. Ele arriva dallo scoutismo, io da un bel cammino parrocchiale. Facevamo l’università insieme: relazioni internazionali. Poi siamo stati per quattro anni in Guinea Bissau, ciascuno per una diversa Ong. Nel frattempo, ci siamo sposati. Si viveva il classico “con la porta aperta”, il vicinato, gente che andava e veniva. Quando siamo tornati, sentivamo che ci mancava qualcosa e abbiamo iniziato la ricerca di un’esperienza insieme ad altri».

Matteo oggi continua a lavorare nella cooperazione internazionale con Casa do Menor, Ong che lavora con i ragazzi di strada in Brasile, fondata da padre Renato Chiera, fidei donum di Mondovì a Rio de Janeiro da 45 anni. Eleonora lavora per Slow food.

Un buon impasto

La vita della comunità si sviluppa in un’ordinarietà senza grandi pretese. Anzi, con l’unica «pretesa» di volersi bene e trasformare la condivisione tra le quattro famiglie in un seme di condivisione che vada oltre le mura delle loro case.

Si danno uno o due appuntamenti alla settimana: un tempo di preghiera o una riunione organizzativa, o un momento conviviale.

Un esperimento recente è quello che Daniela chiama «la giornata ristorante»: un giorno della settimana, una delle tre famiglie residenti a Marene ospita per il pranzo e poi per i compiti e lo studio tutti i figli delle altre famiglie.

Di impegni esterni al momento non ce ne sono. Racconta Daniela: «Siamo aperti alla possibilità di un servizio ma non vediamo questo come l’obiettivo principale da cui partire. Restiamo in ascolto di quello che il buon Dio ci indicherà attraverso gli incontri che faremo durante il cammino, valutando di volta in volta le nostre forze e possibilità di famiglie con figli», e aggiunge: «Al centro c’è il desiderio di sostenerci nella fede e nella vita quotidiana, e questo parla già di per sé agli altri».

Nei mesi prima dell’inizio ufficiale della comunità, le quattro famiglie hanno messo per iscritto il loro sogno. L’hanno chiamato «Carta Marene»: «Ogni volta che la leggiamo – dice Chiara – ci colpisce la chiarezza dell’obiettivo che ci siamo dati: “Non vediamo la fraternità come un fine ma come uno strumento per aiutarsi a crescere e ad essere ciascuno più e meglio famiglia al proprio interno, come sposi e come genitori”. Questo passa attraverso l’esperienza di famiglie che vivono vicine, con le “porte aperte” e spazi in comune e con la voglia di “impastarsi”: ci si aiuta, si parte insieme al mattino, si recuperano i figli insieme, ci si incontra davanti a una birra o un caffè per raccontarsi le proprie giornate».

Una bella cosa

In un’esperienza come questa, i rapporti tra i figli e gli adulti sono centrali. «Vediamo la vita comunitaria come una grande risorsa educativa per i nostri figli – spiega Daniela -. Non per tutti i nostri figli questa scelta è stata semplice. Per alcuni di loro ha comportato cambiare paese e abitudini. Quello che ci ha colpito in questi primi mesi è che tutti loro si sentono parte di questa esperienza e hanno uno sguardo profondo su quello che stiamo cercando di costruire insieme».

Mentre ci alziamo dal tavolo per vedere l’alloggio, composto dalla sala e da tre stanze, e gli spazi comuni, Chiara sottolinea: «I nostri figli ci dicono di essere grati per questa esperienza. Vedono che i loro amici non hanno famiglie vicine.

Un giorno una mia figlia mi ha detto: “Sono fortunata perché ho due genitori con cui parlare, però ho anche altri adulti di cui mi fido”».

«Una volta, durante una cena, c’era padre Renato – aggiunge Matteo preparandosi per uscire a recuperare Elia al nido -. A un certo punto ha domandato ai ragazzi: “Voi cosa ne pensate di questa cosa che i vostri genitori hanno fatto?”. E uno di loro ha esclamato: “Abbiamo fatto una cosa bella!”».

Luca Lorusso


Fraternità di famiglie: scuole e case di comunione
Una forma di vita ecclesiale

Nelle esperienze di fraternità di famiglie si rivela la creatività dello Spirito e si incontra una manifestazione significativa del volto della Chiesa.

La Chiesa annuncia e testimonia il Risorto attraverso la varietà di carismi e ministeri che formano il popolo di Dio. Ogni vocazione è incontro tra due desideri – quello di Dio e quello della singola persona -, ma l’alleanza stabilita tra il Signore, amante della vita (Sap 11,26), e le sue creature va sempre oltre la realizzazione personale: non c’è chiamata la cui bellezza e fecondità non coinvolga la Chiesa e il mondo, non contribuisca a realizzare il Regno.

In questa prospettiva, il ministero di presbiteri e diaconi – che non esaurisce tutte le forme di ministerialità – si integra con i carismi religiosi e laicali. Anzi, fa parte del compito dei ministri ordinati riconoscere e valorizzare i doni di ciascuno, tessere rapporti di stima e amicizia tra le diverse vocazioni, per realizzare insieme la grande sfida di «fare della Chiesa la scuola e la casa della comunione» (Nmi 43).

La vocazione matrimoniale, in forza del legame coniugale e del sacramento, manifesta in modo particolare questo aspetto decisivo dell’esperienza cristiana e della missione ecclesiale.

Le famiglie sollecitano tutta la Chiesa a essere «domestica» – ricordando l’espressione con cui il Concilio Vaticano II definisce la famiglia in Lumen Gentium n. 11 -: spazio intimo e inclusivo, concretamente «casa» in cui sperimentare la familiarità di Dio che ci rende fratelli e sorelle in Cristo.

Fraternità tra famiglie

Sebbene ordinariamente ogni battezzato sia chiamato a manifestare la misericordia di Dio e l’affidabilità del Vangelo prima di tutto nel contesto quotidiano delle relazioni e della cittadinanza, della scuola e del lavoro, alcune famiglie vivono forme di annuncio e di servizio più esplicito in contesti di missione ad extra o nelle nostre stesse diocesi, vivendo talvolta in canonica o in altri spazi religiosi, svolgendo ministeri che variano di caso in caso, ma soprattutto attraverso uno stile che fa dell’«essere famiglia» la forma della loro testimonianza.

In questo quadro, le esperienze di famiglie che vivono la dimensione missionaria attraverso forme di vita fraterna con altre famiglie, riconoscendo una «chiamata nella chiamata», sono particolarmente interessanti. Esse non rappresentano una testimonianza o un servizio che si aggiunge o giustappone alla vocazione matrimoniale, ma un’esperienza che, esprimendo l’autenticità della vita familiare, manifesta la chiamata della Chiesa a essere «famiglia di famiglie», spazio relazionale aperto per ciascuno e ciascuna.

Le esperienze esistenti di fraternità di famiglie hanno origini, sviluppi ed esiti diversi. Esse, infatti, prendono forma a partire da vissuti e appelli precisi che sono legati al modo in cui ogni famiglia incarna l’amore in dinamiche e realizzazioni storiche molto concrete, perché l’amore è sempre concreto. Allo stesso tempo è possibile riconoscere alcuni elementi comuni nel cammino di queste fraternità: il primo è una vita credente delle singole coppie, spesso maturata attraverso esperienze significative nell’ambito della comunità cristiana (volontariato, animazione, viaggi missionari, appartenenza a movimenti e associazioni); secondo, un tempo prolungato di discernimento attraverso l’ascolto della Parola e in compagnia della Chiesa (nella storia di ciascuna coppia che decide per un cammino di fraternità con altre c’è normalmente la presenza di una guida, sacerdote, diacono, religioso, religiosa o coppia sposata); terzo, l’attenzione a custodire la ricchezza coniugale e il compito educativo verso i figli, senza scadere in forme snaturanti di attivismo o clericalizzazione; quarto, l’individuazione di una casa (o di un gruppo di case) che concretamente consenta una vita «sana» ed equilibrata a ogni singola famiglia e, contemporaneamente, l’incontro e la fraternità con le altre tramite degli spazi comuni; quinto, la strutturazione di un progetto che non chiuda le famiglie in una forma di intimismo autoreferenziale ma espliciti la dimensione ospitale della comunità cristiana; sesto, la disponibilità cordiale a lasciarsi coinvolgere dalle storie delle comunità parrocchiali e dei territori in cui sono inserite, costruendo relazioni buone con i sacerdoti e le realtà locali; settimo, la prossimità della soglia, vissuta tessendo rapporti con famiglie e persone credenti e non credenti; infine, la formazione e la preghiera, l’ascolto della Parola e il discernimento che custodisca il bene della famiglia e uno stile di vita evangelico.

