MONGOLIA (3)Tra “Ethos” e “Daimon”

Come dialogare con i buddisti in Mongolia?
Da dove cominciare? Con quale linguaggio? Senza dubbio: con il linguaggio dell’amore e della carità.

La chiesa cattolica si prepara per estendere la sua azione fuori della capitale. «C’è molto da lavorare qui in Mongolia – dice il padre congolese Pierre Kasemuana, missionario di Scheut – e la tolleranza tra cattolici e buddisti è fondamentale per ottenere risultati concreti».
La presenza dei cattolici in Mongolia è numericamente esigua, ma molto apprezzata, anche dai buddisti lamaisti, che costituiscono il 90% della popolazione. Un obiettivo comune unisce le due fedi: dare un futuro alla nazione mongola, cominciando dai suoi abitanti più giovani.
Potremmo cominciare il dialogo leggendo insieme un testo, come il Canone buddista, che contiene molti brani condivisibili dai cristiani. Oppure potremmo scegliere la lettera di san Giacomo, che lo stesso Dalai Lama, per esempio, ha letto ed elogiato.
Questa lettera, in realtà, presenta varie somiglianze con alcuni testi della tradizione buddista, in particolare con quelli di scuola lojong (lett.: dimostrare la mente), i quali parlano, per esempio, di «tre livelli della fede» da conquistare successivamente e del dovere di tradurla in azione, dell’importanza dell’ascolto, «in contrapposizione al parlare», del controllo delle «emozioni negative», come l’ira.
È necessario dialogare per vincere fondamentalismi e intolleranze, che negano all’altro il diritto di essere differente e che, oggi, servono di pretesto per guerre e conflitti. Il teologo Hans Küng afferma: «L’umanità non sopravviverà senza una etica mondiale. Nel mondo, non ci sarà la pace senza dialogo fra le religioni».

DA DOVE COMINCIARE?
Il dialogo potrebbe cominciare da due parole dell’antica Grecia, quindi né cristiane né buddiste, ma che contengono concetti universali: ethos e daimon.
Il primo termine, ethos, richiama subito alla mente il concetto di «etica» (legge morale universale); ma il suo significato originario è piuttosto quello di dimora, abitazione umana. Non si tratta dei muri e tetto della casa; l’ethos indica quel complesso di relazioni che l’essere umano stabilisce con l’ambiente, da cui ritaglia lo spazio per la sua dimora, con i familiari per essere cornoperativi e pacifici, con un piccolo luogo sacro, dove si conservano le memorie più care, e con i vicini, perché ci sia mutua collaborazione e cortesia. In altre parole, l’ethos è il luogo dove l’uomo dà dignità alla sua esistenza.
Alla partenza da Roma, nel luglio del 2003, ci domandavamo come e dove sarebbe stata la nostra abitazione in Ulaanbaatar. Sapevamo che il vescovo aveva già affittato due appartamenti, uno per le suore e l’altro per noi padri. Ci aspettavamo di essere alloggiati almeno a un chilometro di distanza; invece ci siamo ritrovati nello stesso stabile, in due appartamenti sovrapposti. Ci troviamo bene: abbiamo scelto il luogo sacro comune (la cappella) e avviato il nostro ethos, cioè il nostro modo di essere missionari.
Per ogni missionario l’ethos è il mondo intero; nella pratica, però, diventa un luogo specifico, che per noi è la Mongolia. Essendo all’inizio, il complesso di relazioni con i mongoli è ancora complicato, ma non sarà difficile, poiché abbiamo già sperimentato che essi sono molto simpatici e aperti agli stranieri.
Ciò che fa della casa un ethos, cioè una dimora umana, un insieme di relazioni, è il daimon, che nel greco classico non è il demonio, ma il contrario: l’angelo buono, genio protettore. Socrate, per esempio, si lasciava orientare dal suo «demone»: lo chiamava «voce profetica dentro di me, proveniente da un potere superiore», o «segnale di Dio».
In ultima analisi, il daimon si identifica con la nostra coscienza, con quella voce interiore che suggerisce i nostri comportamenti, guida, dissuade o incoraggia altri elementi fondamentali del nostro essere: desideri, intelligenza, amore o potere.
Ancora prima di Socrate, il geniale filosofo Eraclito (500 a.C.) aveva unito i due concetti nell’aforisma 119: ethos anthrópo daimon, letteralmente: ethos all’uomo (è) daimon. Le interpretazioni di questo frammento sibillino sono molte. Nei tempi più recenti, il filosofo Martin Heidegger lo ha tradotto così: «L’uomo, in quanto uomo, ha la sua dimora in Dio»; invertendo i termini si può anche dire che «Dio è la dimora dell’uomo».
La fedeltà a questo angelo buono fa sì che abitiamo bene nella casa, quella individuale, nella città, nel paese e sul pianeta terra, la casa comune. Tutto ciò che facciamo perché si possa vivere bene insieme (felicità) è etico e buono; ciò che è contrario alla convivenza è anti-etico, cioè cattivo.

IL DIALOGO
Nel corso della storia, il daimon fu dimenticato, sostituito dai filosofi con sistemi etici, proposti come legge universale, e, negli ultimi secoli da ideologie, come marxismo e liberismo, che hanno ridotto l’etica a un affare utilitario, con conseguenze disastrose per la convivenza umana.
La Mongolia ne è un esempio. Per 70 anni satellite dell’Unione sovietica, in omaggio all’ideologia marxista-leninista fu proibita ogni pratica religiosa pubblica, i monasteri buddisti furono chiusi o distrutti, migliaia di monaci assassinati, molti altri perseguitati.
Da poco più di un decennio è ritornata la democrazia: nelle elezioni del 1996, la Coalizione della madrepatria democratica (Cdm) sconfisse il Partito rivoluzionario del popolo della Mongolia (Prpm), al potere nei precedenti 70 anni. Ma il popolo mongolo non sembra avere staccato totalmente il legame col partito comunista: nelle elezioni legislative del 2000 restituì il potere al Prpm e in quelle del giugno scorso ha diviso in parità i deputati mandati in Parlamento.
I governi che si sono succeduti in questi anni hanno abbandonato ogni atteggiamento antireligioso; anzi, hanno aperto le porte alle diverse religioni, pur imponendo certe limitazioni. Le chiese, per esempio, non possono esporre la croce fuori dell’edificio; nelle nostre scuole non possiamo avere segni religiosi; non è consentito fare manifestazioni religiose fuori degli edifici di culto.
Tuttavia, il dialogo con le autorità pubbliche è bene incamminato; le relazioni sono stabili. Senza dubbio, le autorità cominciano a capire chi siamo grazie all’impegno della chiesa verso i più bisognosi. Anche tale testimonianza è una forma di dialogo, fatto di gesti concreti, più eloquenti delle parole.
Quando parliamo dei poveri, ci troviamo in sintonia con i fratelli buddisti; pure i monaci, infatti, hanno opere a favore dei bambini di strada, degli anziani bisognosi, dei carcerati, dei giovani.
Inoltre, in Ulaanbaatar il buddismo asiatico ha la sede della Conferenza continentale per la pace. Anche sotto questo aspetto non è difficile darci la mano per leggere insieme i segni dei tempi e il grande libro della vita, nella ricerca della pace e dell’armonia.

PRESENZA DI FEDE E AZIONE
Dio ha piantato la sua gher (la tipica tenda rotonda) in mezzo alla Mongolia dei buddisti, degli sciamanisti, dei musulmani… e di noi cattolici, chiamati a lavorare in questa vigna del Signore nell’ultima ora.
Dice Simone Weil: «Ogni qualvolta una persona ha invocato con cuore puro Osiride, Dioniso, Budda, il Taho, ecc…, il Figlio di Dio ha risposto inviandogli lo Spirito Santo. E lo Spirito Santo ha agito sulla sua anima, non impegnandolo ad abbandonare la sua tradizione religiosa, ma donandogli la luce e, nel migliore dei casi, la pienezza della luce, all’interno di tale tradizione».
Come missionarie e missionari della Consolata in Mongolia, abbiamo bisogno di ascoltare la voce dello Spirito, per liberarci da preconcetti, paura del nuovo, occidentalismo, conservatorismo e da tutto ciò che ci impedisce di aprire le nostre tende e accogliere gli altri.
È lo Spirito che insegna il cammino del dialogo e la ricerca della pace. Tale cammino non può rimanere ristretto alle grandi conferenze, ma deve essere praticato ogni giorno, in casa, nelle relazioni familiari e nella convivenza con i vicini. Dio è amore e ci fa fratelli e sorelle nella ricerca dell’ethos perfetto, della «Terra senza mali», del «paradiso dell’armonia».
Per ora la nostra missione consiste nell’essere comunità di presenza, che si dedica ai lavori domestici (cucinare, lavare, stirare…), partecipa alla vita e alle attività delle comunità locali e, soprattutto, apre il cuore a futuri orizzonti.

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IL MONDO RELIGIOSO DEI MONGOLI

Sciamanismo
È la componente più antica della cultura e della vita del popolo mongolo. È sopravvissuto al buddismo, che ne ha assimilato o inculturato vari elementi. Si è rafforzato durante il governo comunista, dal momento che non aveva né libri sacri da bruciare, né templi da distruggere. Oggi è praticato nelle zone rurali più remote.
Lo sciamano, circondato da un’aureola di rispetto e timore, è l’anello di unione tra vita terrena e mondo degli spiriti, grazie alla sua esperienza estatica (trance). Il suo ruolo è per natura benefico e la sua funzione molteplice. Lo sciamano è medico (diagnostica il male mediante il contatto con gli spiriti e lo cura con interventi diretti); è psicologo (con rituali e dialogo agisce sulla psiche del paziente); è sacerdote (offre sacrifici e compie riti sacrali); è divinatore (nell’esperienza estatica, rivela fatti sconosciuti del passato e previene il futuro; fa ritrovare cose o persone smarrite); è psicopompo (accompagna l’anima del defunto nella nuova dimora).
Dialogare con lo sciamanismo è dialogare con la realtà più profonda della persona mongola. Per noi missionari è pure una sfida: ci stimola a scoprire nuovi modi per diventare medici del corpo e dello spirito, per attuare la nostra dimensione sacerdotale e profetica, per essere guide delle anime verso la vita senza fine.

L’antico pantheon
Fino alla seconda metà del xvi secolo, i mongoli praticavano una propria religione, poi soppiantata dal buddismo nella forma lamaista; ma alcuni antichi elementi sono sopravvissuti.
Nelle sconfinate distese della steppa, dove il cielo rappresenta l’unica possibilità di orientamento, la stella polare determinava l’asse terrestre; sotto di essa c’era l’«ombelico» del mondo, dove aveva sede il «Signore dei mongoli».
Al cielo si volge lo sguardo dell’antico cavaliere mongolo: dal cielo scende la pioggia per i pascoli delle mandrie; il cielo è la sede della divinità suprema, Tengri (cielo), raffigurato come un cavaliere con vessillo e invocato come erketu Tengri (potente cielo) o koke mongke Tengri (eterno cielo azzurro).
Questo Essere supremo è alla testa di 99 figure divine, 34 delle quali individuate nella zona orientale della volta celeste e 55 in quella occidentale. A queste 99 figure celesti corrispondono 77 madri della terra, a volte raffigurate complessivamente nella sola Etugen, la madre terra.
Chagan Ebugen (bianco vegliardo), lo spirito delle mandrie e della fertilità, viene ritratto come un vecchio con vesti e capelli bianchi. Accanto alle divinità a cavallo, protettrici dei cavalieri, esistono divinità tutelari della casa, gli «dei di feltro», dal materiale con cui sono riprodotte le loro immagini. All’ingresso delle tende, erano posti gli ongon, spiriti protettori dell’abitazione, ai quali veniva offerto del latte.
Gli sciamani, sia uomini (boge) che donne (idughan), avevano la funzione di stabilire, tramite riti sacrificali ed estatici, un contatto con il mondo di tali spiriti e divinità.
Presso l’ovoo, un cumulo di pietre dove si riteneva si riunissero gli spiriti della natura, pastori nomadi e viaggiatori invocavano la protezione di queste potenze.

Aspettando Gengis Khan
Depositario di antiche e ricche tradizioni religiose, il popolo mongolo si è sentito investito della missione di creare un impero universale che riunisse tutti i popoli dei «quattro angoli», cioè dei quattro punti cardinali.
Tale credenza è rafforzata da antichi miti, riportati dalla Storia segreta dei mongoli, compilata nel 1240. Tali miti raccontano che i capostipiti del popolo mongolo furono «il lupo blu e la cerva selvatica»; il clan di Gengis Khan ebbe origini celesti; al momento della nascita, Temujin stringeva in pugno un grumo di sangue nero, simbolo di regalità. La leggenda lo presenta come «inviato dal destino», rivestito di poteri derivanti da Tengri, dio del cielo; dopo la morte è diventato una potenza celeste e il più nobile degli antenati.
Temujin (1155-1227), che nel 1206 prese il nome di Gengis Khan (khan oceanico, universale), è il fondatore del più grande impero che la storia ricordi: si estendeva dal Mare della Cina fino ai Balcani e al Golfo Persico.
Col passare dei secoli, nonostante che la Mongolia fosse diventata uno stato teocratico, basato sul buddismo lamaista, la memoria di Gengis Khan rimase radicata a livello popolare, grazie all’influsso degli sciamani. Il ricordo delle sue imprese ha assunto una dimensione mitica, fino a diffondersi la credenza nel suo ritorno e nella rinascita del suo impero. Ancora oggi, visitando le famiglie mongole, vediamo spesso un ritratto o disegno di Gengis Khan posto in bella mostra.

Ritoo a Karakorin
L’antica capitale del regno mongolo, era un grande centro culturale e commerciale in cui varie religioni convivevano in armonia. Secondo la leggenda, la città era il luogo sacro per l’iniziazione e la sede del «Re del mondo».
L’antica Karakorin non esiste più: sulle sue rovine, nel 1500 fu costruito il monastero di Erdene Zuu, il cui tempio è ritenuto la residenza del messia, quando questi farà ritorno sulla terra alla fine del kali yuga, cioè nell’ultima delle quattro ere del ciclo cosmico buddista. Ed è quella attuale, la più tenebrosa e oscura.
Nel secolo scorso, in concomitanza con la condizione di oppressione del popolo mongolo, si diffuse un’aspettativa messianica che prevedeva la riconquista dell’identità nazionale a lungo repressa. Tali speranze furono alimentate dal profeta altaico Chot Chelpan, che nel 1904 fondò un movimento di riscossa nazionale, basato sulle sue visioni: gli sarebbe apparso un cavaliere bianco vestito, che cavalcava un cavallo bianco, annunciandogli il ritorno di Oirot Khan, discendente di Gengis Khan, per porre fine all’oppressione zarista e ripristinare l’antico impero dei mongoli.
Per alcuni mongoli la profezia di Chelpan si è ridotta a una tenue speranza: vedere Karakorin, tra una decina di anni, capitale della Mongolia. Ma mancano i soldi per adattare, modeizzare e trasformare la città.
Speriamo anche noi: un giorno Karakorin potrebbe essere la terra che accoglie i missionari della Consolata.

