RD Congo: si riparte dalle donne

Volge alla conclusione una parte del progetto che la Fondazione Misna, attraverso
Missioni Consolata Onlus, sta realizzando in Repubblica Democratica del Congo grazie al programma di contributi a progetti di cooperazione decentrata e solidarietà̀ Internazionale del Comune di Roma.

Dall’alfabeto alla micro-imprenditoria il passo non è breve, specialmente se a tentare di farlo sono donne congolesi che vivono in situazioni di difficoltà a volte estrema e portano sulle spalle l’intero peso di una famiglia o, peggio, il trauma di una violenza subita durante una guerra che, nelle zone orientali della RD Congo, sembra non voler finire mai.
Eppure, pole pole, come si dice in swahili, o malembe malembe (in lingala, la lingua franca più diffusa del Congo), anche in una quotidianità fatta di espedienti e di sfiducia può prendere forma un progetto di vita dove la dignità di un intero Paese si ricostruisce a partire da quella delle sue donne. è il progetto bi/triennale Empowerment delle donne vulnerabili e delle ragazze madri di Kinshasa e Isiro attraverso la formazione di base e professionale per l’acquisizione di life skills, di conoscenze igienico–sanitarie e il microcredito, che la Fondazione Misna ha realizzato attraverso i missionari della Consolata e con fondi del Comune di Roma, che mira proprio a questo: ricostruire un’architettura sociale devastata rafforzando per prima cosa le donne, che di essa sono le colonne portanti.
Il contesto del progetto:
la situazione delle donne in RDC
La Repubblica Democratica del Congo è ufficialmente uscita nel 2002 da una guerra devastante – da molti osservatori definita la prima guerra mondiale africana – che ha provocato oltre cinque milioni di vittime. Durante quegli anni di guerra si sono registrate atrocità e violenze fra le peggiori mai perpetrate nella storia dell’umanità; casi di cannibalismo, eccidi di massa e torture sono stati all’ordine del giorno e lo stupro è stato utilizzato regolarmente come strumento di guerra.
Nonostante la cessazione ufficiale delle ostilità e le elezioni politiche che – dopo ripetuti rinvii e interminabili negoziazioni – hanno avuto luogo nel 2006 confermando Joseph Kabila alla presidenza, la RDC, a quasi dieci anni dalla fine del conflitto, appare ancora un paese smembrato. è praticamente privo di infrastrutture e ostaggio di interessi stranieri che ne prosciugano le pur ingenti risorse naturali, escludendo la stragrande maggioranza della popolazione dai benefici che dovrebbero derivare dall’essere cittadini di uno dei Paesi con il sottosuolo più ricco del mondo.
In alcune zone, specialmente nella parte orientale del Paese, il conflitto è lungi dall’essere concluso. Le schermaglie e le violenze interetniche fra esercito e milizie irregolari terrorizzano le province del Nord e Sud Kivu, mentre i ribelli dell’ugandese Lord’s Resistance Army con le loro incursioni, e i massacri che ne derivano, provocano fughe e spostamenti in massa delle popolazioni dell’Alto Uele. Anche qui lo stupro è utilizzato come arma o come semplice strumento di umiliazione e affermazione del potere e il numero di donne stuprate è ormai impossibile da stimare. Nel 2009, l’agenzia delle Nazioni Unite, Unfpa (United Nation Population Fund), denunciava oltre quindicimila casi, ma le segnalazioni di stupri di massa sono state sistematiche e ricorrenti anche nel corso dei successivi due anni.
Per sfuggire a questa situazione di terrore e incertezza, la popolazione civile è spesso costretta ad abbandonare i propri villaggi e cercare nelle città un rifugio e un’occupazione, andando a ingrossare le fila dei cosiddetti exoderirales, centinaia di migliaia di uomini e donne che partecipano all’esodo verso le città.
Saint Hilaire
Saint Hilaire, alla periferia della capitale Kinshasa, è uno dei luoghi nei quali trovano una meta tanto questi esuli provenienti da tutto il Paese quanto altri abitanti della capitale alla ricerca di un quartiere con un costo di vita più abbordabile. Sebbene non abbia l’aspetto di una vera e propria baraccopoli, è pur sempre un quartiere fortemente disagiato. Costruito su una piattaforma sabbiosa che diventa del tutto impraticabile durante la stagione delle piogge, è privo di acqua corrente ed è servito dalla rete elettrica solo per un decimo degli utenti. La mortalità infantile colpisce il 14% dei bambini e il virus dell’HIV si sta diffondendo a ritmi allarmanti. Un quarto dei giovani non ha mai frequentato la scuola.
La situazione delle donne è drammatica: più della metà sono ragazze madri, costrette a vivere di espedienti per sostenere se stesse e le proprie famiglie. La prostituzione occasionale è uno dei mezzi a cui più spesso le giovani ricorrono, esponendosi così all’infezione da HIV. «L’urbanizzazione accelerata, coniugata al declino dell’educazione comunitaria propria dei villaggi – spiega padre Santino Zanchetta, da dieci anni attivo nel quartiere –, provoca un rilassamento del controllo parentale sui figli. La mancanza di mezzi finanziari paralizza l’autorità̀ dei genitori che assistono impotenti alla prostituzione precoce delle loro figlie con tutte le conseguenti difficoltà̀ che ne derivano, dalla necessità di provvedere ai bisogni del neonato alla stigmatizzazione e marginalizzazione delle ragazze stesse».
Isiro
Queste dinamiche sono in parte all’opera anche a Isiro, cittadina di 250 mila abitanti immersa nella foresta pluviale nel distretto nordorientale dell’Alto Uélé, del quale è capoluogo distrettuale. «La presenza nella zona settentrionale di Isiro di miniere di diamanti artigianalmente sfruttate – racconta padre Daniel Lorunguyia – ha come conseguenze un’alta incidenza di malattie polmonari e una promiscuità sessuale cha aumenta il rischio di contagio da HIV. Inoltre, nel caso delle donne, alle difficoltà legate alla sopravvivenza e alle precarie condizioni sanitarie si aggiungono spesso i traumi derivanti dalle violenze subite. Vista la quantità di soldati e di miliziani, la violenza perpetrata nei confronti delle donne è una triste costante della zona e Isiro chè è stata varie volte segnalata nei rapporti OCHA (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs delle Nazioni Unite) per l’elevato numero di stupri».
Il progetto:
formazione e autostima
è chiaro che in contesti come questi il lavoro da fare non si limita alla formazione e all’organizzazione dei corsi, ma deve abbracciare una pluralità di aspetti legati anche alla dimensione psicologica delle donne e al recupero dell’autostima che la loro condizione di ragazze-madri spesso vittime di violenza ha minato profondamente.
Ecco perché il progetto si è dato come obiettivo quello di coinvolgere 225 donne a Kinshasa e 100 a Isiro in un percorso di un anno che parte dall’alfabetizzazione per approdare alla formazione professionale passando per l’acquisizione di conoscenze igienico-sanitarie e dei cosiddetti life skills. Essi sono un insieme di abilità che hanno a che sviluppano il senso critico, la consapevolezza di sé, la capacità di prendere decisioni, la gestione delle emozioni, la creatività e la conoscenza dei diritti umani e dei diritti della donna in particolare.
I padri Santino Zanchetta e Daniel Lorunguyia, responsabili del progetto rispettivamente a Saint Hilaire e a Isiro, sono d’accordo nel sostenere l’importanza di far crescere l’autostima nelle donne per evitare che si espongano alle frustrazioni e ai rischi derivanti da attività degradanti o male organizzate e per questo votate al fallimento. Ma questo aspetto, che viene affrontato fin dal primo anno di progetto nella fase dell’alfabetizzazione, continua per tutto l’arco dell’iniziativa e si nutre dei risultati che le donne ottengono grazie agli effetti della formazione professionale.
A Kinshasa, quest’ultima riguarda ambiti come la sartoria, l’informatica, l’estetica, mentre a Isiro introduce, accanto alla sartoria, anche attività legate all’agricoltura e alla gastronomia, in linea con le caratteristiche più rurali della zona dell’Alto Uele.
Formazione e lavoro
La formazione professionale viene offerta alle donne sulla base di un’attenta analisi preliminare del mercato del lavoro locale. Per quanto riguarda la sartoria, infatti, il progetto mira a mettere le donne in condizione di rispondere alla domanda di abiti confezionati per varie occasioni. «Ci sono le richieste di vestiti per matrimoni, funerali e ricorrenze varie – dice padre Santino – oppure per chi vuole semplicemente rinnovare il guardaroba; un’altra opportunità è poi quella che viene dal confezionamento di uniformi scolastiche». Le uniformi per le scuole sono una delle commissioni per le donne anche a Isiro, come conferma p. Daniel, e a queste si aggiungono anche quelle per il personale sanitario che opera nei dispensari pubblici o nelle strutture private, spesso gestite proprio da missionari.
Le ragazze affrontano anche un periodo di apprendistato presso degli ateliers con i quali i padri, sia a Saint Hilaire che a Isiro, hanno rapporti regolari e accordi precisi. Spesso, le giovani formate finiscono per venire assunte presso gli ateliers dove hanno effettuato lo stage.
Altri sbocchi professionali vengono dal lavoro in proprio: diverse ragazze formate si trovano presto a ricevere richieste di confezionamento abiti da parte di privati oppure, nel caso della gastronomia, aprono piccoli ristoranti dove cucinano e vendono cibo. Per incentivare questa parte, è stato attivato il programma di microcredito che permette a quaranta donne all’anno a Isiro e ottanta a Kinshasa di accedere a un fondo di rotazione grazie al quale cominciare un’attività in proprio con un prestito che deve poi essere restituito in rate mensili, in modo da poter includere ulteriori donne nella tornata successiva.
«Salvo disgrazie familiari o situazioni veramente gravi – che sono però rare – i microcrediti vengono di solito restituiti; quel che è certo è che, rispetto ai primi esperimenti avviati già anni fa dalla parrocchia, la formazione successiva è stata determinante nel migliorare il funzionamento del microcredito e nell’accrescere la cultura del risparmio», aggiunge p. Santino. «Oggi, il programma di microcredito è anche molto più strutturato: la scelta delle beneficiarie deriva da una valutazione fatta da un’apposita commissione della parrocchia e tenendo conto delle tendenze del mercato locale. La stessa commissione si occupa poi di monitorare costantemente “sul campo” l’evolversi delle micro-attività avviate dalle donne».
Sia a Saint Hilaire che a Isiro, i corsi terminano con un esame ufficiale che dà alle ragazze un titolo di studio riconosciuto dalle autorità pubbliche e spendibile non necessariamente nelle immediate vicinanze della località dove hanno frequentato il corso, ma anche in altre zone del Paese. «Il certificato – precisa padre Daniel – è riconosciuto dal Ministero dell’Istruzione e la valutazione finale viene sempre effettuata mediante l’ispezione di una commissione scolastica».
Il progetto, compresa la valutazione finale dei risultati, si concluderà entro la fine del 2011, e presto ne saranno illustrati i dettagli durante un evento pubblico congiuntamente organizzato a Roma dalla Fondazione Misna e Missioni Consolata Onlus.

di Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




E fu subito insicurezza (Do/Rd Congo 1)

Scegliere l’Africa e ritrovarsi in Congo


Lasciata la Spagna dove faceva una tranquilla vita da animatore
missionario, nel 1991 padre Rinaldo Do arriva a Kinshasa, la capitale dello
Zaire, futura Repubblica Democratica del Congo (Congo RD). Mobutu è ancora al
potere. Sono tempi turbolenti di violenze, disordini e saccheggi. Un
eccezionale battesimo alla vita missionaria. In questa lunga chiacchierata
padre Rinaldo ci rende partecipi di oltre venti anni di emozioni, fatiche,
giornie e speranza. Un’avventura che non è ancora finita.