In un cambiamento d’epoca

È interessante poi che molte di queste esperienze partano dal basso, dalla ricerca delle singole famiglie, e si realizzino in spazi non religiosi che sono ecclesiali di fatto, perché espressione di battezzati che agiscono in forza della propria appartenenza a Cristo e alla Chiesa.

Va detto che i criteri elencati sopra sono alla base anche di quelle esperienze che vedono una singola famiglia (piuttosto che una fraternità di famiglie) disponibile a vivere la propria testimonianza all’interno di una parrocchia, talvolta ricevendo un mandato esplicito dal parroco o dal vescovo, magari vivendo in una comunità (e in una casa parrocchiale) nella quale il sacerdote, per quanto suo responsabile, non sia più residente. Le nostre Chiese, oggi, sono chiamate a fronteggiare un cambiamento d’epoca. L’esistenza di queste realtà che nascono dalla concretezza della vita invece che da una previa progettualità a tavolino sollecita approfondimenti teologici e pastorali che offrano strumenti di comprensione e aiutino le comunità cristiane, le parrocchie, i ministri ordinati a riconoscerle e valorizzarle. Nelle esperienze di fraternità di famiglie si rivela la creatività dello Spirito e si incontra una manifestazione significativa del volto della Chiesa.

Per questo vale la pena raccontarle.

Mario Aversano


Quante sono?

La comunità Sichem, prima del Covid, aveva tentato di costruire una rete con altre fraternità di famiglie. Abbiamo chiesto a Franco Taverna, uno dei fondatori di Sichem, se esista una sorta di censimento delle esperienze in Italia: «Abbiamo raccolto il maggior numero di nomi di comunità che siamo riusciti a recuperare tramite i nostri contatti. Siamo arrivati a circa quaranta, molte del Nord. Esiste poi una grande esperienza di coordinamento di comunità di famiglie che si chiama Mcf (Mondo di comunità e famiglia), nata da quella che forse può essere considerata la prima e il prototipo di molte altre: Villapizzone di Milano, storica esperienza di un gruppo di famiglie insieme ad alcuni gesuiti sorta nella seconda metà degli anni ’70. Attualmente solo la rete di Mcf conta poco meno di quaranta comunità. Anche queste massimamente concentrate al Nord.

Da quando noi abbiamo cominciato con la nostra Sichem sono nate tante altre espressioni del “vivere insieme”: gruppi che vivono intensamente il contatto con la natura, comunità di servizio (ad esempio per assistere disabili), famiglie che vivono insieme all’interno di un movimento più grande (Comunione e liberazione, Focolarini, Giovanni XXIII, ecc).

Non è per nulla facile tracciare una linea di separazione tra questi (e altri) mondi che sono accomunati dal desiderio di vivere una vita comune.

Ogni comunità si configura a modo suo. Con propri ritmi, priorità, storie.

È come se ogni comunità fosse un nuovo figlio e, come ben sappiamo, ogni figlio, pur essendo della stessa famiglia, sviluppa propri caratteri specifici».

Luca Lorusso

Hanno firmato il dossier

  • Daniele Biella
    Giornalista e ricercatore, si occupa di temi sociali. Ha pubblicato i libri Nawal, L’isola dei giusti e Con altri occhi.
  • Don Mario Aversano
    Vicario episcopale per la Pastorale sul territorio della diocesi di Torino. Lavora da sempre nella pastorale famigliare, cosa che gli ha permesso di conoscere da vicino alcune esperienze di fraternità di famiglie.
  • Luca Lorusso
    Giornalista, redattore di MC.




Una storia americana


I Missionari della Consolata arrivarono negli Stati Uniti nel 1946, in Canada l’anno seguente. La loro attività ha conosciuto anni d’oro, ma anche una fase di declino. Oggi i gruppi missionari dei due paesi del Nord America si sono uniti al Messico per affrontare assieme una nuova sfida, difficile ma entusiasmante.

Il Vangelo di Matteo – «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni» (28,9) – e il Vangelo di Marco – «Andate in tutto il mondo e annunciate il Vangelo ad ogni creatura» (16,16) – testimoniano che i primi discepoli di Gesù di Nazareth erano consapevoli di aver ricevuto dal Risorto il mandato di andare ad annunciare la sua parola in tutto il mondo.

Se questa evangelizzazione rimase confinata negli ambienti ebraici fin dai primi anni, san Paolo sentì il dovere di portare la buona notizia ai pagani: in Rm 1,1 si presenta come un «apostolo messo a parte per annunciare il Vangelo di Dio». Gli Atti degli Apostoli raccontano i viaggi missionari di Paolo in Turchia, Grecia, Roma, e forse in Spagna. Nella sua lettera ai Galati, capitolo 2, Paolo spiega che Pietro fu mandato ai Giudei, mentre lui stesso fu mandato ai Gentili.

Questa epopea missionaria ebbe un tale successo che, all’inizio del IV secolo, l’intero impero romano sarebbe diventato cristiano e per secoli le comunità cristiane avrebbero creduto che il loro mandato missionario fosse completo e il Vangelo fosse stato annunciato a tutte le nazioni.

Dipinto raffigurante la prima santa indiana, Kateri Tekakwitha (1656-1680).

Il mondo è più grande

Fu nel XV e XVI secolo che ci si rese conto di quanto, oltre i limiti dell’Occidente, ci fosse ancora una moltitudine di esseri umani da raggiungere. In questa consapevolezza, ebbe un ruolo importante l’uomo che sarebbe diventato patrono delle missioni, San Francesco Saverio, il primo missionario gesuita e il primo missionario in Giappone.

I missionari iniziarono, quindi, a unirsi ai conquistadores portoghesi e spagnoli nella loro ricerca di nuove rotte verso l’Asia. Quando poi si comprese che la terra è rotonda e che la strada può prendere anche la direzione verso Ovest, i missionari accompagnarono i colonizzatori – soprattutto portoghesi, spagnoli, inglesi e francesi – che si stabilirono nelle Americhe.

Ciò provocò una querelle che oggi è difficile da comprendere:  la cosiddetta «disputa di Valladolid» tra Juan de Sepulveda (1490-1573) e Bartolomé de Las Casas (1484-1566).

Il primo riteneva che gli amerindi non fossero esseri umani e, di conseguenza, non ci si dovesse preoccupare delle loro anime e che potessero essere considerati come bestiame o schiavi; il secondo, al contrario, credeva che anch’essi fossero esseri umani con un’anima e, quindi, era necessario predicare loro il Vangelo perché potessero essere salvati.

In ogni caso, durante il primo secolo di colonizzazione delle Americhe, gli studiosi stimano che quasi il 90% degli indigeni scomparì, principalmente a causa di malattie contagiose portate dai coloni europei, ma anche a causa della violenza.

Dipinto rappresentante l’uccisione dei missionari gesuiti francesi avvenuta nella Nuova Francia, a metà del 1600, per mano delle popolazioni autoctone.

Evangelizzazione dal Sud al Nord America

Gradualmente, le Chiese cristiane costituirono comunità in tutta l’America con coloni provenienti dall’Europa.

In America Latina, nel XVI secolo, le comunità cristiane fondarono varie città: Buenos Aires nel 1536, Rio de Janeiro nel 1565, Cartagena (Colombia) nel 1533 e Quito nel 1534.

In Nord America, il cristianesimo prese piede con gli espolratori europei. Già nel 1524 l’italiano Giovanni da Verrazzano arrivò nei pressi di New York, che venne però fondata soltanto nel 1609 dagli olandesi  che le diedero il nome di New Amsterdam.

L’evangelizzazione di questa parte delle Americhe fu opera dei missionari spagnoli in California, di quelli anglicani negli Stati Uniti e dei francesi in Canada. Tra i primi si ricorda Junipero Serra (1713-1784), un francescano che papa Francesco ha dichiarato santo il 23 settembre del 2015.

