Sulle ali di un jumbo

«In volo verso l’Italia per le vacanze, agevolato dalla quiete nottua nell’aereo, penso ai missionari che, continuamente, attraversano oceani e continenti obbedendo all’imprescindibile comando di Gesù: “Andate e annunciate…”.
Rifletto sul mio “andare”. Colgo alcuni segni legati
al “viaggio del missionario”».

Il ponte

Come l’aereo collega due aeroporti, due paesi, due culture, così il missionario è un ponte che collega la sua patria con la povertà e le sofferenze dei popoli presso i quali lavora. Inoltre egli diventa il testimone e il portavoce della ricchezza culturale e spirituale di tante giovani chiese sparse nei vari continenti…
Lavoro tra i pastori seminomadi del deserto (samburu e turkana), nel nord del Kenya. Niente città, niente agglomerati come nelle baraccopoli delle grandi periferie urbane, ma gente sparsa un po’ dovunque che vive nella propria capanna in perfetta sintonia con le greggi. Il bestiame è l’unica fonte di sostentamento ordinario.
Un contesto sociale che potremmo chiamare arcaico. Certamente, nel mondo d’oggi, ce ne sono pochi più precari. Basta una siccità prolungata, e il bestiame soffre e muore per mancanza di pascolo e acqua. Le conseguenze sono denutrizione e fame, debolezza fisica, malaria e tubercolosi. Alla siccità è legato anche il fenomeno del nomadismo, inteso come dispersione in luoghi lontani, con l’affievolimento o la scomparsa temporanea delle tradizioni sociali e religiose che sostengono alla base la cultura.
Nonostante la durezza e precarietà della loro esistenza, le popolazioni fra cui vivo non perdono mai la fiducia nella provvidenza divina. Il pastore nomade continua a pregare il «suo» Dio anche nelle situazioni più drammatiche. Nella prosperità o nella miseria, Dio non viene mai mandato in esilio. E, così, rabbia e maledizione non esistono.
Questi pastori sono l’icona biblica e vivente di Giobbe, che riscopre Dio nelle difficoltà e nell’ostilità.
La fusoliera
La fusoliera dell’aereo unisce un gruppo di persone che si mettono insieme per realizzare lo stesso progetto: raggiungere una meta…
Nella missione, la fusoliera è rappresentata dalla cappellina che il missionario si preoccupa sempre di allestire come luogo d’incontro, dove le persone si riuniscono con la stessa motivazione: vivere la propria fede nella preghiera e la celebrazione dei sacramenti.
Questa fede può esprimersi nella forma cristiana o delle religioni tradizionali, a seconda della gente presente. Per i cristiani il centro della preghiera è rappresentato dall’eucaristia. Il primato dello spirituale è indiscutibile. Tuttavia si fa grande attenzione a non cadere in uno spiritualismo disincarnato, incapace di cogliere i problemi di tutti i giorni della popolazione. La preghiera deve avere una dimensione sociale.
Quindi i missionari parlano sempre di più di «spiritualità politica». Sembrano termini contraddittori, quasi blasfemi, ma non lo sono. La preghiera biblica e la vera eucaristia ci portano sempre a imitare il Dio liberatore del suo popolo, ci fanno aprire gli occhi sulle sofferenze, le problematiche, le alienazioni della gente e spronano a risolverle.
Il missionario, se crede nella «fusoliera-cappella», si dà da fare anche per l’asilo, la scuola, le strade, le case, l’acqua, la dieta, la salute.
La mia missione comprende una quindicina di villaggi distanti anche 60 chilometri, spesso con grosse difficoltà per raggiungerli: a volte occorrono tre ore di viaggio. Di villaggio in villaggio, di cappella in cappella, di scuoletta in scuoletta, c’è sempre un bisogno, una situazione che richiede il mio tempo, il mio impegno, la mia carità di missionario.
Il radar
L’aereo viene guidato dal radar, che indica la rotta per giungere a destinazione…
Il radar che orienta l’andare del missionario è il vangelo predicato con la vita. Si tratta di un libro iniziato tanto tempo fa, ma che continua ad essere scritto con la vita e, talora, con il sangue diventando un martirologio. In esso sono scritti i nomi dei primi cristiani fino alla lunga lista dei missionari uccisi ai nostri giorni. Agli occhi del mondo – dice il libro della Sapienza – questi individui appaiono irresponsabili, stolti, incoscienti, ma agli occhi di Dio vivono nella pace e nell’immortalità.
Persone come padre Luigi Graiff, martirizzato nel 1981, e padre Luigi Andeni, ucciso nel 1998, hanno avuto come radar il vangelo. Con padre Graiff ho anche lavorato e di padre Andeni ho ereditato la missione di Archer’s Post.
Il carburante
L’aereo vola per la spinta dei motori che bruciano carburante…
Il carburante, per il missionario, è il fuoco della carità che, alimentato dallo Spirito Santo, diventa scintilla che deve contagiare ogni comunità cristiana.
Carità esige attenzione e rispetto per le altre culture e tradizioni religiose; accoglienza degli stranieri e degli immigrati; tensione missionaria che si esprime nel desiderio di condividere le proprie ricchezze spirituali e materiali con i poveri del terzo mondo.
L’«équipe»
Durante il volo l’aereo viene manovrato da uno staff di piloti e tecnici che formano un’équipe.
Così l’attività missionaria. Oggi non si esprime più attraverso «navigatori solitari», ma in gruppi pastorali composti da sacerdoti, religiosi e laici che fanno vita comunitaria.
Nelle varie missioni dove ho lavorato ho cercato di realizzare una pastorale in équipe con l’aiuto dei catechisti della zona e alcuni laici. Ci si spostava sempre insieme. Giunti a destinazione, ognuno svolgeva il suo ruolo particolare: convocatori dell’assemblea, incaricati di mantenere l’ordine e il decoro, animatori dei canti, lettori della parola, traduttori nei vari dialetti, catechisti preparati per offrire ai bambini una pastorale loro adatta.
L’équipe si rendeva più facilmente conto della realtà religiosa e sociale dell’ambiente, ne coglieva gli aspetti positivi e negativi. E, al termine di ogni mese, in occasione del ritiro, i problemi venivano affrontati insieme per cercare delle soluzioni; quindi si programmava per il mese successivo.
La leggerezza
Infine, come l’aereo solca il cielo «distaccato» da ogni struttura e vola tanto più veloce quanto più è leggero, così il missionario deve puntare alla leggerezza, all’essenziale…
Una sola struttura, un solo strumento, un solo libro: il vangelo vissuto e annunciato.
Ciò che sa di «struttura» può servire a chi annuncia, ma non a chi ascolta il messaggio e, meno ancora, al messaggio stesso, che deve emergere con tutta la sua forza di convinzione dalla testimonianza di vita del missionario. E non dai mezzi materiali che possiede…
L’aereo vola quasi alla perfezione. E come procede il missionario?