Juan Carlos Greco




SAN PIETRO CLAVER Schiavo degli schiavi

Trecentocinquant’anni fa, I’8 settembre 1654, moriva a Cartagena de
Indias (Colombia) il gesuita spagnolo Pietro Claver, un santo che diede
la vita per il riscatto del popolo negro, umiliato e oppresso.

Escludendo il Brasile, in America Latina esistono all’incirca 15 milioni di afroamericani, concentrati in Haiti e presenti nelle zone calde dell’America di lingua spagnola. Si tratta di una minoranza razziale dimenticata ed emarginata anche dalla missione evangelizzatrice della chiesa.

LA SFIDA NERA

La situazione dei neri è stata abbordata ufficialmente per la prima volta nella Conferenza di Puebla (1979), facendovi riferimento due volte nel documento finale. Qualcosa, da allora, si è mosso a loro vantaggio; ma sono normalmente così dimenticati, da poter essere considerati come i più poveri tra i poveri americani.
Segundo Galilea, sacerdote cileno, profondo conoscitore dei problemi sudamericani, espone le ragioni di questa dimenticanza, dicendo che la razza negra non è considerata come «autonoma», ma «avventizia». E continua: «I popoli autonomi sarebbero i discendenti degli immigrati bianchi e degli indigeni… Per questo motivo si fa maggiormente sentire la consapevolezza della realtà indigena (anche nella chiesa) che non quella dei neri. Inoltre, i neri sono assenti nelle regioni più fredde; in quelle calde sono sparsi qua e là, senza formare chiaramente una unità culturale come gli indigeni».
Questa situazione (sempre secondo Galilea), avrebbe «avvelenato l’evangelizzazione della gente di colore presente fra noi, perché ha preteso di fare dei cristiani neri dall’anima bianca. Perciò, è evidente che gli afro-americani hanno perso le loro radici e identità: non formano più un popolo. Sono soltanto una minoranza etnica, priva di proprie radici culturali in America».
Questa situazione ha i suoi riflessi sulla missione. Infatti, sono pochi i sacerdoti e le religiose tra i neri ispano-americani. Fa eccezione Haiti, con la sua popolazione costituita in massa da razza morena.
E proprio qui sta la sfida, ammonisce ancora il sacerdote cileno: «Se la chiesa non è sensibile alle minoranze razziali e sociali, al settore dei poveri tra i poveri, come potrà essere più sensibile alle nuove sfide della povertà, dell’ingiustizia e dei diritti di tutti gli emarginati di questa nostra America tanto oppressa? Di più: se l’evangelizzazione non cerca di incarnare il messaggio, la catechesi, la liturgia, i ministeri, la vita consacrata in seno alle minoranze, come potrà in futuro evangelizzare “la cultura e le culture” che emergono dai rapidi cambiamenti sociali del continente, come richiede Puebla e, adesso, buona parte delle gerarchie? Le minoranze, infatti, sono il banco di prova e il luogo di elaborazione della missione».
La sfida che ci viene dal mondo dei neri riveste un certo carattere di riparazione. Nella storia della conquista e della prima evangelizzazione dell’America Latina, i missionari hanno lottato per i diritti degli indios, ma, salvo eccezioni, non hanno inspiegabilmente opposto resistenza all’importazione degli schiavi africani, né hanno difeso con identica energia la loro dignità.
Nella chiesa cattolica, a partire dal 1978, alcuni religiosi, tra i quali i missionari e missionarie della Consolata, sacerdoti e anche laici hanno cercato di aiutare la chiesa ad affrontare la «sfida dei neri». Mettono in discussione l’ideologia che, per troppo tempo, ha privilegiato la razza bianca, essi cercano di far sì che l’afroamericano abbia più spazio nella chiesa e possa essere un cristiano nero. Inoltre viene sottolineato come l’afroamericano sia chiamato ad arricchire qualitativamente il cattolicesimo.
La prassi di illuminazione cristiana poggia su basi umane specifiche, dando il maggior spazio alla grazia. È, dunque, imprescindibile mettere al centro l’uomo «nero», così come egli si presenta, e riconoscere in lui un autentico soggetto capace di inculturazione cristiana.

CTTA’ EROICA E SCHHIAVISTA

Cartagena de Indias, denominata «città eroica» per la strenua difesa della sua indipendenza dal dominio spagnolo nel secolo xvii, dichiarata dall’Unesco «patrimonio culturale dell’umanità» per la sua storia e monumenti, chiamata «perla del Caribe» per le sue bellezze naturali, è stata per oltre due secoli la piazza di mercato degli schiavi africani.
Fondata nel 1533, favorita dalla posizione geografica, Cartagena divenne presto uno dei centri più ricchi dell’America spagnola. Il suo porto era il principale centro di smistamento di merci e di schiavi dalla Colombia al Venezuela, al Messico, all’Ecuador e Perú.
Il clima era pessimo per i venti freddi d’inverno e il caldo estenuante d’estate. Eppure, l’abbondanza dei giacimenti d’oro e d’argento della zona, attirava i mercanti europei assetati di ricchezze e onori.
Particolarmente intenso era però il traffico degli schiavi provenienti dall’Africa, assai redditizio per i trafficanti nonché per gli acquirenti. Perché la merce umana si potesse trovare sui mercati dell’America, si era creata una rete di organizzazioni che spingevano i tentacoli fino al centro dell’Africa.
Dai porti della Tripolitania, Marocco, Guinea, Congo, Angola, dove attraccavano le navi in attesa del carico, i negrieri si spingevano nel retroterra a intercettare «la merce». Quando il negriero riteneva di avee a sufficienza, intruppava le sue vittime, convogliandole in lunghe carovane verso i mercati del litorale, dove i bianchi attendevano. Costoro, finita la compera, cercavano d’imbarcare quanto prima gli schiavi acquistati.
Una terza parte di quelli che sbarcava in America moriva nei primi mesi dell’arrivo.
Così Alfonso Sandoval descriveva il loro arrivo a Cartagena: «Giungono alle nostre spiagge e sembrano piuttosto scheletri che uomini; vengono condotti a un gran piazzale o cortile, che si riempie immediatamente di gente, condottavi parte dall’ingordigia, parte dalla curiosità, parte dalla compassione. Tra questi, vi sono i padri della Compagnia di Gesù, che vengono per soccorrere e confortare o battezzare quelli che stanno per morire».
Tra di loro, spicca la carità eroica di Pietro Claver.

IL CONSOLATORE

Pietro Claver non era l’uomo delle denunce e recriminazioni, ma della consolazione mediante il servizio personale, tacito ed efficace testimone contro le ingiustizie del potere imperante.
La sua opera tra gli schiavi del porto di Cartagena raccolse sempre un consenso unanime, anche se si astenne dalle teorizzazioni dottrinali sul problema della schiavitù e dalle denunce dinnanzi alle autorità. Ebbe un’unica preoccupazione: la quotidiana attenzione e servizio agli africani schiavizzati. Era questa la sua vocazione: liberare con la carità, affidando ad altri il servizio della difesa giuridica.
Fra i difensori dei neri contemporanei del Claver, si distinse in Colombia padre Alfonso de Sandoval. Anche due cappuccini di Cuba, José de Jaca ed Epifanio Moirans, sostennero che la schiavitù africana era ingiusta: «I negri non si rendono liberi ricevendo il battesimo, lo sono già prima, per diritto naturale. Quindi, non esiste solo l’obbligo di restituire loro la libertà; bensì, in forza della giustizia, si deve pagare loro ciò che hanno perso durante la schiavitù, il lavoro e i danni subiti…».
Ma il Consiglio di Spagna protestò, dicendo che senza la schiavitù, le Americhe sarebbero state condannate alla rovina totale. I due furono scomunicati e richiamati in patria. Purtroppo, lo sforzo fu per allora vano. In Colombia la schiavitù fu abolita soltanto nel 1830 dal presidente e liberatore Simón Bolivar.
In quel misero contesto, Pietro Claver rappresentò lo sguardo misericordioso di Dio sulla povera umanità schiava. Si era autodenominato «schiavo degli schiavi negri, per sempre»; e mantenne la promessa.
Era il 15 aprile del 1610, quando Claver s’imbarcava per raggiungere Cartagena de Indias. Aveva 30 anni ed era nato a Verdú (Lerida). Figlio di lavoratori, seguì gli studi secondo i criteri dell’epoca. Nel 1602, entrò nella Compagnia di Gesù e fece due anni di noviziato a Terragona.
Ebbe la fortuna di stringere amicizia con Alfonso Rodríguez, uomo di Dio, insignito di doni straordinari. L’anziano portinaio, con parole profetiche e sguardo luminoso, fissando l’amico, gli ripeteva: «Sì, Pedro, tu andrai nelle Indie e là farai grandi cose per le anime… Io lo so!».
E vi approdò alla fine di aprile del 1610. Durante la traversata, poté rendersi conto in che cosa consistesse la cosiddetta «febbre» degli spagnoli verso il Nuovo Mondo. Vi affluivano naviganti e mercanti, soldati e avventurieri, banditi e missionari, chi con avidità smodata e chi, come i missionari, con speranza apostolica.
Nel 1605, i gesuiti avevano aperto un centro in Cartagena, impegnandosi con fervore nei ministeri richiesti dai cittadini. Tra essi lavorava padre Sandoval, impegnato nel dramma della schiavitù, autore di varie opere e di una «Carta maxima portugaliensum» in cui erano segnalati i porti (a volte camuffati come in Cartagena) nei quali si effettuava la tratta dei negri e che veniva definita «la mappa dell’ignominia». Sandoval era anche un apostolo, che si recava personalmente dagli schiavi per aiutarli.
Quando conobbe Pietro Claver, capì che la sua opera aveva trovato un degno erede. Claver faceva le sue prime esperienze come discepolo di quell’impareggiabile maestro e completava i suoi studi a Santafé de Bogotá e Tunja. Nel 1617, Sandoval partì per il Perú e il Claver, già sacerdote, da quel momento rimase solo a svolgere quel compito.
Era l’epoca d’oro della tratta verso Cartagena; si calcola, infatti, che nel suo porto vi sbarcò più di un milione di schiavi negri, introdotti in America in sostituzione dei nativi indios per lavorare nelle miniere e in mille lavori pesanti, dove la debole struttura dell’indigeno non resisteva.

LA PAURA DEL SIGNORE

Dal galeone che avanza sul Mare dei Caraibi si può vedere il Picco della Poppa, baluardo-santuario della città di Cartagena. Lo scalo si trovava vicino all’entrata principale, all’interno della baia. Il veliero si accosta al grosso muro del forte e getta le ancore un po’ staccato dalla banchina. Il capitano fa sapere che non si può sbarcare, perché tutta l’armata è malata e manda a chiamare padre Claver, dicendo: «Stavolta non le mancherà il lavoro».
Ma non è necessario chiamarlo; egli è già in cammino, con volontari e interpreti. Appena spunta l’alba, il santo è alla finestra scrutando il mare, pronto ad accorrere prima che i rudi mercanti assalgano la nave.
Il giorno prima, ha assicurato il premio di nove messe a chi gli annunci l’arrivo; premio caro al governatore e a vari ufficiali del porto, i quali fanno a gara per conquistarselo. C’è poi un ragazzo che fa la sentinella, così bravo e lesto che non si lascia mai cogliere alla sprovvista.
Ecco allora che il Claver si presenta con il denaro, i vestiti e le vettovaglie raccolte nel solito giro per la città presso i suoi numerosi ammiratori e benefattori. Egli li anima con buona grazia, ripetendo: «Ho bisogno di cose buone; è arrivata una falange di negri».
Prima che compaiano i medici, gli agenti, gli scaricatori, il santo è sul ponte e, appena un marinaio apre la botola della stiva, s’infila e scompare nell’orrido sepolcro. Centinaia di occhi languenti e abbarbagliati da quell’improvviso sprazzo di luce cercano di fissarsi su quell’ombra che si profila contro il boccaporto. Il primo approccio tra il gesuita e gli schiavi è di dolcezza. Si tratta di vincere il terrore, l’umiliazione, che arriva anche a eliminare, nella traduzione del Credo, la parola «Signore», affinché i poveri schiavi, con la loro mentalità già spaventata, non concludessero: «Dunque anche Lui ci tratterà come cani!».
Ecco che ora, nella nave-prigione, scendono sei o sette interpreti africani, amici del gesuita, vestiti di bianco che salutano i nuovi venuti nella loro lingua e fanno loro coraggio. Il padre passa tra le file, sorridendo; fa una carezza a questo, allenta i ceppi a un altro; si interessa con particolare affetto dei bambini; stende il suo mantello su un ammalato che trema, regala a tutti qualcosa: un biscotto, un’arancia, una mela, un sorso di liquore. Uomo di consolazione, li conquista con il linguaggio della carità.

Il mantello multiuso

Nelle tetre baracche dove attendono la loro sorte, gli schiavi vengono collocati in un certo ordine, prima di essere esposti al mercato e distribuiti nei campi di lavoro.
Claver non li abbandona: continua a visitarli per stringere amicizia e istruirli nella fede. Segue un buon metodo, dettato dall’esperienza: aveva imparato la lingua dell’Angola per potersi intendere direttamente con la maggior parte di quelli che arrivavano; per gli altri, si serve di interpreti.
Su una scheda prende nota dei dati di ciascuno per conoscerli meglio e non perdee le tracce. Visita con assiduità gli ammalati. A uno di questi, abbandonato nella capanna, porterà tutti i giorni cibo e cure ininterrottamente per 15 anni.
In tutti i casi penosi che si verificano in città e nelle piantagioni, interviene per infondere animo, correggere e, qualora sia necessario, redarguire i padroni per la loro crudeltà.
I suoi ammiratori sono unanimi nell’affermare che, per 40 anni, egli visse con le sue inesauribili bisacce, il rozzo bastone e il vecchio mantello «multiuso». A una persona che gli domandava, verso la fine della vita, quanti schiavi avesse battezzato, rispose che certamente erano stati non meno di 300 mila.
In effetti, tutti gli schiavi arrivati a Cartagena durante quei 40 anni (giungeva una dozzina di navi all’anno, con un carico medio di 700 schiavi ciascuna), l’avevano visto, o ascoltato i suoi insegnamenti e, se preparati, avevano ricevuto il battesimo prima di partire per altre direzioni.
Gli ultimi anni della vita di Pietro Claver furono penosi: le forze diminuivano, specialmente dopo l’epidemia del 1650, che lo colpì e paralizzò, impedendogli qualsiasi movimento per quattro anni; tempo che egli trascorse confinato in una piccola cella, dimenticato da tutti, con cure scarse e assistito malamente da uno schiavo nero. Muore all’alba dell’8 settembre 1654. Canonizzato nel 1888, nel 1896 viene dichiarato patrono universale delle missioni fra i negri da Leone XIII.

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L’IMBARCO

Il negriero Degrandpré così descrive la notte della partenza di una nave di schiavi: «La cabina del capitano è sopra la stiva e il pavimento non è di grosso spessore. Più volte egli è svegliato dal rumore e dai gemiti. Gli sventurati si vedevano sul punto di lasciare per sempre la patria. L’incertezza dell’avvenire incuteva loro sgomento di morte, poiché erano persuasi di vivere i loro ultimi istanti e si aspettavano di venire uccisi e mangiati l’indomani».
Assicura il negriero che i loro singhiozzi e canti di dolore spesso turbavano la sua anima… E padre Sandoval, missionario in Cartagena, spiegava: «Gli uomini stessi che li conducono, m’hanno assicurato che quegli esseri miserabili sono legati a sei a sei per mezzo di cerchi al collo, e a due a due con le catene ai piedi, in modo tale che sono ridotti all’immobilità. Essi vengono rinchiusi sotto il ponte, in luogo dove non penetra luce alcuna: uno spagnolo non potrebbe affacciarsi senza svenire, tanto è il puzzo, la strettezza e la miseria del loro ricovero». Gli uomini sono nudi; alle donne si concede uno straccio.

