Cari missionari

Diamanti sporchi

Spett.le Redazione,
innanzitutto complimenti per l’ottima rivista, siete davvero un faro in mezzo alla tempesta! Leggervi mi fa sempre venire voglia di «combattere»!
Vorrei segnalarvi questo: su «Venti4uattro», rivista in allegato al Sole 24 Ore di sabato 14 aprile, era riportato un articolo nel quale una nota società, che opera nel commercio e nella lavorazione dei diamanti, veniva elogiata dai giornalisti in quanto, grazie al suo operato, la regione in cui sorge la miniera prospera, le donne trovano lavoro, vengono costruite scuole, gli animali sono protetti, ecc., ecc…
Onestamente la cosa mi suona un po’ come retorica propagandista, forse in contrapposizione ai recenti scandali che il trattato di Kimberley ha tentato di arginare. Vi allego pertanto copia dell’articolo suddetto, per sottoporlo alla vostra competenza che senz’altro è ben più meritoria della mia! Se lo riterrete opportuno, potreste inserire un piccolo dibattito nella rivista…!
Cordiali saluti e… continuate così!
Carlo Occhiena
Genova

La joint venture tra Botswana, dove si trova la miniera citata, e De Beers, la compagnia che vi sfrutta tre miniere diamantifere, viene presentata come modello di cooperazione per lo sviluppo del paese. Speriamo che sia così. Nel passato, però, la suddetta compagnia ha fatto affari con i «diamanti insanguinati», sfruttando e alimentando la guerra in vari paesi africani (Angola, Congo-Zaire, Sierra Leone…). Che «il Kimberley Process abbia azzerato la circolazione dei cosiddetti blood diamonds», come afferma il giornalista, è da dimostrare. Se ne può discutere.

Diamanti… veri

Gentile Direttore,
da quando ho capito che quello di cui ci chiederà conto il Signore sarà cosa avremo fatto per il prossimo sofferente, il mio impegno è rivolto soprattutto verso i missionari, vera punta di diamante della chiesa, che testimoniano il Signore con la parola e con l’esempio. Devo dire che il suo periodico è fra i migliori, se non il migliore, di quelli missionari per la ricchezza di argomenti, la chiarezza e indipendenza nella denuncia dei misfatti e ingiustizie contro i poveri nel mondo.
Mi sorprende molto il fatto che qualche volta ci siano lettori che, solo perché un articolo denuncia la sopraffazione dei potenti e dei ricchi sulla povera gente, tacciano l’autore come comunista, cattocomunista, prete compagno, ecc.
Mi chiedo: «Ma non sono i cristiani quelli che si devono occupare e combattere per primi per la giustizia sociale di aiutare i bisognosi?».
Caro direttore, vada avanti tranquillo, Missioni Consolata dà forza ai coraggiosi e scuote le coscienze degli indifferenti.
Buon lavoro. Con stima.
Dante Bersetti
Montemarciano (AN)

Grazie per la stima e incoraggiamenti! Andremo avanti come sempre, senza guardare né a «destra» né a «sinistra».

Legge sull’amianto

Gentile Redazione,
ho letto e apprezzato l’articolo del dott. Roberto Topino e della dott.sa Rosanna Novara nel numero di Maggio 2007 dal titolo: «Quelle infide fibre d’amianto». Nell’articolo, a proposito delle coperture in eternit, è scritto che,    «…. quando i danni del materiale sono evidenti, la legge prevede la bonifica e la sostituzione delle coperture…». Sapreste indicarmi nello specifico quale legge?
Colgo l’occasione per fare i miei complimenti a tutta la redazione e augurarvi un buon proseguimento di lavoro.
Giuseppe D’Amico
Via e-mail

Risponde il dott. Topino: «Si tratta del Decreto ministeriale 06/09/1994. Normative e metodologie tecniche di applicazione dell’art. 6, comma 3, e dell’art. 12, comma 2, della legge 27 marzo 1992, n. 257, relativa alla cessazione dell’impiego dell’amianto. La legge è molto dettagliata e precisa, purtroppo raramente viene applicata in modo corretto». L’intero testo del «Decreto ministeriale del 06/09/1994» è reperibile su internet.

Uno solo è il maestro

Cari missionari,
anche se non ne hanno bisogno, desidero ugualmente esprimere al dott. Topino e alla dott.sa Novara il mio apprezzamento per il loro dossier «Tira proprio una brutta aria» (M.C. n.2/2007) e la mia solidarietà, dopo le aspre critiche, dall’avvocato di Palermo (cf. M.C. n.4/2007 p.7).
A mio modo di vedere, il chiamarsi Veronesi, Rossi, Bianchi o Topino non dice nulla sul valore di un professionista della sanità e sulla capacità di contribuire al miglioramento delle condizioni di vita di un individuo, di una città, di una nazione. A fare la differenza non sono i cognomi, numero di libri e articoli pubblicati e, men che meno, quello delle apparizioni televisive, ma le azioni sul campo, i comportamenti quotidiani, la fedeltà al codice deontologico e agli impegni che si sono presi davanti a Dio e alla collettività.
In particolare, chi è medico dovrebbe cercare di mantenersi il più possibile fedele al Giuramento di Ippocrate e, di conseguenza, anche a quel passo che dice: «A chiunque mi chiederà un veleno glielo rifiuterò, come pure mi guarderò dal consigliarglielo. Non darò a nessuna donna dei farmaci antifecondativi o abortivi».
Ora, se il Veronesi a cui fa riferimento l’avv. Cuccia è il professor Umberto Veronesi, luminare di fama internazionale, non mi pare che, almeno per ciò che riguarda aborto e contraccezione, la sua fedeltà al Giuramento di Ippocrate sia il non plus ultra. Al contrario, innumerevoli sono state le volte che è intervenuto per esprimere la sua posizione favorevole all’interruzione volontaria della gravidanza, all’uso delle pillole abortive (come la devastante RU 486, prodotta, guarda caso, da quella stessa Roussel Uclaf che, durante la II Guerra mondiale, metteva a disposizione dei nazisti le sostanze tossiche da impiegare nelle camere a gas, che causarono la morte di centinaia di migliaia di innocenti…), favorevole alla sperimentazione con cellule staminali ricavate da embrioni umani appositamente uccisi.
Ora, se c’è la libertà, per chi porta cognomi così altisonanti, di esprimere queste convinzioni, immagino ci sia anche quella di dire che per un cattolico che vuol restare fedele a Cristo, al vangelo, alla legge naturale e al magistero della chiesa, un uomo come il pur rispettabilissimo prof. Veronesi non può costituire un punto di riferimento affidabile.
Quindi, se il prof. Veronesi non possiamo considerarlo un buon maestro per ciò che riguarda la tutela della vita nascente, se non ci piacciono le sue posizioni in materia di eutanasia, perché dovremmo considerarlo infallibile quando si pronuncia su altri temi, quali le polveri sottili e i cambiamenti climatici?
Per me, Veronesi (potrei dire anche Zichichi, Dulbecco, Levi Montalcini, Rubbia) è una persona come tante altre, che ora dice cose giuste, ora meno giuste. È allo Spirito Santo che dobbiamo affidarci per esercitare la difficile, ma irrinunciabile, arte del discernimento. Solo lo Spirito Santo può condurci alla verità tutta intera.
Domenico Di Roberto Ancona

Diciamo no … ai nuovi Claudio e nuovi Torlonia

Dopo aver letto le affermazioni dell’avvocato palermitano sugli anandroecologisti che, secondo lui, «se ci fossero stati al tempo dei romani non avremmo il Colosseo e l’acquedotto», desidero fare alcuni rilievi.
1° Gli ecologisti non hanno mai avuto nulla in contrario agli acquedotti; anzi, sono in prima linea nel denunciare le carenze delle reti idriche (abbiamo acquedotti che perdono fino al 70% dell’acqua) e nel chiedere che i fondi per le grandi opere pubbliche vengano innanzitutto impiegati per garantire un’efficiente distribuzione dell’acqua potabile.
2° Se è vero che gli acquedotti costruiti dai romani godono dell’ammirazione universale, è altrettanto vero che non tutte le opere idrauliche da essi realizzate furono cose buone e giuste. Mi riferisco ad esempio agli sciagurati interventi sul Fucino, le cui disgrazie, come ci racconta Tacito nei suoi Annales, iniziarono proprio sotto gli imperatori romani, in particolare sotto Claudio. Il disastro fu poi completato nella seconda metà del xix secolo dal banchiere Alessandro Torlonia.
Per molto tempo si è creduto che il prosciugamento del Fucino (per estensione era il terzo lago italiano) fosse una cosa oltremodo necessaria; ricordo benissimo gli anni in cui i testi scolastici tessevano le lodi del principe Torlonia e degli uomini che lavorarono per trasformare la grande conca in una zona agricola di pregio, dopo averla liberata dalle zanzare, dalla malaria, ecc… Poi, uno studio più attento degli scrittori classici e l’evoluzione di una coscienza civile, meno succube dei miti del passato, hanno aiutato a capire che gli interventi sul Fucino furono un gravissimo errore, perché costarono la perdita di un patrimonio idrico, biologico e naturalistico di incalcolabile valore. Tra l’altro, è falso che le acque del povero lago fossero sozze e malsane. Virgilio, per esempio, parla di «vitrea unda» (onda cristallina) del Fucino (Eneide vii,759) e i curatori del Dizionario enciclopedico italiano assicurano che, prima di essere strapazzato dagli uomini, il Fucino «non era affatto un lago malarico». Esondazioni, febbri e altri problemi legati alla presenza del Lago Fucino erano solo conseguenza degli abusi patiti dal territorio nel corso dei secoli.
3° Il Colosseo non è solo una grande opera architettonica di indiscutibile originalità. È anche il luogo dove migliaia di persone venivano barbaramente uccise o fatte uccidere dalle belve (che a loro volta morivano tra atroci sofferenze per soddisfare gli insaziabili capricci dei potenti di Roma), perché si rifiutavano di tributare agli imperatori quell’adorazione che credevano di dover riservare solo al Dio di Gesù Cristo. Se il loro martirio ci ha insegnato qualcosa, cerchiamo anche noi di dare sempre a Dio quel che è di Dio, negando ai modei Cesari quel che non è e non potrà mai essere dei Cesari. E, quando vediamo l’immagine del Colosseo impressa sul retro della monetina da 0.05 euro, ricordiamoci che si tratta pur sempre di opere di uomo e che Dio sa fare di meglio, di molto meglio.

P ensiamo a tutte le stragi inutili di uomini e animali che provochiamo in nome delle grandi opere pubbliche, dello sviluppo, della ricerca scientifica, ma anche in nome della sicurezza, lotta al terrorismo e difesa della nostra civiltà.
Ristabiliamo rapporti corretti con il mondo naturale e con i nostri simili, vicini e lontani. Diciamo NO ai nuovi Claudio e nuovi Torlonia, che pretendono di trattare laghi, fiumi, montagne, foreste, abissi oceanici, spazi aerei… come se fossero loro proprietà privata.
Francesco Rondina
Fano (PU)




Quando il ritardo è fatale

Malattie dimenticate (11): tripanosomiasi (malattia del sonno)

Sono ancora decine di migliaia i pazienti con la malattia del sonno, decine di milioni le persone che rischiano di ammalarsi.

Migrazioni, guerra, povertà. Tre elementi strettamente collegati alla malattia del sonno. Una malattia mortale, se non trattata, che continua a imperversare nelle zone dell’Africa subsahariana, la cui diffusione, e il riemergere di epidemie, viene spesso collegata ai conflitti.
Non sono note le cifre precise sul numero di malati, ma secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), potrebbero variare da 50 mila a 70 mila le persone infettate, mentre sarebbero 60 milioni quelle che vivono in zone a rischio e potrebbero ammalarsi.

Due differenti possibilità, stesso destino
La tripanosomiasi umana africana, più conosciuta come malattia del sonno, è diffusa in 36 paesi nell’Africa subsahariana, dove è presente la mosca tse tse, che con il suo morso può trasmettere l’infezione: una zona di oltre 9 milioni di chilometri quadrati, pari a circa un terzo dell’intera superficie del continente africano.
Il responsabile è un tripanosoma, che può essere di due tipi, con una distribuzione geografica, e caratteristiche temporali differenti della malattia. Il Trypanosoma brucei gambiense, cui vengono attribuiti 9 casi su 10 di malattia del sonno, è diffuso nell’Africa occidentale e centrale e causa un’infezione cronica: possono passare mesi o anni prima della comparsa dei segni e sintomi più gravi, che segnalano lo stadio avanzato della malattia, con coinvolgimento del sistema nervoso centrale.
Invece, il Trypanosoma brucei rhodesiense viene localizzato a oriente e nel sud dell’Africa e causa una malattia assai più rapida, che si manifesta nel giro di pochi mesi o anche settimane e si diffonde al sistema nervoso centrale.