Coelio Dalzocchio




Novanta minuti intensi

Kenya: celebrazione in swahili e samburu

N el villaggio di Serolevi, diocesi di Marsabit (Kenya), la messa è finita alle 12,30… «Attraversiamo il ponte e troveremo un po’ d’ombra per mangiare un boccone» mi dice padre Coelio Dalzocchio. Il ponte è quello che il niño del 1997 ha inclinato di 30 gradi. Lo è tuttora, e tutti si chiedono come faccia a reggere con i pesanti camion che vi transitano da Nairobi o dall’Etiopia. «Imezoea sasa» (ormai si è abituato) mi disse un giorno uno dei poliziotti che controllano il passaggio degli automezzi.
Proseguiamo di qualche chilometro verso Marsabit e ci sistemiamo sotto una pianta spinosissima. Mentre mangio, non faccio che pensare alla catechesi e alla messa testé terminate. Sono quasi 30 anni che conosco padre Coelio, ma non avevo mai avuto l’occasione di assistere ad una sua liturgia.
Dico a me stesso: «Se un missionario avesse le qualità distribuite fra i miei confratelli sessantenni, sarebbe un evangelizzatore perfetto. Se avesse, ad esempio, l’interiorità di padre Gallina, la concretezza pastorale di padre Tallone, la giovialità di padre Davoli (novantenne), l’amore allo studio di padre Gasparini, le capacità tecniche di padre Giuliani, il cuore generoso di padre Vettori, la conoscenza della lingua e dei costumi di padre Pedenzini, il senso del dovere di padre Pronzalino, il rapporto con la gente di padre Da Fre’, la tenacia di padre Gorzegno…».
Mi fermo, perché, se ricordassi anche i più giovani e quelli trasferiti altrove o andati in paradiso, si avrebbe non solo un missionario straordinario, ma un santo.
Padre Coelio non sa che sto pensando anche a lui, al suo impegno liturgico e catechetico, al suo volto affilato con il naso aquilino che si confà al suo abito austero: camicia e pantaloni lisi, sandali rozzi e l’inseparabile crocetta di legno sul petto.
Stamane l’ho osservato mentre celebrava l’eucaristia e commentava la parola di Dio. Ero seduto al fondo della chiesetta tra la gente che arrivava lentamente: i marmocchi dell’asilo, una nutrita scolaresca delle elementari, le donne che, compatte, prendevano posto a destra nei loro vestiti sgargianti, multicolori e un’abbondanza di collane variopinte, orecchini, pendagli e altri oamenti in testa e sulle braccia. Un po’ più tardi sono arrivati gli educated people, maestri e studenti in vacanza, non ricchi, ma ben messi. Infine le maestre, le studentesse e altre donne vestite all’europea, qualcuna decisamente elegante. Tutti si sono sistemati sulla sinistra.

M entre padre Coelio e il catechista preparano l’altare, le donne attaccano ex abrupto (un grido improvviso che mi fa quasi sobbalzare) un canto robusto (chiaramente un ritmo tradizionale) con una solista: alta e squillante la voce dell’assolo; ben armonizzato il coro. Al canto delle donne segue un breve silenzio. Poi, dalla parte opposta, è la volta delle ragazze delle scuole, cui si uniscono i ragazzi: un canto in swahili, più misurato e dal ritmo meno tribale del precedente; uno dei canti ormai diffusi in tutte le chiese cattoliche del Kenya e raccolti in un libro.
Non posso fare a meno di pensare che, pure in un remoto angolo del mondo quale Serolevi, si alternano già due generi musicali: quello in swahili, pacato e lineare, e quello tribale, più andante e variamente armonizzato.
Alle 11 padre Coelio, dopo una breve preghiera, inizia la catechesi: voce forte e chiara; swahili semplice e corretto; soprattutto un filo logico nel discorso, con un tema preparato con cura.
Il discorso è sul «credo». Il sacerdote spiega la morte di Gesù Cristo e, più precisamente, i motivi della sua morte redentrice. Gesù fu rifiutato – dice – dai capi e sacerdoti del popolo, perché non capirono che egli non era venuto a «distruggere», ma a «completare». Il missionario si sofferma su questa verità, sottolineando che oggi molti samburu non accettano il vangelo perché «non comprendono che Gesù non è venuto a cancellare quanto di valido c’è nella loro cultura, bensì a correggere quanto è contrario alla legge naturale, ad elevare con la grazia la nostra volontà di bene e completare con la rivelazione divina quanto era già conosciuto nel passato».
Il tema è svolto con ampiezza. I presenti seguono con attenzione. Ne resto ammirato: una catechesi di oltre 40 minuti, così aderente ai problemi vivi, preparata con cura e svolta prima della messa, non l’avevo più sentita da tempo in Kenya. E faccio un serio esame di coscienza su di me, sulle mie prediche inserite nella messa: perciò brevi e, purtroppo, poco preparate.