Era
il 1986 quando sono andato in Congo per la prima volta. Si chiamava ancora
Zaire. È stato un contentino. Ero animatore missionario in Spagna, e mi hanno
permesso di fare un viaggio di tre mesi, per caricarmi.

Ho due ricordi di quel viaggio. Uno negativo: mi ero
messo a fare fotografie nell’aeroporto di Kinshasa dove era proibitissimo.
Quasi mi facevo cacciare ancora prima di entrare! L’altro ricordo è invece
bellissimo: la gioia, la festa delle messe, i canti e le danze, gli incontri
con i confratelli, lo splendido lavoro che stavano facendo a Doruma e a Wamba,
il cantiere per la costruzione della parrocchia di San Mukasa a Kinshasa. Il
Congo mi aveva preso il cuore.

Ma la vera partenza è stata nel 1991. Nell’86 avevo
visitato le missioni. Avevo avuto la possibilità di conoscere un po’ un paese
di missione, una Chiesa giovane. Poi finalmente nel 1991 mi hanno lasciato
partire. Avevo chiesto «Africa» in generale e mi hanno mandato proprio in Zaire
dove mi hanno accolto veramente bene.

Gli anni di Kinshasa

Sono arrivato con l’idea di andare
verso il Nord Est, in mezzo alla foresta, là dove i nostri missionari sono più
isolati. Invece il superiore mi ha proposto di diventare viceparroco a
Kinshasa, proprio nella parrocchia di San Mukasa che avevo visto in costruzione
nell’86. è sembrato un sogno
infranto, invece l’obbedienza si è rivelata una benedizione. Fino allora avevo
vissuto un’esperienza di animazione missionaria senza una responsabilità
diretta in una comunità e l’entrare nella pastorale (comunità di base, gruppi,
giovani, catechesi, scuole…) mi è servito molto. Kinshasa è una diocesi ben
organizzata, dove la presenza dei laici è veramente l’anima della Chiesa. La
forza della nostra enorme parrocchia (che qualche anno dopo è stata consegnata
alla diocesi) erano i laici e padre Santino Zanchetta, che era il parroco,
lavorava molto bene. Sono rimasto là dal ’91 al ’98.

San Mukasa è in un quartiere di
periferia della grande città di Kinshasa che ha oltre dieci milioni di
abitanti. Il quartiere non aveva strade vere e proprie e quella che conduceva
alla parrocchia era orribile, soprattutto durante le piogge. Spesso, come
comunità cristiana, abbiamo cercato di ripararla. Oltre la strada mancavano
l’elettricità, l’acqua potabile, le scuole e i servizi medici e sanitari. La
zona, però, non era il classico slum o bidonville, con case poste
una sull’altra, senza verde e senza ordine. Era una tipica zona di periferia,
con tanto verde, dove ogni famiglia aveva la sua «parcel», un pezzo di terreno
regolarmente assegnato, con la sua casetta. Case e non baracche, frutto del
boom degli anni ’70. Però molte erano incompiute o semi abbandonate perché poi
era arrivata la crisi. La dittatura di Mobutu era in declino e nel ’91, quando
sono arrivato, c’era stata una Conferenza nazionale per cercare di fare una
revisione di tutti quegli anni e prospettare un cammino di democrazia per il
paese.


Tra paura e saccheggi

È stato un periodo duro e turbolento, di saccheggi e
ladri in casa. Ci han preso la macchina e siamo stati fortunati a recuperarla,
dato che per noi era essenziale. La gente faceva la fame perché c’era poco
lavoro, e quello che c’era era poco remunerato. Migliaia erano i disoccupati.
In parrocchia, con l’aiuto di un organismo della Comunità europea, avevamo
trovato un canale per comprare mais e arachidi da rivendere a un prezzo
accessibile e nello stesso tempo sufficiente per darci un piccolo guadagno da
usare in aiuto ai più poveri delle varie comunità di base. La macchina ci
permetteva di rifoirci di cibo, di andare a cercare medicine, di fare tanti
servizi importanti per tutti. Per ben due volte siamo stati attaccati in casa
da gente armata, forse militari, forse no, pericolosi comunque. Grazie a Dio è
andata sempre bene. Tanta paura, certo…

Questo è stato il mio battesimo alla vita missionaria.
Sono arrivato a giugno del ’91 e a settembre c’è stato il grande saccheggio di
Kinshasa che ha lasciato la città in rovina. Non è stato un colpo di stato. A
proposito ci sono diverse teorie. Una dice che i militari non pagati si sono
rivoltati e hanno cominciato a saccheggiare negozi, fabbriche, banche, case di
ricchi e, dietro i militari, naturalmente, c’era anche il popolino, la gente
affamata. È durato per due o tre giorni. Poi Mobutu ha mandato la sua guardia
presidenziale e tutto è finito, come per dire: «Vedete, se c’è qualcuno che può
tenere calmo e sotto controllo lo Zaire, quello sono io». Un’altra teoria dice
che sia stato lo stesso Mobutu a dire ai militari: «Di soldi per pagarvi non ce
ne sono, trovateveli». Ma cambiando i fattori, il risultato è lo stesso. Ho
visto la città distrutta. I nostri ambasciatori avevano messo a disposizione
gli aerei, e chi voleva poteva andare via. Però noi missionari abbiamo deciso
di rimanere. Abbiamo firmato e siamo rimasti per ben due volte.

Rimanere: una presenza che conta

Mi ricordo che era il ’93 quando c’è
stato il secondo saccheggio. L’ambasciatore italiano mi ha detto: «Perché non
andate in altri paesi dove lo stato vi aiuta, dove se dovete costruire una
scuola vi dà un pezzo di terreno, dove non vi mette delle tasse? Qui non solo
non vi aiutano, ma vi rubano e vi saccheggiano». Io ho risposto: «Guardi, sig.
ambasciatore, se fossimo degli impresari come gli altri stranieri che sono
andati via, lei avrebbe perfettamente ragione, perché non conviene investire in
un paese dove non c’è sicurezza. Ma il fatto è che il nostro Capo (e gli facevo
il segno in su!) non la pensa così». Dove c’è miseria, sofferenza, difficoltà,
guerra, e dove la gente soffre, lì il missionario è presente.

E in quegli anni la nostra presenza
era proprio «solo presenza». Come missionari non avevamo grosse possibilità,
non essendo uno di quegli organismi che possono fare grandi cose perché
ricevono sostanziosi aiuti da governi o dall’Onu. Negli anni della guerra, a
Kinshasa o nel ’98 quando ero a Doruma, quel che contava era la presenza: le
persone vedevano che il missionario, il loro sacerdote, il loro prete era in
mezzo a loro. Il semplice fatto di non essere scappati, di restare con la
gente, dava tanta serenità e coraggio.

Tags: Rd Congo, missionari, evangelizzazione, vita missionaria, guerra, decolonizzazione, Kabila, Zaire, Mobutu

Tre giorni di fuoco

Il 2 agosto 1998 cominciò l’offensiva. La gente del
quartiere era terrorizzata e non sapeva cosa fare. Gli uomini erano fuggiti per
paura di essere presi dai soldati. Donne e bambini, rimasti soli, si
rifugiarono nella nostra casa. Condividemmo quel po’ di riso e quant’altro
rimaneva delle scorte del seminario. Un gesto di solidarietà che è stato
ampiamente ripagato: in seguito la gente ci ha aiutato, soprattutto vigilando
sulla nostra casa, affinché non diventasse oggetto di rapine e saccheggi.

Per tre giorni, tappati in casa, sentivamo le pallottole
fischiare senza interruzione e senza sapere cosa capitasse fuori. Nessuno
fiatava. La notte, poi, senza luce elettrica, tensione e paura diventavano
palpabili. Quando si sparse la notizia
che i soldati di Kabila avrebbero bombardato Mont Ngafula, la gente cominciò a
fuggire all’impazzata verso il fondovalle. Una fiumana di persone scendeva la
collina, ciascuno tirandosi dietro i bambini, una pentola, due stracci, in una
fuga frenetica e disordinata, per arrestarsi di fronte ai blocchi militari.

Ad ogni barriera mi sentivo nell’occhio del ciclone: fui
minacciato e molestato più degli altri. […] A uno di quei blocchi non ricordo
cosa sia successo: mi trovai inginocchiato per terra, con un mitra puntato alla
testa. Un soldato urlava contro i bianchi, colpevoli di avere alloggiato i
ribelli. Col mitra puntato alle tempie, dapprima rimasi muto per l’incredulità;
poi stordito e pieno di paura; infine chiusi gli occhi e mi sentii pervaso da
una grande pace. Non so quanto tempo restai in quella posizione: un minuto o
un’eternità. Ricordo solo che, quando riaprii gli occhi, non vidi più nessuno
attorno a me. Mi alzai di scatto e rincorsi la gente, sentendomi risuscitato.

Rimasi nel fondovalle per tre giorni. Avrei potuto
raggiungere il seminario teologico verso il centro città, ma preferii restare
con la gente, accampata sulla strada, senza acqua né cibo, con i bambini che
piangevano.

I cannoni sparavano contro la collina. […] La
domenica, cessato il bombardamento, sperimentai uno dei momenti più commoventi
della vita. La gente mi circondò per dirmi: «Grazie, padre, perché sei rimasto
con noi» e tante parole piene di amicizia e solidarietà. Poi arrivarono i
confratelli che in quei giorni mi avevano cercato, pieni di apprensione per la
mia sorte. È stato bellissimo riabbracciarsi.