Dal sangue al cervello
Il tripanosoma viene trasmesso dalla puntura della mosca tse tse, che predilige vivere in zone ricche di vegetazione vicino a fiumi e laghi, in ambienti umidi, con penombra e temperature alte. Nel caso del Trypanosoma rhodesiense, animali quali antilopi, iene, pecore e bovini possono fungere da «serbatornio» della malattia, da cui la mosca tse tse può prendere il tripanosoma che poi trasmette all’uomo con la sua puntura.
La mosca tse tse, e con essa la malattia del sonno, è recentemente salita all’attenzione dei media per la sua «passione» nei confronti dei colori nerazzurri, caratteristici delle maglie di alcune squadre di calcio italiane. Sembra infatti che le mosche tse tse siano attirate da questa combinazione di colori, utilizzata per la costruzione di trappole in cui attirarle.
Una volta entrato nell’organismo, il tripanosoma si diffonde nei tessuti sotto la pelle, nel sangue e nel sistema linfatico, per poi superare la barriera ematoencefalica e arrivare al sistema nervoso centrale. Vengono lasciate aperte altre possibilità di passaggio dell’infezione, come dalla madre al bambino in gravidanza, accidentale in laboratorio, attraverso trasfusioni e trapianti d’organo.
La malattia del sonno, se non viene riconosciuta e trattata, porta alla morte del paziente e le manifestazioni dell’infezione sono suddivise in due fasi. La prima, definita emolinfatica, con febbre e sintomi poco specifici, come mal di testa, dolori alle articolazioni e prurito (in un quarto dei casi vi può essere rigonfiamento dei linfonodi cervicali). La seconda, neurologica, si manifesta, come accennato prima, a intervalli di tempo differenti a seconda del tripanosoma responsabile, a seguito dell’arrivo dell’infezione al sistema nervoso centrale.
È caratterizzata dalla comparsa dei sintomi da cui prende il nome di malattia del sonno. Infatti, accanto a disturbi psichici e neurologici (come confusione, disturbi sensoriali e di cornordinazione), compaiono le alterazioni del ritmo sonno-veglia: i pazienti tendono a dormire di giorno e fanno fatica di notte.

Il ritorno della malattia
Le popolazioni a rischio di infezione sono quelle che vivono nelle zone rurali, dedicate ad agricoltura, pesca, allevamento o caccia. Altri fattori segnalati dall’Oms collegati alla diffusione della malattia sono gli spostamenti delle popolazioni, la guerra e la povertà.
Negli ultimi 100 anni sono state segnalate nel continente africano tre principali epidemie: fra il 1896 e il 1906, nel 1920 e nel 1970, quest’ultima non ancora sotto controllo.
In occasione dell’epidemia del 1920, l’utilizzo di squadre mobili per monitorare le popolazioni a rischio aveva permesso di arrivare al controllo della diffusione dell’infezione a metà degli anni ‘60. Ma il venir meno dei controlli ha permesso al tripanosoma di tornare a manifestarsi negli anni successivi in diverse regioni: i dati del 2005 contano fra i 50 mila e i 70 mila casi.
La diffusione della malattia varia fra i diversi paesi e, anche all’interno degli stessi, fra le diverse zone. Nel 2005 sono state segnalate epidemie importanti in Angola, Repubblica Democratica del Congo e Sudan, e la tripanosomiasi umana africana rimane un problema di salute pubblica per Repubblica Centrafricana, Ciad, Congo, Costa d’Avorio, Guinea, Malawi, Uganda e Tanzania. In altri paesi il numero di casi riportati è più basso o non vi sono segnalazioni, ma non si hanno certezze, perché manca una sorveglianza adeguata con diagnosi dei possibili casi.
Vi sarebbero tuttavia segnali positivi: l’Oms riporta che gli sforzi da lei compiuti insieme con quelli dei governi e di organizzazioni non governative hanno permesso di interrompere la continua salita nel numero di nuovi casi.

Il ritardo
peggiora la prognosi
L’ambiente in cui è maggiore il rischio di essere infettati dal tripanosoma è anche quello che condiziona l’andamento peggiore della malattia. Infatti i malati spesso vivono in zone isolate, lontano dai centri sanitari e quindi dalla possibilità di essere visitati e di avere una diagnosi nelle prime fasi della malattia. Il ritardo nella diagnosi restringe le possibilità di cura, perché le prospettive di guarigione diminuiscono con il procedere dell’infezione.
Dal punto di vista terapeutico infatti, i farmaci indicati per la prima fase della malattia del sonno non solo sono più efficaci, ma hanno anche meno effetti collaterali dannosi per il paziente e sono più semplici da somministrare. Viceversa, una volta che il tripanosoma ha superato la barriera ematoencefalica ed è arrivato al sistema nervoso centrale, i farmaci a disposizione possono arrecare maggiore danno al paziente e sono anche più complicati come modalità di somministrazione. Uno, per esempio, è un derivato dall’arsenico e può causare un danno grave al cervello, che può essere mortale in una percentuale che varia dal 3 al 10% dei casi.
Proprio nell’ottica di migliorare la diagnosi e anticiparla si colloca l’annuncio, dato a febbraio del 2006 dall’Oms e dalla Fondazione per la diagnostica innovativa (Find, Foundation for Innovative New Diagnostic), della partenza di ricerche per arrivare a nuovi esami per la diagnosi. Infatti, nei primi stadi della malattia la diagnosi è più difficile per la presenza di pochi sintomi, tanto che si ritiene sia identificato correttamente solo un paziente su dieci.
Lo scopo delle nuove ricerche è arrivare a esami che migliorino le possibilità di una diagnosi precoce e con esse di un trattamento tempestivo e con maggiori possibilità di successo.

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




Tra petrolio e povertà

Intervista a Desiré Ename, giornalista gabonese

Ricco di petrolio e legname pregiato, il Gabon ha poco più di un milione di abitanti, ma non riesce a sconfiggere la povertà. Tra automobili da centomila euro e ristoranti di lusso non mancano baracche
in lamiera e gravi violazioni delle libertà personali. Intervista a un gabonese contro: il giornalista Desiré Ename
.

Una quantità di petrolio da far impallidire l’Arabia Saudita, giacimenti di gas apparentemente senza fine, diamanti, oro, uranio e ferro da mettere in ginocchio le grandi miniere del mondo e il legname pregiato della foresta pluviale a totale disposizione delle segherie e delle industrie. Il Gabon ha tutte le carte in regola per essere uno dei paesi più ricchi dell’Africa e, in assoluto, il più stabile. Mai una sola guerra nella storia e un solo tentativo di colpo di stato, peraltro fallito. Un record assoluto per il continente nero.
Ma dietro gli edifici modei che ospitano i ministeri e i palazzi lussuosi della capitale gabonese Libreville, lungo la splendida costa oceanica, appaiono, dimenticate, le baracche di lamiera, dove vive circa metà della popolazione, quella che non ha accesso alla ricchezza e che non può godere dei frutti del petrolio e delle miniere.
Le auto da centomila euro che attraversano le quattro corsie del Boulevard Triomphal Omar Bongo, dedicato all’attuale presidente gabonese, stonano al passaggio della gente a piedi, che torna nei quartieri poveri dove spesso mancano luce e acqua. E anche se i gabonesi ricchi sembrano girarsi dall’altra parte, qualcuno ancora vede le ingiustizie.
Il Gabon è «un’enorme contraddizione e un regno dell’ipocrisia» dice Desiré Ename, direttore di Les Echos du Nord, l’unico giornale d’opposizione del paese. E per questo lo abbiamo intervistato.

Il Gabon era ed è uno dei paesi più ricchi dell’Africa e indubbiamente uno dei più stabili, ma non è riuscito a sconfiggere la povertà e nemmeno a garantire i diritti più basilari a quasi metà della sua popolazione. Quali sono i problemi del Gabon?
«Il Gabon è un vero e proprio scandalo geologico. Nella foresta pluviale intorno al bacino del fiume Congo si trovano i materiali necessari ai complessi industriali di mezzo mondo e fonti energetiche di primaria importanza. La miopia della classe dirigente, però, ha impedito che si impiegassero le ricchezze in modo lungimirante. Le ricchezze del Gabon non sono adeguatamente sfruttate e il governo si è accontentato dei guadagni immediati, senza pensare al futuro e senza investire in infrastrutture o in industrie di trasformazione.
Il presidente Omar Ondimba Bongo è al potere dal 1967 e nei suoi 40 anni di governo ha eliminato tutte le forme di opposizione, spartendosi le ricchezze con le famiglie più influenti del paese. Per capire la situazione del Gabon basta pensare alla storia di un vostro connazionale: un italiano che venne a investire qui qualche anno fa. Lui non voleva accettare il sistema di corruzione che vige nel paese, non so se per onestà o perché gli avevano chiesto troppi soldi. Però una cosa è certa: si è rifiutato di pagare e, nel giro di pochi mesi, l’amministrazione statale ha iniziato a creare problemi con i permessi, ha moltiplicato i vincoli burocratici, fino a che la polizia ha sequestrato l’hotel che l’impresa italiana stava costruendo. Alla fine l’impresa se ne è andata dal paese, lasciando anche i macchinari e i computer negli uffici».

Che le amministrazioni africane siano corrotte non è una novità. Spesso sono eredità del periodo coloniale: i governi occidentali hanno più o meno direttamente appoggiato governi corrotti in tutto il continente per avere dei tornaconti economici. Chi c’è dietro Bongo?
«Il fatto che la sicurezza nazionale del Gabon sia garantita dall’esercito francese dovrebbe dare qualche suggerimento. Nel 1964, l’unico caso di tentativo di colpo di stato, ai danni del presidente Leon Mba, predecessore di Bongo, fu sventato dall’armata francese. Nonostante ciò, la presenza occidentale è determinante fino a un certo punto: anche altri paesi hanno subito il colonialismo, ma poi si sono sviluppati e non hanno condizioni di povertà così gravi.
Il colonialismo e le influenze dall’estero sono spesso una scusa: il problema del Gabon sono i suoi governanti, non i governanti degli altri. L’attuale governo manca di intelligenza e visione del futuro. Basta guardarsi intorno: nel primo periodo dell’indipendenza sono stati distrutti i simboli del colonialismo, le case e i palazzi costruiti dai coloni. Ma questo non è servito a far rinascere una cultura africana; è servito solo a cancellare la storia e far crescere l’ignoranza dei gabonesi.
E questo ha anche creato dei problemi a livello internazionale: la mancanza della conoscenza del passato ha provocato delle tensioni con la Guinea Equatoriale a proposito delle acque territoriali. In pratica, è stato scoperto un giacimento di petrolio nei pressi di un isolotto, giusto al confine tra i mari dei due paesi, e nessuno è in grado di ricostruire a chi appartenga storicamente quella zona».

I confini africani sono delle linee rette disegnate dai governi delle potenze coloniali durante il Congresso di Berlino nel 1884. Ci sta dicendo che nessuno ha i documenti che provino le reali linee di confine?
«Non posso parlare per l’intero continente. Io conosco il Gabon, come immagino che voi italiani conosciate bene l’Italia, ma non siate contemporaneamente esperti di Germania, Francia o Gran Bretagna. Il caso dell’isolotto di Mbane è un po’ particolare: nessuno si era interessato ai confini, fino a quando non si è scoperto che la zona è ricca di petrolio. L’isolotto storicamente appartiene al Gabon. La Guinea Equatoriale lo ha ceduto al nostro paese circa 60 anni fa, durante il periodo delle indipendenze. La miopia del governo, però, è tale che la nostra amministrazione non è in grado di produrre il contratto originale, perché pare che si sia perso nei meandri della burocrazia.
Il mio giornale, Les Echos du Nord, ha dedicato una prima pagina a questo problema, anche perché sono anni che le Nazioni Unite fanno pressioni per risolvere la controversia. Ma il risultato che ho ottenuto è stata la chiusura del giornale per attività antipatriottica».

La stampa gabonese sembra libera, ma da quello che dice lei, anche questa è un’illusione. Qual è la situazione delle libertà di espressione?  
«Nonostante la nostra capitale si chiami Libreville, le libertà sono limitate a quello che non infastidisce il governo di Omar Bongo. I giornali sono controllati dallo stato e le intimidazioni sui giornalisti sono continue. La maggior parte delle pressioni non sono di carattere violento: sono anni che Bongo compra i suoi oppositori. Ogni anno i giornalisti che si comportano bene verso il governo vengono in qualche modo premiati e a ogni elezione ci sono brogli elettorali, fino a che uno dei partiti dell’opposizione non passa con il governo. Quest’anno siamo arrivati a 53 ministeri.
Bongo è ricco e usa i suoi soldi per comprare gli avversari. L’unica cosa che non divide mai è il potere. E infatti, quando il mio giornale ha pubblicato un articolo critico nei confronti della politica estera del Gabon a proposito dell’isolotto di Mbane, siamo tutti stati sospesi. Il giornale è stato riaperto quasi un mese dopo, solo in seguito a un mio sciopero della fame, ma su di noi le pressioni sono continue, al punto che anche il deputato dell’opposizione a cui facevamo riferimento ha gettato la spugna. Oggi è uno dei vicepresidenti del governo e non conta quasi nulla a livello decisionale. È solo molto più ricco di prima».