A lle 11,45 l’eucaristia. Ancora una volta padre Coelio dimostra idee chiare. Ha abituato i fedeli a seguire lui, che presiede davvero la celebrazione. Capisco ora come possa dilungarsi nella catechesi prima della messa: infatti non permette che la celebrazione seguente si prolunghi con elementi non essenziali, tendenti a sfuggire alla direzione di chi è il primo responsabile della liturgia, cioè il sacerdote. Egli stesso canta con voce suadente, quasi monastica, le preghiere e il prefazio. Anche i saluti sono cantati con accenti raccolti.
I canti dell’assemblea sono pochi e appropriati, non lasciati al caso e senza quelle processioni danzate (a volte persino tre), spesso eseguite con movenze per nulla africane, miranti solo ad accontentare la vanità di singoli o gruppi, incuranti delle lungaggini. Questo costringe il prete ad accorciare l’omelia, affinché la celebrazione (che già si aggira su un’ora e mezza) non si prolunghi ad infinitum.
Anche la celebrazione di padre Coelio dura 90 minuti, ma oltre 40 sono dedicati alla catechesi e i rimanenti alla messa. La parola di Dio viene proclamata dal catechista in lingua samburu, preceduta da una presentazione in swahili del celebrante. Le preghiere dei fedeli sono pure sobrie. Dal prefazio in avanti tutto è in samburu.
È la prima volta che partecipo ad una eucaristia in samburu. Non capisco le parole, ma ne conosco il contenuto e, soprattutto, mi aiuta la voce raccolta (e capace di creare raccoglimento) del celebrante. Seguo la liturgia con animo pensoso e commosso ad un tempo.
Al termine ringrazio padre Coelio e gli dico: «Se mi permetti, su questa catechesi e messa vorrei scrivere qualcosa». Interpreto «ma va’ là» del missionario come un «sì».
Paolo Tablino

Paolo Tablino




Prima il profitto poi i brevetti


Le multinazionali farmaceutiche investono nei settori dove maggiore è la possibilità di guadagnare,
indipendentemente dai bisogni. I brevetti sono ostacoli insormontabili. Insomma, i farmaci sono trattati alla stregua di un qualsiasi altro prodotto. Questa politica comporta gravi conseguenze per una larga fetta dell’umanità.

Un pomeriggio di ottobre del 1999, nella Cambogia nord-orientale. Stiamo percorrendo una pista che costeggia il fiume Mekong, risalendone il corso.
Andiamo a verificare lo svolgimento di un programma di controllo delle malattie parassitarie, gestito dal ministero della sanità con il nostro supporto tecnico. Il programma sembra andar bene, e siamo orgogliosi di aver abbattuto i tassi di mortalità per queste malattie nella regione.
Decidiamo di concederci una sosta per sgranchirci un po’ e bere dell’acqua. Ci fermiamo in un grazioso villaggio, affacciato su una bella insenatura del grandioso fiume. L’aria è pulita e profumata, e la luce dell’imminente tramonto colora di violetto le acque del fiume, incoiciato dal verde della esplosiva vegetazione. Mi allontano un po’ dalla Toyota, e mi fermo sotto una delle casupole, tutte uguali, tutte estremamente precarie: un pavimento di bambù su quattro alti pali (le case sono così, anche per proteggersi dalle inondazioni), quattro pareti di foglie di palma intrecciate e un tetto, anch’esso di foglie. Una bambina sorridente sta appoggiata alla ripida scala che conduce all’interno, e in alto sua madre – così credo – è seduta intenta a eliminare le scorie da una manciata di riso. Mi sorride. Così mi tolgo le scarpe e salgo.
Seduta sul pavimento, la donna ha sulle gambe un fagotto, che si muove ritmicamente. Lei sposta un lembo degli stracci e scopre un bimbetto (10-12 mesi) ansimante, viso affilato, occhi spalancati e una colata di muco dal naso. Chiamo l’interprete, per avere notizie di quel piccolo visibilmente sofferente. È così, mi dicono, da 3-4 giorni; ha anche smesso di succhiare il seno. Lo tocco: è bollente. Avvicino un orecchio al suo dorso: polmonite. Non si lamenta mentre lo esamino, continua solo ad ansimare rumorosamente.
Apro la borsa per vedere cosa abbiamo di utile in quella condizione: trovo delle compresse di ampicillina e di paracetamolo. Dovrebbero andare. Poi l’interprete spiega alla mamma come fare: bollire dell’acqua, schiacciare una compressa in una ciotola, scioglierla e dae un cucchiaio al bimbo ogni 8 ore; poi reidratarlo con acqua, zucchero e sale, poi il paracetamolo… cose banali insomma, una serie apparentemente semplice di istruzioni.
Ma la preoccupazione sul volto della mamma sembra indicare tutto il contrario: manovre complicate, quasi impossibili, gesti del tutto estranei alla quotidianità della sua vita. Ci allontaniamo dalla casupola lasciando il rantolo del bambino con la polmonite alle nostre spalle.
L’indomani, sulla via del ritorno, ci fermiamo di nuovo. La mamma in lacrime ci dice che la sera prima il bimbo ha chiuso gli occhi dopo il tramonto e durante la notte ha smesso di respirare.