 

Padre Stefano
Camerlengo

(Da MC febbraio 2000, pag.
22-23)

Rinaldo Do e Gigi Anataloni




Da Zaire a RD Congo  Cronostoria (Do/Rd Congo 2)

1960, 30 giugno. La colonia Congo Belga diventa Congo, nazione
indipendente. Ne è presidente Kasavubu, primo ministro Patrice Lumumba e capo
di stato maggiore Joseph Désiré Mobutu. L’11 luglio Moise Tshombe dichiara la
secessione del Katanga.

1961, 18 gennaio. Assassinio di Lumumba. Due anni dopo, le forze delle
Nazioni Unite sconfiggono i secessionisti della ricca regione del Katanga, che
si chiamerà Shaba.

1964, gennaio. I guerrieri simba di Mulele occupano il Nordest
del paese; fra i militanti c’è Laurent Désiré Kabila. Ma l’avventura fallisce:
Mulele è fucilato e Kabila fugge.

1966, 6 gennaio. Deposto con un golpe Kasavubu, Mobutu assume pieni
poteri, e nel 1967 instaura un regime a partito unico (Movimento popolare
rivoluzionario). Il 30 ottobre 1970 Mobutu, unico candidato in lizza, diventa
presidente.

1971, 21 ottobre. Il Congo diventa Zaire. Sull’onda dell’«autenticità»,
Mobutu rinnega il proprio nome cristiano, sostituendolo con Sese Seko.

1975-1990. Tempo di corruzione, mentre il presidente dittatore si
arricchisce. Sono pure anni di guerra e repressione: nel 1977 scoppia il
conflitto dello Shaba, nel quale intervengono Francia e Marocco; nel 1978 un massacro
di europei nello Shaba richiama i parà francesi; l’11 maggio 1990 a Lubumbashi
cadono decine di universitari.

1991, 7 agosto. Mobutu, costretto al multipartitismo, subisce la
Conferenza nazionale, presieduta dal vescovo Laurent Monsengwo, deputata a
scrivere una nuova Costituzione. Il 2 ottobre Etienne Tshisekedi, capo
dell’opposizione, è primo ministro; il giorno 10 viene destituito. Belgi e
francesi, vista la resistenza di Mobutu alla democrazia, interrompono (a
parole) la cooperazione militare e civile.

1992, 15 agosto. La Conferenza nazionale nomina Tshisekedi primo ministro
di un governo unitario «ombra». Il 6 dicembre nasce il Consiglio della
repubblica, sempre per redigere la Costituzione; lo presiede mons. Monsengwo.

1993-95.
Saccheggi di militari non pagati, diatribe fra Mobutu e Tshisekedi. È disastro
economico. La gente ha esaurito ogni sopportazione. Intanto, nel luglio 1994,
circa due milioni di profughi rwandesi si accampano nello Zaire.

>  1996, Febbraio. Poiché lo Zaire è allo sfascio, il «leopardo» (Mobutu) è
costretto a promettere libere elezioni. Ma in ottobre l’Alleanza delle forze
democratiche, capitanate da Kabila e sostenute da Rwanda, Burundi, Uganda,
Stati Uniti e da mercenari vari, inizia da Uvira la conquista militare della
nazione. Sono i Banyamulenge, ossia Tutsi del Rwanda e del Burundi
presenti nel paese da due secoli.

1997, 6 gennaio. Mobutu sfida i ribelli: l’integrità territoriale del
paese non si discute. Però i soldati di Kabila avanzano, trovando scarsa
resistenza nelle Forze armate zairesi di Mobutu. Contemporaneamente circa 300
mila profughi hutu ritornano in Rwanda fra indicibili sofferenze.
17 maggio. Dopo aver percorso a piedi centinaia di chilometri, le
truppe dell’Alleanza entrano vittoriose a Kinshasa. Kabila si autoproclama capo
dello stato. Dallo Zaire si passa alla Repubblica democratica del Congo.
Vietate le attività dei partiti.
16 giugno.
Organismi umanitari sostengono che i soldati di Kabila, durante la conquista
del paese, abbiano sistematicamente massacrato numerosi profughi rwandesi.
7 settembre. Mobutu,
con un cancro alla prostata, muore in Marocco: lascia ai famigliari
(all’estero) un’eredità di 6 miliardi di dollari. Ha tenuto in pugno lo Zaire
per 32 anni, indebitandolo per 14 miliardi di dollari. Kabila sarà migliore?

1998, 27 luglio. Kabila, dopo aver ringraziato Uganda e Rwanda, li invita
a lasciare il paese. Ma gli ex alleati dichiarano la seconda guerra in Congo
(la prima fu contro Mobutu). Kabila resiste, sostenuto da Zimbabwe, Angola e
Namibia. I paesi stranieri, presenti in Congo, mirano alle sue risorse agricole
e minerarie.

1999, luglio. A Lusaka (Zambia) le parti coinvolte nel conflitto in
Congo firmano un accordo di pace che prevede: ritiro delle truppe straniere dal
paese, rispetto della sua integrità nazionale, instaurazione della democrazia.
Il «cessate il fuoco» non regge. Intanto gli Stati Uniti simpatizzano per
l’Uganda e il Rwanda (che però si combattono), mentre la Francia ammicca a
Kabila. Gruppi di ribelli congolesi fanno sapere che, se il paese verrà diviso
(come si dice), sceglieranno la strada della guerriglia.

2000, 14 aprile. Ancora un «cessate il fuoco»,
firmato a Kampala (Uganda) da tutti i contendenti. Però il 5 maggio, alla
periferia di Kisangani, soldati rwandesi e ugandesi si danno battaglia. I
combattimenti proseguono nelle settimane successive; viene colpita anche la
cattedrale: mille morti, migliaia di feriti e numerosi abitanti senza tetto in
balia della fame e delle epidemie.
17 giugno. Il
Consiglio di sicurezza dell’Onu intima l’ennesimo «stop» ai due belligeranti e
il ritiro di tutte le forze. Ma l’anarchia politico-militare continua.

2001, gennaio. Il presidente Laurent-Désiré Kabila, 62 anni, è
assassinato da una delle sue guardie del corpo (secondo la versione ufficiale).
Dieci giorni dopo, Joseph Kabila, non ancora trentenne, succede al padre. Febbraio:
Joseph Kabila incontra il presidente rwandese Paul Kagame a Washington (Uganda,
Rwanda e le forze ribelli accettano di ritirare le loro truppe dalla linea del
fronte). Maggio: l’agenzia Onu per i rifugiati dice che la guerra, dal
1998, ha ucciso 2,5 milioni di persone. Ottobre: inizia ad Addis Abeba
(Etiopia) il dialogo intercongolese; l’Onu dispiega i primi caschi blu (Monuc).

2002, gennaio. Un’eruzione del vulcano Nyiaragono devasta gran parte
della città di Goma (nell’Est del paese). Dopo due pre-accordi, nei colloqui di
pace in Sudafrica (aprile e luglio) si stabilisce che gli eserciti di Rwanda e
Uganda si ritirino dal territorio congolese; si decide anche il disimpegno
delle truppe di Zimbabwe e Angola. Settembre-ottobre: Uganda e Rwanda
dichiarano di aver ritirato gran parte delle loro truppe dal paese. Dicembre:
a Pretoria è firmato un accordo globale e inclusivo, che prevede due anni di
transizione alla democrazia e, alla fine, elezioni presidenziali e legislative.
Continuano i combattimenti nella regione di Uvira tra i guerriglieri Mayi-Mayi
e le truppe ruandesi. La Monuc schiera 8.700 caschi blu.

2003, aprile. Prende il via il processo di transizione con governo
(presieduto da Kabila con 4 vicepresidenti) e parlamento; è creato un Comitato
internazionale di accompagnamento alla transizione (Ciat); inizia il processo
di disarmo, smobilitazione e reinserimento nella vita dei combattenti (i morti
della guerra sono saliti a oltre 3 milioni, in gran parte civili). Maggio:
le ultime truppe ugandesi lasciano il Congo. Luglio: gli effettivi della
Monuc sono 10.800; i leader dei principali ex gruppi ribelli giurano come
vicepresidenti del paese. Agosto: inaugurato il parlamento ad interim. Fine
anno
: i donatori inteazionali, riuniti a Parigi, promettono 3,9 miliardi
di dollari per la ricostruzione.

2004, gennaio-giugno. Inizia la formazione della prima brigata dell’esercito
nazionale integrato. Marzo: fallisce un colpo di stato attribuito a
mobutisti. Giugno: uomini della guardia presidenziale tentano di
rovesciare Kabila; militari Banyamulenge, con il supporto di truppe di
Laurent Nkunda (generale tutsi congolese), occupano la città di Bukavu per una
settimana; la Monuc (16.000 uomini) è contestata per non aver saputo difendere
Bukavu; un rapporto Onu afferma che «il Rwanda destabilizza l’Rd Congo», ma
Kigali rigetta l’accusa.

2005, maggio. Il parlamento adotta la nuova Costituzione. Settembre:
l’Uganda afferma che potrebbe rientrare nell’Rd Congo per inseguire i ribelli
dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra), gruppo ribelle guidato da Joseph
Kony. Dicembre: la nuova Costituzione, già approvata dal parlamento,
supera la prova del referendum.

2006, febbraio. La nuova Costituzione entra in vigore; è adottata una
nuova bandiera; decine di migliaia di donne e ragazze vengono stuprate
dall’esercito e dalle milizie. Luglio: dalle elezioni politiche e
presidenziali (le prime libere in 40 anni) non esce alcun chiaro vincitore:
Joseph Kabila e il candidato dell’opposizione Jean-Pierre Bemba si contendono
il secondo tuo a fine ottobre; forze leali ai due candidati si scontrano
nella capitale. Novembre: Kabila è dichiarato vincitore del secondo
tuo. Dicembre: le forze del generale Laurent Nkunda si scontrano con
l’esercito regolare (sostenuto dalle forze dell’Onu) nel Nord Kivu (50mila
persone costrette a fuggire).

2007, marzo. Nuovi scontri a Kinshasa tra truppe governative e
soldati leali a Bemba. Aprile: Rd Congo, Rwanda e Burundi rilanciano la
Comunità economica delle nazioni dei Grandi Laghi (nell’acronimo francese:
Cepgl); Bemba parte per il Portogallo, dopo essersi rifugiato per tre settimane
nell’ambasciata sudafricana; Serge Maheshe, giornalista della Radio Okapi, è
assassinato (è il terzo giornalista ucciso nell’Rd Congo dal 2005). Agosto:
Uganda e Rd Congo dicono di volere allentare le tensioni dovute a una disputa
sui confini; aumenta il numero dei rifugiati e sfollati nel Nord Kivu, a causa
della instabilità dovuta alle operazioni del generale dissidente Nkunda. Settembre:
scoppia un’epidemia di ebola.