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«Un laccio» tra due culture

Esprimo la mia profonda ammirazione per questo esemplare religioso della Compagnia di Gesù, insigne colombiano nato in Spagna, di cui il mio predecessore Leone xiii disse: «Dopo il Cristo, è l’uomo che più mi ha impressionato nella storia».
Il suo messaggio ed esempio conservano un’attualità universale che distingue il vero seguace di Cristo. Si è fatto «schiavo degli schiavi negri per sempre»; per loro consacrò le sue migliori energie, per la difesa dei loro diritti come persone e come figli di Dio consumò l’esistenza e, in una prova eroica d’amore al fratello, consegnò la sua vita.
Ma Pietro Claver non limitò l’orizzonte della sua opera agli schiavi, lo estese con prodigiosa vitalità a tutti i gruppi etnici o religiosi che soffrivano l’emarginazione; prigionieri, stranieri, poveri e oppressi, schiavi al lavoro in costruzioni, miniere e fattorie ricevettero la sua visita, conforto e consolazione.
In un ambiente duro e difficile, in cui i diritti umani erano violentati senza scrupoli, alzò coraggiosamente la voce contro i dominatori, dicendo loro che quegli esseri oppressi erano uguali ai loro oppressori nella dignità, nella loro anima e vocazione trascendente.
Con profondo senso pedagogico, trasmise all’emarginato la coscienza della sua dignità, gli fece apprezzare il valore della sua persona e del destino al quale Dio, padre di tutti, lo chiamava. Così spezzò le barriere della disperazione, seminò la speranza, si adoperò per trasformare una realtà ingiusta, senza predicare vie di violenza fisica o di odio; così venne creando un laccio d’unione tra due razze e due culture…
Egli è l’uomo dell’offerta totale di sé, in una vocazione sacerdotale per gli altri. Di fronte alle necessità pressanti che scopre intorno a sé, egli non si risparmia, ma si offre interamente a tutti per tentare di alleviarli e liberarli dall’oppressione e per dare loro la dimensione completa della loro esistenza.
Vedendo i risultati stupendi conseguiti, con frutti che solo un amore illimitato e saldamente fondato in Dio è capace di raggiungere, ci accorgiamo che siamo di fronte a una vita feconda, degna di essere imitata. Vi propongo dunque questo esempio di uomo e di religioso sacerdote, affinché serva di modello a coloro che non si accontentano di piccoli ideali e vogliono realizzarsi in una generosa consegna agli altri.

Giovanni Paolo II

Brunalda Bonardo




DOSSIER KOSSOVOLe organizzazioni

Dal Trentino, il «Tavolo Trentino con il Kossovo»
Il Tavolo Trentino con il Kossovo è un luogo di confronto, scambio, elaborazione condivisa e cornordinamento di un programma generale e comune di intervento in Kossovo, nella municipalità di Peja-Pec. È nato immediatamente dopo la guerra del Kossovo nel 1999, su iniziativa di alcune associazioni trentine e della Provincia Autonoma di Trento.
Attualmente vi partecipano attivamente una decina di soggetti: la Provincia Autonoma di Trento (che ha anche un ruolo di finanziatore), Avsi Trento, Casa per la Pace di Trento, Gruppo 78 (CICa), Progetto Colomba, Progetto Prijedor, Solidarietà Alpina, Associazione Velaverde, Tavolo Trentino con la Serbia, Comune di Trento, Operazione Colomba – Quilombo Trentino, Piazza Grande.
Il Tavolo si propone di elaborare e realizzare un programma organico di interventi nella municipalità di Peja-Pec, secondo la logica dello sviluppo endogeno ed integrato, e della partecipazione dei soggetti e delle risorse locali kossovare, oltre che del coinvolgimento di soggetti e risorse della società civile e dell’economia trentina, cercando di innescare anche rapporti significativi e duraturi tra soggetti omologhi in Trentino ed in Kossovo. Allo stesso tempo, e con la stessa importanza, intende inoltre favorire l’attenuazione delle tensioni tra le varie comunità (serba, albanese, rom, ecc.).
Le attività direttamente orientate all’attenuazione delle tensioni tra i vari gruppi nazionali, in particolare nella zona comprendente i villaggi di Gorazdevac e Poceste e la città di Peja-Pec nell’ultimo anno e mezzo si sono concretizzate nel centro giovanile «Zoom».
Il centro si è formato da tre piccoli progetti che sono poi diventati tre piccoli gruppi. Per primo in città si è costituito un gruppo di arrampicatori formato per il momento da soli albanesi ma che è la nervatura fondamentale per un’idea di riavvicinamento delle due parti. Questo gruppo è formato da ragazzi di città, tutti sui trent’anni e dalle vedute aperte.
Il secondo gruppo è nato da un piccolo corso di teatro fatto da Silvia Corsi: sono ragazzi sui 17-20 anni che frequentano la scuola d’arte. All’epoca del corso gli insegnanti hanno impedito ai ragazzi di fare delle cose assieme ai ragazzi serbi di Gorazdevac ma loro hanno comunque voluto sapere come andavano le cose e poi durante una festa hanno incontrato i loro omologhi serbi e visto il loro spettacolo.
Il terzo gruppo è quello fotografico che, come età e provenienza, è uguale a quello di teatro e in parte formato dalle stesse persone. All’epoca del progetto fotografico, la scuola ha fatto problemi e impedito l’esposizione congiunta delle foto.
Come detto, questi tre gruppi formano il centro giovanile «Zoom», che ha sede a Peja-Pec. Tutti i gruppi hanno scelto la forma del centro giovanile indipendente anche perché i condizionamenti imposti dalla scuola non erano piaciuti ai ragazzi. All’epoca del corso di fotografia era stato allestito un laboratorio fotografico anche a Gorazdevac.
Le attività di «Zoom» sono sempre state aperte a tutti e i serbi frequentavano il centro, seppur con qualche difficoltà e paura, fino al 13 agosto 2003, quando due di loro sono stati uccisi nell’enclave serba di Gorazdevac.

«Operazione Colomba», 12 anni per la pace
Nel maggio 1992, dal desiderio di provare a vivere la nonviolenza nella guerra della ex-Jugoslavia, la Comunità Papa Giovanni XXIII ha dato vita ad una serie di iniziative denominate «Operazione Colomba», che hanno coinvolto centinaia di giovani di diverse parti d’Italia e numerosi obiettori di coscienza.
Condividendo la vita (le paure, i disagi, le sofferenze…) delle persone più colpite dalla violenza del conflitto, l’Operazione Colomba ha reso possibile il dialogo tra le differenti parti in lotta e tra le chiese, ha aiutato a riunire le famiglie divise dai diversi fronti, protetto le minoranze etniche e contribuito a ricreare un clima di convivenza e riconciliazione.
Dal 1992 al 2004, i volontari di Operazione Colomba hanno operato in ex-Jugoslavia (Serbia, Croazia, Bosnia, Kossovo), Albania, Sierra Leone, Timor Est, R.D.Congo, Chiapas (Messico), Cecenia (Russia) e Palestina-Israele, convinti che, dal vivere con le vittime della guerra e promuovendo attività di tutela dei diritti umani e dei diritti individuali delle fasce di popolazione più emarginate e sofferenti, nascano strade per la pace.
In questi 12 anni, i volontari hanno stretto rapporti di collaborazione con vari organismi (tra cui le Nazioni Unite), numerosi centri per i diritti umani, Ong locali ed inteazionali, esponenti delle chiese, associazioni e gruppi, coinvolgendo migliaia di volontari in tutto il mondo e centinaia di obiettori di coscienza in servizio civile.

Fabrizio Bettini




MONGOLIA (2)A passi… lesti

Dopo il grande gelo del regime comunista,
la Mongolia è alla riscoperta della religione
e della coscienza nazionale: un cammino
in cui si inserisce la chiesa cattolica. Ha solo 12 anni, ma con tutti i segni di una crescita sorprendente.

I paesi afflitti da gravi problemi economici e sociali rischiano spesso di perdere i valori tradizionali: non sembra sia questo il caso della Mongolia. Dopo la persecuzione religiosa, durante il regime sovietico-comunista, molti mongoli attendono la venuta di un grande personaggio, capace di scuotere il mondo con verità e saggezza: un uomo che possa aprire un’era nuova. Ne è una prova l’entusiasmo dimostrato da tutta la popolazione, nel 1991, in occasione della visita in Mongolia dell’ultimo discendente di Gengis Khan, il principe Dschero Khan, accolto come un re.
Nel paese, inoltre, si assiste a un risveglio della coscienza nazionale e, grazie alla riapertura di molti templi, alla riscoperta di antichi riti. Opere cinematografiche, letterarie e artistiche in generale traggono ispirazione dal patrimonio culturale tradizionale, interpretato in chiave profetica.
Sono soprattutto i giovani a farsi protagonisti della riscoperta del passato e a cercare con entusiasmo una verità più profonda, mantenendo viva la speranza di un futuro migliore. Ma al tempo stesso, corrono dietro a ciò che viene «importato» dall’estero, specialmente da Europa e Usa, alle novità introdotte nel paese attraverso la televisione e internet.

GIOVANE CHIESA
CHIESA DI GIOVANI

Uno dei segni più confortanti è vedere la grande sete di Dio che hanno i giovani e i mongoli in generale; il loro cuore aperto e disposto ad accogliere la «novità» del vangelo.
Per 65 anni la dittatura comunista si era adoperata con ogni mezzo, compresa la distruzione di 750 monasteri e l’assassinio di oltre 3.000 monaci, per cancellare ogni traccia di religiosità dall’animo della popolazione mongola.
Tale regime, però, è riuscito solo a provocare un enorme vuoto, che oggi alcuni sentono di poter colmare avvicinandosi a Gesù Cristo e al suo vangelo: le piccole chiese sono affollate e le comunità cristiane sono in continuo aumento. Numerosi sono i catecumeni, in maggioranza giovani e adulti, che si preparano al battesimo.
Sebbene la prima evangelizzazione in Mongolia risalga al vii secolo, in pratica la chiesa in questa regione è nata appena 12 anni fa: è una chiesa giovane, anche per l’età dei suoi membri. Giovani sono pure i missionari, provenienti da diversi paesi, che stanno spargendo i semi del vangelo e garantiscono una speranza di continuità. Fra i missionari cattolici, se si eccettua il vescovo, il più «vecchio» è il padre Eesto Viscardi, missionario della Consolata, che, a 53 anni, si sta inserendo nella chiesa locale con l’entusiasmo delle sue prime esperienze missionarie.
«La Mongolia è una terra di opportunità, un luogo in cui il messaggio di Gesù è praticamente sconosciuto – mi disse un giorno il pastore avventista Christian Grame, cornordinatore del progetto Mission Mongolia -. Sotto il comunismo tutte le religioni furono dichiarate fuori legge e la gente, in pratica, non ha mai sentito parlare di Dio, ma oggi è aperta e interessata ad apprendere».
Nei primi anni della missione cattolica (1992-93), gli unici fedeli che partecipavano all’eucaristia, celebrata in alcuni appartamenti, erano esclusivamente cittadini stranieri. Successivamente si unirono a loro le prime persone della popolazione locale, gettando così le basi della chiesa locale.
Oggi, la chiesa in Mongolia ha il suo vescovo e tre parrocchie con quasi 200 battezzati mongoli, un consistente numero di catecumeni, numerosi gruppi e opere di apostolato, strutture pastorali assai frequentate e molto attive, come asili, un collegio politecnico, centri di attenzioni ai bambini di strada, un istituto per disabili, una casa per ragazze madri. Tutto è portato avanti da 48 missionari e istituti religiosi.
Se si pensa che fino a 10 anni fa non esisteva nulla (comunità, operatori pastorali, strutture), non possiamo non vedere in tutto questo l’opera dello Spirito, che guida con mano sicura la chiesa nascente, nonostante le difficoltà che a prima vista appaiono insormontabili.

CRISTO: MESSIA O NOVITA’

Una professoressa di lingua e cultura mongola mi diceva: «I vecchi sono buddisti; quelli di mezza età, come me, siamo atei; i giovani vogliono essere cristiani». Non so fino a che punto sia vera tale affermazione; è certo, però, che il cristianesimo è una novità per una popolazione che ha conosciuto questa religione solo dopo l’anno 1992, quando il nuovo regime ha aperto le porte alle differenti chiese cristiane, che oggi sono circa una quarantina.
Sono gli adolescenti e i giovani che si mostrano molto più aperti e interessati al cristianesimo. Incuriositi, partecipano alle celebrazioni, incontri e altri momenti della vita della giovane chiesa.
Dal momento che il 35,5% della popolazione mongola è sotto i 15 anni e il 50% ne ha meno di 25, i giovani sono non solo il futuro, ma anche il presente. Essi costituiscono, al tempo stesso, una sfida e una speranza, che ci impegna a cercare la strada migliore per la nostra attività di evangelizzazione. In Mongolia, infatti, non possiamo entrare nelle scuole. Anche in quelle cattoliche non si può esporre alcun segno religioso. Nemmeno la cattedrale ha la croce all’esterno dell’edificio. Fuori del tempio non sono ammesse manifestazioni religiose pubbliche.
Come possiamo farci conoscere? L’unica strada percorribile è quella di diventare persone dal cuore giovane e testimoni dell’amore. La testimonianza attrae molte persone, che si mettono in cammino con noi.
L’ultima parrocchia, eretta meno di due anni fa, ha iniziato con diverse attività per giovani: corsi di inglese, principalmente, di musica, danza, cucito. E poiché tali iniziative si tenevano in luoghi senza insegna, erano i giovani stessi a fare pubblicità: «Vieni a vedere» dicevano i pionieri ai coetanei che domandavano dove si svolgessero tali corsi.
In questo modo i giovani conoscevano padre Felix, un sacerdote africano, alto e simpatico, che riceve tutti con uno smagliante sorriso.
Simpatia, amabilità, amore, insieme ai corsi, è quanto la piccola comunità cattolica offre ai giovani. Nessuno è obbligato a partecipare alla messa o altre attività religiose. Ma subito essi si domandano: «Perché questi stranieri si interessano di noi? Da che cosa sono mossi? Andiamo a vedere!».
E le celebrazioni, inizialmente frequentate da un pugno di persone, due suore e pochi mongoli, cominciano ad essere affollate da adolescenti e giovani; i canti passano gradualmente dall’inglese al mongolo: oggi, canti, letture, preghiere, tutto avviene in lingua locale.
Ogni sabato e domenica si formano gruppi di discussione, tanto che lo spazio è ormai insufficiente per accogliere tutti e la comunità si sta muovendo per comperare un terreno dove costruire una struttura più ampia per dare vita a nuove attività.
Padre Felix continua a dire ai giovani: «Ricordate, domenica prossima dovete invitare un altro amico». E così avviene: chi diventa amico di Gesù, vuole comunicare ad altri la sua scoperta. E ognuno diventa apostolo nel proprio ambiente.