Cosa ha di particolare questa storia? Nulla, assolutamente nulla. Rivela semplicemente quanto accade ogni giorno, in migliaia di villaggi, per milioni di bambini.
Ricordo la prima volta che misi piede in Africa, fresco di studi di medicina tropicale. Aspettavo con ansia di vedere malati affetti da quei misteriosi e «affascinanti» morbi esotici. Rimasi quasi deluso quando, nella prima giornata di consultazioni mediche, vidi solo bambini gravemente malati o prossimi al decesso per banali infezioni.
Diarrea, infezioni delle vie respiratorie: sono queste le prime cause di morte nei paesi in via di sviluppo. Il 95% dei decessi sono dovuti a malattie infettive, per le quali esistono efficaci trattamenti. Ma un terzo della popolazione mondiale non ha accesso ai farmaci basici. Gran parte di queste malattie sarebbero facilmente curabili; però, proprio là dove più servono, i farmaci relativi non sono disponibili, spesso perché troppo costosi.
La causa di questa discrepanza tra bisogni e offerta risiede in rigide leggi di mercato, in base alle quali i prezzi dei farmaci, protetti da brevetto, sono fissati sulla disponibilità a pagarli nei mercati dei paesi industrializzati. Alla base di gran parte dei disastri sanitari, dell’impossibilità a gestire epidemie o endemie, a prevenirle, a impedire la morte per banali infezioni, alla base di tutto possiamo affermare oggi con certezza che c’è un problema di farmaci. Vediamo di capire di cosa si tratta.
Anzitutto mancano nuovi farmaci utili in medicina tropicale, che siano poco tossici, a basso costo ed efficaci per debellare le malattie (parassitarie, ad esempio), causa di sofferenza e morte.
Basta un dato: negli ultimi 20 anni, tra i 1.233 nuovi farmaci offerti dal mercato internazionale, solo 11 avevano come indicazione malattie tropicali, e di questi 7 venivano dalla ricerca veterinaria. Per cui appena lo 0,3% della ricerca farmaceutica contemporanea è indirizzata alle malattie ai vertici di ogni classifica mondiale di morbosità e mortalità. Perché? Semplice, perché queste malattie imperversano in mercati poco remunerativi. Le priorità sono, quindi, più di ordine economico-commerciale che medico.
Da un lato fiumi di miliardi vengono investiti sulla ricerca di nuove pillole contro l’obesità e l’impotenza, dall’altro quasi niente per malattie tropicali. Se poi talvolta (e c’è l’evidenza) una multinazionale farmaceutica giunge a sintetizzare un farmaco attivo su una malattia tropicale, spesso il fabbricante decide di non commercializzarlo, poiché la sua vendita sarebbe poco remunerativa nei paesi dove i pazienti interessati sono concentrati.
A volte, per le stesse ragioni, farmaci già disponibili, efficaci e semplici da somministrare scompaiono improvvisamente, come è stato il caso della sospensione oleosa di cloramfenicolo, usata per trattare la meningite meningococcica (malattia capace di uccidere in 24 ore). Tale farmaco era l’alternativa al trattamento con ampicillina, che richiede 4 infusioni endovenose al giorno, contro un paio di iniezioni intramuscolari in tre giorni per il cloramfenicolo. Una bella differenza, per trattare pazienti in strutture sanitarie carenti di materiale e igiene.
Altro esempio, quello della efloitina. Questo farmaco serve per trattare lo stadio avanzato della tripanosomiasi, più conosciuta come malattia del sonno (trasmessa dalla famosa mosca tse-tse). Bene, mentre il vecchio farmaco usato (un derivato dell’arsenico estremamente tossico e somministrabile in dolorose iniezioni) diveniva anche inefficace per l’insorgenza di ceppi di parassiti resistenti, appare questo nuovo ritrovato. Sfortunatamente due anni fa la ditta produttrice, detentrice del brevetto, ha deciso di sospendee la produzione per motivi commerciali. E i circa 300 mila malati si vedono rioffrire il vecchio melarsoprol.
Questo è quanto accade, in questo mercato globalizzato.