2008, gennaio. Il governo e le milizie dei ribelli firmano un patto per
porre fine al conflitto nell’Est del paese. Aprile: scontri tra
l’esercito regolare e le milizie hutu (rwandesi). Agosto: nuovi scontri
tra esercito e soldati di Nkunda. Ottobre: le truppe ribelli catturano
la base di Rumangabo; gli scontri si intensificano; l’avanzare delle forze di
Nkunda crea il caos a Goma; le forze dell’Onu ingaggiano scontri diretti con le
forze ribelli, a sostegno dell’esercito regolare. Novembre: nuovo
attacco dei ribelli di Laurent Nkunda; il Consiglio di sicurezza dell’Onu
approva l’aumento temporaneo delle truppe Monuc. Dicembre: operazione
congiunta di Uganda, Sud Sudan e Rd Congo contro le basi dell’Lra nel Nordest
del paese, centinaia di civili uccisi durante gli scontri.

2009, gennaio. Offensiva congiunta (Rd Congo e Rwanda) contro le forze
di Nkunda; Nkunda è arrestato in Rwanda e rimpiazzato da Bosco Ntaganda. Aprile:
riemergono le milizie hutu nell’Est, causando la fuga di decine di migliaia di
persone. Maggio: Kabila concede l’amnistia ai vari gruppi armati, come
tentativo di terminare la guerra. Giugno: la Corte penale internazionale
cita in tribunale l’ex vicepresidente Jean-Pierre Bemba per crimini di guerra;
ammutinamenti di truppe regolari nell’Est per mancanza di paga. Luglio:
una corte svizzera restituisce i conti bancari (congelati) di Mobutu Sese Seko
alla famiglia. Dicembre: l’Onu estende il mandato della Monuc di 5 mesi.

2010, maggio. Il governo preme per il ritiro delle forze dell’Onu. Giugno:
il Consiglio di sicurezza modifica il mandato della Monuc e, avviando una
riduzione del personale, lo proroga fino al 30 giugno 2011. 30 giugno:
celebrazioni per il 50° anniversario dell’indipendenza. Luglio:
offensiva anti-ribelli dell’esercito nel Kivu; creata la nuova commissione
elettorale per preparare le elezioni del 2011; «Operazione Rwenzori» contro i
ribelli filo-ugandesi nel Nord Kivu. Novembre: stupri sistematici
durante le espulsioni in massa di immigrati illegali dall’Angola verso l’Rd
Congo; l’ex vicepresidente dell’Rd Congo, Jean-Pierre Bemba è condotto davanti
alla Corte internazionale dell’Aia; il Club di Parigi cancella metà del debito
estero dell’Rd Congo.

2011, gennaio. Viene cambiata la costituzione. Febbraio: una
corte condanna il colonnello Kibibi Mutware a 20 anni di carcere per stupri di
massa nelle zone orientali del paese. Maggio: il ribelle hutu Ignace
Murwanashyaka è portato davanti a un tribunale in Germania. Luglio: il
colonnello Nyiragire Kulimushi, accusato di aver ordinato stupri di massa
nell’Est del paese, si consegna alle autorità. Settembre: il leader
delle milizie Mai Mai, Gideon Muanga, fugge dalla prigione con 1.000 detenuti. Novembre:
elezioni presidenziali, Kabila ottiene un nuovo mandato.

2012, maggio. Le Nazioni Unite accusano il Rwanda di addestrare
ribelli nell’Est dell’Rd Congo. Luglio: il «signore della guerra» Thomas
Lubanga è condannato dalla Corte penale internazionale. Ottobre: il
Consiglio di sicurezza dell’Onu annuncia l’intenzione di imporre sanzioni
contro i leader del Movimento ribelle 23 Marzo (M23) e contro i violatori
dell’embargo delle armi contro l’Rd Congo; una commissione Onu rivela che
Rwanda e Uganda foiscono l’M23 di armi e supporto logistico.

>  2013, febbraio. In Etiopia firmato un accordo per porre fine al
conflitto nell’Rd Congo; il gruppo ribelle M23 dichiara il cessate il fuoco
alla vigilia dell’accordo. Marzo: il supposto fondatore di M23, Bosco
Ntaganda, si arrende all’ambasciata rwandese ed è trasferito alla Corte penale
internazionale dell’Aia. Agosto: le forze dell’Onu liberano 82 bambini
soldato, arruolati a forza dalla milizia Mai-Mai Bakata-Katanga; intensi
scontri armati tra l’esercito e le milizie del M23. Settembre: oltre 550
bambini lasciano le file dei gruppi armati in Katanga, liberati dalle forze
dell’Onu.

(fonte: MC e
Nigrizia)

 
 
 
tags: Rd Congo, guerra, instabilità, decolonizzazione, Kabila, Zaire, Mobutu, M23, Rwanda, Uganda, Lumumba
 
 
 
 
RD Congo

Superficie:
2.345.409 kmq. Capitale: Kinshasa.
Abitanti
: 72
milioni.
Speranza di vita
:
52 anni.
Adulti alfabetizzati
:
67%.
Crescita demografica
:
3%.
Lingua
: francese
(ufficiale); inoltre: swahili, lingala, chiluba, kikongo.
Ordinamento dello
stato
: repubblica semipresidenziale con Joseph Kabila presidente, al
secondo mandato (novembre 2011).

Risorse economiche:
ingenti sia nel settore agricolo (mais, manioca, patate, arachidi, riso, caffè,
ecc.) sia in quello minerario (rame, stagno, petrolio, argento, diamanti,
ecc.). Ma le infrastrutture (specie le strade) sono quasi tutte in stato di
collasso. Cospicue risorse sono sfruttate da compagnie straniere: Lonrho,
Anglo-American e De Beers (sudafricane), Cluff Resources (inglese), American
Mineral Fields (statunitense), Barrick Gold e Lundin Group (canadesi), ecc.

Religione:
cattolici 48%, protestanti 29%. Seguono le religioni tradizionali e l’islam
(1,4%).

Tags: Rd Congo, guerra, decolonizzazione, Kabila, Zaire, Mobutu, Uganda, Rwanda, Lumumba, M23, sfruttamento minerario, violenze, massacri

MC e Nigrizia




Solo la «Parola» (Do/Rd Congo 3)

Al Centro dell’Africa:


Nel
1998 il desiderio di andare nelle più difficili missioni dell’Alto Uele, su al
Nord, ai confini con Uganda, Sudan e Centrafrica, si realizza. Oltre ogni
aspettativa.

Nel
’98 finalmente mi hanno mandato al Nord, nel centro dell’Africa. Mi è piaciuto
moltissimo. Sono andato a Doruma, vicino al Sudan (vedi MC 4/2014, pag. 57).
Doruma è stata la nostra prima missione nel 1972, insieme a Wamba. Era sede di
diocesi, ma poi, per ragioni di sicurezza e di maggior facilità di
comunicazione, il vescovo ha spostato la sua sede a Dungu. Era una parrocchia
con 75 cappelle disseminate nella foresta, in mezzo agli Azande, un popolo
sparso in tre stati – Centrafrica, Sudan e Congo – dalle spartizioni coloniali
del tempo del congresso di Berlino, quando le potenze hanno diviso l’Africa
senza tener conto dei popoli che ci vivevano.

Mi trovavo finalmente nella missione che avevo sempre
sognato: nella foresta, lontano da tutto, dedito solo ad annunciare il Vangelo.
Invece… in quello stesso anno gli eserciti stranieri che avevano aiutato
Kabila ad arrivare al potere, quando hanno visto che non c’era stata né la
ripartizione di potere né la ricompensa economica che si aspettavano, hanno
ripreso la guerra. Una cosa sporca, in cui erano coinvolte diverse nazioni
africane e, ovviamente, i grandi poteri economici. Kabila ha avuto la meglio.
Ritirandosi verso le loro basi, i militari della Spla (Sudan People
Liberation Army
), ex alleati di Kabila, si sono rifatti saccheggiando anche
tutte le missioni che hanno trovato sulla loro strada.

La foresta, la bicicletta e la Parola

Quando hanno assalito Doruma, non ce lo aspettavamo. Poi
approfittando della loro disattenzione, siamo scappati in foresta con l’aiuto
dei nostri cristiani. Nella giungla, malgrado la paura, siamo stati abbastanza
tranquilli perché i catechisti e giovani vigilavano sulla nostra capanna, una
di quelle che loro usano quando vanno a coltivare nella foresta. Ci siamo stati
un mese. A 7-8 chilometri erano nascoste le suore (agostiniane) che si erano
organizzate meglio di noi uomini e ci hanno mandato dei materassi.

È stata un’esperienza molto bella. Non avevamo niente
perché abbiamo dovuto scappare in fretta e furia. Avevo un paio di ciabatte, i
vestiti che indossavo e la veste bianca che mi ero messo la mattina quando i
sudanesi erano arrivati e mi avevano obbligato ad andare a recuperare nella
foresta dei fusti di benzina che avevamo nascosto. Mi ero messo la veste per
suscitare in loro un po’ di timor di Dio. Anzi, nel tragitto, quando ho
scoperto che erano cattolici, li ho fatti pregare. Ma non è servito a niente,
perché se la preghiera non nasce dal cuore sono solo parole vuote. Infatti poi
hanno saccheggiato e distrutto tutto, portando via ogni cosa. E volevano
portare via anche noi. La gente locale era scappata, ma i guerriglieri hanno
preso i rifugiati sudanesi e, dopo aver bruciato i due campi delle Nazioni
Unite, li hanno forzati a portare il bottino e a rientrare in Sudan. Giunti
alla frontiera hanno obbligato i giovani ad arruolarsi nelle loro file.

Noi siamo ritornati in missione solo dopo un mese. Era
la festa di Tutti i Santi, una domenica. Sono arrivato dalla foresta, nessuno
sapeva del nostro ritorno eccetto qualche catechista. Il paese portava i segni
evidenti del saccheggio fatto dai «fratelli» sudanesi, appartenenti alla stessa
tribù. Ho celebrato la messa. È stata una messa lunga. E ho pianto nel vedere
la gente che, avendo sentito la campana, era venuta fuori dai rifugi nella
foresta e nei campi per riprendere una vita normale.

L’esperienza più bella in quei giorni è stata quella di
girare in bicicletta per visitare le oltre settanta cappelle. Prima, con la
macchina, viaggiavamo sempre con quadei, medicine e merce varia da dare o da
vendere nei villaggi. No, non eravamo commercianti e neppure approfittavamo
della miseria della gente, ma avendo una catena di rifoimento organizzata dai
nostri confratelli di Isiro, riuscivano a procurare provvigioni essenziali
altrimenti introvabili.