Nel 1534, l’esploratore francese Jacques Cartier (1491-1557) scoprì il fiume San Lorenzo. Fu però solo nel 1608 che ci fu il primo insediamento permanente – Québec (Ville de Québec) – per merito di un altro esploratore transalpino, Samuel de Champlain (1567-1635). Ciò che Champlain cercava era un pied-à-terre per acquistare le pellicce portate dagli indiani. Lo stesso obiettivo del commercio può essere visto come motivo della fondazione nel 1634 di una seconda città sulle rive del San Lorenzo, Trois-Rivières.

Québec fu la città dove operò la mistica francese Marie Guyart (Marie de l’Incarnation, 1599-1635, proclamata santa nel 2014). Santo è anche il suo primo vescovo, François de Montmorency-Laval (1623-1708). La sua diocesi copriva praticamente tutto il Nord America. Diversa è la storia della fondazione di Montréal, nata sotto il nome di Ville Marie (oggi quartiere della città canadese noto come Old Montréal, ndr), come missione presso gli aborigeni. Questo è il motivo per cui molti dei suoi fondatori sono stati riconosciuti beati o santi.

L’interno della cattedrale di Notre Dame a Montreal. Foto Timothy I. Brock – Unsplash.

Popoli indigeni e martiri

I primi sacerdoti vennero per prendersi cura dei nuovi coloni.  Tuttavia, molto presto i gesuiti e i recolletti (della famiglia francescana, ndr) iniziarono a voler evangelizzare gli aborigeni della Nuova Francia (nome di una vasta area del Nord America colonizzata dai francesi, ndr). Ebbero un certo successo con gli Uroni, ma penetrarono molto poco tra gli Irochesi, dove visse la prima santa indiana, Kateri Tekakwitha (1656-1680), la cui tomba si trova nella piccola chiesa all’interno della riserva di Kahnawake, appena a sud ovest di Montréal.

Il conflitto tra Irochesi e Uroni fece vittime anche tra i missionari. Tra il 1642 ed il 1649, otto missionari di origine francese subirono il martirio: sei sacerdoti gesuiti (Isaac Jogues, Antoine Daniel, Jean de Brébeuf, Gabriel Lallemant, Charles Garnier, Noël Chabanel) e due coadiutori laici (René Goupil e Jean de La Lande). Tutti furono dichiarati santi nel 1930.

Secondo Statistics Canada, dei quasi due milioni di aborigeni censiti in Canada, circa la metà afferma di non avere alcuna affiliazione religiosa, mentre poco più della metà sono cattolici. E qui si apre una questione delicata. Come ha dimostrato la «Commissione nazionale per la verità e la riconciliazione» nel suo rapporto finale del 2015, i missionari, specialmente attraverso le «scuole residenziali» (scuole per indigeni; ne scriveremo in un futuro dossier, ndr) hanno collaborato a un «genocidio culturale», che avvelena ancora le relazioni tra le diverse comunità indigene e il resto del Canada, comprese le Chiese.

In The History of Québec Catholicism, lo storico Jean Hamelin parla di «colonialismo spirituale» e di «ambiguità dell’attività missionaria»: «Le missioni sono presentate come una questione di orgoglio nazionale».

Dopo la sconfitta francese nella battaglia delle pianure di Abramo nel 1759, i canadesi francesi sopravvissero raggruppandosi attorno alla Chiesa cattolica per sfuggire ai tentativi di assimilazione ed eliminazione culturale da parte dei nuovi governanti inglesi.

È questa Chiesa franco canadese che diventò una delle Chiese più missionarie del mondo: a metà del XX secolo, il Québec, con più di cinquemila missionari (1 missionario ogni 1.120 cattolici), seguiva soltanto l’Irlanda (un missionario ogni 457 cattolici), l’Olanda (uno ogni 556) e il Belgio (uno ogni 1.050 cattolici).

La residenza dei Missionari della Consolata a Montreal. Foto IMC Montreal.

I Missionari della Consolata

Fu in questo contesto che i Missionari della Consolata arrivarono negli Stati Uniti nel 1946 e in Canada nel 1947.

Non sorprende quindi che i padri Bartolomeo Durando (1901-1992) negli Stati Uniti e Luigi Amadio (1916-2010) in Canada ebbiano avuto difficoltà a trovare vescovi disposti ad accoglierli nelle loro diocesi.

Alla fine, i primi Imc si stabilirono in California e in una riserva indiana in Ontario. I primi accettarono di lavorare nelle parrocchie, ma ben presto la congregazione si rese conto che ciò non corrispondeva agli obiettivi ricercati, che erano l’animazione vocazionale e missionaria e la raccolta di donazioni per le missioni.

A tal fine, negli anni Novanta, l’istituto si trasferì negli Stati Uniti orientali e nella provincia canadese del Québec. Negli Stati Uniti furono importanti anche le attività di formazione e specializzazione, non solo per sacerdoti e fratelli, ma anche per i laici disponibili a dedicare qualche anno alla missione. Venti americani e una dozzina di canadesi diventarono missionari Imc.

Una veduta della città di Québec, fondata nel 1608 e considerata il primo insediamento urbano nel Nord America. Foto Timothee Geenens – Unsplash.

Gli anni d’oro

L’età d’oro dell’attività missionaria Imc in Nord America furono gli anni a cavallo tra il 1970 e il 1985.

C’erano allora più di cinquanta Imc negli Stati Uniti e più di trenta in Canada. Negli Stati Uniti venivano pubblicati nove periodici, mentre in Canada erano almeno quattro.

Tra il 1976 e il 1986, Notre Dame Hall, il nostro Centro di animazione missionario di Montréal, inviò 1,86 milioni di dollari in assistenza finanziaria a più di dodici paesi di missione. Solo nel 1979, negli Stati Uniti, 257 parrocchie in 46 diocesi furono visitate per le giornate missionarie, che raccolsero circa 200mila dollari per le missioni. E il settore dell’assistenza missionaria inviava circa 150mila dollari all’anno per tutti i tipi di progetti missionari. Una trentina di studenti di origine africana vennero a studiare negli Stati Uniti.

La reazione al declino

Il declino è avvenuto molto rapidamente: la vocazione è scomparsa completamente  negli anni Novanta e in questi due paesi nordamericani il numero delle comunità è passato da quindici a solo due negli Stati Uniti, e i membri da 60 a una decina ora in due comunità: una nel New Jersey e una in California.

Anche in Canada ci sono due comunità, una a Toronto e la seconda a Montréal con otto missionari Imc, sempre più spesso di origine straniera.

Per rivitalizzare la presenza in Nord America, la Direzione generale dell’istituto ha unito le circoscrizioni di Canada e Stati Uniti con quella del Messico (paese nel quale l’istituto è entrato nel 2008) formando, quindi, un’unica delegazione religiosa. Nelle nuove missioni messicane operano attualmente otto missionari, distribuiti su due comunità: una a Guadalajara (stato di Jalisco) e un’altra a Tuxtla Gutiérres (nello stato meridionale del Chiapas, vicino al confine guatemalteco).

Jean Paré*

 * Missionario della Consolata canadese (Montréal, 1945), dopo gli studi a Montréal, Torino, Roma e Parigi, padre Jean Paré ha insegnato in Canada, Congo Rd e Italia (Università Urbaniana) e lavorato come giornalista in riviste ed emittenti radio (Radio Canada e Radio Ville Marie). Oggi vive e lavora a Montréal.


Le riviste Imc di Canada e Stati Uniti

Anima missionaria

Sono la responsabile delle tre riviste che l’Istituto Missioni Consolata pubblica nel Nord America: Réveil missionnaire (Rm, per il Canada francese), Consolata missionaries (Cmc, per il Canada inglese) e Consolata missionaries US (Cmus, per gli Stati Uniti, in inglese). Oltre alla sottoscritta, il nostro comitato di redazione comprende un redattore laico, Domenic Cusmano (italiano), e un redattore religioso, padre Jean Paré. Il primo è giornalista per le due riviste inglesi, mentre il secondo firma alcuni articoli e scrive di spiritualità, giustizia nel mondo e dialogo interreligioso. A turno, facciamo (in verità, più in passato che attualmente) i cosiddetti viaggi missionari sul campo sia per raccogliere materiale giornalistico sulle varie comunità Imc nel mondo sia per vedere i progetti per i quali raccogliamo fondi.