PARTICOLARI ATTENZIONI

Negli ultimi 10 anni sono molte le chiese cristiane arrivate in Mongolia: tutte confermano che i mongoli sono aperti al cristianesimo, anche se le cifre non sono esaltanti: su una popolazione di 2,5 milioni, i battezzati nelle varie confessioni sono poche centinaia. Il gruppo più numeroso, con circa 400 membri, è quello della chiesa avventista, presente nel paese dal 1993. Essa è sostenuta dagli avventisti australiani, che hanno fatto un gemellaggio di solidarietà e cooperazione con la rispettiva comunità in Mongolia. Con lo stesso approccio si muovono altre chiese evangeliche, come quella dei pentecostali, sostenuti da coreani e americani.
Anche le piccole comunità cattoliche crescono grazie agli aiuti delle chiese sorelle sparse nel mondo. Si tratta infatti di una chiesa ancora bimba, che sta muovendo i primi passi, fragile e povera di mezzi materiali e di personale.
Lo ha ricordato anche il cardinale Crescenzio Sepe, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (ex Propaganda fide), nel discorso pronunciato a Città del Guatemala il 26 novembre 2003, in occasione dell’apertura del secondo Congresso americano missionario: «In numerosi paesi dell’Asia, la chiesa sta facendo i primi passi. Pochi mesi fa sono stato in Mongolia per la consacrazione episcopale del primo prefetto apostolico di Ulaanbaatar, mons. Wenceslao Padilla, missionario di Scheut, filippino. La sua comunità cattolica non arriva ancora a 200 persone».
Eppure è una comunità che desta gli entusiasmi e le attenzioni di una chiesa nascente, come ai primi tempi apostolici. Così si esprime lo stesso cardinale, in occasione della sua seconda visita in Mongolia a distanza di un anno: «Come un padre o una madre di famiglia, pur avendo molti figli, rivolgono naturalmente le loro attenzioni soprattutto a quelli più piccoli, perché maggiormente bisognosi di essere aiutati nella loro crescita, così la giovane chiesa della Mongolia può rappresentare il figlio appena nato: dopo i primi vagiti ha bisogno di cure e attenzioni per irrobustirsi, per crescere e poi camminare sulle proprie gambe.
Guardando alla storia di questa nazione, si può parlare di una crescita prodigiosa della chiesa in un periodo di tempo abbastanza breve. Vedere i missionari e i fedeli dedicarsi senza riserve all’assistenza dei più deboli, considerandoli come fratelli, senza fare differenze di alcun tipo, è spesso una scintilla che accende il fuoco della fede e genera nuove conversioni. Soprattutto i giovani si lasciano coinvolgere con grande disponibilità e generosità. Il santo padre ha più volte ripetuto in 25 anni di pontificato, che i giovani sono la speranza della chiesa: sono sicuro che essi sono anche la speranza della giovane chiesa della Mongolia».
(Fine seconda puntata – continua)

Box 1

IL PAPA E’ ATTESO

P rofondamente ancorati allo sciamanismo, per tre secoli i mongoli furono padroni dell’Asia e parte dell’Europa; sottomisero civiltà millenarie, ma anziché distruggee tradizioni, arte, cultura e religioni, le assorbirono, costituendo un impero immenso e straordinariamente variegato.
Il francescano Guglielmo di Rubruck, che nel 1255 raggiunse l’antica capitale Karakorum, nel suo vivacissimo resoconto riferì di una cultura sorprendentemente dinamica e tollerante. Sul suo cammino incontrò templi buddisti, moschee, chiese cristiane nestoriane, e dappertutto gli obbo, cumuli di pietre votive di ispirazione sciamanica.
Qualche anno prima (1246), Giovanni da Pian del Carpine era stato inviato da Innocenzo iv per sondare la possibilità di un’alleanza contro l’islam. La risposta del Khan fu molto decisa: «Se il papa vuole parlarmi, venga di persona».
Dai tempi dei missionari francescani in oriente gli orizzonti sono cambiati. Dopo mezzo millennio di umiliante sottomissione alla Cina e alla Russia, che la schiacciano anche geograficamente, la Mongolia sta timidamente cercando di rialzare la testa. E anche l’esigua comunità cattolica dà il suo contributo prezioso.
I mongoli aspettano il papa, che l’anno scorso ha cancellato la sua visita programmata per il mese di agosto. «Sembra incredibile – rivela padre Pier Kasemuana, congolese, provinciale dei missionari di Scheut e professore all’Università di Ulaanbaatar -, ma Giovanni Paolo ii è amato profondamente dai mongoli, una popolazione così lontana e quasi totalmente buddista».

Uan Carlos Greco




Un’immensa vergogna

Guerre, differenze etniche, cupidigia dei paesi vicini hanno fatto dell’est della Repubblica democratica del Congo una zona di «non-diritto» assoluto.
Ai massacri e saccheggi, bisogna aggiungere l’orrore delle violenze sessuali.

«Èarrivata ieri sera; cinque uomini armati l’hanno violentata la notte precedente, a qualche chilometro da qui – confida Mathilde Muhindo, direttrice di una struttura di aiuti sociali della diocesi di Bukavu, nell’estremità est della Repubblica democratica del Congo -. Questa mattina piangeva continuamente. Ho pianto con lei».
Uscendo dal suo ufficio, si scorge, attraverso una finestra, la silhouette di una donna, dalle spalle ripiegate, il viso nascosto tra le mani, seduta raggomitolata su se stessa al bordo del letto. Di fronte, lo sguardo abbraccia un paesaggio di infinita tranquillità. Lontano, le colline del Rwanda emergono dalla foschia. Sullo sfondo di un grigio intenso, le acque del lago Kivu riflettono come uno specchio.
«Nel 2000, sono arrivate le prime donne con lesioni mai viste in precedenza. Raccontavano storie raccapriccianti per spiegare le loro ferite» ricorda il dottor Denis Mukwege, direttore dell’ospedale di Panzi, a qualche chilometro dal centro della città.
le origini del conflitto
Tutto era iniziato nel 1994. Il Fronte patriottico rwandese, dominato dai tutsi, aveva messo fine al genocidio pianificato da Hutu Power (probabilmente 800 mila morti) prendendo il potere in Rwanda. I cosiddetti autori del «genocidio» fuggirono in Congo: circa un milione e mezzo di rifugiati hutu, reclutati contro il regime rwandese. Per arrivare ad una soluzione, quest’ultimo iniziava una prima guerra nel 1996, sul suolo congolese, durante la quale fu «necessario» decimare almeno 200 mila di questi rifugiati (uomini, donne, anziani, bambini…), indistintamente etichettati come «autori di genocidio», perché fuggivano davanti alle loro truppe.
Ma è stata la cultura di una violenza parossistica, alimentata dall’odio etnico, che ha trovato sfogo sul suolo del Congo, includendo lo stupro, come atto di genocidio.
Poi i fattori di sicurezza sono spariti davanti al «guadagno», obiettivo supremo della «seconda guerra», iniziata nel 1998. «Reti d’élites», secondo la definizione di esperti dell’Onu, composti di capi militari, dirigenti politici, imprenditori senza scrupoli, a Kigali, a Kampala e oltre, appoggiati dalla mafia internazionale, hanno saccheggiato le risorse dell’est del Congo (diamanti, oro, legname…), costruendo i loro circuiti economici per profitti personali. Hanno dovuto perciò ricorrere alla forza, ma senza fare apparire i loro obiettivi reali.
Rwanda e Uganda hanno mascherato le loro imprese di saccheggio, mantenendo quasi clandestinamente truppe più o meno regolari e, soprattutto, pilotando bande armate, sempre a forte connotazione etnica, organizzate secondo i bisogni dei loro mandanti. Gli scontri sono stati raramente seguiti da vittorie o disfatte definitive, poiché l’insicurezza doveva perpetuarsi per giustificare una militarizzazione della regione, indispensabile a coprire i saccheggi. Le popolazioni hanno pagato un prezzo terrificante.
Secondo le stime di un gruppo di esperti dell’Onu, il numero dei morti «supplementari», direttamente imputabili all’occupazione rwandese e ugandese, può essere valutata tra i 3 e i 3,5 milioni. Questo conflitto è stato il più micidiale dalla seconda guerra mondiale. In certe zone del Congo, le inchieste di «Medici senza frontiere» hanno stabilito che un bambino su quattro muore prima dei cinque anni: «Questi posti sono i più toccati dalla mortalità nel mondo».
Infine, le violenze sessuali sono state senza precedenti per numero, il loro carattere sistematico, la brutalità e la perversità con cui sono state fatte. Secondo un dipartimento dell’Onu, «in media, una quarantina di donne erano quotidianamente violentate, tra ottobre 2002 e febbraio 2003, nella città di Uvira e dintorni», dove vivono quotidianamente 200-300 mila persone. Una rete di 8 Ong locali, appoggiate da Inteational Rescue Comittee, ha raccolto ogni mese circa un migliaio di donne, ragazze e ragazzi, vittime delle violenze nel nord e sud di Kivu.
Il centro di Mathilde Muhindo, da solo, ne ha ricevuti, unicamente in giugno, ben 145. Sovraccarichi, alcuni di questi centri ricevevano le donne a gruppi di dieci. Le comunità parrocchiali, che avevano un ruolo determinante nella prima assistenza, dovevano mandarle unicamente a tuo.
E questa è solo una piccolissima parte visibile dell’iceberg. Arrivavano solamente le donne informate dell’esistenza di queste strutture di sostegno, abbastanza forti da recarsi in questi centri, camminando, a volte, per parecchi giorni. Poiché c’erano anche saccheggi sistematici, venivano spesso ridotte a chiedere a una vicina un vestito. Dovevano poi pagare il «diritto di passaggio» ad ogni sbarramento che incontravano e pure le spese mediche; poche tra loro sapevano che questo tipo di cure era quasi gratuito: un’eccezione, in un paese in cui le strutture sanitarie sono obbligate ad essere interamente autofinanziate. Queste vittime hanno soprattutto osato rompere il tabù della condanna, che tocca tutte le donne violentate.
una popolazione
«scorticata viva»
L’assalto generale iniziava, di solito, qualche ora prima del calare della notte. Dopo aver accerchiato un villaggio, gli uomini armati si dividevano in gruppi, che saccheggiavano e violentavano a tuo. Verso le due, tre del mattino, requisivano degli uomini per portare il bottino fino alla base. Le bande armate più irregolari, quelle i cui rifugi si trovavano nelle foreste, mai-mai e hutu armati, rapivano donne e ragazze. Queste diventavano loro schiave sessuali e domestiche per settimane o mesi e, a volte, venivano scambiate da una banda all’altra.
Le violenze sessuali erano così frequenti, da diventare quasi una norma: più uomini violentavano una donna e a più riprese. Il marito veniva legato in una specie di gabbia, i bambini portati vicino e tutti erano costretti ad essere presenti. «Otto o dieci mi hanno violentata – confida una vittima -. Mio marito me l’ha detto». Lei era, infatti, svenuta molto prima della fine.
Sempre più gli assalitori obbligavano a degli incesti tra padri e figlie o fratelli e sorelle. Arrivavano a sodomizzare gli uomini, una pratica assolutamente inconcepibile nelle campagne africane. L’età delle vittime andava dai 4 agli 80 anni. «Ne ha quattordici» mormora l’infermiere che è accanto ad una ragazza, alla quale il dolore chiude gli occhi a metà.
La sala, che ospita una ventina di pazienti, è stranamente vuota e silenziosa: in un ospedale africano, famiglie rumorose e indaffarate circondano abitualmente il malato. Tutte o quasi sono attaccate a sonde. «Sappiate che l’odore è molto forte» aveva avvisato un medico. Seduta sul letto, una donna lavora ai ferri una matassa di un bianco luminoso e un’altra di un verde brillante, i due colori tradizionali del corredino per neonati. Di fronte, un uomo prega, dondolando la testa, la mano posta sulla fronte di una malata senza vita. Un quinto dei 250 letti dell’ospedale di Panzi è occupato da donne, che devono subire sino a sei interventi chirurgici per riparare le violenze sessuali subite, o devono essere trattate per le mutilazioni. Nell’ospedale, queste donne sono due o tre volte più numerose dei civili, ricoverati per ferite d’armi, e quattro o cinque volte di più dei militari, curati per le stesse ragioni.
Il tasso di sieropositività dei pazienti è del 19% secondo alcune statistiche mediche, del 30% secondo altre. La metà è colpita dalla sifilide e ciò moltiplica i rischi di un ulteriore contagio. Si calcola che almeno due terzi dei combattenti regolari o irregolari siano contaminati dall’Aids. Di fronte a una popolazione «scorticata viva» da una lunga e crudele guerra, queste percentuali sono sufficienti per denunciare il piano machiavellico di sterminio, un vero tentativo di «genocidio».
Argomento supplementare: questa ondata di stupri sarebbe partita dalle file dell’esercito regolare rwandese, agli inizi del 2000, quando Kigali aveva deciso di fare dell’est congolese il suo punto d’appoggio, per rendere il Congo intero suo satellite. Si è concordi, oggi, nell’affermare che tutti i gruppi armati, senza nessuna eccezione, si sono dedicati a queste pratiche e le peggiori sono probabilmente state le bande armate hutu.
Ma perché? Mathilde Muhindo evoca inizialmente «la violenza per la violenza», dato che «i combattenti non sapevano più perché si battevano e neppure contro chi». Ma l’aumento della barbarie sarebbe stato soprattutto «un’arma di guerra», un tentativo di destabilizzazione pianificata, non solamente con le armi, ma anche con l’Aids e la fame.
«Pianificata»? Nessuno ne ha la prova formale. Ma, nell’est del Congo, violentare (anche con estrema ferocia) «è il lavoro dei militari», gridava uno di loro a una sua vittima. L’impunità totale dei colpevoli era quasi sempre assicurata, anche quando la popolazione riusciva a catturarli e consegnarli alle autorità. Il comando lasciava fare, compreso quello dell’esercito rwandese, famoso per la sua disciplina.
La migliore prova, come ha rivelato Human Rights Watch, è che, se le truppe e la guerriglia rwandese rispettavano «più o meno» i diritti di guerra sul suolo del loro paese, questo ritegno spariva quando erano fuori; in Kivu, per esempio.
Queste violenze sono state «una guerra nella guerra» sostiene l’organizzazione; «una dimostrazione di forza» afferma un medico. Bisognava dimostrare al marito, alla famiglia, al villaggio che erano tutti impotenti. È come se i violentatori avessero detto loro: «Noi possiamo farvi tutto ciò che vogliamo». Umiliare e terrorizzare, dimostrando l’assenza di ogni ricorso, finché la popolazione si rassegnasse a sottomettersi. «Non siamo andati in Congo per essere popolari; sicuramente non per mostrare ai congolesi quanto siamo buoni» aveva avvertito Paul Kagamé, l’uomo forte di Kigali.
ridotte ad essere
«più nulla»
Destabilizzazione economica anche. La produzione e il commercio agricolo sono entrati in caduta libera: la popolazione cercava rifugio lontano dai villaggi per passare la notte, ma le aggressioni si moltiplicavano anche in pieno giorno, nei campi e per le strade. Sono le donne che coltivano; per questo erano costrette a recarsi a lavorare in gruppo nei campi di una di loro, sperando che il numero desse un po’ di protezione.
Le donne assicurano anche il piccolo commercio tra villaggi e città, ma le violenze sessuali avevano reso ogni spostamento sempre più azzardato. E la malnutrizione saliva vertiginosamente. «C’era una politica deliberata per svuotare le campagne e fare affluire la gente nelle città, dove non c’era da mangiare» afferma un’alta personalità religiosa. Una politica che racchiude assalitori e vittime in una spirale infeale: da suicidio per i primi, omicidio per le seconde.
Mentre aumentava la violenza, diminuiva la produzione; poiché gli assalitori trovavano sempre meno da saccheggiare, le estorsioni diventano sempre più violente. I loro capi facevano bene attenzione a non dare nemmeno il minimo salario e il cibo, ad eccezione delle truppe regolari del Rwanda.
Destabilizzazione morale e sociale. «Ho dovuto aprire il mio pareo davanti a qualcuno che non era mio marito – dicono le vittime -; il violentatore mi ha ridotta a non essere più nulla», soprattutto perché marito, figli e villaggio ne sono a conoscenza. Tutte e tutti risentono di un’immensa vergogna. «Avrò la malattia che non ho cercato» temono tutte. «Da noi – precisa un avvocato – un uomo non riprende una donna che è stata con un altro, anche se violentata: è come un atto di infedeltà». Numerose tra loro sono ripudiate, una donna senza marito è relegata sullo scalino più basso della scala sociale.
Infine, essendo state sistematicamente derubate e spogliate di ogni utensile da cucina, anche del più piccolo attrezzo agricolo, come potrebbero assumere quello che è considerato il loro ruolo principale: curare e nutrire la famiglia?
«Tuttavia, queste donne restano in generale estremamente forti» constata Karin Watcher, che dirige un programma dell’Inteational Rescue Committee. Nelle riunioni alle quali chiedono di partecipare, sono zappe, semi, pentole le priorità di cui fanno richiesta.
Sono queste stesse forze che una suora, specializzata nel diminuire il trauma delle vittime, cerca di tirare fuori, chiedendo loro, senza stancarsi: «Cosa non ti hanno tolto?», finché lo trovano esse stesse: l’amore che hanno per i figli e il marito. Senza sosta, fa loro raccontare le circostanze della violenza subìta, insistendo su ciò che hanno tentato per sfuggirvi.
Allora, racconta la suora, si risollevano, anche fisicamente, come se stessero per ritrovare la loro fierezza e dignità. Si ricordano: «Ho resistito, fino al limite delle mie forze».