Mi sono sentito prete davvero perché con la bicicletta
giravo solo con la Parola di Dio, il pane e il vino per l’eucarestia (si erano
salvati perché i sudanesi non avevano saccheggiato la chiesa), e la gente era
contenta di accogliermi. Mi fermavo due o tre giorni in un villaggio, vivevo in
mezzo a loro, mangiavo come loro, condividevo la loro insicurezza e la gente mi
vedeva proprio per quello che noi dovremmo sempre davvero essere: uomini di
Dio. Non avevo niente, eppure portavo quel che davvero conta: speranza in mezzo
a tanta desolazione, vicinanza a chi è abbandonato da tutti e dimenticato. La
consapevolezza che la Chiesa è lì, con loro. Questo è importante.

Abbiamo ricominciato. Ma a febbraio del ’99 sono tornati
a saccheggiare. La nostra vita là era diventata troppo rischiosa. Bastava che
qualcuno ci facesse avere qualche rifoimento, che un mezzo qualsiasi
arrivasse da Isiro, che subito eravamo assaliti. Così, d’accordo col vescovo,
abbiamo consegnato quella missione alla diocesi e ce ne siamo andati per
sempre, dopo quasi trent’anni di presenza.

Povertà,
forza della missione

Certo quell’esperienza mi ha fatto riflettere. Per una
volta non ero il missionario bianco pieno di soldi cui si può chiedere tutto.
Ero solo un missionario, uomo di Dio, e basta. Probabilmente questa situazione,
unita alla crisi internazionale, fa bene alla missione. In più, le nostre
comunità missionarie sono diventate inteazionali, multietniche e
multiculturali, e i nostri cristiani del Congo vedono che abbiamo già
sacerdoti, fratelli e seminaristi africani e quindi pian piano si sta
abbandonando l’idea che il missionario è solo il bianco e  che essere bianco significa avere potere e
soldi. I nostri cristiani stanno cominciando a capire che devono aiutare i
sacerdoti e prendersi carico di loro. È vero, noi missionari dobbiamo
ringraziare i benefattori e l’istituto, che non ci abbandonano mai. Però il
fatto di non avere più la disponibilità economica di un tempo, aiuta anche la
gente a capire e a crescere nella propria responsabilità.

Certo va anche detto che molti dei progetti di sviluppo
che la Chiesa ha fatto in Congo, li ha dovuti fare perché lo stato era assente,
perché se ci fosse uno stato che fa scuole, ospedali, centri di salute, non ci
fossero ribellioni, ci fosse una vita normale, chiaramente come missionari
saremmo più dedicati alla Parola di Dio, alla comunità, alla formazione, alla
pastorale diretta. Invece il missionario ancora oggi, almeno qui in Congo, deve
continuare a pensare alla scuola, all’ospedale, al pozzo, all’acqua, alla
strada, al ponte perché le autorità locali non si muovono.

Missione e soldi, che fatica

A volte provo frustrazione al pensiero di essere
prigioniero di un meccanismo perverso di «missione – povertà – soldi», di «missionario
– soldi e soluzione a tutti i problemi». Tante volte è difficile far capire
alla nostra gente che se siamo lì insieme dobbiamo camminare insieme, senza
delegare tutto al missionario, restando degli eterni bambini. Però,
onestamente, ci sono delle situazioni di fronte alle quali non puoi stare con
le mani in mano. Per esempio, i nostri giovani che devono andare all’università,
alle volte mancano loro quei 200 o 300 dollari per finire di pagare le tasse;
oppure per l’ospedale: quando non hanno i soldi per pagare le cure e le
medicine e non c’è alcuna assistenza sanitaria, che fai? Li lasci morire così?

Tutti sanno che il Congo è ricchissimo e potrebbe essere
una nazione prospera. Ma tutti rubano; a tutti fa comodo un paese fuori
controllo. Basta guardare la situazione dei Grandi Laghi (*). Chi approfitta
del caos per rapinare le risorse? E così noi missionari continuiamo a chiedere
alla nostra Chiesa d’Europa di aiutarci per portare avanti tanti programmi di
pastorale, educazione, sanità e sviluppo. Veramente ho un po’ di rabbia e di
vergogna nel cuore. Però devo accettare anche questo, perché so bene che quel
che sto chiedendo non è per me, è per la nostra gente, è per aiutare i nostri
giovani che vogliono uscire dall’ignoranza, dalla dipendenza, dalla spirale
della violenza e della povertà per essere, un giorno, responsabili della loro
vita e del loro paese, il Congo.

 (*) A questo proposito è
sempre valido il numero monografico di MC, «Le mani sul Congo»,
pubblicato nell’ottobre-novembre 2004.

tags: Rd Congo, guerra, decolonizzazione, Kabila, violenze, massacri, Spla, profughi, saccheggi, missione, povertà, annuncio

Rinaldo do e Gigi Anataloni




Eroi per scelta (Do/Rd Congo 4) 

L’epoca
Mobutu è finita. Kabila ha ufficialmente inaugurato un paese che si dice
democratico. Ma la pace è ancora un sogno e tutta la regione dei Grandi Laghi,
alla cui periferia è l’Alto Uele dove ci sono i missionari della Consolata, è
i di milizie, ribelli, ladroni, sfruttatori vari.


Missionari in guerra: eroi per scelta

Ritorniamo a Doruma. L’avventura è
durata fino al 1999, a febbraio. Io sono stato per undici mesi l’ultimo parroco
della Consolata, e poi abbiamo dovuto chiudere, come ho già raccontato. Siamo
andati allora a Isiro, la capitale dell’Alto Uele, dove noi missionari abbiamo
il nostro centro. La guerra continuava, non c’era più comunicazione con
Kinshasa, il paese era diviso. Noi eravamo sotto gli ugandesi e ruandesi, a
Kinshasa erano sotto Kabila. Per questo abbiamo dovuto dividerci in due gruppi
indipendenti. I missionari della Consolatanella capitale avevano padre Stefano
Camerlengo come superiore e io sono stato eletto superiore del gruppo del
Nordest, e avevo la mia base a Isiro. Ho fatto questo servizio per sei anni.

A Isiro non c’era pace. Un giorno arrivava un gruppo di
ribelli che prendeva il controllo della città, poi arrivavano nuovi ribelli
contro quelli di prima, tutti contro Kabila, ma in lotta tra loro per avere il
controllo della città e soprattutto del suo aeroporto. I ribelli venivano
sempre in casa a chiedere la macchina, la moto… dovevamo sempre avere pronto
qualcosa per tenerli buoni. Nonostante la guerra ci sono stati degli italiani
che sono venuti a trovarci (via Uganda) per realizzare dei pozzi a Bayenga (MC
dicembre 2002, pag. 17
). Mentre erano là è scoppiata la guerra tra due
gruppi di ribelli e loro sono stati presi in mezzo. Sono andato a liberarli ed è
stata tutta un’avventura … veramente il Signore ci ha protetto.

Consolazione

In quel caos come missionari della Consolata abbiamo
fatto la scelta più ovvia: essere presenza di consolazione. Consolare
significava cercare di portare avanti le scuole, l’ospedale di Neisu, il centro
nutrizionale per bambini malnutriti, la pastorale degli studenti. «Prima o poi
la guerra finirà, ci siamo detti, cerchiamo quindi di aiutare i nostri giovani
a proseguire negli studi».

Stato disastroso della scuola

La scuola è stata una delle nostre priorità. Anche se
eravamo in guerra i responsabili della scuola e del ministero dell’educazione
continuavano a esserci. Il potere ugandese pensava solo al controllo e di
sfruttamento delle ricchezze, però tutto quello che era la vita normale: sanità,
scuola, burocrazia, continuavano a modo loro. Chiaramente dovevano dipendere
dal capo dei ribelli, a volte appoggiato dall’Uganda, altre volte dal Ruanda.
Le convenzioni tra Chiese e stato per la scuola erano sempre valide e quindi il
responsabile designato dal vescovo per l’educazione doveva far continuare le
nostre scuole elementari, medie e superiori.

Il finanziamento era un problema. Lì la scuola è sulle
spalle dei genitori da tanto tempo. Noi abbiamo puntato molto sulle adozioni a
distanza per far studiare bambini e giovani. E continuiamo ancora. Lo stato, da
quando è tornata la pace, ha cominciato a pagare alcuni maestri e professori
che sono stati riconosciuti. Però oggi come oggi a Isiro è ancora la famiglia
che paga la maggior parte dei maestri.

Uno dei problemi più gravi era la mancanza di testi. Il
maestro insegnava basandosi sugli appunti che lui aveva preso da studente. Li
scriveva sulla lavagna e i ragazzi li copiavano sui loro quadei.
I quadei arrivano in bicicletta dall’Uganda o dal Sudan. Questo ha creato una
situazione disastrosa. Da anni i maestri si passano gli appunti ricevuti dai
loro maestri, con una moltiplicazione di errori e imprecisioni. La situazione è
così, purtroppo. A Kinshasa so che il governo sta distribuendo dei libri grazie
agli aiuti inteazionali, ma al Nord è difficile vedere libri nelle scuole.
Noi abbiamo fatto dei progetti specifici, come a Neisu e Bayenga: se non un
libro per bambino, almeno uno per maestro, e libri nella biblioteca, così che i
ragazzi siano stimolati a studiare e conoscere. Durante la guerra era quasi
impossibile avere libri. Adesso che i rapporti con Kinshasa sono riaperti va
meglio, ma rimane il problema del costo. Da Kinshasa arriva tutto per aereo a
costi molto alti e questo rende i libri una merce rara e costosa.

Questo era ed è lo stato della scuola. Meglio non
parlare della sanità.

Evangelizzazione e/o sviluppo

Nel Nord del Congo abbiamo ancora quindici missionari in
quattro comunità (Isiro, Bayenga, Neisu e Somana). Anche se la situazione
sociale e politica è molto complicata e gran parte delle nostre energie sono
assorbite nell’affrontare problemi materiali, il centro della nostra azione
rimane l’annuncio del Vangelo. Costruire una scuola, mettere a posto un ponte,
una fontana, una strada sono tutte attività che si fanno insieme alle comunità
di base, al villaggio che si riunisce anzitutto nella chiesa, nella preghiera,
nella messa. L’impegno per migliorare la vita trova la sua radice dall’annuncio
del Vangelo. La nostra presenza è valida. Non siamo semplici operatori di una
Ong. Avessimo più personale… I vescovi ci chiedono di aprire altre missioni in
zone dove non ci sono ancora preti, ma non abbiamo personale. Mancano
missionari che vengano in Congo. È un problema. A dispetto delle difficoltà
economiche e strutturali, lo scopo della nostra presenza è essere in mezzo alla
gente, annunciare il Vangelo, celebrare l’eucarestia, far crescere le comunità
pian piano: questo è il nostro mandato, il nostro essere missionari.