Uno dei problemi principali è causato dal brevetto che protegge il farmaco. Il brevetto rappresenta un diritto sacrosanto dell’industria per salvaguardare i frutti dei sui investimenti in sperimentazioni. Accade però che i brevetti si tramutino in micidiali armi che limitano l’accesso ai farmaci.
Esistono paesi definiti in via di sviluppo, ma in realtà detentori di tecnologie sufficienti per una produzione farmaceutica. Nazioni come India, Thailandia, Sudafrica o Brasile sono in grado di produrre farmaci utili per le loro popolazioni e quindi rivenderli a prezzi accessibili. Il prezzo di farmaci come il fluconazolo, efficace in gravi infezioni fungine, crolla così dai 20 dollari al giorno per un trattamento in Kenya, dove è importato, a meno di un dollaro al giorno in Thailandia, dove è prodotto da una azienda nazionale.
Questo è reso possibile da una norma che si chiama compulsory licensing, o licenza obbligatoria (vedi box).
A questo punto, la domanda che sorge è: etica e sviluppo economico del settore farmaceutico sono obiettivi incompatibili?
Le più autorevoli riviste mediche inteazionali (ad esempio, British Medical Joual e JAMA) sostengono che l’etica è compatibile con l’economia. Per questo i medici, che operano in questi contesti, sono stanchi di dover pensare, di fronte all’ennesima morte di un loro paziente: «Mi spiace. Stai morendo a causa di una inadeguatezza del mercato».
Il caso dell’AIDS mostra poi cifre apocalittiche. Il 95% dei malati di Aids nel mondo non ha accesso a farmaci efficaci per restituire salute e dignità. Ma (fatto ancor più grave) i trattamenti per ridurre significativamente la trasmissione verticale dell’infezione da madre sieropositiva a figlio al momento del parto non sono disponibili proprio nei paesi dove questa modalità di trasmissione sta segnando le nuove generazioni, condannando a morte entro 5-8 anni un bambino già al momento della sua nascita.
Farmaci come l’Azt o la nevirapina, efficaci anche se somministrati per solo 4 settimane intorno alla data del parto, sono vittime delle stesse regole di mercato. Spietati brevetti ne permettono la vendita a prezzi proibitivi e ne impediscono la produzione da parte di altre aziende. Se è vero, si può sempre applicare la licenza obbligatoria. Ci ha provato la Thailandia iniziando a produrre Azt per le sue donne (tantissime) incinte e sieropositive. Il farmaco ha avuto il costo abbattuto del 7000%.
La reazione degli USA, dove risiede la ditta detentrice del brevetto, è stata: non possiamo impedirtelo, ma possiamo però ridurre le importazioni dalla Thailandia… Cosa questa insostenibile in questo momento di crisi economica.
Ecco come vanno le cose.
Farmaci che ci sono, ma costano troppo; farmaci che esistono, ma non vengono prodotti, germi che divengono resistenti ai comuni trattamenti (TBC, leismaniosi, tripanosomiasi, ecc.), ma la ricerca farmaceutica ha altri obiettivi… e le cifre di morte e malattia continuano ad avere parecchi zeri nei paesi dei poveri del mondo. Quello che basterebbe è esigere un «diritto alla salute per tutti».
Già sentito?

Carlo Urbani




Un mese tra dentiere ed estrazioni

L’esperienza e le riflessioni di una giovane coppia
di odontotecnici, marito e moglie.

Finalmente ci appare la missione su una collinetta. Notiamo subito il piccolo ospedale e la chiesa, la cui facciata guarda a valle una immensa savana. È il 14 agosto. Qui è inverno, ma il sole si fa sentire.
Siamo in 10 sulla Land Rover di padre Giuseppe, che rimorchia la nostra jeep con il radiatore rotto. Fortunatamente, trainati prima da un camion e poi dal missionario, giungiamo a questo Fort Apache della cristianità: Laisamis Mission!

Era buio pesto
quando abbiamo lasciato Timau, la missione dove abbiamo lavorato un mese come odontotecnici-dentisti, assistenti del dottor Romolo Grandi di Torino. Questi è un veterano del volontariato in Africa.
Le fertili terre dei kikuyu, che circondano il Monte Kenya (5.200 metri e nevi perenni sotto l’equatore), sono state trasformate in poche e vaste fattorie, gestite da ricchi stranieri. Le farms offrono vitali posti di lavoro, però sottopagati. Tuttavia chi ha uno stipendio può ritenersi fortunato.
Lasciata Timau, siamo entrati nella savana sempre più arida. A Isiolo termina la strada «asfaltata». È una città di frontiera per il Kenya nordorientale: vi si fanno i rifoimenti, se si prosegue per il nord. È anche l’ultimo posto di polizia. Chi vuole raggiungere Marsabit (300 chilometri di pista) deve viaggiare in convoglio, per ridurre il pericolo di attacchi degli shifta. Qui finisce il Kenya e comincia l’«Africa».
La pista è relativamente facile fino al bivio per il Samburu Park; poi diventa più faticosa. Ci è venuto da ridere pensando ai super-fuoristrada nelle città italiane.
Siamo entrati nella terra dei samburu, turkana, rendille e ol molo, popoli affascinanti come i masai, con pochi contatti con il mondo moderno. Appena sfiorate dal XXI secolo, queste popolazioni vivono secondo le loro antiche tradizioni. Qualcosa sta lentamente cambiando in meglio, grazie al lavoro nei parchi e all’intensa azione missionaria.
Superato Archer’s Post (dove nel 1998 fu ucciso padre Luigi Andeni, missionario della Consolata), abbiamo incrociato zebre e giraffe, gli onnipresenti dik dik e i velocissimi facoceri. È facile incontrare pure il leopardo che caccia.
Una buca… e il radiatore è saltato. Siamo rimasti in panne nel cuore della savana. Panico! Questo però ci ha dato l’opportunità d’incontrare i samburu con le loro file d’asini. Tanti ragazzi sono pastori, armati di lance, ma anche di fucili: indossano i loro caratteristici costumi rossi, sono quasi tutti scalzi e oati di collane e braccialetti colorati.
Poi… è arrivato padre Giuseppe.

Nella missione di Laisamis,
insieme a padre Giuseppe Satriano, c’è pure padre Fabio Zecca, entrambi missionari fidei donum di Benevento. Ci hanno ospitato nella loro casa ordinata e pulita.
A Laisamis mancano acqua, elettricità e telefono; si sopperisce con boniane, che con orgoglio ci hanno fatto da guida. Ci hanno raccontato la lotta con gli «stregoni», che per curare «avvelenano» i malati; quando i pazienti arrivano alla missione, non c’è più nulla da fare. In un letto giaceva una ragazzina agonizzante, già trattata da uno stregone.
Le missionarie ci hanno descritto la battaglia contro il colera, sconfitto grazie all’intervento di «Medici senza frontiere», premio Nobel per la pace, che hanno inviato i medicinali (1.200 curati, di cui solo 7 morti)… Quanto siamo lontani dai circuiti turistici e dai safari con i pulmini!
Il giorno seguente, festa dell’Assunta, abbiamo partecipato ad una messa indimenticabile. Con le suore e padre Giuseppe, eravamo gli unici bianchi; ma non ci sentivamo a disagio, anzi! Era così grande la cordialità che ci siamo persino scordati di scattare foto alle donne: alcune bellissime, dai lineamenti somali. Incuriosiscono le collane di perline colorate, i lobi delle orecchie con piattelli e legnetti appuntiti.
A cena abbiamo descritto la nostra modesta esperienza di volontari e la difficoltà in poco tempo di assistere tanti pazienti (in attesa da un anno) e insegnare alle suore i rudimenti del mestiere. Alla nostra partenza, dovrebbero sostituirci. Non è semplice.