Il comitato di redazione pianifica le tre pubblicazioni che presentano un contenuto quasi identico. In Canada escono sei numeri all’anno, e precisamente cinque riviste di 16 pagine e un calendario di 32 pagine. Gli Stati Uniti, invece, producono quattro numeri all’anno, cioè tre di 16 pagine e un calendario. La tiratura di ogni numero è tra le 3.500 e le 5.000 copie.

Le riviste sono un essenziale strumento di comunicazione tra i Missionari della Consolata e tutti i nostri amici e benefattori. Ci permettono, infatti, d’informare i lettori sulle attività della missione, sulle storie di successo e, naturalmente, sulle molte sfide che i missionari devono affrontare ovunque essi operino. L’obiettivo è anche quello di rendere i lettori consapevoli della situazione dei più poveri e di toccare la loro anima missionaria.

Ghislaine Crête

 

 

 




Casablanca: la forza della tradizione


Era sbarcata dalla Sicilia a Casablanca, migrante tra i migranti, quasi un secolo fa. La Madonna di Trapani, particolarmente venerata nella sua terra natale, aveva seguito l’avventura dei pescatori siciliani stanziati nella regione. «Per quanto lontano scorra un ruscello non dimentica la sua origine» si ripete in Africa.

Per questo, il 15 agosto, festa dell’Assunta, aveva dato appuntamento come da tradizione alla Chiesa italiana di Cristo Re, Boulevard Abdelmoumen (Casablanca). La serata prevedeva la celebrazione eucaristica presieduta dal vescovo emerito mons. Giovanni d’Ercole, una commovente fiaccolata e una condivisione conviviale italo-marocchina.

La statua della Vergine, grandezza naturale, molto delicata e bella, coronata d’oro, tiene tra le braccia un bambino dall’espressione curiosa, dolce e accattivante. I trapanesi, infatti, affascinati dalla sua bellezza vi diranno che non vedrete una Madonna più bella se non in paradiso… Era arrivata per prima nel piazzale ancora vuoto fuori dalla chiesa, sotto gli occhi di TV Trapani in diretta. E subito, come per incanto, i miracoli iniziavano a fiorire tutt’intorno… La piazza diveniva, tra gli alberi e le file di banchi, un’originale cattedrale a cielo aperto. La grande bandiera rossa stellata del Marocco e il tricolore italiano si abbracciavano sotto gli occhi di tutti, all’ingresso. Un coro di filippini, poi, appariva per animare la celebrazione e i canti in italiano. In verità, è sempre una gradita sorpresa ritrovare la propria lingua sulle labbra degli altri!

Con voce commossa, Mons. Giovanni ricorda la storia dell’emigrazione e della fede dei siciliani e di tutti coloro che partono – spesso pieni di speranza e di disperazione – per una vita migliore. Ma tutto questo – ed è veramente sentito questa sera – sotto lo sguardo incoraggiante e materno di Maria «madre universale di tutti» cristiani e musulmani. «La madre rassicura, accompagna, trasmette pace – sottolinea il vescovo – dona coraggio e serenità ad ogni esistenza e alle sue sfide». Poi, al termine di una lunga fiaccolata nel clima di Lourdes, una cascata infinita, interminabile, di «Ave Maria». Ognuno dei presenti mette la sua voce e la sua lingua, chi dal Rwanda, chi dal Libano, dal Congo, dalla Spagna, dalla Francia o da altrove… L’assemblea, in ascolto col fiato sospeso, ripete incessantemente con gioia interiore «Amen».

Poi, su invito del vescovo, alcuni lunghissimi istanti di silenzio, per far parlare solo il cuore. Così, si rimane immobili davanti alla statua della Vergine, illuminata nell’oscurità da un incantevole bouquet di candele. Istanti magici. Spesso, si sceglie il silenzio per dire le cose più importanti. Come scrive Kalil Gibran: «C’è qualcosa di più grande e più puro di quello che dice la bocca. Il silenzio illumina l’anima, sussurra ai cuori e li unisce. Il silenzio ci allontana da noi stessi, ci fa navigare nel firmamento dello spirito, ci avvicina al cielo».

Al termine della preghiera interviene in italiano il Console spagnolo, per dire con emozione come lui stesso ritrovi in questa festa della Vergine un sapore di Spagna. Così, si possono immaginare i sentimenti di coloro che ci seguono in diretta da lontano, soprattutto dalla Sicilia, in una serata di preghiera fatta in tutte le lingue del mondo!

Un grazie, infine, è rivolto a quanti sono venuti dai vari quartieri di Casablanca, agli organizzatori, in particolare ai due appassionati di questa grande tradizione, Francesco e Gilbert, un italiano quest’ultimo diventato il responsabile di tutte le vetture del Re Mohammed VI! Questa sera la chiesa italiana di Casablanca, chiusa da tempo, si è aperta al mondo: è il miracolo più grande di Maria venuta da Trapani.

Lentamente, dopo una fraterna condivisione di fede e di gioia, ognuno, nel buio della notte, fa ritorno alla sua casa. Ma con sé porta le sfide e le speranze di tutta l’umanità. Anche questo è essere italiani oggi a Casablanca.

Renato Zilio
Missionario in Marocco, autore di «Dio attende alla frontiera», EMI




Mozambico e Angola: due paesi, uno stile


Raccogliamo in questo articolo le chiacchierate con padre Sisto Elias, superiore della regione Mozambico, e padre Fredy Gomez, responsabile del gruppo di missionari in Angola, che restituiscono un’immagine di un modo di fare missione basato soprattutto sulla collaborazione con le comunità locali.

Lo scorso 15 giugno è stata chiusa la sedicesima e ultima base della Renamo (Resistenza nazionale mozambicana), il gruppo militare, oggi partito politico conservatore, che fra il 1977 e il 1992, nella guerra civile mozambicana, ha combattuto il Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico), il partito al governo di ispirazione marxista. La base si trovava a Vinduzi, nei pressi del parco nazionale di Gorongosa (provincia di Sofala), storica roccaforte della Renamo, e la cerimonia ha visto Ossufo Momade, segretario della Renamo, consegnare l’ultima arma da fuoco, un mitragliatore AK-47, nelle mani del presidente mozambicano e leader del Frelimo, Filipe Nyusi@.

Con questo atto si è concluso il processo di disarmo, smobilitazione e reintegrazione (Ddr nell’acronimo portoghese, da Desarmamento, desmobilização e reintegração), che a cominciare dal giugno 2019 ha interessato un totale di 5.221 guerriglieri (257 donne e 4.964 uomini). Durante la cerimonia, il presidente Nyusi ha assicurato che si procederà ora al pagamento delle pensioni per gli ex combattenti, molti dei quali si trovano in condizioni economiche precarie dopo la smobilitazione, almeno secondo quanto dichiarato nel 2021 a Radio France International dal presidente della Renamo, André Magibire@.

Se questo conflitto è concluso – il prossimo 4 ottobre ricorreranno i 31 anni dalla firma, a Roma, del trattato di pace fra Frelimo e Renamo – lontano dalla fine sembra quello nel nord del paese, nella provincia di Cabo Delgado, dove dal 2017 è in corso un’insurrezione armata jihadista, alla quale però molti combattenti locali hanno aderito soprattutto perché si sentono esclusi dai benefici economici derivanti dalle scoperte di minerali e idrocarburi nella zona. Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, a maggio scorso risultavano nel nord del Mozambico oltre 834mila sfollati interni, mentre altre 420mila persone avevano fatto ritorno nelle zone da cui erano fuggite, di cui quasi 392mila in località all’interno della provincia di Cabo Delgado, 27mila in quella di Nampula e un migliaio nel Niassa@.

Vi sono infine gli effetti del ciclone Freddy@, che tra febbraio e marzo ha colpito principalmente il Malawi e le regioni del nord del Mozambico, peggiorando le condizioni igienico sanitarie e aggravando l’epidemia di colera che era già in corso e che, secondo i dati dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), fra l’inizio dell’anno e il 15 maggio scorso aveva fatto registrare poco meno di 90mila casi e 1.900 morti solo fra Malawi e Mozambico@.

La nuova gestione della salina

Fra le aree danneggiate dal ciclone c’è anche Nova Mambone, dove si trova la salina di Batanhe, fondata alla fine degli anni Sessanta del Novecento da padre Amadio Marchiol e da allora gestita dai missionari della Consolata@.