Sembra di ascoltare la descrizione di un sistema di poteri mafiosi. Chi è dentro ci guadagna e chi è fuori ha paura di protestare. Ma è possibile che nessuno di quelli che vivono nelle baracche insorga nei confronti dei gabonesi ricchissimi?
«Il lassismo è diventato un tratto del carattere dei gabonesi. La storia e le libertà politiche sono state soppresse per così tanto tempo che non ricordiamo più quali sono i nostri diritti e i nostri doveri. Siamo passivi: non troviamo il senso in quello che facciamo e ci siamo affacciati alla politica da troppo poco tempo per supplire con l’esperienza. Le libertà non sono limitate solo dalla politica del governo, ma soprattutto dall’ignoranza. Anche in Europa o negli Usa c’è ancora tanta ignoranza; ma se si pensa che a un gabonese povero l’istruzione costa tre-quattro volte tanto che a un europeo o a un americano povero, si capisce che la situazione qui da noi è decisamente più difficile. Basta pensare al fatto che in Gabon non ci sono trasporti pubblici e chi abita lontano dalla scuola o si paga un taxi o non ci va proprio. In una situazione come questa è facile capire che non può crescere una coscienza politica e tutti pensano al tornaconto personale. E in Gabon, negli ultimi 30 anni, non ci sono stati cambiamenti. Anzi».

La situazione del Gabon potrebbe essere senza dubbio migliore, ma a vedere questo paese, non sembra che le condizioni siano tanto peggio di quelle in cui vivono gli europei o gli americani. Anche in Occidente c’è degrado. In Italia meridionale ci sono quartieri popolari dove non arrivano la luce e l’acqua; nella periferia di Milano sono comparse le baracche. Sicuramente il Gabon sta meglio rispetto alla media dei paesi africani. Cosa ne pensa?
«È normale che la prima impressione sia quella di un paese che va a gonfie vele. Nei ristoranti di lusso che sorgono sul Bord de Mer  (la strada costiera di Libreville) i neri e i bianchi sembrano mescolati. Sembra che tutti abbiano la loro fetta di ricchezza. Purtroppo però nella realtà non è così. Tutto questo è uno spettacolo voluto dal presidente Bongo. L’intera capitale è una facciata di carta, a uso e consumo dei clienti dell’Hotel Atlantic o dell’Intercontinental che vengono a stringere accordi o a firmare contratti.
La stabilità di questo paese si fonda sulla paura. Contrasti e idee non sono stati armonizzati. Sono stati soffocati. Faccio un esempio: nel 1994 il governo ha firmato un accordo con alcuni paesi occidentali per lo smaltimento dei rifiuti tossici. Bongo non ha informato né il parlamento né tanto meno la cittadinanza. I rifiuti nucleari sono stati trasportati di notte nella foresta e seppelliti da qualche parte verso il nord-est del paese. Recentemente si è constatato che nella zona sono morti tutti gli animali e, quel che è peggio, la gente dei villaggi ha iniziato ad ammalarsi, perché le scorie radioattive hanno contaminato le falde idriche. Se il Gabon fosse un paese libero come si dice, di fronte a una situazione simile dovrebbe scoppiare uno scandalo. E invece si è sparsa la voce che c’era una epidemia di ebola per tenere lontano dalla foresta pluviale i giornalisti e gli osservatori inteazionali. Anche questa volta non si riesce a capire cosa è vero e cosa è falso. Nessuno infatti ha avuto il coraggio di andare a vedere di cosa si trattasse veramente».

Anche se questa storia è orribile, purtroppo non sarebbe la prima volta che viene data dai governi una visione distorta della realtà. Questo succede anche nei paesi a cosiddetta alternanza democratica. Può fare altri esempi?
«Parliamo allora delle elezioni e del peso della religione tradizionale nella vita politica di questo paese: ogni volta che ci si affaccia al periodo elettorale aumentano gli omicidi di ragazzini a scopo rituale. Gli uomini di potere sono spesso superstiziosi e ci sono forti sospetti che abbiano fatto sacrificare delle persone con la speranza di aumentare la loro ricchezza e le loro probabilità di vittoria. Generalmente si tratta di dicerie e di cose su cui è difficile fare chiarezza; ma poco tempo fa, qui a Libreville, è stata fermata una coppia di anziani che uccideva dei ragazzini per poi fae essiccare il corpo in posizione fetale. Quando i due furono arrestati, dissero solo che stavano portando il feticcio, questo corpo essiccato tenuto in un sacco, a un ricco cliente. Poi non si è saputo più nulla, perché le autorità preferiscono sempre negare.
Detto questo, ci tengo a sottolineare, che la religione tradizionale è praticata da quasi l’80% dei gabonesi e nella maggior parte dei casi non si tratta di riti cruenti. Rimane il fatto che, chi ricorre alle pratiche di omicidio, lo fa per aumentare il suo prestigio sociale e questo è quello che hanno imparato i gabonesi guardando il loro presidente. Le nuove generazioni capiscono solo il potere fine a se stesso».

Insomma, il problema del Gabon è sostanzialmente la sua classe dirigente. A sentire lei la situazione internazionale non c’entra quasi nulla. Eppure il Social forum tenuto a Nairobi incolpa l’Occidente dei problemi dell’Africa. Sono manie di protagonismo dei paesi occidentali anche queste? Ci sentiamo così determinanti nel bene e nel male, che abbiamo fatto un’analisi sbagliata?
«L’Africa ha tutte le risorse che servono per svilupparsi senza bisogno di aiuti estei. Molti africani lavorano o hanno lavorato nei grandi organismi inteazionali o hanno studiato negli Stati Uniti o in Europa. Io ho studiato in America e in Francia; altri miei colleghi adesso lavorano per grandi multinazionali e sono stati in Giappone, Russia e Cina. Molti di noi sanno cosa sarebbe necessario fare, ma il mondo politico è chiuso e il potere è gestito da due o tre famiglie che prendono le decisioni per tutti. Anche le industrie cinesi e malesi che stanno disboscando la foresta pluviale, per rifornire di legname le industrie asiatiche, e che adesso occupano le pagine dei vostri giornali, si muovono in Africa grazie agli appoggi dei governi locali. Il problema, in generale, non sono gli “altri”, quanto la mancanza di coraggio e di visione del futuro dei nostri governanti». 

A cura di Chiara Giovetti e Alessio Antonini

Chiara Giovetti e Alessio Antonini




Il pianeta bidonville

Le isole infelici delle grandi metropoli

Più di un miliardo di persone vive oggi nelle sovraffollate periferie urbane delle megalopoli di tutto il mondo. Un fenomeno in folle crescita, destinato a raddoppiare nei prossimi 15 anni,  rendendo totalmente insostenibile la vita delle nostre città e, di riflesso, del nostro pianeta.