Chiesa è
speranza

Una delle realtà belle di questi anni è stata la
crescita della Chiesa congolese, che – come laici, preti, suore, vescovo – è
stata davvero un’ancora di speranza per il nostro popolo. E continua a esserlo,
una chiesa impegnata nella società civile. Là dove c’è la Chiesa c’è ancora una
speranza.

Quando siamo arrivati nel ’72 non c’erano molti
sacerdoti locali. Adesso tutte le diocesi hanno i loro sacerdoti, e ci sono i
catechisti e le piccole comunità di base. Però è così esteso questo nostro
Congo, che ha ancora bisogno di missionari che collaborino con la chiesa
locale. Di fatto non facciamo più tutto noi da soli come un tempo. Oggi si
collabora strettamente col clero locale, coi vescovi, i catechisti, i laici.
Per questo la formazione dei laici è una delle nostre priorità.

Si pensi solo a un fatto. Quando ci sono state le prime
elezioni democratiche, chi era che arrivava nei paesini a spiegare perché e
come votare? Erano i nostri animatori di base, i nostri cristiani. Le comunità
di base, i catechisti, gli animatori sono la nostra forza. Ma anche le nostre
diocesi sono una forza che dà speranza alla nostra gente. Guai se non ci fosse
la Chiesa. Nonostante le difficoltà, malgrado le deficienze. Però il fatto che
i cristiani siano lì, che i sacerdoti siano lì, che i religiosi siano lì e noi
missionari della Consolata siamo ancora lì, è un segno della presenza del
Signore tra tanta miseria.

Quale futuro

Noi speriamo in un futuro. Il
problema è questa guerra che non finisce mai. Penso solo alla diocesi di Dungu:
c’è stata la presenza dell’Lra, ribelli che venivano dall’Uganda. Adesso non so
quanti gruppi di ribelli ci sono. Ogni tanto ne nasce uno nuovo. Per dominare e
sfruttare. Non hanno interesse per il popolo. Vogliono dominare e avere soldi.
Spesso sono militari mal pagati nell’esercito che disertano con le armi in
mano, diventano ribelli di un gruppo con un capo forte che controlla la
situazione. Ma sono più organizzazioni di ladri e banditi che gruppi politici.
Rubano i minerali (oro, diamanti, coltan) ma anche i raccolti della nostra
gente. E causano migliaia e migliaia di sfollati. Basta ricordare quel che
succede a Goma e Bukavu.

Noi, a Isiro, siamo abbastanza tranquilli. Abbiamo avuto
un po’ paura prima di Pasqua del 2013 perché abbiamo sentito che un gruppo di
ribelli era a circa 200 km, ma poi non sono arrivati. Purtroppo quando arrivano
è dura: applicano tasse, spillano soldi, controllano il commercio,
saccheggiano. Nelle zone di Isiro ci sono delle aree di diamanti e oro. I
nostri giovani, attratti da questo, abbandonano le loro case, il loro lavoro in
campagna e la scuola e vanno in quelle aree, ma non è che tornino poi con dei
soldi, perché chi guadagna non è il povero Cristo, il giovane o ragazzo che va
nelle gallerie o nell’acqua a scavare, sono solo i capi che incamerano tutto.

Il futuro della nostra zona non è nei minerali. Se
vogliamo dar futuro al Nordest del Congo occorrono strade per dare sbocco ai
prodotti agricoli, ché il terreno è fertile. Poi, avendo coltivazioni,
potrebebro anche venire delle fabbriche che diano lavoro… nel futuro. Si
coltiva riso, fagioli, banane, arachidi, olio di palma. Caffè e cotone
purtroppo sono stati completamente abbandonati per la solita cronica mancanza
di strade che ne impedisce il commercio. Una volta c’erano fiorenti piantagioni
di caffè, ora è un degrado completo, a cominciare ancora dai tempi di Mobutu,
quando ha voluto nazionalizzate tutto, comprese le piantagioni di caffè e di
olio di palma.

Avessero ascoltato anche solo il 50%

La Chiesa, come conferenza
episcopale, si raduna due o tre volte l’anno e prende sempre posizione sui
problemi del paese. Quante volte la Chiesa ha parlato contro questa guerra che
vuol balcanizzare il Congo, che è una guerra d’interessi contrapposti
maneggiati da fuori. Anche nel 2012 ad agosto si era fatta una grande
manifestazione in tutta la nazione contro la guerra che è scoppiata con l’M23
che intendeva separare le zone ricche, dividendo il paese.

La Chiesa si fa sentire a tutti i
livelli e con forza. Se i governanti avessero ascoltato anche solo il 50% di
quello che è scritto nei documenti della Chiesa! Perché se c’è una forza locale
che sa leggere la situazione dal punto di vista economico, sociale e politico,
questa è la Chiesa. Dal ’91 la Chiesa ha sempre denunciato questa situazione.
Ma chi l’ascolta?

Il jolly, missionario tappabuchi

Dall’agosto 2008 allo stesso mese del 2011 mi han
chiesto di fare il superiore di tutte le comunità, risiedevo a Kinshasa, ma ero
sempre in movimento anche per seguire il nostro gruppo di Isiro. Finito il mio
compito, ho passato tre anni, fino all’agosto 2013, a fare il tappabuchi.
Avendo esperienza sia del Nord che dell’Est, mi hanno fatto fare il jolly: ho
sostituito i confratelli che andavano in vacanza o avevano problemi di salute a
Kinshasa e a Isiro. Ultimamente ero a Somana, un quartiere popolosissimo di
Isiro che presto sarà parrocchia. È una comunità di periferia con qualche
cappella in piena campagna e nella foresta. Il mio lavoro è stato il solito:
scuola, salute, giovani e in più anche quello degli anziani.

Sì, questa degli anziani è una cosa che devo dire.
Quando studiavo da giovane missionario mi insegnavano che l’anziano africano è
rispettato e riverito. Purtroppo non è più così. Abbiamo tanti, tanti anziani
(a 60 anni sei già vecchio in Africa) che sono abbandonati da tutti, non nei
villaggi dove la vita tradizionale tiene ancora, ma nelle periferie dellà città.
Kinshasa è enorme, ma anche Isiro ha oltre duecentomila abitanti. Ci sono figli
che abbandonano i genitori anziani o li accusano di malocchio e stregoneria, e
questi sono costretti a vivere da soli, senza risorse. Non solo i bambini sono
accusati di stregoneria, ma anche gli anziani. E quindi sono abbandonati. E
quando li incontri, vedi il dolore di questi padri, di queste madri che hanno
allevato cinque o sei figli e si ritrovano lasciati a se stessi in solitudine.

Un missionario contento

Io sono contento di essere missionario in Congo, ormai
sono vent’anni. Rifarei tutto. E ho un sogno: che i nostri ragazzi possano
crescere, andare a una scuola normale, che i padri di famiglia possano lavorare
e possano avere una vita dignitosa. Non chiedo grandi cose: desidero solo la
normalità che invece non c’è. Il sogno che questo paese, così ricco in umanità,
in agricoltura, in foreste, in minerali sia della sua gente, sia un paese dove
si possa lavorare, avere una vita degna, umana. Invece si soffre. Siamo sotto
la soglia del livello di povertà, uno degli ultimi paesi nella graduatoria
mondiale. Eppure è un paese che potrebbe far vivere bene tutti e dae anche
agli altri, con tutte le ricchezze che ci sono. Ho il sogno della quotidianità
più normale dove la nostra gente possa lavorare, guadagnare, vivere con le cose
fondamentali: salute, acqua, lavoro, libertà, mezzi di comunicazione e
trasporto, strade. La quotidianità della pace.

Ai lettori di Missioni Consolata

Leggete Missioni Consolata perché è una porta aperta sul
mondo che ci fa sentire più universali. Il leggere cosa capita nel mondo aiuta
il cristiano italiano a essere più cristiano qui in Italia. Essere cristiani e
aiutare i missionari non è solo mandare dei soldi o pregare per noi, il che è
molto bello e di cui vi ringrazio, ma anche impegnarsi ad accogliere, a
conoscere, a salutare, a non aver paura dello straniero. Accogliere colui che
viene. Perché i nostri fratelli che vengono dall’Africa, dall’Asia o
dall’America Latina, eccetto qualcuno che viene per turismo o opportunismo, per
la gran parte arriva seguendo il sogno di una vita dignitosa. Io capisco i
giovani del Congo che scappano. Pensano di avere in Italia o in Europa un
futuro.

Ai giovani lettori di MC dico
siate contenti di essere lettori di MC e sappiate che l’annuncio del Vangelo
richiede ancora dei giovani capaci di dare tutto. Noi lavoriamo con dei laici,
ed è bellissimo, però abbiamo ancora bisogno di gente capace di lasciare tutto
per il Vangelo. Abbiamo ancora bisogno dei missionari e di missionari della
Consolata con cuore grande che sappiano amare in questo mondo pieno di miseria,
guerre e divisioni, e credere che il bene è sempre più grande. Sono convinto
che anche in Congo, malgrado la situazione, faccia più rumore un albero che
cade, le nostre guerre e la nostra sofferenza, che i mille alberi che stanno
crescendo.

Epilogo

Dopo questa lunga chiacchierata che risale al maggio
2013, padre Rinaldo Do è rientrato in Congo. Dopo alcuni mesi passati come
viceparroco nella parrocchia Mater Dei di Mont Ngafula a Kinshasa, dal marzo
2014 è parroco di Neisu, nel Nordest, dove c’è il grande ospedale fondato da
padre Oscar Goapper, che là è sepolto.

___________________________

MC ha pubblicato molto
sul Rd Congo. Leggendo questo articolo su www.rivistamissioniconsolata.it
trovate i collegamenti a molti degli articoli pubblicati dal 2000 in avanti.
Eccone alcuni:

E sul muro una scatola vuota
A scuola con una bottiglia d’olio
NEISU (CONGO, RD): QUASI UN DIARIO «IO SONO LUCA»
CONGO – L’amore grande di Anghele
CONGO – Dopo cena, sotto la “pailotte” e altrove
CONGO, RD – Con le mani nel fango
BAYENGA (R.D. CONGO): storia di ordinaria insicurezza
NEISU (R.D. Congo): emozioni di un viaggio attesa
NEISU (R.D. Congo): storica assemblea su una questione
scottante
Futuro… in costruzione
Piccoli uomini, grandi inquietudini
Congo-Rwanda: guerra infinita
Scomparsi due milioni di voti
Voci dal Congo

Il folle dell’Africa centrale
Nel cuore dell’Africa

Tags: Rd Congo, missionari, evangelizzazione, vita missionaria, guerra,
instabilità, decolonizzazione, Kabila, Doruma, povertà, rifugiati, Chiesa, scuola, educazione, riconciliazione, pace

Rinaldo do e Gigi Anataloni




Voci dal Congo

Qui Kinshasa

Il presidente uscente vince al primo tuo e si proietta verso il secondo mandato di 5 anni. Ma i disordini non mancano. La gente, però, sceglie pace e stabilità.