«La ricostruzione è ancora in corso», racconta padre Sisto Elias, missionario della Consolata mozambicano e superiore regionale al secondo mandato, «ma sarà completata in tempo per la stagione di produzione, che va da agosto a novembre». Negli ultimi due anni, la salina ha vissuto nella propria gestione un cambiamento profondo, incentrato sul metodo di lavoro che i Missionari della Consolata in Mozambico si sono dati sotto la guida di questa direzione regionale: «Abbiamo deciso di decentralizzare e investire sulle risorse locali», spiega Sisto. «Da Maputo facciamo la supervisione, garantiamo costanti visite sul campo e rimaniamo noi i responsabili in ultima istanza. Ma a portare avanti le attività sono le persone della comunità locale, sul posto».

Ora alla salina sono legate due imprese, una per la produzione e trasformazione del sale e una per la vendita all’ingrosso, così da garantire una migliore divisione del lavoro oltre che rigore nella gestione economica e nelle procedure igienico sanitarie. Rigore, precisa padre Sisto, che è lo stato mozambicano stesso a chiedere e a verificare con controlli e ispezioni.

«Produciamo e commercializziamo all’ingrosso tre tipi di sale: il Sal do Índico, che è il nostro marchio per il sale alimentare comune, il Flor do Índico, che è il fior di sale, cioè il prodotto più pregiato, e il Sal de pesca, un sale di qualità inferiore che si usa nella zootecnia oppure nella conservazione del pesce». La salina ha venti lavoratori fissi, che arrivano fino a 80-90 durante la stagione della produzione. Ma la salina rimane, come è sempre stata, un’impresa il cui fine è prevalentemente sociale: «Innanzitutto, l’attenzione è per i lavoratori, per sostenerli nei momenti di difficoltà, per garantire a loro e alle loro famiglie l’accesso all’istruzione, alla sanità. Ma non solo: i fondi per costruire la scuola primaria di Lichinga, nel Niassa, e la secondaria di Nampula sono venuti in buona parte dalla salina». E le scuole stesse sono gestite in modo decentralizzato, appoggiandosi a personale di fiducia in loco: il ruolo dei missionari è quello di effettuare frequenti visite per verificare la trasparenza nella gestione economica e l’alta qualità dell’insegnamento. «E per gli studenti le cui famiglie si trovano in condizioni di povertà estrema dimostrate, la scuola ha un sistema di borse di studio finanziate con le rette delle famiglie in grado di pagare».

Lotta malnutrizione a Capalanca in Angola

Il centro nutrizionale di Cuamba

Una simile gestione decentrata si applica anche al lavoro del centro nutrizionale che si trova nella cittadina di Cuamba, nel Niassa. Fino a qualche anno fa, il responsabile dei progetti attivi al centro nutrizionale era uno dei missionari della Consolata presente nella missione e parrocchia di Cuamba. Con la cessione della parrocchia ai sacerdoti diocesani, da circa due anni i missionari non sono più lì. «Questo ci ha costretto evidentemente a ridimensionare le attività del centro», spiega ancora Sisto, «rinunciando ad esempio ad avere una persona incaricata che prestasse servizio costante». Ma la malnutrizione è ancora presente e il centro è importante nel contrastarla. «Abbiamo deciso di mandare avanti le iniziative in sostegno ai bambini malnutriti semplicemente acquistando e stoccando in un magazzino latte in polvere e altri cibi che si conservano nel tempo e organizzando le distribuzioni alle famiglie bisognose attraverso i cristiani locali».

La presenza del centro e le sue attività di lotta alla malnutrizione si sono rivelate molto importanti per affrontare due emergenze che si sono sovrapposte nell’ultimo anno: l’arrivo da Cabo Delgado di diverse famiglie di sfollati, e le inondazioni legate al ciclone Freddy. Così, in una relazione dell’aprile scorso, padre Sisto riportava che, per far fronte ai maggiori bisogni causati da questi eventi, il centro ha collaborato con gli agenti di salute e l’Ingd (Istituto nazionale per la gestione e la riduzione dei rischi da catastrofe) per fornire assistenza alle persone ospitate in due centri di accoglienza della zona: riso, zucchero, olio, sapone, latte e farina sono stati acquistati e distribuiti a 187 famiglie con una media di 5 figli ciascuna, per un totale di 935 bambini e adolescenti, ai quali è stato assicurato l’apporto nutrizionale indispensabile.

Arte Macua a Maua in Mozambico su stimolo di padre Frizzi

Maúa, l’eredità di padre Frizzi

Il lavoro di padre Giuseppe Frizzi che, a partire dal 1987, ha studiato e sistematizzato il patrimonio etnolinguistico del popolo Macua Xirima@, continua a essere valorizzato e promosso dai suoi confratelli in Mozambico anche attraverso l’avvio di collaborazioni con entità come la Fondazione Fernando Leite Couto, dedicata al padre del noto scrittore e giornalista mozambicano Mia Couto. «Per prima cosa, la Fondazione ci aiuterà a far sì che tutto il materiale di padre Frizzi – libri e altri scritti – contenuti nel centro studi di Maúa ricevano i necessari riconoscimenti di legge riguardo alla proprietà intellettuale. Poi si cercherà di rendere più fruibili le parti del lavoro del Centro studi che hanno riguardato la filosofia e l’antropologia, separandole da quelle incentrate sulla teologia, in modo da creare testi, saggi, raccolte che possano essere usati per l’approfondimento in ambito accademico o della ricerca in generale».

Altra novità che riguarda il Centro studi Macua Xirima è il trasferimento della sua parte museale a Massangulo, dove c’è un’altra presenza dei missionari della Consolata. Massangulo è più vicina alla strada, meno isolata di Maúa, conclude padre Sisto, e lì un museo sarà più facilmente raggiungibile dai visitatori.

Arte Macua a Maua in Mozambico su stimolo di padre Frizzi

Angola, potenziale inespresso

L’Angola è un paese dal potenziale enorme dal punto di vista economico: sedicesimo produttore al mondo di petrolio@, settimo di banane, ottavo di cassava@, l’Angola si trova però al 148° posto per indice di sviluppo umano e ha un prodotto interno lordo pro capite di 6.491 dollari americani (quello dell’Italia è di 46.385)@.

«Una parte del problema», spiega padre Fredy Alberto Gómez Pérez, missionario della Consolata colombiano e responsabile della comunità di sette missionari attivi in Angola, «è anche il fatto che molti angolani ritengono l’agricoltura un’attività non dignitosa, preferendole altri lavori come l’insegnante, il funzionario pubblico, l’impiegato». Questo approccio delle persone non è ovviamente la sola causa del mancato sviluppo socioeconomico del paese che, come il Mozambico, ha vissuto fra il 1975 e il 2002 quasi tre decenni di guerra civile, i cui segni sul tessuto produttivo oltre che sulla società e sull’ambiente richiedono molto tempo per essere cancellati.

Cappella di Luacano all’inizio dell’avventura missionaria in Angola

Giovane missione

Come in tutte le presenze della Consolata di più recente fondazione, il lavoro dei missionari procede in modo molto graduale e si colloca in zone ai margini, di confine, si tratti delle periferie urbane, delle aree a cavallo fra città e campagna o dell’entroterra più remoto. «I Missionari della Consolata sono arrivati in Angola nell’agosto 2014 e oggi lavorano in tre ambiti con caratteristiche molto diverse tra loro», racconta padre Fredy. «La prima parrocchia che l’allora vescovo della diocesi di Viana, monsignor Joaquim Ferreira Lopes, ci ha affidato è stata quella di Santo Agostinho, a Bairro Capalanca, alla periferia della capitale Luanda. Un anno e mezzo dopo abbiamo rilevato la parrocchia di Nossa Senhora da Consolata nella zona di Funda, che si trova poco fuori Luanda ed è una realtà per metà urbana e per metà rurale. La terza presenza è presso la parrocchia di Santa Maria Mãe de Deus, nel comune di Luacano», che si trova oltre 1.300 chilometri a est, a circa due ore dal confine con la Repubblica democratica del Congo: «Luacano è veramente una realtà ad gentes», sottolinea Fredy, «in mezzo alle savane intorno al lago Dilolo» (su Luacano vedi MC di maggio 2023@).