Siamo di fronte a una delle principali svolte della storia dell’umanità: per la prima volta, nel 2007, la popolazione urbana del pianeta avrà superato la popolazione rurale. Di fatto, vista l’imprecisione delle statistiche che riguardano il terzo mondo, forse questa transizione storica è già avvenuta.
Il processo di urbanizzazione del globo è progredito ancor più rapidamente di quanto non avesse previsto il Club di Roma nel suo famoso rapporto: «I limiti della crescita». Nel 1950, esistevano al mondo 86 agglomerati con oltre un milione di abitanti. Oggi sono 400 e nel 2015 saranno almeno 550.
A partire dal 1950, i centri urbani hanno assorbito quasi due terzi dell’esplosione demografica mondiale e, ogni settimana, il dato aumenta di un milione di persone, tra neonati e nuovi immigrati. In questo momento la popolazione urbana (3,2 miliardi di abitanti) è più numerosa di quanto non fosse l’insieme della popolazione mondiale nel 1960.
Le previsioni indicano che il 95% di questa crescita finale dell’umanità avrà luogo nelle zone urbane dei paesi in via di sviluppo. Secondo queste stime, la popolazione di queste aree dovrebbe raddoppiare per raggiungere quasi 4 miliardi di abitanti nel corso della prossima generazione (il dato aggregato della popolazione urbana di Cina, India e Brasile oggi è quasi allo stesso livello di quello di Europa e Nord America). L’esito più spettacolare di questa evoluzione sarà il moltiplicarsi delle metropoli con oltre 8 milioni di abitanti e, più incredibile ancora, sarà l’impatto delle megalopoli con oltre 20 milioni di abitanti (dato che corrisponde all’intera popolazione urbana del pianeta all’epoca della Rivoluzione francese).
Nel 1995, solo Tokyo aveva raggiunto questi livelli. Secondo la «Far Easte Economic Review», attorno al 2025, nel solo continente asiatico saranno già presenti una decina di conurbazioni di queste dimensioni, tra cui Giacarta (24,9 milioni), Dacca (25 milioni) e Karachi (26,5 milioni).
La popolazione dell’immensa metro-regione fluviale di Shangai, la cui crescita è stata bloccata durante i decenni della politica maoista di sotto-urbanizzazione, potrebbe raggiungere 27 milioni di abitanti.
Le previsioni per Bombay indicano una popolazione di 33 milioni di abitanti, benché nessuno sia in grado di sapere se una concentrazione così colossale di povertà sia biologicamente ed ecologicamente sostenibile.
Se le megalopoli sono le stelle più brillanti del firmamento urbano, tre quarti della crescita della popolazione urbana avverrà in agglomerati più piccoli, zone urbane secondarie praticamente prive di pianificazione e servizi adeguati.
In Cina (paese ufficialmente urbanizzato per il 43% nel 1997), il numero ufficiale delle città è passato da centonovantasei a seicentoquaranta dal 1978 ad oggi.
Tuttavia, la quota relativa delle grandi metropoli, nonostante la loro straordinaria crescita, è in realtà diminuita rispetto all’insieme della popolazione urbana, e sono soprattutto le «piccole» città e i borghi recentemente diventati città ad aver assorbito la maggioranza della manodopera rurale costretta ad abbandonare le campagne dalle riforme successive al 1979.
Anche in Africa, alla crescita esplosiva di alcune megalopoli come Lagos (passata dai 300 mila abitanti del 1950 ai 10 milioni di oggi) si accompagna la trasformazione di decine di «piccole» città come Ouagadougou, Nouakchott, Douala, Antananarivo e Bamako, città ormai più popolose di San Francisco o Manchester.
In America Latina, mentre in precedenza la crescita era stata monopolizzata a lungo dalle principali metropoli, oggi l’esplosione demografica avviene a Tijuana, Curtiba, Temuco, Salvador, Belem e altre città secondarie che contano tra 100 mila e 500 mila abitanti.
Urbanizzazione non significa solo crescita delle città, ma anche trasformazione strutturale e crescente interazione di un vasto continuum urbano-rurale. Al contrario, il nuovo ordine urbano potrebbe tradursi in una crescente disuguaglianza all’interno delle città e tra città con dimensioni e funzioni diverse.
La dinamica dell’urbanizzazione del terzo mondo sintetizza e nel contempo contraddice le precedenti urbanizzazioni in Europa e Nord America nel xix e xx secolo. In Cina, paese essenzialmente rurale per millenni, la più importante rivoluzione industriale della storia si realizza con lo spostamento, di una popolazione pari a quella europea, dalle profonde campagne verso un habitat di grattacieli e smog.
Tuttavia, nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo, la crescita urbana non è alimentata dall’energia della potente macchina cinese dell’industria e dell’esportazione, né dal flusso costante di capitali stranieri.
In questi paesi, il processo di urbanizzazione è completamente svincolato dall’industrializzazione e da ogni forma di promozione sociale.
L’urbanizzazione
della povertà
L’esplosione delle bidonville è stata analizzata dal rapporto delle Nazioni Unite, «La sfida degli slums». Il testo, primo vero studio su scala mondiale sulla povertà urbana, comprende diverse inchieste locali, da Abidjan a Sydney, e statistiche globali che includono per la prima volta la Cina e i paesi dell’ex blocco sovietico.
Il rapporto lancia un avvertimento sulla minaccia planetaria della povertà urbana. Gli autori definiscono le bidonville come spazi caratterizzati da sovrappopolamento, abitato precario o informale, ridotto accesso all’acqua corrente e ai servizi igienici e vaga definizione dei diritti di proprietà.
Si tratta di una definizione pluridimensionale e in parte restrittiva, sulla base della quale si stima comunque che la popolazione delle bidonville ammontava nel 2001 ad almeno 921 milioni di persone. Gli abitanti delle bidonville rappresentano il 78,2% della popolazione urbana dei paesi meno sviluppati e un sesto dei cittadini del pianeta.
Se si considera la struttura demografica della maggior parte delle città del terzo mondo, almeno metà di questa popolazione ha un’età inferiore ai vent’anni.
La quota più importante di abitanti di bidonville è in Etiopia (99,4% della popolazione urbana) e in Ciad (99,4%), seguono Afghanistan (98,5%) e Nepal (92%).
Tuttavia, le popolazioni urbane più nella miseria sono certamente quelle di Maputo e Kinshasa, dove il reddito di due terzi degli abitanti è inferiore al minimo vitale giornaliero.
A Delhi, gli urbanisti deplorano l’esistenza di «bidonville all’interno di bidonville»: negli spazi periferici, alla storica classe povera della città brutalmente espulsa alla metà degli anni Settanta, si aggiungono nuovi arrivi che colonizzano gli ultimi interstizi liberi.
Al Cairo e a Phnom Penh, i nuovi arrivati occupano e affittano parti di abitazioni sui tetti, generando nuove bidonville sospese in aria.
La popolazione delle bidonville è spesso deliberatamente sottostimata, talvolta in grandi proporzioni. Alla fine degli anni Ottanta, per esempio, Bangkok aveva un tasso di povertà «ufficiale» solo del 5%, mentre alcuni studi dimostravano che un quarto della popolazione (1,16 milioni di persone) viveva nelle bidonville e in abitazioni di fortuna.
Esistono oltre 250 mila bidonville nel mondo. Le cinque grandi metropoli dell’Asia del Sud (Karachi, Bombay, Delhi, Calcutta e Dacca) ospitano quasi 15 mila zone urbane tipo bidonville, per una popolazione totale di oltre 20 milioni di persone.
Gli abitanti delle bidonville sono ancora più numerosi nella costa dell’Africa Occidentale, mentre immense conurbazioni di povertà si estendono verso l’Anatolia e gli altopiani dell’Etiopia, coinvolgono le zone ai piedi delle Ande e dell’Himalaya, proliferano all’ombra dei grattacieli di Città del Messico, Johannesburg, Manila, San Paolo e colonizzano le rive del Rio delle Amazzoni, del Congo e del Niger, del Nilo, del Tigri, del Gange, dell’Irrawaddy e del Mekong.
I nomi del «pianeta bidonville» sono tutti intercambiabili e allo stesso tempo unici nel loro genere: bustees a Calcutta, chawl e zopadpatti a Bombay, katchi abadi a Karachi, kampung a Giacarta, iskwater a Manila, shammasa a Karthoum, umjondolo a Durban, intra-muros a Rabat, bidonvilles a Abidjan, baladi al Cairo, gecekondou ad Ankara, conventillos a Quito, favelas in Brasile, villas miseria a Buenos Aires e colonias populares a Città del Messico.
Un recente studio pubblicato dalla «Harvard Law Review» stima che l’85% degli abitanti delle città del terzo mondo non possiede alcun titolo di proprietà legale. È all’opera una contraddizione stridente, perché il terreno dove crescono gli slums è di proprietà dei governi, mentre le case costruite sono in possesso degli structures owners, che impongono affitti salati ai poveri urbani e che non hanno la proprietà nemmeno della baracca in cui vivono.
I modi di insediamento delle bidonville sono molto variabili, dalle invasioni collettive estremamente disciplinate di Città del Messico e Lima fino ai complessi (e spesso illegali) sistemi di affitto di terreni alla periferia di Pechino, Karachi e Nairobi.
In alcune città, per esempio Nairobi, lo stato è formalmente proprietario della periferia urbana, ma la speculazione fondiaria permette al settore privato di realizzare enormi profitti a spese dei più poveri. Gli apparati politici nazionali e regionali contribuiscono generalmente a questo mercato informale (insieme alla speculazione fondiaria illegale) e riescono addirittura a controllare i vassallaggi politici degli abitanti e a sfruttare un flusso regolare di affitti e mazzette. Privi di titoli di proprietà legali, gli abitanti delle baraccopoli sono costretti ad una dipendenza quasi feudale rispetto a politici e burocrati locali. Il minimo strappo alla legalità clientelare si traduce con l’espulsione.
L’offerta d’infrastrutture, al contrario, è ben lontana dai ritmi di urbanizzazione, e le bidonville alla periferia della città non hanno spesso alcun accesso all’igiene e ai servizi del settore pubblico. Eppure, nonostante siano luoghi che si definiscono in termini di assenza (ciò che non hanno dice ciò che sono), le bidonville raggiungeranno i 2 miliardi di abitanti nel 2030 perché rappresentano l’unica soluzione abitativa per l’umanità in eccesso del xxi secolo.
Le grandi bidonville potrebbero trasformarsi in vulcani pronti ad esplodere? Gli abitanti possono trasformarsi in soggetto politico capace di «fare storia»?
Non è facile rispondere, molto dipenderà dalla capacità di sviluppare una cultura di organizzazione collettiva, anche se, come spiegava Kapuściński: «I poveri, di solito, stanno zitti. La miseria non piange, non ha voce. La miseria soffre, ma soffre in silenzio. La miseria non si ribella. Infatti, i poveri insorgono solo quando pensano di poter cambiare qualcosa».
Sapremmo noi essere parte di questo cambiamento?
Africa e città
In Africa la popolazione delle grandi città è aumentata di 10-12 volte tra il 1960 e il 2005. Questo incremento non è stato associato ad uno sviluppo economico correlato, anzi il Pil si è ridotto dello 0,66% all’anno. Nondimeno, le città in Africa giocano un ruolo cruciale nella crescita delle economie nazionali.
Oggi, più in generale, il tasso annuale medio di crescita della popolazione africana si aggira intorno al 4%, mentre quello delle grandi città raggiunge l’8%. Non sono più casi eccezionali quelli di città che crescono del 10% o più, specialmente là dove l’esodo rurale si accentua a causa di calamità naturali o fenomeni legati allo sviluppo disuguale del territorio. Il tasso di crescita degli insediamenti urbani precari e marginali, poi, è a volte superiore al 25% annuo.
In Africa, ogni anno, oltre cinque milioni di persone cercano nuovo alloggio alla periferia delle città. La grande maggioranza della nuova popolazione urbana sembra destinata a sopravvivere nella totale incertezza, nella precarietà, nella ricerca (priva di opportunità reali) di un miglioramento delle proprie condizioni di vita, ai margini del «grande miraggio» costituito dalla città modea.
Una città che, in Africa, si è venuta formando e sviluppando nel tempo coloniale, con una struttura urbana pianificata su modelli non africani che hanno esposto gli abitanti a un modo di vita estraneo alla realtà e alla cultura locale.
Il resto lo hanno fatto l’incuria verso le zone rurali – assenza di investimenti e di sostegno all’economia familiare, mancanza di politiche di protezione dei suoli – e assenza di investimenti in edilizia popolare nelle città.
Il primo fattore, ovvero la mancanza di progetti tesi a proteggere le aree rurali, provoca la fuga dai villaggi, determina la scelta di cercare «un altrove» dove soddisfare la pluralità di bisogni, che la vita nei villaggi non è in grado di soddisfare. Questa ricerca si concentra nella sola alternativa possibile: la città. Così, la presenza di un sistema urbano inarticolato implica e favorisce la concentrazione di popolazione verso pochissimi centri – uno o due – che devono accogliere flussi rilevanti di popolazione.
È una «crescita urbana senza città» quella che dà origine ai famigerati «slum». Spazi auto-costruiti su terreni demaniali senza che vi sia un solo mattone, dove non è passata una sola putrella di ferro e non vi si trova un solo metro quadrato di vetro. Nei paesi cosiddetti «in via di sviluppo» la bidonville accoglie i contadini rimasti senza terra e svolge un ruolo di mediazione tra città e campagna, offrendo ai suoi abitanti un «surrogato» di vita urbana, se si vuole miserabile, ma molto intensa.
Gli effetti di queste contraddizioni sono evidenti nell’espansione delle città. Si tratta di spazi  complessi in cui sono presenti molte delle contraddizioni che caratterizzano la vita del pianeta. Si tratta di città divise da tanti confini, il cui semplice attraversamento produce il senso di passaggio da una frontiera all’altra. Ma sono frontiere non semplicemente fisiche: per entrare negli slum si passa dalla frontiera della paura, mentre per accedere ai quartieri ricchi si attraversa il confine del benessere.
Le città così frammentate, invece di essere il luogo dell’incontro e dell’integrazione tra gruppi sociali diversi per livello economico, cultura e provenienza, si trasformano in una sorta di arcipelago costituito da molte isole (island),  segnate dalla qualità delle loro costruzioni, dalla presenza (o mancanza) di infrastrutture e servizi, dalle maggiori o minori condizioni di sicurezza.
Ovviamente le isole comunicano, i loro abitanti intrecciano rapporti, e una chiave di entrata da un’isola all’altra è la convenienza economica, capace di istituire relazioni e gradi di comunicazione. Ai ricchi serve la manodopera che costa poco e i poveri hanno bisogno di lavorare. Nascono così gli scambi, i subappalti, la foitura di servizi, il commercio negli slum di prodotti industriali.
Protagonista di questo flusso è il settore informale dell’economia, capace di generare posti di lavoro, reddito e capacità di risparmio per la maggioranza degli abitanti degli insediamenti informali.
Le island vivono fianco a fianco e nella quotidianità a volte si confondono, ma presentano aspetti fortemente contrastanti: ci sono island cities ricche del primo mondo ed altre povere del terzo mondo. Da un punto di vista estetico, il moderno grattacielo e la baracca sono i simboli di città-arcipelago come Nairobi, Johannesburg o, in America Latina, Rio de Janeiro.
Le island cities vivono su due livelli diversi, sia in senso stretto e sia in senso figurato. Una parte «sta in alto», legata economicamente con il resto del mondo, perché la tecnologia che sostiene la rete globale permette di lavorare e comunicare via etere. Questa parte dell’arcipelago sta al di sopra dell’altra, e spesso comunica di più in senso orizzontale, ovvero con le lontane città di pari grado, che non verticalmente con il resto della città stessa.
La parte povera dell’arcipelago invece è fortemente attaccata alla terra, perché lotta ogni giorno per appartenere a essa, sia occupando le strade con i lavori informali, sia cosruendo la propria casa, generalmente piccola per poter essere edificata nel minor tempo possibile.

Di Fabrizio Floris

Fabrizio Floris




Proibito … sognare

Ricordi del passato e realtà presente … a confronto

A 10 anni di distanza non sono molte le cose cambiate in Eritrea. Anzi, sotto alcuni aspetti la situazione è peggiorata. Rimangono intatti i ricordi dell’ospitalità goduta e le amicizie intessute nei precedenti viaggi.

Avevo un certo timore nel ritornare in Eritrea dopo 10 anni di assenza, dal momento che più volte, rivisitando alcuni paesi a distanza di tempo, ho visto aumentata la povertà e, di conseguenza, diminuita la dignità delle persone. Questa volta l’impatto è stato forte, per il numero dei mendicanti e per l’aspetto macilento e sofferente delle persone, soprattutto anziani e donne.

PER LE VIE DI ASMARA

All’Asmara sono rimasta interdetta: qualcosa è cambiato, ma non molto. La città ha conservato il fascino dell’architettura italiana del primo Novecento, anche se in periferia sono stati costruiti alti edifici in cemento.
Sui gradini delle chiese la notte si vedono dormire i bambini, ammucchiati uno sull’altro  per riscaldarsi, come fanno i gatti. Sono loro, i bambini di strada, che soffrono l’abbandono e la fame. Poi gli anziani, quelli soli, che hanno perso i figli morti in guerra; donne che restano per ore accoccolate lungo il muro della chiesa, avvolte nel velo bianco, il viso rugoso e stanco. Una di esse ha le mani rose dalla lebbra.
Nei quartieri centrali della capitale, invece, un tempo riservati agli italiani,  passano gruppi di giovani ben vestiti e studenti con le uniformi delle scuole di stato. Sono stati aperti nuovi locali,  caffè e pasticcerie; l’atmosfera è serena e anche la notte si gira per le strade in tutta sicurezza.
La polizia è sempre presente, anche in borghese. Sono più volte fermata, mentre cerco di fotografare gli edifici d’epoca coloniale, rimasti intatti, ora passati allo stato e utilizzati come uffici pubblici.
Nei nuovi negozi di elettronica e di elettrodomestici, come pure nelle farmacie, c’è abbondanza di prodotti impensabili 10 anni fa. I numerosi  internet café sono affollati, anche se per avere una connessione ci vogliono ore. Ho aspettato inutilmente in fila per inviare un messaggio a casa; ho anche provato con difficoltà a collegarmi  per telefono. Questo paese mi pare il più isolato e chiuso: la gioventù sogna di aprirsi e comunicare col mondo e il regime blocca ogni aspirazione e movimento. Gli stranieri, poi, sono sorvegliati speciali: per muoversi da una città all’altra occorre il permesso della polizia.
Il settore indigeno di Asmara è rimasto intatto, con i mercati e il caravanserraglio denso di attività, rumori e odori. Sono salita  sulla collina di Nda Mariam: la cattedrale ortodossa al tramonto è un trionfo di luce e colori. Vecchie grinzose, sedute contro il muro della torre, si godono l’ultimo sole, curiose di vedermi tra loro. Rimango incantata, come tanti anni fa, osservando i fedeli  prostrati davanti il portale e quelli che pregano col capo appoggiato al muro. Passa un sacerdote e una donna si inchina a baciare la croce.
Le ombre si allungano e il vasto piazzale è un’oasi di serenità, con i muri fioriti, il via vai di fedeli tra i vari edifici, ideati da un italiano, ispirato, nella sua opera di architetto,  dai motivi tradizionali eritrei.