Il dottor Romolo Grandi
ha impiegato anni ad impiantare a Timau uno studio dentistico e un laboratorio odontotecnico funzionali. Le suore di santa Teresa del bambino Gesù, guidate dall’instancabile suor Rita Alba, hanno fatto miracoli per riunire il tutto. Però si lavora solo un mese l’anno!
Ciò nonostante, il dispensario medico di Timau, l’ospedale di Kiirua e l’orfanotrofio di Kibirichia sono punte di diamante nell’assistenza sanitaria: tutte iniziative dei missionari della Consolata (il centro sanitario di Timau, opera di padre Attilio Ravasi, è da pionieri). Avviata l’opera, i missionari consegnano tutto ad altri, per ripartire da zero altrove.
In Italia, prima di giungere a Timau, abbiamo pensato ad una missione di preti e, invece, ci siamo trovati con 13 suore, di cui 11 africane. La loro accoglienza è stata calorosa. Abbiamo apprezzato il loro lavoro «con» e «per» la gente, soprattutto la più povera. Sono capaci di tutto: coltivano l’orto per sfamare i loro 100 bambini dell’asilo; dopo cena fanno maglioncini fino a tarda ora (noi eravamo cotti!) e, soprattutto, offrono assistenza sanitaria. Io, Nino, ho aiutato suor Mary il giorno delle vaccinazioni: ho perso il conto, tanto erano numerosi i bambini.
Timau è un villaggio dove, con il lavoro nelle farms, è arrivato un minimo di benessere. Le costruzioni di legno lungo la strada sono negozi caotici e strapieni. Un mercato occupa permanentemente un crocevia. Non ci sono molte case, ma i villaggi vicini, densamente popolati, sono tanti: si pensi che il sacerdote di Timau celebra la messa in ben 15 chiesette.
La strada asfaltata è affiancata da sentirneri, dove pedoni e biciclette sono abbastanza al sicuro dalle auto e dagli spericolati matatu (scassati Peugeot pick-up, che fungono da minibus, stracolmi di gente e mercanzie). Abbiamo viaggiato da Nanyuki a Timau su un matatu: è un’esperienza indimenticabile. Siamo partiti solo quando l’autista, dopo avere «incastrato» adulti e bambini all’inverosimile, è apparso soddisfatto del pienone (25 persone); ci siamo avviati con l’andatura di un rally.
Tra dentiere ed estrazioni, il mese è volato. L’ultima sera, passata con le sisters davanti al caminetto acceso (siamo a 2.200 metri), gustando l’ennesima torta squisita di suor Helen, ci ha preso la malinconia. Ci rimarranno nel cuore le loro preghiere e i canti tradizionali e nella mente i loro sorrisi.
Andando a dormire abbiamo alzato lo sguardo verso il cielo: sarà l’altitudine o latitudine… ma è incredibile come il tappeto di stelle sembri vicinissimo.

Il mattino seguente
ci siamo recati al minuscolo aeroporto di Nanyuki: due case di legno fungono da torre di controllo e sala d’attesa. Sulla veranda di quest’ultima alcune sedie di vimini e, su un tavolo, caraffe di tè e caffè. Si respirava aria «coloniale», dovuta anche alla presenza di alcuni snob inglesi, che non si degnavano neanche di rispondere al saluto.
Ci siamo congedati da suor Rita Alba, per raggiungere la costa per quattro giorni di vacanza nell’isoletta di Lamu, popolata quasi esclusivamente da musulmani. Lamu è la più antica città del Kenya. Risale alla fine del XIV secolo e, fino all’inizio del XX, la sua economia era basata sulla tratta degli schiavi. Negli anni ’70 era considerata «la Katmandu dell’Africa» per la difficoltà di arrivarci e il fascino medioevale.
In quei giorni di relaxe abbiamo pensato ai luoghi visitati e alle persone conosciute. Abbiamo letto numerosi libri sull’Africa e alla televisione sono di moda i documentari su questo continente. Ma lavorare qui e condurre una vita non da turista è tutt’altra cosa.
Ci siamo stupiti di quante persone vengano in questo paese per lavorare: dai medici (con cui abbiamo parlato dei nostri problemi di protesi) al laureando di filosofia e al papà geometra, che ha ideato e costruito una stalla.
Abbiamo incontrato pure quattro ragazzi di Collegno (TO), che hanno lavorato da imbianchini e baby sitter all’orfanotrofio di Machaka, e un volontario di Forlì, che ha aiutato il veterano padre Emilio Canova, missionario della Consolata, a costruire una missione nella foresta del Meru.
Tante persone. Un piccolo esercito che si muove per aiutare i missionari. Questi «soldati di Dio» a cui non bisogna far mancare le munizioni.

Nino e Gabry Peynetti




Un acquedotto al politecnico

Un missionario geniale e la collaborazione degli africani per soddisfare il bisogno d’acqua.