Tradotto e adattato da: René Lefort, La guerra nella guerra. Violenze sessuali contro donne e ragazze nell’est del Congo, in «Human Rights Watch», giugno 2002.

Renè Lefort




ETIOPIA – Ragnatela d’amore e vita

Asili, scuole, acquedotto, dispensario medico, campagne di vaccinazioni, soccorsi di emergenza… sono alcuni fili della «rete» di progetti di promozione umana della parrocchia di Wonji, insieme a un’intensa attività di evangelizzazione.

I contadini delle montagne circostanti la chiamano col termine di «verde». E tale appare Wonji, vista da lontano: una grande conca verde cupo, che si estende a perdita d’occhio. Il colore le deriva dalle estese piantagioni di canna da zucchero, irrigate con le acque del fiume Awash.
Ma il centro abitato non è un paradiso: le abitazioni sono quasi tutte di fango; le strade sporche e sconquassate, con uomini e bestie in libertà; auto scassate e biciclette sono l’unico segno di progresso.
Gli oltre 18 mila abitanti della città vivono (si fa per dire) grazie all’industria dello zucchero: la maggioranza di essi si spaccano mani e schiena nelle piantagioni per 30 dollari al mese; gli operai dei due zuccherifici non sono più fortunati.
Fuori dal «verde», poi, l’impressione è più penosa, specialmente in questi mesi: l’anno scorso sono mancate le piogge stagionali e in molte zone è fame nera.
ACQUA «CATTOLICA»
Mentre guardo il panorama, in piedi sulla grande cisterna costruita in cima a una collina a ovest del paese, padre Giuseppe Giovanetti mi spiega il paradosso: il fiume Awash è generoso, ma inquinato; la falda acquifera è a soli 10 metri sotto terra, ma l’acqua dei pozzi contiene un’alta percentuale di fluoro che rovina denti e ossa. Ancora oggi si incontrano ragazzi con i denti neri e anziani ringobbiti.
Lo spettacolo doveva essere più impressionante nel 1980, quando padre Tarcisio Rossi fu nominato parroco del luogo: il progetto dell’acqua potabile fu una priorità. Scavò un pozzo non lontano dal fiume Awash, costruì un serbatornio da 50 mila litri e cominciò la distribuzione dell’acqua in varie zone dell’abitato.
«Quando arrivai per la prima volta a Wonji, nel 1992-93 – continua padre Giovanetti -, la popolazione era aumentata enormemente: scavai un altro pozzo e raddoppiai questo serbatornio. Ora che sono tornato, continuo a occuparmi del progetto».
Notte e giorno, due pompe spingono l’acqua nei due serbatorni da 100 mila litri; una rete di oltre 12 km di tubi la porta in 18 punti di distribuzione pubblica e ad altre strutture private (scuole, bar, banca, moschea, chiese ortodosse e protestanti).
Mentre visitiamo alcune fontane, dove si allineano serpentoni di bidoni gialli, padre Giovanetti spiega: «Ogni famiglia preleva una tanica al giorno, per un totale di 1.000 litri al mese, pagando due birr (20 centesimi di euro); le strutture private hanno il contatore e pagano secondo il consumo. Ma tale compenso non basta a pagare il personale addetto alla manutenzione e gestione del progetto».
Intanto aumenta la richiesta d’acqua. Per accontentare tutti, la distribuzione è razionata: le famiglie attingono solo al mattino; durante la notte le condutture vengono chiuse, per evitare che eventuali sprechi o abusi dei privati provochino l’entrata di aria nelle tubature, creando disguidi per tutta la popolazione.
I problemi arrivano, soprattutto, quando una pompa si brucia, a causa degli sbalzi di corrente: prima che arrivi il tecnico da Addis Abeba e ripari i guasti, parte della città rimane a secco per oltre dieci giorni.
Per diminuire tali rischi, padre Giovanetti sta pensando di costruire un altro serbatornio di 50 mila litri e ha fatto appello per una pompa più potente. La Caritas italiana ha accolto la richiesta.
Sembra che anche il governo si stia muovendo. Alcuni tecnici hanno visitato il progetto, sono rimasti contenti e vorrebbero portare acqua potabile da Nazaret e immetterla nel progetto della missione. «Ho accettato subito. Almeno la gente, che da oltre 20 anni beve acqua “cattolica”, non darà la colpa alla chiesa, quando i rubinetti rimarranno asciutti» conclude il padre sorridendo.

FAFA «MORMONE»
Fin dagli inizi, la chiesa di Wonji è impegnata pure nel campo sanitario. Il dispensario, oltre a curare la gente che accorre alla missione, svolge varie attività nelle zone rurali e di montagna: sensibilizzazione igienica e sanitaria, campagne di vaccinazioni, formazione di levatrici tradizionali e agenti di sviluppo comunitario.
«La chiesa cattolica promuove la coscientizzazione sui problemi basilari della gente» spiega padre Giovanetti, mentre mi porta nel suo quartiere generale, dove una dozzina di giovani sono impiegati nei vari progetti sociali e umanitari della missione. Sono tutti indaffarati nei preparativi per il giorno seguente: trasferta ad Amude, 62 km da Wonji, per distribuire 180 quintali di cibo a oltre 4 mila persone.
«È ancora la chiesa cattolica a portare alla ribalta i problemi della gente e a prestare i primi soccorsi» continua il padre. Alla fine dell’anno, durante le varie visite per le attività sanitarie, abbiamo scoperto che i contadini avevano finito le loro scorte di cibo: era la fame, causata dal fallimento delle grandi piogge autunnali. Abbiamo subito avvisato il Dppc (Disaster prevention and preparedness commission), l’organismo governativo incaricato di prevenire i disastri naturali. Ho dovuto smuovere capi politici della sanità, educazione, agricoltura, portandoli sul posto; ho pure suggerito una possibilità di soluzione».
La soluzione si chiama Crs (Catholic relief service), l’organizzazione dell’episcopato americano, con programmi di aiuti in vari paesi africani. «Dapprima il governo disse che avrebbe preso in mano la situazione – continua padre Giovanetti -. Ma in un incontro tra autorità federali e Ong, parlando a nome del Crs, dissi chiaro e tondo che i donatori volevano che fosse la chiesa a gestire il progetto: e ce lo ha permesso; cosa che prima non accadeva».
Il principale donatore si chiama Gary Flake, incaricato delle attività caritative della Chiesa di Gesù Cristo dei santi dell’ultimo giorno (mormoni). Si era rivolto al Crs offrendo aiuto contro la fame. «La signora Anne Bousquet, rappresentante del Crs lo mandò da me – racconta il padre -. Ci incontrammo in un hotel di Nazaret e mi fece grande impressione. A un certo punto, rivolgendosi a due signore che lo accompagnavano disse: “Io sono un mormone, ma mi metto nelle mani di un prete cattolico; sono felice di essere qui, per fare del bene insieme al mio fratello padre Giuseppe Giovanetti”. Poi, rivolto a me, disse che era disposto a pagare fino a 35 mila tonnellate di cibo».
Era un’impresa grande e complessa. Fu fatto un accordo con mister Flake, il Crs e la chiesa di Wonji: il primo paga le fatture all’Unimix, una fabbrica locale di fafa (miscela di farine, vitamine, proteine, zuccheri…); il Crs provvede ai contratti con la fabbrica, al trasporto e alle spese per il personale; alla chiesa la responsabilità di organizzare la distribuzione.

LA RAGNATELA…
Come supervisore, padre Giovanetti ha impiegato un mese per organizzare tale impresa: ha preparato gli impiegati (3 supervisori, 7 animatori, 12 distributori); ha visitato le autorità locali (sindaci di città e capi di Associazioni dei contadini) per stendere il piano e risolvere i problemi logistici.
«L’avventura è cominciata a febbraio – spiega il padre, mentre andiamo al centro di distribuzione di Amude -. L’abbiamo chiamata Web of love, help and life: ragnatela di amore, aiuto e vita, perché coinvolge donatori e beneficiari. La rete è composta da 8 centri (5 nel distretto di Adama e 3 in quello di Dodota Sire, in cui è Amude), coinvolge 42 Associazioni di contadini con oltre 40 mila persone e distribuisce ogni mese 1.400 quintali di fafa. Il nostro è un progetto integrativo: mentre il governo dovrebbe aiutare le famiglie affamate con la distribuzione di granaglie, noi aiutiamo donne gestanti, allattanti e bambini sotto i 5 anni».
Ad Amude arriviamo quando il sole è allo zenit; troviamo una marea di donne in attesa di essere servite. Alcune siedono pazientemente al sole o sotto un albero; altre sono attorno agli impiegati, che controllano schede, confrontano liste di nominativi, fanno apporre la firma (impronte digitali) sulle tessere; intanto si formano file variopinte ai punti di distribuzione.
È la scena che si svolge ogni mese negli 8 centri di distribuzione. Per padre Giovanetti e i suoi aiutanti tale è un lavoro snervante, ma gratificante. Più noiose, invece, sono le giornate passate in ufficio a stilare resoconti dettagliati del lavoro fatto da inviare al Crs e alle autorità governative; preparare il piano, altrettanto dettagliato, con date, luoghi e quantità di cibo necessario per il mese seguente.
Tale avventura continuerà fino a ottobre, quando si spera che la gente possa avere i primi raccolti. «Ma la ragnatela non scomparirà – continua il padre -. Ho preso accordi con varie capi locali per pesare tutti i bambini e controllare se abbiano superato la crisi o siano ancora denutriti e bisognosi di ulteriore aiuto».

FAME DI SAPERE
Dei sette progetti sociali gestiti dalla missione, quattro riguardano l’educazione: un asilo vicino alla chiesa parrocchiale e un altro ad Awash Melkasa, nella parte opposta delle piantagioni di canna; una scuola elementare e media con oltre 700 alunni a Wonji e un’altra a Bati Bora, a 12 km dalla sede parrocchiale.
Di tali opere si occupa padre Matthieu Kasinzi, missionario della Consolata congolese, eccetto Bati Bora, gestita da padre Giovanetti.
Mentre ci rechiamo a visitarla, traballando su una sassosa mulattiera, il padre racconta: «Piccola e malandata, la scuola stava per chiudere, poiché le famiglie non potevano pagare le tasse scolastiche, a causa della fame. Ho fatto un patto con i genitori: li avrei esonerati dalle tasse per un anno, purché mandassero i figli a scuola. Non l’avessi mai detto! Da 113, gli alunni sono saltati a 715. Ma con l’aiuto di alcuni amici italiani sono riuscito a mandare avanti la baracca e ingrandire gli edifici».
Siamo in vista della scuola; ma un’enorme erosione ci costringe a fare l’ultimo chilometro a piedi, attraversando un profondo burrone. Le aule sono piene come un uovo: le classi oscillano tra i 95 e i 110 alunni; alcune seguono il ciclo regolare di quattro anni; in altre i programmi vengono condensati in due anni: lo chiamano «sistema informale» ed è riconosciuto dal governo.
Ciò che colpisce nelle aule «informali» è la scala delle teste: nelle prime file esse sporgono dai banchi a malapena; nelle ultime si ergono ragazzotti e signorine in età da matrimonio.
Un particolare fa gongolare di gioia padre Giovanetti: in alcune classi le ragazze sono più numerose dei maschi. «È un fatto nuovo in Etiopia – osserva il padre -. La gente ha capito l’importanza della scuola per il futuro dei loro figli, in modo particolare per le donne, anch’esse affamate di sapere».

FAME DI DIO
Wonji non è solo progetti sociali, ma svolge una capillare opera di evangelizzazione e formazione di comunità cristiane. Il parroco, Ghebre Egziabher Gebru, missionario della Consolata etiopico, cornordina il lavoro religioso e pastorale, visita le famiglie, malati e anziani. È coadiuvato da padre Matthieu, responsabile dei giovani. La domenica, padre Giovanetti dà una mano a tutti e due, celebrando la messa nelle comunità rurali.
Wonji è la parrocchia più grande del vicariato di Meki: conta 18 comunità; alcune sono disseminate nella piantagione; altre sparse in campagne e colline; quella di Alentena è la più sviluppata e richiede tanta attenzione come la sede centrale.
Tutte le comunità sono caratterizzate da un comune denominatore: la fame di Dio. Per questo ha avuto un grande sviluppo: dalle poche centinaia di 20 anni fa, i cattolici sono passati a 5.700, un quarto della popolazione cattolica di tutto il vicariato.
L’attività di evangelizzazione, corroborata dalla testimonianza della carità dei progetti sociali e umanitari, continua a rispondere alla più profonda fame e sete della popolazione di Wonji: anche qui «i poveri hanno fame di Dio; non solo di pane e libertà» (RM 83).