FRANCO RITORNA

Franco è appassionato di internet, di fotografia e della Dankalia, regione estremamente inospitale, situata in una depressione tra il Mar Rosso e l’Etiopia; terra di vulcani e laghi salati, che conosce molto bene. Sta preparandosi alla prossima spedizione, con un gruppo di antropologi toscani che da anni studiano e ricercano le tracce di uomini primitivi.
Italiano naturalizzato eritreo, Franco è nato e vissuto qui fino al 1973, quando gli italiani vennero espulsi. «Mio nonno, originario  della provincia di Lecco, giunse in Africa nel 1890 con l’intenzione di raggiungere il Congo. Sbarcato a Massawa, si arrampicò a dorso di mulo fin sull’altopiano e in Congo non ci arrivò mai, perché decise di stabilirsi qui, all’Asmara». Franco parla arabo e tigrigno, ha frequentato le scuole italiane e conosce quasi tutti in città. Appena ha potuto è ritornato in Eritrea, per nostalgia del paese e anche perché in Italia aveva trovato difficile inserirsi.
Con internet ora si può collegare con gli amici italiani e lavorare sulle impressionanti foto prese nella depressione dancala.
Parte della casa di famiglia è stata venduta; ora gli rimangono poche stanze; ma il piccolo giardino è un orto botanico, curato da Franco con vera passione in questo bel clima di eterna primavera. Piante endemiche e altre esotiche come l’araucaria e la ginko, che non so come potranno trovare spazio per svilupparsi. La jacaranda è stata potata drasticamente, perché copriva tutto il tetto, che dovrebbe essere riparato. Durante la stagione estiva delle piogge, la lamiera arrugginita lascia filtrare l’acqua, che gonfia pareti e soffitti.

SUOR ZAUDI

Le ho telefonato e lei ha subito deciso di raggiungermi all’Asmara, prendendo la prima corriera da Keren, dove lavora con le orfane. Ci eravamo conosciute proprio a Keren, nel ’95, durante il viaggio che avevo fatto con i padri cappuccini per raggiungere il bassopiano e seguire le feste tradizionali di Tesseney e Barentu.
L’anno successivo ero ritornata per restare più a lungo con queste meravigliose suore di Sant’Anna e apprezzare il loro prezioso lavoro. Mi ero anche presa la malaria, un’esperienza forte, che  mi aveva fatto capire il paese e la sua gente meglio di tanti viaggi. Quando pochi anni dopo  suor Zaudì venne mandata a Roma per studiare, mi raggiunse a Torino per un periodo di vacanza.
Abbiamo tante cose da dirci e da ricordare. Le bambine di casa Foca,  le orfanelle di Keren che avevo conosciuto allora, sono sposate con figli e Zaudì ha sempre lo stesso sorriso dolcissimo. Parliamo di Akrur, il remoto villaggio con la bella chiesa di san Giustino, che avevo visitato con le sue consorelle e dove avevo deciso di costruire un pozzo per portare l’acqua. Pare che la situazione sia molto migliorata per gli abitanti, ma è difficile poterlo raggiungere, non ci sono mezzi pubblici e occorre un fuori strada.

VIAGGIO A MASSAWA

Alganesh  mi ha tenuto un posto accanto a lei, in prima fila sul pulmino di fabbricazione giapponese che ci porterà a Massawa. Ha 24 anni e l’aspetto di una donna forte e indipendente. Il viaggio dura poco più di tre ore, con la sosta a Ghinda per un tè.
Sono scomparse le vecchie corriere, importate dall’Italia e molto malandate, e lontano è il ricordo del mio primo viaggio, nel 1995, durato 11 ore a causa di lavori in corso. La strada è stata allargata e consente di andare veloci, lungo i tornanti che scendono ripidi tra i monti aridi e pietrosi. Babbuini curiosi ci osservano tra le acacie; passano piccole carovane con cammelli e capre. Donne ricurve trasportano sul dorso mucchi di legna, taniche d’acqua riempite alle rare fonti.  Intanto sul pulmino vedo salire e scendere contadini e pastori, che approfittano di brevi passaggi. 
Alganesh è felice di raccontare la sua vita. Due anni e mezzo di duro servizio militare le hanno consentito di accedere poi alla facoltà di economia, laurearsi e ottenere un posto di lavoro statale.
Domani è domenica, 7 gennaio, natale per gli ortodossi. Alganesh, come gli altri viaggiatori, sta ritornando a casa dai suoi per festeggiare e mi invita a unirmi alla sua famiglia, per il pranzo tradizionale. Pochi saranno in grado domani di uccidere l’agnello, i prezzi sono saliti troppo, ci si accontenta di shirò e ngera, con contorno di verdure.

MASSAWA

Ho trovato l’antica città silenziosa e melanconica. Nel ’95, terminata la guerra con l’Etiopia, ero rimasta affascinata da quest’isola, duramente colpita dai bombardamenti. Era piena di calore, di odori, di gente affaccendata. Si iniziava allora a restaurare le preziose case di madrepora, in stile arabo-turco. Ora vedo che gran parte delle case è in uno stato penoso di abbandono e alcune stanno per crollare.
Hanno spianato la zona del lungomare, dove sorgevano i capannoni delle barche e alcune belle case. Molta gente deve essersi  spostata in terraferma, dove è sorta una vasta zona di baracche, fatte di assi, corde e lamiere.
Questa sera c’è la luna piena, momento magico per questa città. La luce bianca fa risaltare i merletti dei palazzi, nascondendone le ferite.
Trovo un solo uscio aperto sulla via, con una donna intenta a preparare la cerimonia del caffè. Ricordo il profumo dell’incenso che riempiva i vicoli, ancora pieni di vita. Io sostavo, invitata a gustare il caffè, seduta su piccoli sgabelli accanto a mamme occupate a dare l’ultima poppata al loro piccolo.
Brhane non lavora più al bar Savoia, che trovo già chiuso. Ci incontriamo al molo, dove ora fa il guardiano, la notte. Fatica a riconoscermi, poi ci abbracciamo. Chiedo della figlia, allora era una ragazzina bella e gentile, unica superstite della famiglia. La moglie e i quattro figli di Brhane furono uccisi dalle bombe etiopi.
«Portala in Italia con te!» mi aveva supplicato allora, questo vecchio malconcio, i denti guasti e gli occhi malati. È magrissimo, sotto gli abiti logori da far paura. Ora ci sono quattro bimbi da crescere e il marito della figlia è scappato in America e non si fa più sentire.
Situazione che pare essere comune oggi nelle giovani famiglie, dove gli uomini sono costretti a fare il servizio militare e appena possono scappano. Chi riesce a raggiungere il Sudan e successivamente la Libia, si dirige verso le coste italiane. Disperati, ma decisi a fuggire da un paese che non vuole ancora parlare di pace.  La frontiera con l’Etiopia non è definita e la guerra incombe. Dovevano esserci libere elezioni, dieci anni fa. Il presidente è sempre lui, combattente eroe di guerra, che ora si può definire un dittatore.
 Taulud è  l’isola degli edifici eleganti, dove gli italiani avevano le ville più belle. Quella dei Melotti, proprietari della famosa fabbrica di birra, è stata rasa al suolo solo l’anno scorso. Un dispetto? Direi un gran peccato, era opera di un bravo architetto, in stile africano, sul mare, con molo privato e parco. Accanto c’è la villetta dove il presidente trascorre i fine settimana e le vacanze, ma non mi posso avvicinare, la polizia mi ferma.
Il palazzo del sultano ha squarci nelle cupole e lo scalone va in rovina. Il degrado pare irrimediabile, ma qualcuno ha autorizzato un’impresa coreana a costruire non lontano due orribili edifici a sei piani, in cemento armato grigio.
Una piacevole sorpresa è stato il pronto soccorso dell’ospedale, dove ho trovato assistenza gratuita in un ambiente moderno e pulito per un piccolo incidente avuto sulle isole. Sono stati costruiti ospedali nuovi di stato anche all’Asmara, Ghinda e Keren. Bisogna riconoscere che per la sanità, come per i trasporti pubblici,  c’è stato un grande sforzo da parte del governo. Le spese militari sono comunque molto pesanti e condizionano l’economia del paese.

L’ISOLA VERDE

«Il mio paese ha sempre fatto una politica imperialistica, di aggressione: dalle Filippine al Sud America, poi il Vietnam e ora l’Iraq». Michel viene da Berkley, Califoia, e ha le idee chiare in fatto di politica. Esperto in energia alternativa, lavora per il governo eritreo nell’installazione di  pannelli e collettori solari per portare l’elettricità nei villaggi più remoti.
Ci siamo incontrati sull’Isola Verde, un lembo di sabbia che affiora nel mare di fronte a Massawa. Un luogo magico, dove numerose colonie di uccelli marini vivono e nidificano indisturbate.
Il rudere di un’antica moschea è circondato da dense mangrovie e si specchia sul mare che racchiude le meraviglie della barriera corallina. Siamo sbarcati qui dopo aver attraversato in pochi minuti il canale che ci separa dalla città, ancora ingombro di relitti della guerra. Michel e i suoi colleghi sono felici di essere in Eritrea, un paese così diverso dagli altri paesi africani, affascinante per i ritmi sereni di vita e per l’atmosfera ancora italiana delle città.

ISOLE DAHALK

È un arcipelago al largo di Massawa, con una lunga storia: contese a lungo tra abissini e arabi, le isole furono nei secoli un importante scalo per le navi dirette in India, luogo di confino per gli avversari dei califfi e successivamente centro di studi coranici.
Il tempo è molto brutto, tira vento, il mare è mosso, tanto che anche il cuoco, un anziano sottile dal viso rugoso, soffre il mal di mare. Arriva da Assab e ha sempre lavorato su grandi bastimenti.
La nostra è una piccola barca a motore. Portiamo con noi tende e rifoimenti per poter trascorrere quattro giorni sulle isole, che emergono di pochi metri dalla superficie del mare, banchi di sabbia corallina, circondate da barriere ricchissime di vita.  Il plancton è molto abbondante e  i pesci colorati hanno dimensioni enormi. Trigoni, squali e tartarughe sono frequenti da osservare, ma bisogna sapere bene dove immergersi.
Ci fermiamo a Dissei, l’unica delle isole Dahlak di origine vulcanica.  Un minuscolo villaggio di poche capanne è abitato dagli afar, gente proveniente dalla Dankalia.
Ho portato con me la foto scattata qui dieci anni fa. Barbarossa, il capovillaggio,  era seduto davanti alla capanna e mi offriva polipo fritto in una ciotola. Ora non c’è più, è morto due anni fa; ma sua figlia mi vuole vedere e mi invita nella sua casa, fatta di pali di acacia contorti. La cucina è separata dalla camera, dove ci sono due letti alti, in legno e stuoia, con le leggere coperte bianche ricamate a punto croce; letti identici a quelli visti nelle case di Zebid e Hays, nello Yemen. La regione yemenita della Tihama e l’Eritrea si affacciano sullo stesso mare e da sempre hanno avuto rapporti culturali e commerciali.
Gli uomini parlano italiano: da piccoli erano stati mandati a studiare a Massawa, nelle scuole elementari delle suore di Sant’Anna.
Dall’altra parte dell’isola si intravede un villaggio turistico in costruzione, fatto da capanni in cemento. Forse il turismo potrebbe aprire la società eritrea, ma la gente del luogo è sospettosa: si dice che tale progetto appartenga a un eritreo, arricchitosi in Italia con la gestione di una larga rete di venditori ambulanti, e sia appoggiato dal fratello di un politico italiano, amico del presidente eritreo.   n

Claudia Caramanti




Che sia la volta buona?

Conferenza internazionale per la regione dei Grandi laghi

Burundi, ottobre 1993. Poi Rwanda e ancora le guerre del Congo. Conflitti che hanno coinvolto decine di stati e fatto milioni di vittime. Crocevia di interessi minerari, traffico di armi e milizie mercenarie. Area di frizione tra influenze (straniere) linguistiche. L’instabilità nella regione era diventata endemica. Oggi con un patto a 360° i capi di stato africani cercano di voltare pagina.

Un importante patto sulla sicurezza, stabilità e sviluppo della regione dei Grandi laghi, firmato da otto capi di stato e di governo. È il risultato del secondo summit della Conferenza internazionale per la regione dei Grandi laghi, svoltasi a Nairobi dal 13 al 16 di dicembre scorso.  Anche l’Unione Africana ha partecipato con il presidente della Commissione, Alpha Omar Konaré, mentre era presente il rappresentante speciale delle Nazioni Unite per la regione dei Grandi laghi, Ibrahima Fall e quello dell’Unione europea.
È il secondo vertice ai massimi livelli organizzato per questo scopo. I responsabili sono finalmente giunti ad un accordo che, se messo in pratica, può portare ad una convivenza politica, sociale, economica e un completo accordo sul come raggiungere la meta prefissa. 

Un po’ di storia

Con due risoluzioni nel 2000 le Nazioni Unite avevano chiesto una Conferenza internazionale su pace, sicurezza, democrazia e sviluppo nei Grandi laghi. Regione, dal 1993, devastata dai conflitti (Burundi, Rwanda e infine Congo). I paesi chiamati a partecipare furono undici, a causa delle implicazioni inteazionali che avevano assunto le guerre in questa regione: oltre a Burundi, Rwanda, Congo, Uganda, Kenya e Tanzania, anche Angola, Sudan, Repubblica del Congo e Repubblica Centroafricana e Zambia. Altri sette i paesi «co-optati»: Botswana, Egitto, Etiopia, Malawi, Mozambico, Namibia e Zimbabwe. I primi incontri si erano svolti nel 2003 e il primo summit a Dar es Salaam, capitale della Tanzania, nel novembre 2004, dopo 4 anni di lavoro diplomatico.