In questo momento il lavoro dei missionari, oltre che all’evangelizzazione, si rivolge agli ambiti della salute e dell’istruzione: piccoli progetti di assistenza ai bambini malnutriti, creazione di equipe di pastorale sanitaria, formazione per i giovani che non frequentano la scuola. A Luacano, inoltre, i missionari hanno cercato di migliorare i servizi di base anche fornendo acqua alla comunità locale attraverso pozzi e formando gli adulti con programmi di alfabetizzazione.

Per gli anni a venire, i missionari contano di riuscire a dare alle attività un carattere più strutturato. Un annoso problema che accompagna da sempre il loro lavoro è quello di doversi dotare di spazi dove sia possibile organizzare e dare continuità alle iniziative che portano avanti.

«Il progetto del Centro sociale Santo Agostinho» nel Bairro Capalanca di Luanda, spiega padre Fredy, «è nato come risposta più elaborata e sistematica alle sfide di cui parlavo sopra, perché per realizzare tutti gli altri progetti, sia di carattere sociale che di evangelizzazione, abbiamo bisogno di uno spazio adeguato». Servono uno studio medico per assistere i malati e monitorare lo sviluppo dei bambini, una cucina per preparare il cibo e un refettorio per servire il pasti offerti agli anziani seguiti dalla Caritas parrocchiale, stanze per la formazione e la catechesi.

«Dopo una lunga attesa si è deciso di iniziare i lavori con un fondo ricavato accantonando le offerte dei fedeli, ma da soli non riusciremo a terminare i lavori nei tempi desiderati per rispondere alle urgenze che abbiamo». Per questo padre Fredy si è rivolto a Missioni Consolata Onlus per ottenere aiuto nella ricerca di fondi, proponendo un progetto dal costo complessivo di circa 95mila euro.

Chiara Giovetti

Arte Macua a Maua in Mozambico su stimolo di padre Frizzi




La missione sfida i missionari


Dal 22 maggio al 20 giugno 2023 quaranta rappresentanti eletti dei Missionari della Consolata sono stati riuniti a Roma nel XIV capitolo generale dell’istituto, un evento che avviene ogni sei anni. Il suo risultato più immediato è l’elezione del nuovo superiore generale e del suo consiglio, ma il frutto più sostanziale sono le scelte che vengono fatte, a partire dal carisma originale dell’istituto, per dare una risposta creativa alle sfide che il mondo contemporaneo pone all’evangelizzazione.

Mentre mi leggete il capitolo è già terminato, ma ho scritto queste righe quando stava per cominciare e, quindi, posso solo provare a condividere con voi alcuni degli elementi che hanno stimolato la riflessione e la ricerca dei capitolari prima di riunirsi.

Il punto di partenza è stato una constatazione: stiamo tutti vivendo un tempo della nostra storia che chiede nuove attenzioni e nuove risposte.

Ad esempio, il mondo occidentale non è più cristiano, la famiglia tradizionale è in crisi e in alcuni paesi come il nostro si registra un declino demografico.

Esiste poi, nell’Occidente, un’ostilità neanche troppo nascosta contro la Chiesa e la religione cristiana, con attacchi che vanno dalla denigrazione alle notizie inventate o enfatizzate, dalle battute apparentemente spiritose agli insulti, strumentalizzando proverbi stantii come: «Quando nasci alimenti il prete, quando vai a nozze inviti il prete, quando muori il prete gode», o luoghi comuni di stampo anticlericale ottocentesco.

Il futuro della Chiesa e dell’evangelizzazione è una sfida a tutto campo per la quale non servono risposte preconfezionate e che obbliga a guardare avanti con creatività, lungimiranza, tanta fede e umiltà. È un tempo che richiede un profondo discernimento per andare al cuore dei problemi e capire quello che davvero Dio vuole. Non è l’ora del fare, ma dell’ascolto, per una vera conversione.

Sono quattro le aree dell’ascolto: la Parola di Dio, per andare alle radici della vocazione missionaria e del suo stile; il carisma trasmessoci dal nostro fondatore, il beato Allamano; la realtà viva, sofferta e sfidante del mondo di oggi; l’Istituto stesso, fatto di persone concrete con le loro potenzialità ma anche le loro fragilità.

Oggi i Missionari della Consolata sono ben coscienti di non essere più un corpo monolitico come erano fino agli anni Settanta. Gli italiani sono ormai una minoranza, più anziani che giovani. Il cuore della forza missionaria oggi viene dall’Africa: uno scenario bellissimo che vede protagoniste delle Chiese giovani, aperte e generose, pur nella loro povertà, però anche pieno di incognite e nuovi problemi.

Il capitolo si è, quindi, messo in ascolto del nostro mondo con un’attenzione speciale ai poveri, ai popoli indigeni, agli sfruttati, ai marginali della storia, alle periferie e a quelle aree, soprattutto in Asia, mai raggiunte dal Vangelo. I capitolari hanno anche fatte proprie le sfide della comunicazione, della cura del creato, della promozione della pace, delle migrazioni. C’è poi una situazione nuova, che richiede risposte nuove: quella dell’Europa che tradizionalmente mandava missionari, ma oggi li richiede con urgenza.

Dall’ascolto viene poi la conversione per vivere le dimensioni più autentiche dell’identità dei Missionari della Consolata: «Prima santi, e poi missionari», diceva il beato Allamano, affinché ogni missionario diventi testimone e costruttore di gioia, libertà, fraternità, pace e giustizia là dove la Madonna Consolata ha voluto mandarlo.

Una delle caratteristiche dei Missionari della Consolata, fin dalle origini, è stata proprio quella di ascoltare le realtà che man mano andavano a incontrare, mettendo al centro del loro interesse la persona, ogni persona, con una predilezione per i poveri, i lontani, gli emarginati, quelli che la società considera di meno. Come ha fatto Gesù, il primo vero missionario del Padre.

Non abbiamo ancora in mano i documenti finali del capitolo. Non ci aspettiamo proposte spettacolari. La missione più vera si realizza di solito nel silenzio e nell’umiltà, in un dono di vita concretizzato in piccole cose fatte con amore in un quotidiano lontano dal clamore.

Che davvero ogni missionario possa essere strumento di consolazione nelle mani di Dio.

Gigi Anataloni

I due capitoli – IMC e MdC – con il cardinal Parolin


XIV Capitolo generale dei Missionari della Consolata

MESSAGGIO FINALE

Gratitudine, passione e speranza

Trentatre giorni vissuti insieme, un corpo solo! Missionari giunti dai diversi luoghi della Missione, impegnati a conoscersi, attraverso il racconto personale proprio e dei tanti che hanno rappresentato, attraverso la condivisione dei cammini belli e dei percorsi che ancora sfidano a camminare per andare “oltre”. La diversità delle provenienze ha, però, lasciato presto spazio a quella capacità di riconoscersi, tutti, Missionari della Consolata.

Sì, è stato facile riconoscersi e dirsi che siamo fratelli oltre ogni differenza: fratelli nell’ispiratrice, la nostra madre Consolata; fratelli nell’ispirato, il nostro padre e fondatore, Beato Giuseppe Allamano; fratelli nell’ispirazione, quel carisma ad gentes, novità che non tramonta.

Il Capitolo, infatti, ha voluto confermare ancora una volta la scelta della missione ad gentes, nella sua specificità e nella molteplice fantasia dell’amore che si dona.

Ad gentes che in questi giorni abbiamo accolto con commozione dalle parole e testimonianza di chi, tra le lacrime, ci raccontava della sua gente in Venezuela che non ha di che mangiare o di chi nel Congo, in Mozambico e in Ucraina continua a morire e a subire violenza a causa di guerre di cui non si vede mai la fine. Di chi, come profugo, arriva in Marocco stanco, ferito e sfinito dopo un lungo cammino. E, come queste, tante altre sofferenze tra le quali siamo presenti essendo chiamati a fermarci per ascoltare, per sederci accanto, per servire con semplicità ed essere presenza che annuncia Gesù con gesti di vita, con l’ascolto e la parola.

Più volte ci siamo detti che dobbiamo anche “prenderci cura” di ogni missionario in tutto l’arco della sua vita con un progetto di formazione continua. Occorre aiutare ognuno a camminare verso la sua pienezza di vita e di donazione, partendo da una relazione viva con Cristo, per “essere” prima che “per fare”, dove santità e missione si fondono ed esprimono la nostra identità e carisma.