Benedetto Bellesi




AFRICA CENTRALE – Pigmei I «piccoli» signori

Ritoo agli albori della nostra umanità

E LA LUNA STAVA
A GUARDARE

Nel sud del Camerun vivono, isolati nella foresta,
i pigmei baka, ma per quanto ancora?
La deforestazione e la prepotente invadenza
dei bantu sta mettendo fine a questo meraviglioso mondo, distruggendo per sempre la cultura
e la storia del più antico popolo dell’Africa.

Gennaio-febbraio 2003.

…I canti cessano e il suono dei tamburi va sempre più affievolendosi fino ad arrestarsi del tutto. Sento dei passi che si allontanano, qualche rumore sordo ed infine cade il silenzio, la festa d’iniziazione è finita. Edjenghi, lo spirito, è ritornato nella foresta.
Mi guardo intorno, tutti si sono ritirati a dormire nelle minuscole capanne, illuminate dai bagliori delle braci. Un senso di pace e di tranquillità mi pervade, anche i lugubri rumori che echeggiano ogni tanto nella foresta, che cinge il minuscolo villaggio, mi sono diventati familiari.

Mi siedo a guardare quel piccolo lembo di cielo stellato, che spunta dalle alte cime degli alberi, e mi ritorna in mente la leggenda: «I padri dei nostri padri vivevano al bordo della grande acqua, dove gli animali erano numerosi. Poi un giorno venne il popolo nero, con lance e scudi di ippopotamo, e dissero che la terra era loro…

I nostri padri dissero: No! Non è vero! La battaglia incominciò e molti morirono.
Allora i nostri padri dissero: fuggiamo!
Le donne con i bambini partirono e i guerrieri li seguirono proteggendoli. I padri dei nostri padri dissero: abiteremo la foresta!».

C osì da più di cinquemila anni i pigmei vivono nella tenebrosa foresta, cacciando, pescando, raccogliendo quanto offre in un connubio armonico di perfetto equilibrio fra le risorse naturali e il solo fabbisogno giornaliero, senza accumuli e sprechi e, devoti al loro mondo-foresta, la ringraziano con danze e canti.
Ma il pericolo che li aveva minacciati migliaia di anni fa si è materializzato nuovamente ancora sotto la forma del «popolo nero», a cui si è aggiunta quella del «popolo bianco»; e questa volta non è rivolto solo alla loro esistenza, ma anche a quella della loro amata foresta.

Giro lo sguardo nel piccolo villaggio e provo un senso di tristezza. Perché deve finire tutto ciò? Perché le cose semplici devono soccombere? Perché non è possibile vivere senza distruggere?
Il pensiero ritorna al primo impatto con la foresta, quando con i miei compagni di viaggio decidiamo di andare a conoscere i baka, i pigmei che vivono nella parte meridionale del Camerun, sotto la riserva di Dija, verso il confine con il Congo.
Mi ricordo che, prima di entrare nella foresta, avevo alzato istintivamente la testa verso le cime degli alberi, e mi ero sentito piccolo, incredibilmente piccolo. I primi passi che mossi all’interno mi diedero la sensazione di oltrepassare un sipario che si apriva lentamente davanti a me, dove, a fatica, riuscivo a mettere a fuoco le cose che mi si paravano davanti, frastornato dalle mille gradazioni di verdi che sembravano velarle.
Provai la netta sensazione di avventurarmi verso l’ignoto e l’istinto mi fece girare di scatto, per fissare almeno il punto da dove ero entrato e avere quindi un riferimento certo; ma tutto era già scomparso: come Alice quando aveva attraversato lo specchio, anch’io ero entrato in un’altra dimensione. Un mondo umido, apparentemente inospitale, dove corsi d’acqua formano acquitrini, paludi, e danno vita a una selva sovrastata da giganteschi alberi, dalle cui cime filtra mollemente la luce del sole o scompare del tutto, lasciando uno stato di isolamento e di solitudine, che permea da tempo immemorabile ogni cosa.

Più mi addentravo e più provavo un senso di oppressione per la pesantezza della natura che mi circondava, oltre all’umidità dell’aria che mi riempiva i polmoni a ogni respiro.

Superato il primo impatto, quando la calma riprese il sopravvento e incominciai a mettere a fuoco le cose, a rilassarmi, a muovermi con più disinvoltura, allora mi resi conto di essere entrato in un mondo affascinante che mi riportava inevitabilmente all’enigmatica materializzazione dell’«altro», che è più o meno in noi: la suggestione del «come eravamo».

Il desiderio di conoscere i baka, «i signori della foresta», ci fa superare ogni ostacolo, ogni fatica, e la stanchezza svanisce davanti all’emozione del primo incontro, quando in una radura naturale, finalmente scorgiamo quattro enkulu, le tipiche casette a forma di igloo, e i loro ospitali e sorpresi abitanti.

Di una mitezza proverbiale, inclini al sorriso, curiosi ma riservati, ci accolgono permettendoci di allestire il campo fra le loro casette, di seguirli nelle loro attività, di condividere con loro la giornata.

I baka, vivono una vita semplice, atavica: la si vede subito dalle loro piccole abitazioni, fatte di rami e ricoperte di foglie impermeabili, che solo all’apparenza sembrano fragili, ma che resistono bene alle forti piogge cui sono sottoposte quasi quotidianamente. All’interno l’arredamento è minimale: un letto di canne, qualche stuoia, pochissime suppellettili, qualche pentola per cucinare ed il fuoco sempre acceso.
L’attività quotidiana degli uomini è la caccia. Lungo piste, a noi invisibili, percorrono la foresta, armati di balestre o lance, alla ricerca delle trappole disseminate, dove ignare finiscono prede come: gazzelle o piccoli caivori che, dopo essere stati affumicati, vengono tagliati a pezzi e racchiusi in larghe foglie.

Durante il loro giro di perlustrazione sono sempre attenti a ciò che li circonda, pronti ad approfittare di ogni occasione. Abilissimi a imitare i suoni da richiamo degli animali, sfruttano questa tecnica per avvicinarli e quindi ucciderli con le loro frecce avvelenate.
Mentre gli uomini si dedicano alla caccia o ad allestire le trappole, le donne, oltre ad accudire ai bambini, si recano nella foresta, con la gerla sulle spalle, a raccogliere tutto quello che trovano di commestibile, conoscendo alla perfezione tutte le proprietà delle piante e come utilizzarle.

Al villaggio le si vede ritornare cariche di radici, tuberi o banane verdi da cuocere e poi, sedute sotto ripari di foglie o davanti alla propria casa, a intrecciare stuoie o preparare la cena, usando grossi machete o pestelli.
La vita sociale, pur essendoci un capo villaggio, è governata da un sistema altamente democratico che si basa principalmente sulla meritocrazia. Non minacciano, non puniscono, non giudicano, perché ogni disputa viene ricomposta partendo dal presupposto che è meglio ristabilire l’armonia per il bene di tutti.

Abituati a vivere sull’essenziale e spostandosi frequentemente nella foresta, rifuggono dai soliti canoni estetici di vanità; unica eccezione è la limatura dei denti che appuntiscono, oltre a qualche piccolo tatuaggio o scarificazione sul volto o, come in alcune donne anziane, un piccolo foro sul labbro superiore segno di appartenenza a un particolare clan. E poi ci sono i canti, i balli, i festeggiamenti per la raccolta, per le iniziazioni.
Q uando i tamburi presero a suonare, fu come un segnale: i primi ad arrivare furono i bambini, poi le donne; gli uomini avevano già preso posto e preparavano gli iniziati.

Si disposero tutti in cerchio e incominciarono a cantare e danzare; il ritmo si fece sempre più frenetico e i canti più alti; poi calarono improvvisamente e restarono solo i tamburi e, da uno spiraglio della foresta, si materializzò Edjenghi lo spirito.

Una grande agitazione pervase i presenti che ripresero i canti e i balli, con gli occhi puntati sulla enorme figura che piroettava nel centro dello spiazzo, alzandosi e abbassandosi ritmicamente.
Mi allontanai e mi sedetti a fianco della mia tenda a osservarli, grato di avermi invitato alla loro festa, ma conscio che solo gli iniziati e la luna potevano partecipare.

Da Omero… al saccheggio della foresta

SCOMPARE UN PEZZO DI UMANITÀ

Piccoli: perché?

A ntropologhi e studiosi di genetica, già nel secolo scorso, cercarono di capire perché i pigmei erano «piccoli». La maggior parte era convinta che fossero privi dell’ormone della crescita. Il fatto si rivelò errato: l’ormone c’è; ciò che è carente, specie durante il periodo della pubertà, è un’altra sostanza biochimica contrassegnata con la sigla IGF-1 (Insuline-like Growth-Factor), peraltro oggetto ancora di studio.
La mescolanza della razza pigmea con quella dei bantu (generalmente sono gli uomini bantu che sposano le donne pigmee e non viceversa) danno vita a figli più alti, creando, se si può dire, una nuova classificazione etnica denominata pigmoide.

Da quanto tempo esistono?

Sono ritenuti fra i primi abitanti dell’Africa. La loro comparsa documentata risale al 3° millennio a.C., in un antico papiro ai tempi del faraone Neferkere, che ne volle uno a corte come ballerino. Coincidenza o no, il dio egizio della danza, Bes, è raffigurato come un nano.
Anche Omero, nel terzo canto dell’Iliade, li descrive nella battaglia con le gru, chiamandoli Pygmaios (alti un cubito). Nelle Metamorfosi di Ovidio, viene descritta la gelosia di Giunone per la regina dei pigmei, che verrà trasformata in gru.
Sempre nella mitologia, anche Ercole, durante le sette famose fatiche, si imbatte sulla costa mediterranea in un esercito di omuncoli. Descrizioni contrastanti e a volte fantasiose sulla esistenza, furono portate da Erodoto, Aristotele, Plinio. Nell’era cristiana sant’Agostino, nella Città di Dio, ammette, se pur vagamente, una loro esistenza.
Dal X secolo fino al XVII secolo si cade nell’oscurantismo della ricerca scientifica, per dare luogo a quella delle dissertazioni accademiche, che arrivano addirittura a equipararli a scimmie o a esseri deformi, che popolano il mondo sconosciuto; tipico il trattato di Giacinto Gimmi intitolato De hominibus et de animalibus fabulosis.
Solo verso la fine del 1800, con le prime esplorazioni nel grande continente africano, ci fu l’incontro «sul campo» con questa sorprendente etnia, uno dei primi fu il naturalista George August Schweinfurth.

Minaccia Continua

R elegati quasi nella preistoria, a volte messa in discussione perfino la loro esistenza, non riconosciuta una loro cultura, vissuti in secoli di isolamento, tutto questo scompare di fronte agli ultimi 50 anni di contatti con il resto dell’umanità.
Tali contatti iniziarono dapprima con i «grandi neri» bantu, sotto forma di baratto: scambiavano selvaggina con sale, tabacco, granaglie e altri beni. Quindi sono caduti nella spirale della dipendenza, foendo manodopera di tipo feudale agli agricoltori neri, in cambio di inutili vestiti e di alcolici, dando via a un inizio di sedentarizzazione non loro congenito.
Inoltre, l’invadenza e vicinanza sempre più soffocanti dei bantu incide profondamente sulla vita spirituale e materiale, tradizioni e libertà di questo piccolo popolo della foresta.
Ma c’è anche l’incontro con il «popolo bianco», interessato a soddisfare i bisogni di pregiato legname per costruire mobili o pavimenti da calpestare. E così incomincia, o meglio, è già in atto la deforestazione, quindi la distruzione del mondo dove vivono, emarginandoli anche fisicamente.

Dio nell’arcobaleno
T utta l’espressione culturale dei pigmei è permeata da una profonda spiritualità, che si manifesta con la danza, i canti e i riti. Essi riconoscono l’esistenza di un Dio creatore di tutte le cose: Komba presso i baka, Nzambe presso i bakola/bayeli, Kmvum per i bambuti. Generalmente Dio si manifesta sotto la forma dell’arcobaleno.
Parallelamente esistono una moltitudine di piccole divinità o spiriti della foresta, ai quali essi si rivolgono per tutte le loro imprese: caccia, pesca, raccolta del miele, danza, musica, riti.

Le aree di distribuzione
O ggi i pigmei vivono nell’immensa foresta tropicale, più precisamente in otto stati dell’Africa: Burundi, Camerun, Congo, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centroafricana, Repubblica Democratica del Congo, Rwanda.
Tale dislocazione contribuisce alla differenziazione di vari aspetti culturali, per cui essi si distinguono in diverse etnie:
– bambuti nel Congo, a loro volta suddivisi a seconda della lingua parlata in aka, afe, awa;
– bongo nel Gabon;
– baka, detti anche babinga, nel Camerun.

Oggi in Camerun si distinguono tre grandi gruppi di pigmei:
– i baka, circa 40 mila, occupano il sud e sud-est del paese;
– bakola o bayeli vivono nella parte sud-ovest e sono stimati in circa 3.000 individui;
– medzam, appena 1.500, sono nella piana di Tikar, nel centro del Camerun.
Tristemente possiamo dire che un nostro stadio di calcio li contiene tutti.

Bruno Bocchi




INDIA – Il vaccino di Sabin arriva a domicilio


In India, Pakistan, Afghanistan, Nigeria, Niger, Egitto e Somalia, la malattia è ancora endemica. Ma…

È partita all’inizio dell’anno una delle più grandi campagne di vaccinazione della storia: il nemico è il virus della poliomielite. Quest’anno il vasto territorio indiano, e soprattutto lo stato dell’Uttar Pradesh, epicentro dell’epidemia del 2002, verrà percorso in lungo e in largo da migliaia tra volontari e operatori sanitari che andranno porta a porta a trovare e vaccinare tutti i bambini con meno di cinque anni: ben 165 milioni.
Già nel mese di gennaio e di febbraio oltre 33 milioni di bimbi hanno inghiottito le famose goccine del vaccino orale, il Sabin (vedi box). Un’altra massiccia spedizione è partita ad aprile, per raggiungee altri 98 milioni in 10 stati indiani, un’altra a giugno e altre due sono previste per i mesi di settembre e ottobre. Sei giorni dunque, chiamati National Immunisation Days, giornate nazionali di immunizzazione, nel corso del 2003, in cui i genitori hanno la possibilità di portare i loro figli in luoghi predisposti per sottoporli alla vaccinazione, seguiti nelle settimane successive da visite a casa delle famiglie che non si sono presentate.
Saranno raggiunti villaggi sperduti e affollate periferie urbane, né verranno dimenticati aeroporti, ferrovie e stazioni di pullman. Altrettante giornate sono previste per il 2004, il tutto per interrompere la diffusione del temibile virus responsabile della malattia (vedi box).
Nei primi mesi di quest’anno anche in Iraq, sulla bocca di tutti purtroppo per ben altri motivi, è partita una campagna di vaccinazione contro la poliomielite, che ha coinvolto oltre 14.000 operatori sanitari impegnati nel raggiungere 4 milioni di piccoli iracheni. L’Iraq ha avuto il maggior numero di casi di malattia nel 1999, riportati a zero l’anno successivo grazie agli sforzi dell’Unicef e dell’Oms.