Kinshasa è famosa per il gran numero di persone che camminano per strada. I quartieri di Masina e Kingasani sono conosciuti come «Cina Popolare» per la quantità di gente che c’è ovunque. Attraversare la strada diventa un’esperienza nella quale occorre combinare audacia, rapidità e prudenza. La capitale ha quasi 10 milioni di abitanti ed è molto estesa, perché pochi sono gli edifici a più piani.
A partire dal 28 novembre e fino a metà dicembre, tutto era diverso. Il giorno delle elezioni non si vedeva circolare quasi nessun veicolo. Dei taxi, imprescindibili per spostarsi in città, neanche l’ombra.
Quel giorno ho fatto un giro e ho inconrato gente piuttosto disorientata. Nella tessera elettorale c’era il nome del collegio, ma quando vi arrivavano lo trovavano chiuso e dovevano recarsi altrove. I commenti erano: «Vogliono ubriacarci affinché non votiamo», «Dove dobbiamo andare?», «Sicuro che hanno trasferito anche il mio nome?». Alcune persone hanno passato più di quattro ore cercando il proprio collegio elettorale, finché hanno potuto votare.
Altri non hanno avuto questa fortuna. Trovato il seggio, il loro nome non era sulla lista e hanno dovuto tornare a casa stanchi e arrabbiati con il sentimento di essere stati presi in giro.
Sabato, il giorno della chiusura della campagna elettorale, è stato un giorno difficile. I tre maggiori candidati dovevano fare il comizio finale, ma nessuno ha potuto farlo. Ci sono stati scontri tra i diversi gruppi di sostenitori, e la polizia li ha repressi brutalmente. Carine, un’amica mi ha chiamato al telefono per sapere la situazione dalla nostra parte della città. Le ho detto che era tutto tranquillo. Lei invece era sdraiata a terra da oltre due ore, vicino a sua madre e a sua sorella maggiore, perché si sentivano diversi spari nelle vicinanze e c’era il rischio che proiettili vaganti entrassero in casa. La settimana dopo le elezioni le scuole continuavano a essere chiuse e c’erano pochissimi mezzi e taxi in circolazione. Si viveva una calma tesa. Tutti stavano aspettando che accadesse qualcosa di strano in un qualsiasi momento. 
Il sabato alcuni bambini sono venuti a trovarci a casa. È stata una sorpresa perché era quasi una settimana che nessuno veniva a visitarci. Non ne potevano più di stare in casa. Erano già due settimane che non avevano corsi e non sapevano cosa fare. Questo mi ha fatto pensare al ritardo scolastico che può comportare una situazione come questa. Parlando di guerre e conflitti si contano le vittime e i feriti, i danni materiali, ma non si parla dei bambini che non possono andare a scuola o degli universitari che, pur avendo pagato le tasse, perdono l’anno.  

I giorni passavano e la Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni) ha iniziato a rendere pubblici risultati parziali. Si sentiva in giro un’aria di delusione. Molti congolesi avevano l’impressione che li stessero ingannando e prendendo in giro. Erano disillusi. Si sentivano commenti del tipo: «Hanno riso di noi. Non andrò mai più a votare in vita mia». La gente aveva fatto molti sforzi per ottenere la tessera elettorale. E questa è una città dove si vive giorno per giorno, non si ha l’opportunità di economizzare, non ci si può permettere il lusso di passare due giorni in coda.

Finalmente è arrivato il 14 dicembre, il giorno della proclamazione dei risultati provvisori. Era venerdì. La città era completamente deserta e io tornavo dal lavoro alle due del pomeriggio. Un percorso che faccio normalmente in oltre un’ora non mi ha preso più di dieci minuti. Arrivato a casa, trovai tutta la comunità del Teologato davanti alla Tv. L’annuncio era imminente. Iniziarono alle tre a trasmettere i risultati con discorsi interminabili, che facevano anche riferimento a «Dio onnipotente». I risultati venivano scanditi per regione secondo il numero di voti di ogni candidato. Oltre un’ora per arrivare ai totali. Incredibile!
È stato ancora più incredibile constatare quello che si temeva, confermato dalla Ceni: una differenza di tre milioni di voti tra Kabila e Tshisekedi. Nelle province in cui Kabila aveva vinto, la percentuale di partecipazione si avvicinava … al 95%! Per evitare disordini, l’esercito e la guardia repubblicana avevano isolato le zone strategiche della città. Sembrava di vivere in uno stato di assedio. C’erano blindati a lato delle strade e autobotti che sparavano acqua calda dove si riuniva un gruppo numeroso.  I tentativi di manifestazione erano repressi immediatamente. Il governo aveva anche impedito la trasmissione di sms. Così per oltre un mese nessuno in Rdc ha potuto inviare messaggi, si potevano solo ricevere dall’estero. Tutto questo per ostacolare la capacità di convocazione di manifestazioni, visto che c’è poca gente collegata quotidianamente a Inteet e usare i social network era difficile.
Altro dato significativo: Kabila non ha convocato neppure i suoi sostenitori per ringraziarli del loro appoggio durante il processo elettorale.
Tutti hanno manifestato disaccordo con le irregolarità dello scrutinio: i candidati, i partiti politici, la società civile, la chiesa cattolica, la comunità internazionale.
C’era un’aria di tristezza in tutta la città. Anche se Tshisekedi non avesse vinto le elezioni in tutto il paese, però certo, era chiaro che Kabila non avesse vinto con la differenza che mostravano i risultati finali.
Eravamo ormai alla vigilia di Natale, ma devo riconoscere che quest’anno non c’era un clima di festa e nemmeno il desiderio di farsi gli auguri per il nuovo anno. Se si facevano gli auguri a qualcuno, questi ti guardava in faccia come per dire: «Lo dici sul serio o stai prendendomi in giro?».

Ramón Lázaro Esnaola

 

Ramón Lázaro Esnaola




Congo-Rwanda: guerra infinita

Chi è Laurent Nkunda, generale ribelle

I Grandi Laghi africani sono teatro di guerra da oltre 12 anni. Le ricchezze dell’Est della Repubblica Democratica del Congo attirano la cupidigia dei paesi vicini. Le connotazioni etniche diventano strumentali alla rapina delle risorse. Dopo l’ultima scintilla nel Nord Kivu forse qualcosa sta cambiando. Storia di un generale (tutsi) congolese, al servizio del Rwanda.

L’ultimo atto clamoroso della guerra infinita nella Repubblica Democratica del Congo è l’ingresso autorizzato dell’armata ruandese in Nord Kivu, regione orientale, teatro dei duri scontri degli ultimi mesi. Dopo anni di guerra e feroce inimicizia, all’improvviso i governi di Congo e Rwanda si sono accordati per condurre un’operazione militare congiunta contro le Forze democratiche per la liberazione del Rwanda (Fdlr), le milizie hutu ruandesi. Ma a sorpresa la prima «vittima» illustre del nuovo corso politico-militare è stato il generale ribelle Laurent Nkunda, che per anni ha seminato il panico nel Nord e nel Sud Kivu e che nei mesi scorsi ha tenuto in scacco Goma provocando migliaia di sfollati. Nkunda è stato arrestato in Rwanda il 22 gennaio scorso.
Da tempo si vociferava che Nkunda fosse la longa manus del presidente ruandese Paul Kagame, ma le prove inoppugnabili sono arrivate solo lo scorso dicembre, quando un gruppo di esperti nominato dalle Nazioni Unite ha pubblicato un rapporto che documenta per filo e per segno tutti i supporti ricevuti dai vari gruppi ribelli della zona, con tanto di email, fax, documenti bancari.
In più, allegata al rapporto, un’appendice i cui contenuti sono secretati «per proteggere l’integrità delle fonti» e di cui si può solo ipotizzare l’effetto esplosivo. Un terremoto. Ciò che non erano riusciti a fare i colloqui di pace e i vari tentativi delle diplomazie di mezzo mondo, lo ha ottenuto un rapporto dell’Onu. O, meglio, le sue conseguenze: Paesi Bassi e Svezia avevano subito sospeso le sovvenzioni al Rwanda e lo stesso minacciava di fare la Gran Bretagna.
Per un piccolo paese che per metà si regge sugli aiuti inteazionali, era troppo. Questa, forse, una delle spiegazioni dell’improvviso voltafaccia di Kagame nei confronti dell’(ex) pupillo Nkunda.

Arresto o mossa politica?

Subito dopo la sua cattura, circolano diverse ricostruzioni dei fatti. Già abbandonato da parte del suo esercito che si era messo con lo «scissionista» Bosco Ntaganda, Nkunda sarebbe stato preso di sorpresa e catturato in un tentativo di fuga sul territorio ruandese.
A distanza di tempo, i dubbi si addensano proprio su questo particolare: il generale ribelle è stato catturato non in Congo, ma dopo essere entrato in Rwanda. E da quel momento, non si sa bene dove sia e in che condizioni. Pare sia «agli arresti domiciliari» a Gisenyi (cittadina ruandese proprio al confine con Goma e il Congo) con l’impossibilità di comunicare con il resto del mondo. Da Kinshasa, continuano le richieste di estradizione per poterlo processare, ma la risposta è interlocutoria e sembra sempre più chiaro che non verrà dato seguito alla domanda. Il generale ribelle, inoltre, dichiara di avere nazionalità ruandese, ottenuta grazie al suo servizio nell’esercito di Kagame.
Nkunda, è bene ricordarlo, è sotto mandato d’arresto dell’alta corte militare congolese, mentre un dossier su di lui è in fase di istituzione al Tribunale penale internazionale (Tpi). 
Tuttavia, se anche ci fosse un’improvvisa accelerazione e arrivasse un mandato dall’Aja, Nkunda sarebbe al sicuro, dato che il Rwanda è tra i paesi che non riconoscono l’autorità del Tpi. È ancora difficile dire se la cattura del generale ribelle sia stata effettiva o solo un’abile mossa politica. Si vedrà. Ma i dubbi restano e sono legittimi: come immaginare che Kagame lasci processare chi conosce così tanti segreti?