Con gratitudine abbiamo volto lo sguardo al passato della nostra vita e della nostra storia scritta con la dedicazione ed il sacrificio di tanti nostri confratelli e di quelli che oggi continuano ed essere per noi di stimolo ed esempio “completando nella loro carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).

Con voi, guardiamo al presente con passione e con quella gioia nella quale il Papa ci ha chiesto di camminare, in comunità chiamate ad essere in uscita e in mezzo alla gente con la forza del nostro carisma e la ricchezza delle nostre culture e in comunione con le Missionarie della Consolata ed i Laici.

Guardiamo, inoltre, al futuro con speranza al vedere ancora tanti giovani che vogliono dare la loro vita per l’annuncio del vangelo e tanti altri dei quali vogliamo prenderci cura nel servizio pastorale e di animazione missionaria e vocazionale.

La Solennità della nascita di S. Giovanni Battista, il precursore, è occasione propizia a conclusione di questo nostro XIV Capitolo Generale. Con lui e come lui sappiamo accogliere il Vangelo perché desiderosi di giustizia e di libertà. Con lui e come lui non ci poniamo come l’esempio perfetto da seguire, ma rimaniamo aperti al futuro, indicandolo, Gesù Cristo.

I capitolari
Roma, 24 giugno 2023

 

 

 

 

 

 




Ciad. L’ultimo dei saheliani


La sua posizione geografica e un territorio in gran parte desertico ne fanno un paese tra i più poveri del mondo. I gruppi armati e l’instabilità politica degli ultimi anni hanno aggravato la situazione. La crisi climatica fa aumentare la fame e i conflitti intercomunitari. Se la capitale resiste, l’interno del paese è abbandonato a se stesso.

La stagione delle piogge è alle porte. O almeno dovrebbe. In Ciad, come in gran parte dell’Africa, non ci sono più le stagioni di una volta. E non è una banale frase fatta. I cambiamenti climatici, in regioni fragili come quella del Sahel e in paesi aridi come il Ciad, dove ogni goccia d’acqua è preziosissima, hanno stravolto tutto: piove molto meno o piove troppo violentemente; non piove quando dovrebbe o si scatenano diluvi che devastano campi e allagano villaggi. Insomma, non si tratta solo dell’innalzamento delle temperature, dell’avanzata del deserto e della siccità che attanagliano questa regione, ma anche di eventi meteorologici estremi che si accaniscono contro territori e popolazioni già molto poveri ed estremamente vulnerabili. Che lo diventano ancora di più.

Il Ciad è l’emblema di tutto questo: qui i fattori ambientali e climatici – che hanno portato anche alla quasi scomparsa del Lago Ciad, un tempo uno dei bacini idrici più vasti dell’Africa – si intrecciano a situazioni conflittuali dovute alla presenza di gruppi terroristici e ribelli, agli scontri sempre più frequenti tra pastori e agricoltori, a un contesto di instabilità politica e a una grandissima povertà e insicurezza alimentare. Una crisi complessa e prolungata di cui, oggi, ne pagano le conseguenze intere popolazioni. Nel bacino del lago sono più di 24 milioni le persone a rischio fame e quasi tre milioni gli sfollati, secondo quanto emerso dalla terza Conferenza su questa regione, che si è tenuta a fine gennaio a Niamey, in Niger, e che ha delineato un quadro drammatico, che rigurada anche i paesi limitrofi.

La fame si diffonde

Il Ciad, in particolare, sta vivendo una situazione catastrofica in termini di sicurezza alimentare: è uno dei paesi africani in cui la fame è a livelli allarmanti, insieme a Repubblica democratica del Congo, Centrafrica, Madagascar e ai paesi del Corno d’Africa. Per non parlare del Sudan, che lo scorso 15 aprile è sprofondato nuovamente nel conflitto civile, con inevitabili ripercussioni anche al di qua della frontiera ciadiana, dove, dopo un mese di guerra, si erano già riversati oltre 60mila profughi che sono andati ad aggiungersi a quelli fuggiti negli anni scorsi dal conflitto in Darfur.

Anche il Ciad, tuttavia, si regge su un equilibrio molto delicato e instabile. L’uccisione del presidente Idriss Déby, il 20 aprile 2021 – ufficialmente mentre guidava un’offensiva contro i ribelli del Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad (Fact) – ha aperto una nuova fase politica, tanto opaca quanto quella che lo aveva visto protagonista (indiscusso e controverso) per ben trent’anni. Le redini del potere sono state immediatamente trasferite – per «successione dinastica», secondo gli oppositori – al figlio Mahamat Deby Itno, nominato a capo del Consiglio militare di transizione (Cmt), che avrebbe dovuto portare, nel giro di 18 mesi, alle elezioni e a un governo civile. Per farlo, è stata creata una piattaforma di dialogo nazionale che si è tenuta da agosto a ottobre 2022 con risultati piuttosto deludenti e inconcludenti, e con l’unica certezza che la transizione sarebbe stata prolungata di altri 24 mesi, guidata sempre da Déby junior.

Anche la Chiesa cattolica, che era stata associata al dialogo, ha deciso di sospendere la sua partecipazione, nel settembre dello scorso anno, ritenendo che mancasse una reale volontà di ascolto reciproco e di inclusività. Per la Chiesa, «il dialogo, che è al tempo stesso politico e sociale, deve mettere insieme gli attori politici e quelli della società civile, molti dei quali sono stati esclusi». Ovvero, gran parte dell’opposizione, diverse espressioni del tessuto sociale e alcuni gruppi armati.

Proteste popolari

Il senso di frustrazione, soprattutto di molti giovani, è sfociato nell’ottobre del 2022 in numerose manifestazioni e proteste sia nella capitale N’Djamena che in altre città del Paese.

Un movimento popolare brutalmente represso dalle forze di sicurezza, che hanno provocato una cinquantina di morti e più di trecento feriti.

Nel frattempo circa 400 ribelli sono stati condannati, lo scorso marzo, al carcere a vita per l’uccisione di Idris Déby, dopo un processo nella prigione di Klessoum, vicino alla capitale, durato circa un mese e a porte chiuse. L’accusa parla di «atti di terrorismo, arruolamento di bambini e attentato alla vita del capo dello Stato», ma la condanna assomiglia molto a un regolamento di conti specialmente con il Fact, uno dei gruppi più attivi e minacciosi presenti nel nord del Paese, dove è implicato anche nello sfruttamento delle miniere d’oro.

La capitale e l’interno

Oggi la situazione è apparentemente calma. E non è solo il caldo soffocante, con le temperature che si aggirano attorno ai cinquanta gradi, che azzerano ogni tipo di iniziativa, facendo sembrare città e villaggi, nelle ore centrali della giornata, dei luoghi fantasma. La capitale N’Djamena è costantemente «blindata» dalle forze di sicurezza ciadiane.

A scoraggiare possibili attacchi e incursioni è anche la presenza di considerevoli contingenti stranieri, in primis, quello francese che, «cacciato» dal resto del Sahel, ha consolidato in Ciad un’importante presenza militare per controllare – dal cuore dell’Africa e al crocevia tra mondo arabo musulmano e regione subsahariana – anche quello che succede tutt’intorno.

Fuori da N’Djamena, però, il Paese sembra abbandonato a se stesso. Strutture e infrastrutture sono quasi inesistenti o ridotte in uno stato pietoso, comprese le due strade principali, quella che costeggia il fiume Logone al confine con il Camerun e che scende verso sud, e quella che taglia il Paese da ovest a est: due assi viari strategici che, per lunghi tratti, sono impraticabili a causa delle enormi buche che obbligano a percorrere piste sabbiose ai lati.

Per non parlare dei sistemi educativo e sanitario. Nel Paese, solo un quarto della popolazione è scolarizzato e appena il 14% delle donne. Gli unici ospedali degni di questo nome sono nella capitale, mentre nella maggior parte dei dispensari c’è a malapena personale infermieristico. Più del 40% della popolazione vive sotto la soglia di povertà.
E i prezzi di cibo, carburante, beni di prima necessità continuano a crescere, anche in conseguenza della guerra in Ucraina.

Il Paese è sull’orlo del fallimento a causa del debito estero e si piazza al penultimo posto (seguito solo dal Sud Sudan) nell’indice dello sviluppo umano dell’Undp. Quanto a vulnerabilità climatica – ovvero alla capacità di resistere e di reagire all’impatto del clima – è il peggiore al mondo.