O ggi una delle sfide più importanti è quella di creare rapporti diversi tra i popoli, per vivere in pace e nello sviluppo. Se il mezzo per raggiungere tale scopo è l’acqua, l’impegno necessita anche dello stupore del bimbo di un villaggio africano. «Oggi finalmente è piovuto! Erano 140 giorni che non vedevo una goccia d’acqua» ha scritto sul quadeetto di scuola la piccola Noaga.

L’acqua è un fattore
di unione e, nello stesso tempo, di divisione tra i popoli. È urgente portarla alla sua funzione primaria: quella della gratuità, dell’incontro, dell’igiene personale e morale. Base della vita, l’acqua è anche strumento di comunicazione: alimenta scambi nella materia e tra le persone.
Esistono popolazioni che pagano la loro emarginazione, la povertà, la mancanza di riconoscimento… per le scarse risorse idriche. La situazione è drammatica: lo confermano le siccità sofferte dalle genti del Sahel, le carestie (causate dalla scomparsa delle piogge stagionali) che decimano le mandrie in Etiopia. I pozzi vuoti, i bacini asciutti, l’assenza prolungata di piogge e la loro limitata o disordinata caduta causano crisi agricole e alimentari, tali da rievocare le carestie bibliche.
Esperti sostengono che nel XXI secolo sarà l’acqua a mobilitare le strategie geopolitiche dei governi, e non più il petrolio. Oggi intanto c’è chi paga con la vita: nel mondo ogni otto secondi un bambino muore per malattie legate all’acqua!
Di fronte a queste provocazioni, è nato in me il desiderio di orientare gli studi al Politecnico di Torino verso una possibile soluzione del problema «acqua». Ho scritto la tesi di laurea in ingegneria dal titolo: «Progetto di cooperazione Tuuru water scheme: studio della diga in terra sul torrente Ura».
La tesi riguarda un acquedotto che prende il nome dalla missione di Tuuru, nella regione del Meru (Kenya), intrapreso dai missionari della Consolata nel 1965. È uno studio tecnico sulle opere di presa dell’acquedotto, con la proposta di un progetto per la costruzione di una diga in terra su un torrente. Prima di scrivere la tesi, ho trascorso due mesi sul posto.

Oltre a rispondere
ai problemi tecnici per la progettazione di un invaso artificiale, la mia tesi testimonia il lavoro che si sta già svolgendo, in particolare nel Meru, contro la povertà e per lo sviluppo. «Kenya, il missionario dell’acqua. Un’impresa colossale»: intitolava il Corriere della Sera, 11 gennaio 1998, presentando i 250 chilometri di acquedotto, realizzati da un missionario della Consolata, fratel Giuseppe Argese, e dalla gente del luogo.
L’opera fu iniziata 35 anni fa, per fronteggiare una prolungata siccità che colpì anche il Centro per bambini poliomielitici di Tuuru. Oggi c’è acqua potabile per centinaia di migliaia di persone della zona, dove mancano torrenti perenni, le falde acquifere sono molto profonde e le attività dipendono dal regime delle piogge. L’approvvigionamento d’acqua è assicurato da «prese» nella circostante foresta equatoriale, a circa 2.000 metri di altitudine, circondata dalla pianura semidesertica.
Però l’intercettazione d’acqua non è sufficiente a soddisfare i crescenti fabbisogni della popolazione. Una soluzione a tale emergenza sarebbe la costruzione di una diga nella valle del torrente Ura. Il relativo invaso artificiale permetterebbe di immagazzinare la notevole quantità di acqua piovana e, quindi, distribuirla nell’arco dell’anno.

L’acquedotto,
dai sopralluoghi effettuati in loco e dai risultati, costituisce un esempio-modello tra i molti progetti di sviluppo. Tre fattori contribuiscono al funzionamento dell’opera e rappresentano le prerogative per l’efficace attuazione della diga sull’Ura:
– la collaborazione tra locali e tecnici stranieri, alcuni dei quali operanti stabilmente sul territorio;
– l’utilizzo di tecnologie semplici e appropriate, nonché il rispetto massimo della natura;
– la presenza di un comitato (costituito da persone del luogo), che assicurerà l’autogestione dell’opera.
L’acquedotto ricorda un dato da non scordare: l’acqua è una risorsa limitata; quindi è da conservare, riciclare e prevenire da contaminazioni dovute a sfruttamenti incontrollati delle falde.
La scelta di non sfruttare le acque sotterranee in zone aride (dati i costi e i problemi di manutenzione dei macchinari), bensì di utilizzare le risorse idriche della foresta, si realizza nel rispetto massimo degli aspetti ecologici anche a lungo termine.
Tra i materiali, si impiega il terreno argilloso locale: quindi l’ambiente, che potrebbe essere alterato con metodi indiscriminati di costruzione, è salvaguardato. Per conservare le risorse idriche e difendere flora e fauna, c’è la sorveglianza da parte del personale dell’acquedotto.

La mia tesi si inserisce
fra gli studi tecnico-progettuali di soluzioni ingegneristiche, con la caratteristica di riguardare una realtà già operante. Ma per il progetto esecutivo della diga sull’Ura e per la natura stessa dell’acquedotto altre indagini sono possibili.
Per una corretta valutazione della diga, all’interno dell’«acquedotto», occorre riferirsi alla nozione di sviluppo, che prevede un livello più alto di benessere. Altri obiettivi significativi sono: la riduzione di fatica per l’approvvigionamento d’acqua, una migliore nutrizione, l’aumento dell’igiene. Sono traguardi che favoriscono qualità di vita, libertà personale, identità culturale, educazione.
Prima dei 250 chilometri di tubazione dell’acquedotto e delle tante fontane nei villaggi, molte donne e bambine camminavano persino una giornata per raggiungere le poche sorgenti d’acqua. Oggi, grazie all’acquedotto, il tragitto dura 10 minuti: il tempo risparmiato consente alle donne di dedicarsi meglio alle faccende domestiche e, soprattutto, permette alle bambine di frequentare la scuola.