«POLIO FREE»?
Una imponente organizzazione di uomini e di mezzi era l’unica risposta possibile di fronte ai numeri sconcertanti che hanno segnato l’anno passato e messo in allarme tutte le strutture sanitarie di controllo a livello mondiale. L’India infatti, contrariamente al resto del mondo e soprattutto a realtà come l’Europa (dichiarata l’estate scorsa polio free, libera cioè dalla malattia), ha visto impennarsi il numero di casi sul suo territorio, passati da 268 nel 2001 a sei volte tanto nel 2002; ad aprile di quest’anno se ne contavano già 55. Ma pur coprendo oltre l’80 per cento dei nuovi casi di poliomielite nel mondo, ha al suo fianco altri sei paesi dove la malattia non è ancora sotto controllo: con l’India, Pakistan, Afghanistan e Nigeria coprono oltre il 95 per cento dei casi mondiali, ma i restanti si dividono tra Niger, Egitto e Somalia. Non è ancora il momento dunque di cantare vittoria, e l’esperienza indiana ne è la triste prova.
L’Uttar Pradesh, che conta una popolazione di 170 milioni di abitanti, rappresenta la zona cruciale, da cui l’epidemia di poliomielite si è diffusa alle altre parti del paese e a cui è stato attribuito circa il 65 per cento dei nuovi casi di poliomielite del 2002. In questo stato del nord dell’India nascono ogni mese 300.000 bambini, ma solo il 23 per cento veniva regolarmente vaccinato, per il gran numero di parti avvenuti a domicilio e quindi sfuggiti al controllo sanitario.

VACCINAZIONE DI MASSA
La sfida alla poliomielite, per relegarla a malattia del passato come è successo per il vaiolo dopo il 1979, è stata lanciata nel 1988 con la partenza della Global Polio Eradication Iniziative (Gpei). L’iniziativa procede grazie all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), al Rotary Inteational, all’Unicef e ai Centers for Disease Control statunitensi insieme con i ministri della salute degli stati membri dell’Oms, donazioni governative, fondazioni, Banca mondiale, Unione europea, donazioni private, altre agenzie delle Nazioni Unite e Organizzazioni non governative. L’obiettivo finale, da raggiungere entro il 2005, è la scomparsa della malattia, e quindi la protezione di tutti i bambini dalle conseguenze invalidanti e talora mortali dell’infezione (vedi box). Per meglio capire le dimensioni dell’intervento, basti pensare che nel 2001 circa 10 milioni di volontari hanno aiutato a vaccinare 575 milioni di bambini.
Rispetto alla partenza dell’iniziativa, nel 1988, i paesi dove la poliomielite è endemica sono passati da 125 a 7, come si è detto prima, mentre tre delle sei regioni dell’Oms (America, Europa e Pacifico occidentale) sono state certificate come libere dalla malattia.
È decisamente un buon risultato, ma non basta. Non è pensabile che nel 2002, con la disponibilità ormai da svariati anni di un vaccino efficace che ha permesso la scomparsa della poliomielite nella maggior parte del mondo, circa 1.900 persone siano state infettate, con il possibile corteo di disturbi permanenti: paralisi di gambe o braccia, atrofia di diversi muscoli e così via finanche alla morte. Sono ancora troppi i bambini vaccinati in modo incompleto (cioè con tre dosi o meno, quando ne sono necessarie quattro). La causa più importante di questo aumento di casi indiani registrato lo scorso anno è dunque da imputare a un fallimento delle politiche vaccinali, che non hanno portato a una vaccinazione completa della popolazione a rischio, primi fra tutti i più piccini, che non sono stati protetti in modo adeguato dal virus.
Ma la situazione non è semplice, soprattutto in Uttar Pradesh, e il gruppo di vaccinatori potrà incontrare diversi ostacoli sul suo cammino: non solo la dispersione dei bimbi indiani sul territorio, da cercare fin nei più piccoli villaggi o nelle grandi città, ma anche l’idea presente nelle comunità musulmane che il vaccino possa essere pericoloso per la salute dei loro piccoli, che possa renderli sterili o impotenti. Si era infatti diffuso il timore che il vaccino facesse parte di un piano del governo, di una sorta di programma di controllo delle nascite per limitare la popolazione musulmana in una nazione a maggioranza indù. Questo sembra aver portato ad avere in Uttar Pradesh ben il 60 per cento di nuovi casi di poliomielite proprio fra le comunità musulmane, nonostante rappresentino solo il 17 per cento della popolazione di questo stato indiano. Ma vi sono esempi positivi nel mondo che, pur di fronte a innegabili difficoltà, fanno ben sperare (vedi box).

IL DILEMMA
DEI LABORATORI
La Commissione Globale per la Certificazione dell’eradicazione della poliomielite (Global Commission for the Certification of the Eradication of Poliomyelitis) dichiarerà il mondo «polio free», libero dalla polio, quando non saranno registrati nuovi casi di malattia per almeno tre anni consecutivi in tutte le parti della Terra e quando i laboratori in possesso dell’agente infettivo responsabile della malattia avranno predisposto misure di protezione appropriate.
Allora il virus selvaggio (da tenere ben distinto da quello attenuato utilizzato per la preparazione del vaccino orale tipo Sabin), cioè capace di dare la poliomielite con tutto il suo terribile corteo di disturbi e menomazioni, dovrà essere presente solo in laboratorio. E seguirà, forse, la storia già percorsa e non ancora conclusa, anzi da poco tornata alla ribalta, dal virus del vaiolo, per il quale ci siamo tutti posti diversi interrogativi: siamo di fronte a un microrganismo da eliminare completamente dalla faccia della terra o da conservare almeno in laboratorio per un aspetto culturale, di conservazione di una forma di vita, o magari di sicurezza mondiale nel caso sia necessario nuovamente il vaccino. Non vi è certezza infatti su quali e quanti siano i laboratori che possiedono questi ceppi virali, e quindi in quali mani possano eventualmente cadere.

UN TUFFO NEL PASSATO

Benché già su una stele egizia vi fosse una testimonianza degli effetti dell’infezione poliomielitica, la prima descrizione clinica ufficiale della malattia risale al 1789, ad opera del medico britannico Michael Underwood. Dovranno però passare altri cinquant’anni prima che venga formulata una teoria sulla contagiosità del morbo, e quindi sulla sua trasmissione da una persona all’altra; addirittura un secolo perché negli Stati Uniti venga documentata la prima comparsa significativa di “paralisi infantile”, poi identificata come poliomielite.
Nel 1908 due medici austriaci ipotizzarono l’origine virale dell’infezione, ma bisognerà aspettare Jonas Salk, nel 1955, per avere il primo vaccino, utilizzando il virus della poliomielite ucciso, da somministrare con un’iniezione intramuscolare. Sei anni dopo Albert Sabin propose il vaccino orale in gocce, preparato con virus vivi attenuati, diventato rapidamente quello di scelta per i programmi nazionali di immunizzazione.
Va.Co.
LA VITTORIA È POSSIBILE

Una speranza di fronte a numeri che non vorremmo leggere e a situazioni che ci fanno scuotere la testa con una sensazione di impotenza c’è, e viene dalla Repubblica Democratica del Congo. È infatti lì che tutti coloro che si stanno impegnando nella battaglia contro la poliomielite in India (e negli altri sei Pesi in cui la malattia è ancora presente) possono guardare con fiducia. La Repubblica Democratica del Congo, nonostante il prolungato stato di guerra che si spera concluso con l’accordo di pace firmato il 2 aprile di quest’anno, sta infatti percorrendo la strada verso la dichiarazione di paese libero dall’incubo della poliomielite; l’ultimo caso risale al 29 dicembre del 2000 ed è quindi passato da poco il secondo anno senza malattia.
Questa vittoria è importante perché ottenuta in uno stato che, seppur con difficoltà e povertà diverse dall’India, presenta certo più affinità di un qualsiasi paese occidentale. Non solo. La positiva esperienza percorsa per l’eradicazione della poliomielite viene adesso sfruttata per una nuova campagna di vaccinazione contro il morbillo, tuttora causa di decessi prevenibili col vaccino, sostenuta dall’Unicef e dall’Organizzazione mondiale della sanità, che sembra aver già raggiunto oltre tre milioni di bambini (che si stima rappresentino il 96% di quelli da proteggere).

NESSUNA TERAPIA, SOLO PREVENZIONE

La poliomielite è una malattia molto infettiva causata da un virus che invade il sistema nervoso. Viene trasmessa per via fecale-orale: il virus viene eliminato con le feci della persona infetta e può così infettare altri soggetti, soprattutto in condizioni di scarsa igiene e di sovraffollamento, certamente comuni in India. Può essere trasmessa anche per via respiratoria o dalla mamma al figlio subito dopo la nascita.
Non esistono terapie e gli effetti invalidanti della malattia sono irreversibili; è possibile soltanto prevenirla con la vaccinazione, che stimola il sistema immunitario a produrre anticorpi specifici contro il virus che proteggono dall’infezione.
Il poliovirus attacca in particolare le cellule nervose che controllano il movimento dei muscoli. In un caso ogni 200-250 la malattia porta a una paralisi, più spesso alle gambe, con perdita della possibilità di movimento volontario. Quando vengono colpiti i muscoli che controllano la respirazione, l’infezione può causare la morte o costringere il paziente in un polmone d’acciaio per tutta la vita per poter respirare (condizione certo improbabile nei paesi in via di sviluppo).

Valeria Confalonieri



UNA SOFFERENZA «IMPOSTA»

Julien Andavo Mbia vescovo di Isiro-Niangara (Congo R. D.)
Nato nel 1950 a Faradje (Isiro) da famiglia cristiana,
sacerdote dal 1979, mons. Julien Andavo
Mbia ha conseguito la licenza in teologia alle
Facoltà cattoliche di Kinshasa e il dottorato
in teologia morale a Fribourg (Svizzera). Viceparroco,
economo alle Facoltà cattoliche, professore
di morale al Teologato di Bunia, rettore
del Filosofato interdiocesano di Kisangani, è
stato nominato vescovo di Isiro-Niangara il 19
dicembre 2002 e consacrato il 19 marzo 2003.

Monsignor Julien, lei è il vescovo
eletto di Isiro. In questa città
è stato consacrato, il 19 marzo
scorso, dal card. Frédéric Etsou-
Nzabi Bamungwabi, arcivescovo
di Kinshasa. Date le difficoltà
del momento, perché far venire
a Isiro proprio l’arcivescovo di
Kinshasa?
È stato previsto che il card. Etsou
come primo consacrante, affiancato
da mons. Laurent Monsengwo Pasinya,
arcivescovo di Kisangani e dal
nunzio apostolico, mons. D’Aniello
Giovanni.
Vi sono molteplici ragioni per la
presenza del cardinale. È il presidente
della Conferenza episcopale del
Congo. La sua venuta a Isiro vuole
sottolineare l’unicità e l’unità del
paese e della nostra chiesa. Manifesta
la preoccupazione e la sollecitudine
della chiesa universale per una
chiesa locale che soffre. Diventa così
un momento di solidarietà e di incoraggiamento
per i cristiani di Isiro e
anche per me, loro giovane vescovo.
La presenza del cardinale, presidente
della Conferenza episcopale, dell’arcivescovo
Monsengwo, presidente
della Secam, e del nunzio, rappresentante
del papa nella R.D. del Congo,
vuole essere anche un appello alla
coscienza dei nostri dirigenti politici,
che sono molto incerti sul da
farsi. Penso che la questione dell’incoraggiamento
da parte della chiesa
sia veramente importante.
Situazione di crisi. Come la vive
e come sopravvive la gente della
sua diocesi?
C’è una crisi molto acuta sul piano
economico, sociale, e politico. Vi sono
da noi uomini che pretendono di
fare politica, ma non hanno né la capacità,
né i mezzi per farla; non sanno
che cosa sia la politica, arrivano
al potere senza essere eletti e pretendono
di vivere a spese della popolazione.
Una volta il paese stava
bene. Aveva risorse. C’era la coltivazione
del caffè. Ora non esiste più
nulla. La gente si sposta in bicicletta,
anche per lunghe distanze. Ha bisogno
di essere incoraggiata, spinta
a darsi da fare. Perciò è importante
che la chiesa sia sul posto, che io rimanga
tra la gente.
Qual è la consistenza numerica
dei cattolici nella sua diocesi e
che rapporti mantiene con i seguaci
delle altre religioni?
Dal punto di vista numerico, non
ho molto da dire. Non ho le cifre sotto
mano. Ma posso affermare che i
cattolici sono la maggioranza. Ci sono
i protestanti e i kibamguisti, che
però recentemente hanno cominciato
a fare delle affermazioni su Gesù
Cristo e sullo Spirito Santo che li mettono
fuori dal Consiglio ecumenico
delle chiese. Il problema sono le sètte,
le chiese indipendenti
che sorgono
un po’ ovunque.
Vorrei sottolineare
la vitalità della
comunità ecclesiale.
Tutti gli aspetti
della vita sociale,
economica e culturale
sono più o meno
segnati dal cristianesimo,
incluse
le cerimonie funebri,
tanto importanti
nella vita socio-
culturale e
religiosa dell’africano.
Nei funerali
è la famiglia ecclesiale che si confronta
con la morte. Le cerimonie si
svolgono in un contesto cristiano. È
un momento di grazia, per cercare di
radicare ancora di più il vangelo nel
tessuto vivo del popolo.
È necessario che i cristiani siano
aiutati a perseverare nella loro adesione
a Cristo. Bisognerebbe, per
esempio, fare più leva sulla presenza
della beata Clementine Anuarite sepolta
nella cattedrale di Isiro, sviluppae
la devozione, sottolineare i
valori che essa ha rappresentato con
la sua vita. Nei miei giri per il paese,
ho potuto constatare che tutti hanno
desiderio di venire in pellegrinaggio
ad Isiro, per venerare la beata.
L’islam? Per il momento non è un

vero problema. È presente, ma non
ha una reale influenza. Non ha peso
sulla fede in quanto tale. Le poche
conversioni sono per interessi politici
o economici.
Quali sono le linee pastorali che
intende seguire nel suo ministero
apostolico?
La priorità, per me, è principalmente
legata agli agenti pastorali, a
tutti i livelli: sacerdoti, suore, laici,
persone consacrate, sia congolesi che
provenienti dall’estero. Attraverso il
mio ministero, intendo infondere loro
fiducia, contare su di loro e dire
che, benché vescovo, non tocca solo
a me condurre il gregge.
Oggi, l’episcopato congolese parla
della chiesa-famiglia: famiglia che,
come comunità domestica e come comunità
ecclesiale, parrocchiale e diocesana,
rifletta i valori evangelici.
Anche questo vuol dire inculturazione
del messaggio a tutti i livelli. Il
vangelo deve dire qualcosa di concreto
nella vita personale, nella famiglia
e nella società, indicarci cosa
significhi essere salvati da Gesù. Bisogna
quindi portare la gente a fare
una lettura contestualizzata del vangelo,
affinché possiamo essere evangelizzati
integralmente.
Cosa si aspetta dai missionari e
missionarie?
Per quanto riguarda il rapporto con
i missionari, vorrei far notare che il
processo di evangelizzazione non è
finito, non è mai finito; finché l’uomo
vive, vi sarà evangelizzazione. È
in questo senso che la chiesa è universale.
Non è la chiesa della mia famiglia
o della mia società, o di Isiro:
è la chiesa di Gesù che chiama tutti
gli uomini, di ogni colore, a vivere la
vita di Dio là dove si trovano; una vita
di carità, di comunione, al di là di
ogni frontiera. È così che i missionari
conservano sempre il loro posto,
anche quando i cristiani sono molti.
Perché l’evangelizzazione è permanente
ed è sempre da riprendere. La
presenza del missionario è fonte di