Incidenti collaterali

Purtroppo il giorno prima della firma dei capi di governo per l’approvazione del documento finale, in Kenya si è verificata nel distretto dei Turkana un’ invasione di banditi provenienti dal distretto West Pokot, sul confine con l’ Uganda, in cui sono state massacrate 19 persone, oltre 6.500 capi di bestiame rubati, case e capanne distrutte. I banditi si sono divisi in due gruppi: uno per rubare il bestiame e condurlo nel distretto West Pokot, e l’altro difendeva i ladri a colpi di Kalashnikov. Più di venti abitanti del villaggio di Lorengipi sono in cura in diversi ospedali del distretto dei Turkana, alcuni in serie condizioni. Per un momento è sembrato che tutto dovesse crollare, che questo attentato brutale dovesse porre termine alla Conferenza, senza plausibili conclusioni, ma il presidente del Kenya, Mwai Kibaki, ha detto che se i banditi credono di fermare il progresso della Conferenza con le loro razzie e uccisioni, hanno fatto i conti sbagliati. «Nulla  – ha affermato Kibaki – fermerà questo processo di sicurezza, di pace, di progresso».
Oltre al presidente del Kenya gli altri capi di stato presenti erano: Jakaya Mrisko Kilwestern della Tanzania, Levy Mwanawasa dello Zambia, Yoweri Museveni dell’Uganda, Pierre Nkurunzia del Burundi, Joseph Kabila della Repubblica democratica del Congo, Beard Makuza,  primo Ministro del Rwanda. Il rappresentante delle Nazioni Unite, a nome del Segretario Generale  uscente Kofi Annan, ha aperto la conferenza dicendo che «la Regione dei Grandi laghi è stata vittima delle più brutali guerre civili del continente», e si è augurato che «tutti gli stati sentano questo problema come il proprio problema. Voi avete definito le priorità di questo impegno, e voi dovete trovare vie e mezzi per lavorare assieme e risolverlo». Nel messaggio Kofi Annan ha detto: «Questo accordo non è solo una visione, è un programma. Milioni di persone – donne, giovani, rifugiati, sfollati – stanno guardandovi e guardandoci e aspettano benefici concreti. Richiamo i paesi della regione a continuare a mostrare padronanza del processo».

Di cosa si è parlato

L’interesse dei capi di stato era rivolto a quattro aree di vita dei loro paesi e delle relazioni con i paesi confinanti. Si è discusso di pace e sicurezza, democrazia e buongoverno, sviluppo economico e integrazione regionale, questioni umanitarie e sociali. Nella discussione su queste quattro aree c’è stata molta correttezza e anche molta onestà. Nonostante qualche momento critico come quando i presidenti Museveni e Kabila si sono scambiati forti accuse e condanne per il loro operato nel Congo. Museveni ha accusato alcuni governi,  soprattutto quello di Kabila, di dare ospitalità e di difendere «gruppi ribelli». «Il problema di nazioni che danno ospitalità e si schierano con le milizie, deve essere discusso ora nel modo più categorico». Ha proposto un emendamento al testo del decreto finale, in cui si dichiara che «qualsiasi stato che dà ospitalità a ribelli, sia trattato come tale».

Servono soldi

Un altro punto di divergenza è stato il sostegno finanziario necessario per tutto ciò che si approva. Alcuni hanno chiesto che gli stati stessi siano totalmente obbligati a finanziare tutte le iniziative approvate, altri invece sostengono che questo sarebbe impossibile senza aiuti estei. Il presidente della Tanzania è riuscito ad armonizzare le due parti dicendo: «Il fondo monetario richiede una enorme quantità di capitali. Nutro la speranza che noi saremo i primi a contribuire sostanzialmente al fondo, anche come segno di determinazione politica. Ma, riconoscendo i nostri limiti finanziari, dobbiamo anche chiedere aiuti alle nazioni e agenzie che considerano importante questo passo, determinante per la pace e il progresso nella nostra regione».
Gli stati dei Grandi laghi s’impegnano a dar vita a un centro che promuova la democrazia nella regione e ristori la legge dell’ordine. Dovrà pure controllare che il patto approvato dai capi di stato, sia eseguito da tutti gli stati e in tutti i suoi particolari. Dovrà preparare programmi di educazione alla democrazia e alla partecipazione alla vita democratica dei loro paesi. Un’altra responsabilità del centro è quella di aiutare i governi a risolvere pacificamente le loro divergenze.
Un fondo monetario di 225 milioni di dollari è stato approvato. Lo scopo è di promuovere lo sviluppo, l’integrazione economica e ricostruire le istituzioni distrutte da anni di guerre, specialmente nel Burundi, Rwanda e Repubblica Democratica del Congo.
Tutti gli stati presenti s’impegnano a disarmare e ad espellere i gruppi di ribelli che ancora si nascondono in certe zone, e operano contro altri stati limitrofi. Il testo è molto forte e impegnativo. Dice: «Gli stati membri sono d’accordo che qualsiasi attacco contro uno o più di loro dovrebbe essere considerato come un attacco contro tutti loro. Se questo succede, ogni membro, nell’ambito della difesa individuale e collettiva, assisterà gli stati attaccati».
Gli stati del Kenya, Uganda e Sudan s’impegnano a disarmare i gruppi di pastori e nomadi delle loro aree semi-deserte.
Altri temi considerati anche se brevemente, sono stati la situazione delle donne e delle ingiustizie generalizzate e l’epidemia di Aids.
I capi di stato sono determinati a rispondere in modo responsabile per proteggere le popolazioni da genocidi, crimini di guerra, la decimazione di etnie, crimini contro l’umanità e severe violazioni dei diritti umani commessi da, o entro uno degli stati che hanno approvato l’accordo.
«La regione dei Grandi laghi ha problemi di sfollati, violenza sessuale, aids, e altre malattie sociali» ha ricordato il presidente Kibaki. Un protocollo del patto rende obbligatorio agli stati di proteggere, aiutare e cercare soluzione per gli sfollati, stimati a 9,5 milioni nella regione.
I rappresentanti della chiesa cattolica, presenti alla Conferenza, sono stati molto soddisfatti del patto approvato per la sicurezza, stabilità e sviluppo nella regione dei Grandi laghi. Secondo i vescovi presenti, l’iniziativa presa dai capi di Stato «offre una possibilità di iniziare un processo di riconciliazione che la chiesa pienamente approva». I vescovi hanno anche fatto appello alle popolazioni che nel passato hanno sperimentato guerre, ingiustizie, razzie, a  «perdonare e riconciliarsi gli uni con gli altri, nell’interesse di una pacifica convivenza».

Dopo la firma la parte più difficile

Al termine del summit, tutti i capi di stato si sono ritrovati unanimi nell’ammettere che il patto è stato un passo decisivo per la pace, il benessere e la cooperazione nella regione dei Grandi laghi. Tutto vero sulla carta ma le sfide restano enormi. Quella della messa in opera del patto, il Kenya lo sta già violando, negando l’entrata dei rifugiati somali; la sfida del contributo delle nazioni ricche al fondo per le realizzazioni; la sfida della «moralità» nella gestione di quei fondi.
«Penso sia possibile chiudere questo triste capitolo della storia della nostra regione – ha dichiarato il presidente Kikwestern – un capitolo caratterizzato da conflitti, insicurezza, instabilità politica e perdita di opportunità economiche».

di Antonio Bellagamba

Antonio Bellagamba




Opportunità e pericoli per l’«homo technologicus»

Introduzione

Qualche settimana fa, ho ricevuto dall’Angola, via posta elettronica,
un video del dottor Nando Campanella, il medico che a suo tempo vinse
il nostro «Premio Carlo Urbani» e che oggi lavora in Africa per
l’Organizzazione mondiale della sanità (http://www.afro.who.int/).
Nando è un esperto di telemedicina e, ovunque vada a lavorare, cerca di
coniugare le sue conoscenze mediche con quelle tecnologiche. L’e-mail è
uno strumento che ha rivoluzionato il modo di comunicare, abbattendo le
distanze e il tempo (ma quasi sempre anche la poesia). Personalmente,
non riesco più a fare a meno, anche perché la posta elettronica è ormai
diventata indispensabile per il mio lavoro. Tuttavia, vivo senza
telefonino. Una cosa, questa, talmente inusuale che, quando lo
confesso, nessuno mi crede.
Verso le nuove tecnologie ho un rapporto di accettazione, ma allo
stesso tempo di sospetto. Ad esempio, in quanto ambientalista
(convinto), mi infastidisce molto vedere i prodotti tecnologici durare
sempre meno, non tanto perché non funzionino più quanto perché vengono
superati da altri più aggioati e di cui – come ci fanno credere
pubblicità martellanti ed invadenti – sembra non si possa fare a meno.
Purtroppo, computer, telefonini, videoregistratori, televisori,
stampanti e quant’altro si trasformano in rifiuti altamente inquinanti
e di difficile smaltimento. In media, in Europa ogni cittadino produce
20 (venti!) chilogrammi di spazzatura elettronica all’anno. La
direttiva europea (http://europa.eu/) sui «Rifiuti di apparecchiature
elettriche ed elettroniche» (Raee), in inglese Waste from electrical
and electronic equipment (Weee), non sembra essere adeguata all’entità
del problema. Gli europei (con gli italiani nelle primissime posizioni)
cambiano il proprio cellulare in media ogni 15 mesi. Quanti di essi
sanno che i telefonini contengono cassiterite e tantalio (coltan) e
che, per avere questi metalli, nella martoriata Repubblica del Congo si
combatte, si sfrutta, si commette ogni genere di violenza?  

Quando si viaggia nel Sud del mondo si incontrano sempre più spesso
internet cafè. Dunque, la tecnologia arriva veramente ovunque? Lascio
la risposta a Geneviève Makaping, antropologa del Camerun, che al
Convegno di Mani Tese (http://www.manitese.it) ha tristemente
sintetizzato la situazione: «In Africa i miei nipotini hanno il
telefonino ma nessuno li chiama. Hanno la parabola satellitare ma la
usano per scegliere il paese in cui emigrare. Le ragazze vanno nei
tanti internet cafè per contattare uomini che le portino in Europa,
dove finiscono sulle strade a prostituirsi». Quella della professoressa
Makaping è una provocazione, anche se non troppo lontana dalla realtà.
Vale la pena di ricordare che l’analisi svolta da The Economist
(http://www.economist.com), la bibbia del capitalismo mondiale, sulle
nuove tecnologie informatiche e della comunicazione nei paesi poveri
arrivava a questa conclusione: «Un computer non serve se non hai cibo,
non hai elettricità e non sai leggere. (…) La telefonia mobile è la
tecnologia con il più grande impatto sullo sviluppo» (10 marzo 2005).
Altro problema delle nuove tecnologie è la loro invasività. Oggi si
diffondono i microchip polifunzionali che si  impiantano sotto
pelle (come il Rfid, Radio frequency identification, che identifica
automaticamente e a distanza persone, animali e oggetti). E domani che
sarà? Ecco perché sono d’accordo con le preoccupazioni espresse dal
professor Umberto Galimberti («Psiche e techne. L’uomo nell’età della
tecnica», Feltrinelli 2000): «Non c’è più nessuno che sia in grado di
controllare la tecnica, ma è la tecnica a divorare gli uomini, compresi
quelli che hanno il potere di immettere nel circuito le informazioni.
Essi infatti devono tener conto dei gusti degli utenti e questi gusti a
loro volta sono indotti dal mezzo. Insomma nel conflitto tra uomo e
macchina perde sempre l’uomo».
Un altro filosofo, il francese Jean Baudrillard, non vede affatto bene
questa invasione della tecnologia: «La peculiarità dell’essere vivente
è di non arrivare al limite delle sue possibilità, mentre l’oggetto
tecnico fa il contrario: esaurisce le sue possibilità e le dispiega a
dispetto di tutto, anche dell’uomo, determinando più o meno a lungo
termine la sua scomparsa. (…) Non c’è analogia più bella, per
illustrare questo passaggio all’egemonico, della fotografia diventata
digitale, liberata nello stesso tempo dal negativo e dal mondo reale. I
due passaggi, naturalmente su scale diverse, hanno conseguenze
incalcolabili. Significano la fine di una presenza singolare
dell’oggetto, visto che può essere costruito digitalmente. Fine del
momento singolare dell’atto fotografico, perché l’immagine può essere
immediatamente cancellata o ricomposta. Fine della testimonianza
irrefutabile del negativo».