Vita da ribelle

Protagonista da oltre un quindicennio di tutto ciò che accade nell’Est del Congo, Laurent Nkunda Batware nasce il 2 febbraio 1967 nel territorio di Rutshuru (a nord-est di Goma) da una facoltosa famiglia di allevatori tutsi (a volte erroneamente definiti banyamulenge: questi sono sì tutsi congolesi, ma solo quelli che vivono da generazioni nel Sud Kivu, sulle colline di Mulenge, da cui traggono il nome).
Giovane studioso, ottiene buoni risultati a scuola, ma si distingue anche per il carattere ribelle: non ha ancora 17 anni quando, al comando di un folto gruppo di collegiali, prende d’assalto un posto di polizia in cui è detenuto un loro professore.
Cresce sentendosi un cittadino di serie B, discriminato perché tutsi: questa sensazione si acutizza quando prosegue gli studi universitari a Kisangani, nella Provincia Orientale, dove la sua fisionomia (alto e magro) lo rende facile bersaglio di uno scherno che lui mal sopporta. Lascia l’università e riprende gli studi a Kigali, in Rwanda, dove di certo si sente più a suo agio.
Qui si iscrive all’università avventista di Mutende, ed essendo un fervente credente, si prepara a diventare pastore; ma i suoi insegnanti si oppongono a causa del suo carattere incontrollabile. Un altro smacco per lui. Quando il 1 ottobre 1990 Laurent Nkunda apprende del massacro di studenti e professori tutsi all’università di Mutende, lo shock lo convince a darsi alla causa della difesa dei tutsi.
Entra nel Fronte patriottico ruandese (Fpr) di Paul Kagame, poi nell’Armée Patriotique Rwandese (Apr), il braccio armato dell’Fpr. Viene mandato in Uganda per la formazione militare. Coinvolto in «operazioni speciali» si sposta spesso tra Uganda, Kivu e Rwanda. Nel 1994, durante la «liberazione» di Kigali, è sergente dell’Apr e membro del servizio informativo.
Ed è proprio dal genocidio ruandese che ha origine anche il dramma del Congo: una marea umana in fuga si riversa oltre confine, accampandosi a Goma. Tra loro, anche ex militari e i miliziani interahamwe, responsabili del genocidio e tutt’ora ricercati dal governo di Kigali. Nel giugno 1995, vengono uccisi 51 membri della famiglia di Nkunda.

La (prima) guerra del Congo

L’anno successivo Nkunda, nominato comandante, partecipa alla marcia su Kinshasa che provocherà la caduta del governo di Mobutu e la salita al potere di Laurent-Désiré Kabila. Nkunda non arriva fino a Kinshasa: la sua marcia si ferma a Kisangani, dove viene paradossalmente destinato ad occuparsi della sicurezza di un giovane ancora sconosciuto: Joseph Kabila.
Dopo la «liberazione» del Congo, tutti i combattenti confluiscono nel nuovo esercito nazionale, senza distinzione d’origine. Al loro comando, il generale James Kabarebe (ruandese), l’uomo a fianco del quale dodici anni più tardi, il 16 gennaio 2009, il «nuovo capo» dissidente del Congresso nazionale per la difesa del popolo (Cndp) Bosco Ntaganda annuncerà la fine della guerra con il governo di Kinshasa.
Ma torniamo al 1998: la luna di miele tra Kabila padre e Kagame è già finita. Scoppia la seconda guerra del Congo e comincia la caccia ai tutsi, che non risparmia neanche i militari. Nkunda si mette di sua iniziativa a capo di una brigata per liberare i compagni rimasti intrappolati a Kisangani.
Il 16 gennaio 2001, Laurent-Désiré Kabila viene ucciso e al suo posto diviene presidente Joseph Kabila. Nel frattempo, Nkunda diventa colonnello e viene messo a capo della 7a brigata delle Forze armate congolesi (Fac), parte dell’esercito congolese, ma in realtà alle dipendenze di Kigali. Nel 2002 reprime nel sangue un ammutinamento a Kisangani: è questo il primo episodio che gli attira accuse di crimini di guerra da parte delle Ong.
A fine 2002, gli accordi di Pretoria pongono ufficialmente fine alla guerra. Ma lui li snobba e rifiuta di prestare giuramento al nuovo governo. A metà 2003 crea l’associazione Synergie nationale, che ha anche un ramo armato, chiamato Anti-genocide team (squadra anti genocidio). L’anno successivo marcia su Bukavu, capoluogo del Sud Kivu, per aiutare il generale tutsi Mutebusi in rivolta contro Kabila. Bukavu è occupata e razziata per quattro giorni.

Tutti a caccia di Nkunda

Kinshasa destituisce Nkunda e lancia contro di lui un mandato d’arresto internazionale, mentre il Consiglio di sicurezza dell’Onu lo inserisce nella lista nera di chi è interdetto ai viaggi. Nel dicembre 2004 il governo congolese manda contro di lui la prima offensiva, denominata «operazione Bima», che si risolve in un cocente fallimento. Il 25 agosto 2005 Nkunda crea il Cndp, movimento strutturato, disciplinato, ardentemente seguace del leader, secondo la dottrina avventista che Nkunda stesso chiama justicisme chrétien, neologismo per indicare una sorta di giustizialismo cristiano. Nei territori a nord di Goma che il Cndp controlla, il movimento si autofinanzia con tasse imposte alla popolazione e tramite il controllo del posto di frontiera di Bunagana, esigendo imposte sulle merci in transito e di conseguenza controllando tutto il traffico (per lo più illecito) di minerali e risorse naturali.
Altre fonti di reddito sono l’appoggio finanziario inviato da chi sostiene la sua causa anche dall’estero, dai simpatizzanti in Europa, negli Usa e in Sudafrica. Tutto è documentato nel rapporto del gruppo di esperti Onu. Il resto è cronaca recente.

Futuro incerto

Tolto di mezzo Nkunda, le truppe ruandesi restano in Congo per proseguire il lavoro congiunto con le Fardc (l’esercito regolare della Rdc) per la cattura delle Fdlr, i combattenti hutu ruandesi rifugiati in Congo dopo il genocidio.
Il presidente Kabila continua a ripetere che l’operazione avrà termine presto e che i soldati di Kigali rientreranno a casa loro. Ma la popolazione non si fida. Il timore espresso da più parti è che la cattura delle Fdlr sia una scusa e che – essendo quasi impossibile catturarli tutti, specie quelli nascosti nella foresta – la missione finisca col venire prolungata ad libitum e risultare copertura della reale occupazione del Nord Kivu da parte del governo ruandese, affamato di terre e risorse. Scusa utilizzata dal governo di Kigali ormai da oltre 10 anni.
Ci si domanda, ad esempio, perché l’operazione militare sia concentrata nel Nord Kivu, quando il nucleo forte delle Fdlr si trova nel Sud Kivu. Alcuni con ottimismo (o con rassegnazione) dicono che forse questa è l’unica via per una reale pacificazione, o una normalizzazione della zona, che consenta alla popolazione almeno di vivere senza il terrore di guerre, stupri e saccheggi. Altri, meno ottimisti, temono che non sia altro che l’avvio di un’ennesima, cruenta fase della guerra infinita dei Grandi Laghi. 

Di Giusy Baioni

Giusy Baioni




«Le mani sul Congo»

Egregio direttore,
ho letto con molto interesse il numero speciale «Le mani sul Congo» (ott-nov. 2004). Vi ho trovato una fedele trascrizione della realtà congolese e una corretta interpretazione della situazione politica, sociale ed economica.
Sono un ex ufficiale pilota dell’aviazione militare dell’ex Zaire e rifugiato politico in Italia per 13 anni (1984/1997). Durante il mio esilio ho collaborato con Amnesty Inteational per il rispetto dei diritti umani violati dal regime di Mobutu; sono molto soddisfatto del mio soggiorno in Italia. Di ritorno al mio paese, sono stato designato Direttore generale dell’immigrazione, ma sono stato sospeso e sto attendendo da più di 18 mesi dal capo dello stato la soluzione del mio caso.
Il suo editoriale «Un paese esemplare» ha per me un significato molto importante, perché fa comprendere al popolo congolese e alla comunità internazionale la giusta via per far trionfare la pace nel mio paese. Poiché è scritto in italiano, i congolesi non possono venie a conoscenza e per questo motivo l’ho tradotto e vorrei utilizzarlo nel libro che sto scrivendo e che sarà presto pubblicato. Vista l’importanza dell’articolo, vorrei utilizzarlo come conclusione del libro stesso.
L’intero popolo congolese e io saremo molto felici se vorrà accettare questa mia proposta. Avrei il piacere di inviarle altri libri che ho scritto sia durante il mio esilio, sia negli ultimi anni nel mio paese…
Grazie per l’attenzione.

Pierre Yambuya L. Kibesi




LETTERELe mani sul Congo

Caro padre Bellesi,
la ringrazio tanto per la promessa mantenuta: ieri ho ricevuto la rivista dedicata al Congo. Mi è piaciuta tantissimo; è un lavoro che sarà sicuramente di grande aiuto alla conoscenza di questa parte dimenticata del pianeta.
A nome del popolo congolese: grazie mille a voi tutti che avete lavorato alla redazione di questo numero. Dio renda fruttuoso il vostro apostolato!
Avrei bisogno di 25 copie di questo numero…
In unione di preghiera

Jean Basile Mavungu
Mercatale V.P. (FI)

La lettera viene da un sacerdote congolese, incontrato al Convegno missionario di Montesilvano (PE), attualmente impegnato nella diocesi di Firenze. Buon lavoro anche a te, caro Jean Basile!

Jean Basile Mavungu




LETTERAMonografie 2004: Le mani sul Congo

Salve,
sto leggendo con interesse e molto sconcerto il numero monografico del vostro mensile dedicato al Congo. Mi occupo di Etiopia,
attraverso la mia associazione (www.gruppomeki.org); ora la lettura delle terribili vicende storiche del Congo mi hanno suscitato un certo interesse in quello che è un pezzo di storia poco conosciuto: la storia dell’Africa…
Fabio (via e-mail)
Gentile direttore,
vi siamo grati per l’ottimo numero monografico «Le mani sul Congo» da voi realizzato.
In quel martoriato paese vi lavorano da più di 40 anni, nel sud del Kivu, confinante con Rwanda e Burundi, una cinquantina di nostri confratelli, tre dei quali vennero uccisi nel novembre 1964, quando anch’io arrivavo in Burundi per la prima volta.
Quanto avete realizzato ci interessa moltissimo…

Padre Michele D’Erchie
Saveriano
Saleo

padre Michele D’Erchie