coraggio, perché si tratta di un uomo,
di una donna venuti da lontano,
condotti qui solo dalla fede. Il missionario,
quindi, non deve supplire
soltanto a una mancanza, per cui
quando questa mancanza viene colmata,
ha finito il suo compito. Il missionario
è un testimone di Gesù e tutti
noi ne abbiamo bisogno.
Il Congo è devastato dalla guerra.
La gente di Isiro come vede
la guerra? Ha qualche speranza
che presto finisca?
La guerra è imposta alla gente. Non
è voluta. La gente vuole la pace. Tutti
si augurano che la guerra finisca
presto. Ma si ha l’impressione di trovarsi
in una tragica impasse (vicolo
cieco) e non si sa come uscie. Per
farla finire, è importante tagliare i legami
che essa ha con i paesi esteri.
I mezzi per fare la guerra, infatti,
vengono dall’estero, dall’Uganda, dal
Rwanda. Questi paesi, purtroppo,
hanno una stampa efficiente, pronta
a mostrare come essi non c’entrino
con la guerra, ne sono fuori. Ma la
realtà è diversa.
E la società civile?
La società civile, purtroppo, non è
bene organizzata. A questo proposito,
faccio di nuovo un richiamo alla
stampa che può svolgere un ruolo
molto importante, soprattutto sostenendo
la volontà della popolazione e
incoraggiandola.
La chiesa congolese è una chiesa
di martiri. Si fa qualche cosa
per conservae la memoria?
È importante salvaguardare la memoria
dei martiri, a livello parrocchiale,
diocesano e nazionale. Per
questo sono importanti gli archivi
storici. Ci dovrebbe essere un gruppo
incaricato di raccogliere dati e
fatti che costituiscono la storia di
uomini e donne che hanno dato la
vita per Cristo e per i loro fratelli e
sorelle. Non vi è niente di peggio che
ignorare la memoria, perdere le tracce
del proprio passato. Bisognerebbe
che, a tutti i livelli, si potessero
avere le testimonianze che possono
incoraggiarci nella fede e meritano
di essere messe in evidenza. Per il
centenario dell’inizio del cristianesimo
nella diocesi, intendiamo prendere
delle iniziative in questo senso.
Avremmo voluto farlo in condizioni
più felici. Ma non siamo noi i padroni
della storia.

Giovanni Battista Antonini




Dall’«asiatica» alla «Sars»


In queste pagine Guido Sattin ricorda Carlo Urbani ripercorrendo la sua vita attraverso gli eventi della storia e della medicina.

Noi che siamo nati alla metà degli anni ’50, che abbiamo visto arrivare nelle nostre case i primi elettrodomestici, che siamo cresciuti con la Tv dei ragazzi in bianco e nero e che andavamo a dormire dopo Carosello; noi che abbiamo frequentato le scuole superiori nei turbolenti anni successivi al 1968 e le Università nel cupo decennio degli anni ’70 e ’80; noi che siamo cresciuti nei grandi ideali di quegli uomini che, al di là delle diverse ideologie e fedi, volevano cambiare il mondo, che abbiamo pianto la morte di Gandhi, Che Guevara, Luther King, John Kennedy, papa Giovanni, Salvador Allende; noi che abbiamo visto crescere e cadere l’Unione Sovietica, la Cina di Mao, che abbiamo visto sconfitta l’apartheid del Sud Africa, morire con Franco l’ultimo fascismo d’Europa, cadere i colonnelli greci; noi che, nati nel pieno della tragedia dell’Ungheria, abbiamo vissuto poi quelle del Vietnam, della Cecoslovacchia, del Cile e dell’Argentina, della Cambogia dei Khmer Rossi, le guerre in Palestina, il terrore di Sendero Luminoso in Perú; noi che abbiamo vissuto le bombe fasciste degli anni Settanta in Italia e poi la pazzia del brigatismo rosso; noi che, credenti o non credenti, abbiamo però creduto insieme nella possibilità di un mondo migliore fatto di pace, libertà e giustizia sociale; noi che in quegli anni, e con la storia che correva intorno a noi, siamo diventati medici e poi siamo andati a lavorare in Africa, in Asia ed in America Latina, lo sapevamo. Noi sapevamo che un certo tipo di progresso umano si scontrava con l’ambiente che ci circonda e lo comprometteva con l’acqua contaminata, con l’aria appestata dai fumi, con le medicine mal utilizzate, con la concentrazione degli abitanti nelle città e l’abbandono delle campagne, con la manipolazione della natura, con la nostra ricchezza e con la nostra povertà. Èil 19 ottobre del 1956 e a Castelpiano, in provincia di Ancona, nasce Carlo Urbani. Diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono le malattie infettive che di più uccidono nel mondo in quegli anni. Nel 1957 vengono isolati in Cina i primi casi di «influenza asiatica», un’altra pandemia che però, grazie al progresso medico, non provoca i danni della «spagnola» del 1918.  È il 1965. Carlo frequenta le scuole elementari e, con 4 anni di ritardo (è del 1961 la scelta dell’American Medical Association), viene introdotta in Italia la vaccinazione antipolio con il vaccino di Sabin. Dal 1966 è resa obbligatoria. Nel 1967 il vaiolo è ancora endemico in 31 paesi del mondo. Solo in quell’anno tra 10 e 15 milioni di persone furono colpite dalla malattia. Di queste, circa 2 milioni morirono e, tra coloro che erano sopravvissuti, milioni rimasero sfigurati o ciechi. Carlo Urbani finiva le scuole medie e sicuramente anche lui portava su di un braccio il segno della vaccinazione antivaiolosa.  Diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti continuano ad essere le malattie infettive che di più uccidono nel mondo. Nel 1968 si scatena l’ultima grave pandemia, l’influenza di Hong Kong che provoca in Europa decine di migliaia di morti (20.000 nella sola Francia) fra le persone anziane o già debilitate da altri disturbi. Nel 1969 Piero Sensi, ricercatore della Lepetit, scopre le rifamicine e da queste nel 1969 mette a punto la rifampicina, antibiotico attivo contro la tubercolosi. È l’ultimo dei grandi antibiotici scoperti e tutt’ora utilizzati nella terapia della tubercolosi; evidentemente la ricerca sulla tubercolosi, ha smesso, d’allora, di essere una priorità per l’industria farmaceutica.  Nel 1973 la pandemia di colera coinvolge anche l’Italia toccando Napoli. Carlo frequenta il liceo a Jesi.  Diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono sempre le malattie infettive che di più uccidono nel mondo.  Nel 1976 viene isolato per la prima volta il virus Ebola. L’Ebola è un virus in grado di provocare gravi febbri emorragiche e deve il suo nome al fiume della repubblica democratica del Congo, dove fu isolato per la prima volta. Probabilmente il contagio alla nostra specie è avvenuto dalle scimmie e da qualche altro mammifero della foresta africana, ma l’origine e la modalità di trasmissione rimangono un mistero. A oggi si sono registrate quattro epidemie di Ebola: nello Zaire, nel Sudan, nel Gabon e nella Costa d’Avorio. La mortalità ha raggiunto l’88% dei casi rilevati. La morte sopraggiunge dopo circa 72 ore dall’insorgenza dei primi sintomi. Attualmente non si conosce una cura all’infezione di Ebola, né un vaccino. L’Ebola è stata elencata dalla Nato tra i 31 agenti potenzialmente utilizzabili nelle azioni di bioterrorismo.  Nel 1976 a Filadelfia, tra i partecipanti ad un convegno della legione americana, si manifesta un’epidemia che per questo viene denominata la malattia del legionario. Si tratta di una forma di polmonite che successivamente viene chiamata «legionella » e che si sviluppa nell’acqua, distribuendosi con gli impianti di condizionamento. Continua tutt’ora ad essere una malattia pericolosa e silente, ed interessa particolarmente hotels ed ospedali. Il 26 ottobre 1977 l’ultimo caso conosciuto di vaiolo viene registrato in Somalia, quando Carlo sta frequentando l’Università di Ancona ed iniziava a formarsi come medico. Nel 1981 vengono descritti i primi casi di Aids. La «peste del secolo» è iniziata. In questi anni Carlo si laurea in medicina e chirurgia all’Università di Ancona. Ancora diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono le malattie che più uccidono nel mondo.  L’«encefalopatia spongiforme bovina» (ESB), una malattia neurologica degenerativa che colpisce i bovini in maniera costantemente fatale, fa la sua comparsa come nuova malattia nel Regno Unito nel 1985. Viene descritta ufficialmente nel novembre 1986, ma ancora non si immagina il coinvolgimento umano. Carlo si specializza in malattie infettive presso l’Università di Messina. Il 31 maggio 1988, come ogni altro giorno, 1.000 bambini sono paralizzati dalla polio. La maggior parte di loro vive nei paesi più poveri. Nello stesso giorno, a Ginevra i leaders sanitari del mondo hanno deciso di eradicare la poliomielite per sempre.  È il 1989 quando viene individuato il virus dell’epatite C (Hcv). Contrariamente agli altri virus dell’epatite (A, B, D ed E), questa infezione porta, in un numero straordinariamente alto di casi, alla malattia epatica cronica. Si perfezionano i controlli sul sangue e si scopre che, negli anni anteriori, migliaia di persone sono state infettate da questo virus, trasmesso con le trasfusioni e con la dialisi.  Carlo lavora come medico presso l’Ospedale di Macerata. Nel 1991 la pandemia di colera per la prima volta arriva in America Latina, contagiando migliaia di persone in Perù.  Nel 1994 le Americhe sono certificate libere da polio.  La nuova variante della malattia di Creutzfeld-Jakob ha fatto la sua comparsa nel Regno Unito nel 1995. Il ministro della sanità inglese successivamente (marzo 1996) ammette che 14 persone sono decedute in seguito a questa nuova forma della malattia e che probabilmente si sono ammalate per aver assunto tessuti bovini infetti da Esb. Le dichiarazioni del ministro della sanità inglese Stephen Dorrell nel marzo 1996 e la pubblicazione dei risultati di queste ricerche nel 1997 scatenano una crisi economico-sociale con notevoli conseguenze sulla zootecnia europea; la crisi è dovuta ad una marcata perdita di fiducia da parte dei consumatori nei confronti del prodotto carne. Carlo entra in «Medici senza frontiere » (Msf) e parte per la Cambogia con la famiglia. Lavora in un progetto per la lotta alla «schistosomiasi», una malattia parassitaria intestinale.  Hong Kong, 1997: l’influenza aviaria provoca la morte di 6 persone. L’anno seguente l’Organizzazione mondiale della sanità la inserisce tra le malattie determinate da nuovi microrganismi capaci di provocare infezioni nell’uomo e invita ad aumentare la sorveglianza. Il 26 novembre 1998 viene segnalato l’ultimo caso di poliomielite nella regione europea. Si tratta di un bambino di nome Melik Milas di 33 mesi, che viveva in un piccolo villaggio della provincia di Agri, in Turchia al confine con l’Iran. Non aveva ricevuto nessuna vaccinazione contro la polio ed è stato colpito da un poliovirus di tipo 1.  Nel 1999 Carlo Urbani viene eletto presidente di «Medici senza frontiere» – Italia (e trova anche il tempo d’inventare questa rubrica per Missioni Consolata).  Nel gennaio 2000, dopo poco più di 10 anni dal lancio dell’iniziativa di eradicazione, sono soltanto 30 i bambini che ogni giorno nel mondo sono paralizzati dalla polio. Ma ancora 30 tutti i giorni.  Tre interi continenti sono già liberi da polio e sempre nel 2000, la regione del Pacifico orientale, che comprende la Cina, viene certificata come libera dalla poliomielite. Nell’anno 2000, 3,8 milioni di persone si sono infettate con l’Hiv nell’Africa a sud del Sahara e 2,4 milioni di persone sono morte per Aids. Nello stesso anno 30.000 persone si sono infettate in Europa occidentale e 45.000 nell’America del Nord. Dall’inizio della pandemia di Aids sarebbero morte 21.800.000 persone.  È il 2000 ed ancora diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono le malattie che più uccidono nel mondo.  Carlo inizia la sua collaborazione con l’«Organizzazione mondiale della sanità» (Oms) e con la famiglia parte per Hanoi, in Vietnam. Da 10 anni se ne parla, ma il primo caso italiano di «mucca pazza» scoppia a gennaio 2001. Crollano i consumi di carne, psicosi tra i banconi dei supermercati e delle macellerie, caccia a prodotti alternativi. Partono i controlli che portano a trovare decine di mucche italiane infette. Le autorità prima minimizzano, poi, sull’onda emotiva di un’opinione pubblica sempre più preoccupata, prendono i primi drastici provvedimenti.

29 marzo 2003: Carlo Urbani, medico italiano dell’Organizzazione mondiale della sanità, muore in un ospedale di Bangkok a causa della Sars («Sindrome respiratoria acuta grave»). La notizia si diffonde e provoca grande emozione. «Il dottor Urbani ha lavorato in programmi di salute pubblica in Cambogia, Laos e Vietnam. La sua sede di lavoro era ad Hanoi. Aveva 46 anni. Carlo Urbani era stato il primo medico dell’Oms ad identificare la nuova malattia in un uomo d’affari americano ricoverato all’ospedale di Hanoi. La sua segnalazione precoce della Sars ha messo in allarme il sistema di sorveglianza globale ed è stato possibile identificare molti nuovi casi e isolarli prima che il personale sanitario ospedaliero venisse contagiato. Ad Hanoi, il focolaio di Sars sembra sulla via di essere messo sotto controllo». «Carlo era una persona meravigliosa e siamo tutti costernati – ha detto Pascale Brudon, il portavoce dell’Oms in Vietnam -. Era soprattutto un medico, il suo primo obiettivo era quello di aiutare le persone. Carlo è stato il primo ad accorgersi che c’era qualcosa di molto strano. Mentre in ospedale le persone diventavano sempre più preoccupate, lui era là ogni giorno, raccogliendo campioni, parlando con il personale dello staff e rafforzando le procedure di controllo dell’infezione». È il 2003. È appena terminata la guerra «preventiva» contro l’Iraq ed ancora diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono le malattie che più uccidono nel mondo.  La storia la facciamo noi uomini con le nostre guerre, i nostri interessi economici, ma anche con i nostri ideali, le nostre scoperte, la nostra cultura e la nostra capacità di comunicare. Ma non solo.  La peste, la sifilide e la tubercolosi hanno segnato alcuni secoli della nostra umanità e perfino della nostra cultura.  Diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti continuano a minare l’esistenza di milioni di individui nell’indifferenza generale. Della Sars si sa ancora poco, ma è un altro segnale di pericolo per il nostro mondo, così come poco prima lo è stato la variante umana della malattia di Creutzfeld-Jakob, Ebola o l’influenza aviaria.  L’Aids ha definitivamente cambiato i costumi sessuali della nostra società e sta tuttora cambiando la nostra umanità, incidendo profondamente in tante culture ed economie del mondo, in particolare dell’Africa. Le malattie infettive e parassitarie, causa e conseguenza di tanti passaggi della nostra storia, continuano ad essere protagoniste dell’umanità e delle sue scelte economiche, politiche e sociali.

Guido Sattin