Ogni fine anno Time, il noto settimanale Usa (http://www.time.com),
sceglie il personaggio che, a suo dire, più ha segnato l’anno appena
concluso.
La copertina dell’ultimo numero del 2006 raffigurava un computer a
schermo piatto su cui si riflette l’immagine del lettore, perché
«L’uomo dell’anno sei tu. Sì, sei proprio tu. Tu controlli l’era
dell’informazione. Benvenuto nel tuo mondo». Insomma, l’anonimo utente
di internet sarebbe il cuore della «nuova democrazia digitale».
L’enfasi di Time arrivava a tal punto da titolare un articolo: Power To
The People, Potere al popolo. Ironia della sorte, proprio nei giorni
dell’uscita di questo numero si scopriva che i servizi segreti degli
Stati Uniti potranno mettere il naso nelle e-mail e nelle transazioni
delle carte di credito dei passeggeri europei che vanno negli Stati
Uniti. Ad ulteriore conferma dell’ambiguità delle nuove tecnologie e
della pericolosità di una loro adozione acritica.
Non è certo, infine, se la scelta del settimanale Time sia stata
completamente autonoma o piuttosto influenzata da interessi
commerciali. Questo è forse il punto centrale della questione: dove
finisce l’utilità di una nuova tecnologia e dove inizia il consumismo
ingiustificabile e insostenibile?

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Tristi le  mille colline

Esperienza estiva di un gruppo di giovani di Reggio Emilia

Da oltre 40 anni la diocesi di Reggio Emilia è legata alla chiesa rwandese. Tra le varie iniziative figura anche l’invio di gruppi giovanili desiderosi di fare esperienze di missione. Quello guidato dal padre Moreschi ha animato oltre 700 giovani di ogni etnia, gettando un seme di speranza in un  paese che non è ancora riuscito a liberarsi dall’incubo.

«Paese dalle mille colline», come è spesso definito, il Rwanda si trova a un grado e mezzo sotto l’Equatore, schiacciato tra Tanzania e Congo, Uganda e Burundi, con cui costituiva un territorio unico durante il periodo coloniale.  Grande come la Sicilia, è popolato da quasi 9 milioni di abitanti. La scorsa estate vi ho trascorso tre settimane, insieme a un gruppo di giovani della diocesi di Reggio Emilia per un campo di esperienza missionaria. 
Il legame tra la diocesi di Reggio e il Rwanda risale al 1969, quando vi approdò padre Tiziano Guglielmi, missionario reggiano della congregazione dei Padri Bianchi. Tale legame è diventato sempre più forte, anche dopo la morte del missionario, avvenuta il 19 maggio 1980 in un incidente aereo alle pendici del vulcano Bisoke, nel nord del Rwanda. Anzi, proprio tale disgrazia ha portato alla costituzione del gruppo «Amici del Rwanda. Padre Tiziano», per continuare le opere avviate dal missionario reggiano nella missione di Rwamagana, realizzando la costruzione di una scuola, un centro ospedaliero, la casa per le suore e un’altra per i volontari.
La guerra civile dell’aprile-luglio 1994 e conseguente genocidio ha costretto il gruppo e la diocesi a interrogarsi sul loro ruolo nel futuro del paese martoriato. Don Luigi Guglielmi, fratello di padre Tiziano e all’epoca direttore della Caritas diocesana, volle avviare un progetto che coinvolgesse più direttamente la diocesi reggina e fosse segno di speranza e di solidarietà con la popolazione e la chiesa rwandese.
Nasceva così, nel 1995, il primo progetto Amahoro (pace, in lingua rwandese) a Munyanga, nella diocesi di Kibungo: una casa-famiglia per accogliere i bambini rimasti senza genitori. Tale progetto non si limita a fornire le strutture materiali, si traduce soprattutto in una esperienza di comunità tra volontari italiani e rwandesi, condividendo insieme la vita quotidiana, orientamenti e scelte per l’avanzamento del progetto.
Oltre un centinaio di volontari italiani si sono avvicendati per assicurare il servizio della casa Amahoro e per aprie di nuove in altri luoghi, come a Kabarondo e Bare. A questi volontari si sono presto uniti anche gruppi giovanili, desiderosi di fare esperienze missionarie e realizzare progetti minori attraverso campi estivi di qualche settimana.

Anche il 2006 ha visto partire da Reggio Emilia due delegazioni di volontari. La prima, all’inizio dell’anno, aveva il compito di aggiustare delle pompe che si erano bloccate; la seconda, ad agosto, era il nostro gruppo di giovani, che ha trascorso una ventina di giorni nella missione di Munyaga. Abbiamo animato una marea di ragazzi, fino a 700 in alcune giornate dedicate a un campo estivo. Altri giorni sono stati impegnati nella costruzione di case di fango per i poveri, sotto la direzione di suor Bea, una religiosa belga in Rwanda da una vita.
Naturalmente abbiamo avuto anche il tempo per conoscere la situazione del paese. Il Rwanda è un paese con una storia gloriosa e splendide tradizioni; geograficamente bello e godibile per il clima e fertilità del suolo; non ha pascoli in abbondanza, ma sufficienti a sfamare molte mandrie di mucche dalle coa spropositatamente grandi.
Un’eterna primavera sembra regnare nel paese dalle mille colline, irrorate da piogge regolari, incastonate da molti laghi, piccoli e grandi (Kivu, Bulera, Ruhongo, Rweru, Muhazi e l’immenso Vittoria) e solcato da numerosi fiumi, due dei quali, che alimentano il lago Vittoria, sono ritenuti come le vere sorgenti del Nilo.
La gente è buona e laboriosa. L’intero territorio è coltivato come un giardino, tutto a mano, anche le colline più scoscese, con un ingegnoso sistema di terrazze.
Sulla brillantezza del paesaggio, però, incombe la tristezza infinita della gente. Le ferite aperte dall’eccidio, a più di 10 anni di distanza, non sono ancora rimarginate. La gente sembra avere ancora stampate negli occhi scene orrende di cui è stata testimone. Tutti gli adulti che abbiamo incontrato in quei 20 giorni ci hanno raccontato storie tristi, perché tutti hanno avuto la pertita di uno o più familiari. Una signora rwandese, sposata a un italiano, ha perso i genitori e un fratello con tutta la sua famiglia. Questo fratello, per non finire sotto i colpi di macete, si è gettato nel fiume insieme alla moglie e ai figli.
Le iniziative per ricostruire la convivenza civile e la riconciliazione sono molte. Il tribunale internazionale con sede ad Arusha (Tanzania) ha già emesso sentenze esemplari contro chi si è macchiato di delitti contro l’umanità e continua il suo lavoro fra tante difficoltà finanziarie e logistiche; i tribunali tradizionali, chiamati «gachaca», cercano di promuovere la riconciliazione; il governo vuole imporre la pace e l’unità nazionale usando il pugno di ferro e violando i diritti umani più elementari.

Visitando i «luoghi della memoria» sparsi su tutto il territorio, questo momento nero della storia rwandese risulta anche più tragico e indimenticabile.
Nella chiesa di Ntarama, per esempio, dove furono uccise oltre10 mila persone, si respira ancora l’odore della morte. I teschi delle vittime sono raccolti negli scaffali; sul pavimento ci sono vestiti e scarpe e contenitori di plastica lasciati dalle vittime. Sulle pareti della chiesa si è cominciato a scrivere la lunga lista di 10 nomi. Non difficile immaginare l’atmosfera di tristezza che pervade la gente del villaggio.
Di luoghi della memoria come questi è piena la nazione. Altra meta d’obbligo è Nyamata. Durante la guerra civile vi operava padre Joaquim Vallmajo, spagnolo, assassinato perché parlava troppo dei soprusi dei soldati del Fronte patriottico rwandese. Vicino al cippo che ricorda il missionario spagnolo c’è la tomba della volontaria italiana Antonia Locatelli, anche lei uccisa con una pallottola in bocca, nel 1992, per aver telefonato all’ambasciata del Belgio e a emittenti radio inteazionali (Bbc e  Rfi) dando l’allarme di quanto stava succedendo sotto i suoi occhi: il massacro di 300-400 tutsi. Il giorno seguente a tale appello fu uccisa davanti a casa da un gruppo di interahamwe (milizie speciali hutu) venuto appositamente da Kigali. Grazie a lei, però, il mondo fu informato e la polizia fu costretta a intervenire e a porre fine alla carneficina.
Anche con una breve permanenza nel paese ci si accorge che il Rwanda non è ancora uscito da una esperienza così tragica; il demone dell’odio e della divisione ha radici antiche. La popolazione è laboriosa, intelligente e pacifica, ma nel suo interno rimangono frange di estremisti che spingono allo scontro frontale. Per questo si incontrano dappertutto posti di blocco molto noiosi. Suor Bea e suor Mary Amè ci dicono che sono gli stranieri a essere sotto stretto controllo, ma in generale è tutta la popolazione rwandese a vivere sotto stretta sorveglianza.
A parte questo, tutto sembra rientrato in una discreta normalità. La gente cammina per le strade a piedi come un fiume perenne, dato che il traffico automobilistico nella zona rurale è  molto limitato. Kigali, la capitale, brulica di gente indaffarata, i negozi sono pieni di prodotti di ogni genere, anche quelli occidentali.

Kibeho non è solo un luogo della memoria, ma è diventato il simbolo del dolore assoluto, nel cuore dell’Africa dei massacri. Vi abbiamo incontrato una delle veggenti alle quali la Madonna, sarebbe apparsa più di una volta a partire dal 28 novembre 1981.
I protagonisti sarebbero sette. Ma la chiesa ha riconosciuto solo le apparizioni alle prime tre veggenti, studentesse delle scuole magistrali in un collegio cattolico. I messaggi consegnati alle tre giovani non si discostano da quelli di altre apparizioni mariane: invito alla preghiera, alla conversione e alla penitenza salvifica. Ma ciò che fa di Kibeho un evento particolarmente impressionante è che, il 19 agosto 1982, i tre veggenti ebbero la visione dei massacri che ci sarebbero stati di lì a pochi anni in Rwanda. «Abbiamo visto gente che si uccideva, corpi decapitati, fiumi di sangue lungo le strade» raccontavano i veggenti.
Inizialmente le apparizioni furono accolte con sospetto e scetticismo; i più benevoli pensavano che gli orrori annunciati riguardassero il Burundi. Poi, dopo 7 anni di indagini e il lavoro di una commissione medica internazionale, il vescovo approvò il culto della Vergine e la costruzione di una chiesa dedicata alla Madonna dei dolori.
E proprio in quella chiesa, il 7 aprile 1994, si rifugiarono circa 20 mila tutsi e hutu moderati. I tutsi che  si trovavano in chiesa vennero fatti uscire e massacrati ad uno ad uno a  colpi di machete. Quelli che non uscirono vennero uccisi con le granate in chiesa. Tra le vittime ci furono anche due delle tre veggenti.
Quando il Fronte patriottico rwandese giunse al potere, a Kibeho si rifugiarono decine di migliaia di hutu, per sfuggire alla vendetta dei tutsi, formando un enorme campo profughi, sotto l’assistenza di organizzazioni inteazionali. Ma il 18 aprile 1995 l’Esercito patriottico rwandese cinse d’assedio il campo, con lo scopo di controllare i rifugiati, arrestando i sospetti di genocidio e rimandando il resto alle proprie case.
La gente, presa dal panico, cercò di rompere il cordone militare e scappare a perdifiato, sotto i colpi dei soldati. Le strade furono cosparse di sangue,  come nella visione proposta ai veggenti 14 anni prima. Si parla di oltre 8 mila vittime, colpite alle spalle; 4 mila secondo le autorità rwandesi. 
Ma per Kibeho non era ancora finita. Le autorità rwandesi, in maggioranza tutsi, volevano confiscare il santuario e trasformarlo in mausoleo del genocidio del 1994. Il vescovo locale, mons. Augustin Misago si oppose, così pure la Santa Sede, spiegando che la chiesa non poteva diventare simbolo della memoria solo per una parte del popolo, ma doveva essere luogo di riconciliazione.
Proprio da Kibeho, il presidente del Rwanda lanciò contro mons. Misago l’accusa di genocidio nel 1999. Arrestato e condannato a morte, dopo un processo farsa durato tutto l’anno del giubileo, il vescovo fu poi assolto da un giudice di buon senso.
Oggi il santuario di Kibeho, con le sue travi e capriate di legno affumicate, rimane un monito contro ogni ideologia razzista di purezza etnica e continua ad accogliere migliaia di pellegrini di ogni etnia desiderosi di pace e riconciliazione.

A Munyaga, luogo della nostra esperienza, 700 ragazzi di tutte le etnie hanno giocato e cantato e ballato spensieratamente. Abbiamo gettato un piccolissimo seme di speranza, nell’attesa che cresca e maturi con frutti di pacifica convivenza, cancellando il velo di tristezza che ancora avvolge le mille colline del Rwanda martoriato. 

di Alessandro Moreschi

Alessandro Moreschi




Non perdere la vista

Malattie dimenticate (3): Oncocercosi (cecità del fiume)

Ha fatto perdere la vista a 270 mila persone, ne ha infettate oltre 17 milioni. E 9 casi su 10 sono in Africa. L’oncocercosi, o cecità del fiume, è seconda in classifica come causa infettiva di cecità, la principale in numerosi paesi africani. In alcune zone dell’Africa occidentale, un uomo su due con più di 40 anni di età non vede più per causa sua. Anche se di rado minaccia la vita delle persone infettate, è responsabile di sofferenza cronica e condiziona l’esistenza dei malati.
Ma la cecità del fiume è anche una malattia che testimonia come sia possibile intervenire in contesti difficili, in paesi poveri. Un programma di controllo della diffusione dell’oncocercosi, avviato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nel 1974, in collaborazione con Banca mondiale, Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) e Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), è stato ufficialmente chiuso nel 1992, sulla base dei risultati raggiunti in 10 paesi su 11 che partecipavano al progetto. Unica esclusa la Sierra Leone, dove gli interventi erano stati interrotti a causa della guerra civile.