Equilibri precari

Ad aggravare la situazione contribuiscono anche le molte fratture interne e le tante situazioni potenzialmente esplosive. Sono, infatti, presenti – e a volte si intrecciano – diversi livelli di conflitto. Fino dagli anni Novanta, il Nord del Paese è stato interessato da varie ondate di ribellioni da parte di gruppi che spesso mantengono basi logistiche in Libia. A partire dalla 2015, sono stati soprattutto i terroristi nigeriani di Boko Haram a rendersi responsabili di attacchi, violenze, saccheggi e rapimenti in tutto il bacino del Lago Ciad, coinvolgendo anche il sud est del Niger, l’estremo nord del Camerun e, appunto, il nord ovest del Ciad, fino ad arrivare a colpire, a metà del 2015, persino la capitale N’Djamena. Alla fine del 2019, invece, sono state le regioni del Sila e dell’Ouaddai al confine con il Sudan e quella del Tibesti alla frontiera con il Niger a essere interessate da scontri tra gruppi etnici rivali. Ancora oggi la presenza di formazioni terroristiche islamiste rappresenta una sciagura per la popolazione e mette a dura prova l’esercito che è attivamente impegnato anche nella lotta antiterrorismo nell’ambito del G5 Sahel (coalizione regionale di lotta al terrorismo, composto da Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad, ndr).

Ma un altro livello di scontro, sempre più diffuso e preoccupante, è quello tra pastori e agricoltori in diverse regioni del Paese, esacerbato dai cambiamenti climatici che rendono sempre più difficile l’accesso all’acqua e ai pascoli. Le violenze intercomunitarie stanno provocando moltissimi morti, feriti e sfollati.

La voce dei vescovi

Una situazione sempre più drammatica, su cui sono intervenuti recentemente anche i vescovi ciadiani che hanno chiesto di non strumentalizzare le rivalità etniche e soprattutto religiose per mettere le comunità una contro l’altra. È un tema estremamente delicato e critico, anche perché in Ciad – come in tutto il Sahel – le popolazioni nomadi dedite alla pastorizia sono generalmente musulmane, mentre gli agricoltori sono cristiani o seguaci delle religioni tradizionali. Secondo molti, tuttavia, compreso il vescovo Martin Waïngué Bani di Doba, nel sud del Paese, non è solo una questione di cambiamenti climatici e di strumentalizzazioni politiche: «C’è stato – dice – un cambiamento nel modo di praticare l’allevamento. Tradizionalmente, le popolazioni vi si dedicavano per la loro sopravvivenza. Ma oggi parliamo di nuovi pastori, a cui facoltosi impiegati statali e ufficiali dell’esercito affidano il loro bestiame». Si tratta di migliaia di vacche e di cammelli che, ancora oggi, non rappresentano solo – o non tanto – una fonte di nutrimento, ma sono simbolo di patrimonio e prestigio, un bene in cui investono uomini di potere e alti quadri dell’esercito. Sono proprio loro a fornire le armi ai pastori, i quali si sentono così «autorizzati» a invadere e devastare impunemente i campi degli agricoltori, che, a loro volta, tendono a farsi giustizia da sé.

Le notizie di scontri sono quotidiane in diverse regioni del Paese, nelle quali le spirali di vendette e ritorsioni provocano spesso più morti dei gruppi jihadisti.

Secondo il vescovo di Doba, questi conflitti intercomunitari vengono presentati come religiosi, ma è solo un modo per non affrontare il problema alla radice. A fine aprile, la questione è stata esaminata anche dal primo ministro Saleh Kebzabo, che ha convocato una riunione interministeriale in seguito alla quale il ministro dell’Amministrazione territoriale è stato incaricato di creare un comitato con lo scopo di organizzare degli incontri «per arginare tali ricorrenti conflitti».

Lo scorso 18 maggio, in seguito all’ennesimo massacro nella provincia del Logone orientale, nel sud del Paese, anche l’Unione dei movimenti e delle associazioni dei laici della Chiesa cattolica (Umalect) ha diffuso un comunicato per chiedere «l’immediata cessazione dei massacri e una migliore sicurezza per le popolazioni in tutto il territorio».

Infine, si combatte anche per il controllo delle risorse, soprattutto oro e uranio nel Nord del Paese, tra diversi gruppi armati che si contendono il controllo della regione, tra cui il Fact. E si combatte per il potere tra vari clan dell’etnia zagahwa, quella a cui appartiene la famiglia Déby, che non manca di profonde divisioni al suo interno. Il tutto avviene in un contesto di diffusa corruzione, scarsa libertà di stampa e scarso ricambio politico, violazione dei diritti umani e un sistema giudiziario precario.

Migrazione disperazione

In una situazione segnata da così tante criticità e spesso da violenze, le popolazioni del Ciad si dibattono tra mille difficoltà con il poco, anzi pochissimo, che hanno. La povertà è talmente diffusa e spesso estrema che si fatica a capire come le famiglie riescano a sopravvivere. Molti giovani non vedono altra alternativa che recarsi nel vicino Camerun, dove vengono sfruttati per i lavori più umili, faticosi e pericolosi. Le donne, costrette esse stesse a lavori pesanti oltre che alla cura dei figli e della casa, percorrono ogni giorno molti chilometri per trovare un po’ d’acqua, magari scavando nell’alveo disseccato di piccoli ruscelli. Tutti mostrano un’incredibile capacità di resistenza e resilienza. E sono straordinariamente aperti all’accoglienza: nonostante le difficoltà e le miserie, l’ospite è sempre sacro, sia che si tratti del viaggiatore di passaggio che dei profughi in fuga dai Paesi limitrofi, in particolare, in queste ultime settimane, quelli provenienti dal Sudan.

Anna Pozzi


Oltre un milione i profughi di altri paesi in Ciad

In arrivo gente in fuga dal Sudan

Il Ciad è un paese di 18,5 milioni di abitanti, tra i più poveri al mondo. Fra le molte sfide che deve affrontare c’è anche quella di una presenza molto significativa di sfollati e profughi. I primi fuggono soprattutto dai conflitti interni o sono costretti a lasciare le loro case e villaggi a causa delle ricorrenti e devastanti inondazioni. Quanto ai profughi, provengono dai Paesi vicini, essi stessi interessati da situazioni di conflitto o instabilità. Secondo l’Alto commissariato Onu per i profughi (Unhcr), già prima della crisi in Sudan, scoppiata lo scorso 15 aprile, erano più di un milione, tra cui 580mila rifugiati provenienti soprattutto dalla Repubblica Centrafricana e dal Camerun, oltre che dalla precedente guerra in Darfur.

Lo scoppio di nuove ostilità nel vicino Sudan tra l’esercito governativo e i paramilitari delle Rapid Support Forces (Rsf), ha provocato un nuovo massiccio spostamento di popolazione dentro e fuori il Paese. Nel giro di poche settimane centinaia di migliaia di persone si sono riversate in Egitto, Repubblica Centrafricana e Ciad. In quest’ultimo, sono oltre 60mila quelle che hanno passato il confine dopo il primo mese di conflitto. Secondo l’Unhcr, «quasi il 90 per cento è composto da minori e donne, tra queste molte di loro sono incinte. Un quinto dei bambini tra i 6 e i 9 mesi sottoposti a screening è risultato gravemente malnutrito».

Anche fratel Fabio Mussi, missionario del Pime in Ciad e responsabile dei progetti sociali del vicariato di Mongo, che si è recato sul posto, testimonia di una situazione disperata: «Le persone sono accampate in campi di fortuna sotto misere tende in attesa degli aiuti umanitari. Aiuti che faticano ad arrivare perché si tratta di zone remote che diventano inaccessibili non appena inizia la stagione delle piogge».

Fratel Mussi si è già attivato insieme alla Caritas di Mongo per far arrivare cibo e beni di prima necessità e ha inviato due camion per realizzare dei pozzi e garantire acqua potabile prima che le piogge rendano le strade impraticabili.

Anna Pozzi

 

Il Ciad in cifre

  • Superficie: 1.284.00 km2 (4,3 volte l’Italia)
  • Popolazione: 18,5 milioni (2022)
  • Indice di sviluppo umano (posto nella classifica): 190/191 (2021)
  • Pil procapite annuo [PPP$]: 1.364.
    (PPP$: dollari in parità di potere d’acquisto, tiene conto dei livelli dei prezzi nel paese).