LA MAPPA DELLA CECITÀ

L’oncocercosi è una malattia infettiva che colpisce occhi e pelle. È causata da un parassita, un verme introdotto nel corpo umano dal morso di un tipo di mosca: la mosca nera. Il nome cecità del fiume, o cecità fluviale (dall’inglese river blindness), deriva dalla maggiore facilità di essere punti in prossimità di fiumi o torrenti, dove le mosche nere si riproducono.
La malattia è presente in 35 paesi in tutto il mondo: 28 in Africa occidentale e centrale, dove si trova la grande maggioranza dei casi, sei in America Latina (Brasile, Colombia, Ecuador, Guatemala, Messico e Venezuela) e uno nella penisola arabica (Yemen).

IL VERME RESPONSABILE

Il responsabile della cecità del fiume si chiama Onchocerca volvulus, un verme parassita, la cui prima osservazione risale al 1875. Il parassita può sopravvivere nel corpo umano fino a 14 anni. Le femmine adulte del verme producono milioni di larve microscopiche.
Mentre i vermi adulti si aggregano in noduli sotto la pelle, le larve si diffondono nei tessuti circostanti e nell’organismo fino all’occhio, causando i sintomi e segni della malattia: prurito intenso, lesioni della pelle, maggiore o minore colorazione cutanea, e, a livello oculare, infiammazione, sanguinamenti e altre complicazioni fino alla perdita della vista.
Le ripetute lesioni nel corso degli anni, oltre alla cecità, possono lasciare segni permanenti anche sulla pelle (pelle a leopardo e a lucertola).
L’Onchocerca volvulus è un parassita quasi esclusivo dell’uomo e la mosca nera rappresenta un vettore della malattia, che con le sue punture può trasmettere l’infezione da una persona malata a una sana. Infatti, quando la mosca nera punge una persona infetta, può ingerire le larve che, dai noduli, si diffondono nei tessuti sottocutanei.

UNA VITA SEGNATA DALLA MALATTIA

Ma gli effetti dell’infezione non sono solo direttamente collegati alle manifestazioni cliniche e alla sofferenza causata dalla malattia. Infatti, la cecità del fiume può rappresentare un ostacolo allo sviluppo economico delle zone in cui è diffusa. La paura di essere morsi dalla mosca nera e di contrarre l’infezione ha portato le popolazioni ad abbandonare i terreni fertili nelle zone dell’Africa occidentale, in prossimità dei fiumi. Questi spostamenti hanno avuto un impatto economico negativo, valutato intorno agli anni ‘70 pari a una perdita di 30 milioni di dollari l’anno.
Inoltre, gli effetti invalidanti della malattia sulla visione e le alterazioni permanenti sulla pelle hanno ripercussioni dal punto di vista psicologico e di integrazione sociale per il malato e per i suoi familiari. Accanto alla invalidità causata dalla riduzione o perdita della vista, anche gli effetti della malattia a livello cutaneo condizionano la vita, interferendo con le relazioni sociali, facilitando l’isolamento del paziente, aumentando le sue difficoltà.

LE POSSIBILITà DI SUCCESSO

Come accennato all’inizio, la cecità del fiume rappresenta una testimonianza di come sia possibile intervenire, per interrompere la trasmissione di una malattia anche in contesti poveri. Nel 1974, viste le conseguenze drammatiche della diffusione della malattia nell’Africa occidentale, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), insieme con Banca mondiale, Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) e Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), ha costituito il Programma di controllo dell’oncocercosi (Onchocerciasis Control Programme, Ocp).
L’obiettivo era quello di proteggere dalla malattia 30 milioni di persone in 11 paesi: Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Ghana, Guinea Bissau, Guinea, Mali, Niger, Senegal, Sierra Leone e Togo. Inizialmente il programma seguito dall’Onchocerciasis Control Programme prevedeva soltanto l’utilizzo di insetticidi, sparsi da elicotteri e aerei sulle zone ove si riproducevano le mosche nere, per eliminae tutte le larve e interrompere così la trasmissione dell’infezione da uomo a uomo.
A questo, nel 1987, si aggiunse la possibilità di trattare direttamente la malattia nella popolazione con un farmaco efficace, reso disponibile dall’azienda produttrice. In alcune zone sono stati messi in atto entrambi gli interventi, in altre utilizzata solo la terapia.
Nel dicembre del 2002 l’Onchocerciasis Control Programme è stato ufficialmente concluso. È stato calcolato che questo intervento ha evitato 600 mila casi di cecità e ha permesso a 18 milioni di bambini di nascere in zone sotto controllo per quanto riguarda il rischio di oncocercosi.
Inoltre, dal punto di vista dell’economia dei paesi inclusi nel programma e degli effetti negativi conseguenti all’abbandono delle zone a rischio di infezione da parte della popolazione locale, sono stati recuperati 25 milioni di ettari di terreno.

ESPERIENZE
AFRICANE E AMERICANE

Sempre in Africa, nel 1995 ha visto la luce un nuovo programma di trattamento (African Programme for Onchocerciasis Control, Apoc), per contrastare la malattia in altri 19 paesi del continente, non coinvolti dall’Onchocerciasis Control Programme: Angola, Burundi, Camerun, Repubblica Centrafricana, Ciad, Congo Brazzaville, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Guinea Equatoriale, Gabon, Kenya, Liberia, Malawi, Mozambico, Nigeria, Ruanda, Sudan, Tanzania e Uganda.
In questo programma vengono coinvolte direttamente le comunità locali, per contrastare la malattia nei singoli villaggi. I progetti dell’Apoc, nel 2003, hanno trattato 34 milioni di malati in 16 Paesi e l’obiettivo è arrivare a curare 90 milioni di persone ogni anno, proteggere la popolazione a rischio (pari a 109 milioni) e prevenire così 43 mila casi di cecità l’anno.
Infine, anche per l’America Latina, dal 1992 vi è un programma di eliminazione, chiamato Onchocerciasis Elimination Program for the Americas (Oepa), per eliminare la malattia e interrompee la trasmissione, utilizzando il farmaco per curarla nei sei paesi ove è diffusa (Brasile, Colombia, Ecuador, Guatemala, Messico e Venezuela).
I risultati del 2002 mostrano una copertura, con il trattamento, almeno dell’85% in cinque paesi, più bassa solo in Venezuela (65%).

Valeria Confalonieri

Fonti
o Centers for Disease Control and Prevention:
www.cdc.gov/ncidod/dpd/parasites/onchocerciasis/factsht_onchocerciasis.htm
o Malattie dimenticate:
http://www.malattiedimenticate.net/patologie/cecit%e0%20del%20fiume.asp
o Organizzazione mondiale della sanità:
www.who.int/topics/onchocerciasis/en/
www.who.int/blindness/causes/priority/en/index3.html
o The Unicef-Undp-World Bank-Who Special Programme for Research and Training in Tropical Diseases:
www.who.int/tdr/diseases/oncho/

Valeria Confalonieri




Notizie, non gossip… e poi?

Se da una parte condivido l’appello della Fesmi, perché anch’io sono convinto che la televisione dia troppo spazio al gossip, dall’altra non me la sento di dire che il piccolo schermo trasmette poche notizie: il problema è quanto tempo vogliamo passare davanti al televisore e, soprattutto, che cosa intendiamo fare concretamente dopo che su un certo problema abbiamo raccolto una certa documentazione.
Se nell’Africa Centrale – ovvero l’area che la Fesmi suggerisce di "tener d’occhio" – le cose vanno ancora tanto male, le responsabilità principali non sono della televisione; ritengo di gran lunga più colpevoli coloro che, pur avendo appreso, grazie anche alla televisione, tante cose sul Congo e sulla Regione dei Grandi Laghi, continuano a comportarsi come se non avessero visto e sentito nulla di particolarmente sgradevole e disdicevole.
Secondo me tantissime persone dovrebbero ringraziare la televisione (intendo innanzitutto la Rai e quegli encomiabili giornalisti e operatori Rai che, per far bene il loro lavoro, hanno rischiato e qualche volta anche perso la vita…) per i tanti pregevoli servizi sul Congo e, più in generale, sui problemi che affliggono i paesi poveri. Di tali persone mi piacerebbe poter dire che hanno fatto del loro meglio per cambiare vita, modo di lavorare, di fare la spesa, di viaggiare, di trascorrere il tempo libero…
Purtroppo non posso dirlo, perché vedo ancora tanta, troppa gente che non solo non ne vuol sapere di rinunciare al superfluo, ma tende a concentrarvi ancora più risorse materiali e intellettuali.

Che cosa pretendiamo dal televisore? Che si spenga da solo quando i vari canali sono in grado di offrire solo gossip, pubblicità, reality spazzatura, overdosi di calcio e formula 1? Che si accenda da solo quando invece vanno in onda il Tg2 Dossier, il Report di Milena Gabanelli, il reportage da una terra di missione o la testimonianza di Gino Strada dall’Afghanistan?
Non possiamo aspettarci questo, non possiamo aspettarci che la televisione sia per noi padre, madre, sorella o, come diceva qualche anno fa un vescovo del Nord Italia, "bambinaia elettronica" (ne abbiamo forse l’età?).
Il presidente della Camera dei deputati ha suscitato vivaci reazioni quando, rispondendo ad alcune domande postegli da Lucia Annunziata, si è spinto ad affermare che per alcune Tv private ci vorrebbe una bella "cura dimagrante". Ho buone ragioni per ritenere che la Fesmi condivida questo giudizio e anche io, in effetti, penso che Bertinotti non abbia torto. Dico però che in Italia il soggetto che ha maggiore urgenza di cure dimagranti è l’industria bellica, il ministero della difesa, l’amministratore delegato di Finmeccanica, Pierfrancesco Guarguaglini il quale non solo non ne vuol sapere di ridurre l’impegno nel comparto militare per rafforzarlo in quello civile (ricordate? Si chiamava "riconversione"; non sono passati molti anni eppure, chissà perché, sembra un secolo), ma fa esattamente il contrario; ossia riduce ai minimi termini gli investimenti nella produzione civile (considerata "poco competitiva" e quindi "perdente") per aumentarli in quella bellica (considerata "vincente", specie se il partner è l’americana Boeing il cui cda, circa il rapporto civile-militare, la pensa esattamente come Guarguaglini e si regola di conseguenza).

Non diciamo dunque che la televisione non c’informa o che ci dà poche notizie. Diciamo invece che non sappiamo tutto, ma sappiamo quel tanto che ci basterebbe per boicottare i vip della politica e della religione, che vanno a benedire le portaerei, le fregate e i sommergibili prodotti da Fincantieri, per boicottare la Fiat e le sue aziende satelliti, produttrici di mine. Tante raccolte di firme, manifestazioni, conferenze inteazionali, appelli di sante donne e santi uomini, non ultimo Giovanni Paolo ii, non sono bastati: le mine continuano a essere prodotte, vendute, usate.
In questo inizio di secolo altri paesi sono andati ad allungare il già lunghissimo e tristissimo elenco delle aree flagellate dai diabolici ordigni: penso alle isole indonesiane di Boeo e Sumatra dove, a farli riaffiorare e spostarli a molti chilometri dai punti in cui erano stati seminati ha provveduto il terribile Tsunami del 26 dicembre 2004. Una cosa del genere era già avvenuta in Nicaragua e Honduras all’epoca dell’uragano Mitch.
Ne sappiamo abbastanza per boicottare la Boeing e le compagnie aeree a basso prezzo, che il viaggio sui Boeing lo fanno pagare una manciatina di dollari, mentre il prezzo del petrolio s’impenna: tagliando le spese per manutenzione, controlli, pezzi di ricambio, formazione del personale, molte compagnie riescono a tener bassi i prezzi dei biglietti, anche quando l’oro nero va alle stelle; poi, quando si verifica una sequenza di disastri, come quella che ha funestato il secondo semestre del 2005, molti hanno la spudoratezza di affermare che l’aereo resta "il mezzo più sicuro" e che gli "assassini sono i cieli".
Siamo sinceri: fare questi nomi è scomodo per tutti, non solo per i giornalisti della televisione. È scomodo per la stampa, ma anche per i sacerdoti, vescovi, missionari, filosofi, teologi cosiddetti "d’avanguardia" e persino per la sinistra più estrema.
Sono nomi che fanno paura, perché a portarli sono persone troppo abituate a farla franca con la giustizia e a mettere nei guai chi "osa" ostacolare i loro piani.
Se non riusciamo a vincere la paura, asteniamoci pure dal fare questi nomi, forse avremo meno grane. Ma evitiamo anche di prendercela troppo con il cda della Rai o di Mediaset, col Grande Fratello o L’isola dei famosi: non è così che daremo al Congo qualcosa che somigli a un aiuto. Non saranno le critiche o le velate allusioni alla Ventura, Venier, Lecciso, Al Bano, Pappalardo, Zequila… a tranquillizzare la nostra coscienza eco-pacifista e a farci sentire più a posto davanti a Dio.

Mario Pace
Fano (PU)

Mario Pace