Oggigiorno,
con il radicale mutamento dei rapporti tra i popoli, occuparsi del sud del mondo è una scelta quasi obbligata: basti pensare che il sud rappresenta i 2 terzi dell’umanità, indipendentemente dal fatto che siano ricchi o poveri.
Ma il sud non può più essere considerato una realtà a cui «dare» aiuto, bensì un soggetto con il quale «cornoperare». Calati in tale prospettiva, trovare soluzioni per i 2 terzi dell’umanità conduce al miglioramento di vita anche del restante 1 terzo, ossia di tutti noi.
L’acquedotto di fratel Giuseppe e della sua gente nasce da senso di responsabilità collettiva, oltre che da solidarietà evangelica: la diga sull’Ura l’accresce. Questo lavoro missionario è una strada percorribile per eliminare la piaga della povertà e, come è stato affermato al vertice ECOSOC (1999), è anche una via per servire la pace tra i popoli: pace che è «l’altro nome dello sviluppo».
Quando lo studio riguarda un bisogno basilare come l’acqua, la ricerca scientifica diventa anche un «riappropriarsi» dei valori che «sorella acqua» esprime, cioè semplicità, trasparenza, purezza senza infingimenti. Valori incarnati da tanti bimbi, come Noaga, che tuttavia soffrono la mancanza d’acqua.
Acqua che invece c’è, e per tutti.

Daniele Giolitti




Emozioni a valanga

Dalle ragazze cieche di Meru ai bambini orfani di Matiri, con una preghiera a Morijo. Tutto in Kenya.

LA SCALATA DELLE CIECHE

D esideriamo parlare del coraggio con cui alcune ragazze del Kenya si conquistano ogni giorno il proprio futuro. Nella loro «scalata» devono vincere sia l’handicap fisico sia la risposta che ad esso dà una società poco tollerante. In questo sforzo le giovani sono appoggiate da una struttura fondata dalle missionarie della Consolata e poi ceduta ad un ordine locale.
Le ragazze provengono per lo più da contesti agricoli, dove la donna è il motore della famiglia, responsabile del lavoro nei campi e della casa, e dove più radicato è l’attaccamento a questi schemi. L’handicap è la cecità, a volte parziale a volte occorsa dopo la nascita.
La struttura che accoglie le ragazze è l’Irene Centre for the Blind nel Meru, regione con una forte diffusione della cecità e dell’albinismo. Il Centro provvede alle giovani una professione artigianale con lavoro al telaio: è la partenza per una attività sartoriale in proprio, che permette loro di guadagnarsi indipendenza.
Le ragazze lottano contro la scarsa accettazione della loro «diversità» da parte della società locale e si impegnano a costruire una loro identità attraverso strumenti che la cultura tradizionale non offre, di cui è promotore l’Irene Centre. Considerate inadatte ad assolvere compiti femminili (anche se il loro avvicendamento nelle faccende domestiche del Centro conferma il contrario) e, quindi, private di un ruolo all’interno della famiglia, le cieche rappresentano un peso per quest’ultima, che, quando le accetta, stenta però a trovar loro stimoli ed occupazioni. La comunità locale le allontana e non le aiuta a guadagnarsi uno spazio che non sia la strada.
Scarsamente integrate nelle occupazioni familiari e con poche possibilità di partecipare alla vita della comunità che le rifiuta, le ragazze rischiano di rimanere prive di compiti e responsabilità. È come se lo stato tradizionalista, di cui fanno parte, negasse loro la cittadinanza con diritti e doveri.
È necessario che un’altra entità, più progressista, «riconosca» le giovani, attribuendo loro una nuova identità. È la sfida costante che si gioca all’Irene Centre con lo sforzo delle ragazze. Se così non fosse, non si riuscirebbe a creare una sinergia tra formazione e costruzione di professionalità, una nuova identità e indipendenza. Ma lo sforzo delle ragazze è tutt’altro che scontato:
– sono contagiate da dubbi sulla validità del percorso formativo intrapreso e le reali possibilità di successo, quando ancora soffrono per la cecità;
– vivono nell’apprensione di non disporre di sufficienti risorse finanziarie per avviare una attività in proprio, mentre manca l’appoggio familiare;
– temono di non guadagnarsi autonomia, essendo il futuro carico di ostacoli.
In altre parole: sono colte da sconforto. Costruire e immaginare un futuro diverso è per loro veramente difficile, essendo così poco protette, riconosciute e ascoltate in un mondo arcaico!
V orremmo sperare che la nostra presenza all’Irene Centre abbia rincuorato un po’ le ragazze circa l’importanza della loro scelta. Abbiamo partecipato alla vita della comunità (dal laboratorio alla cucina, dal tempo libero alla preghiera, al canto) e condiviso felicità, tristezze, desideri. Chissà che qualcuna non si sia detta: «Se costoro sono giunti fin qui da molto lontano… ci sarà pure un motivo!».
Ci auguriamo che il nostro messaggio si riverberi su queste amiche. Riteniamo importante l’investimento che stanno facendo su se stesse. Ed è indispensabile incoraggiarle e credere, anche da parte nostra, nel «loro progetto per il loro futuro». In cambio abbiamo ricevuto affetto e gioia; ci hanno coinvolto nella loro vita; con il canto ci hanno rigenerati…
Siamo tornati dal Kenya con delle grosse valigie. Al check in di Nairobi nessun addetto aeroportuale le ha viste. Ci siamo stupiti. Eppure non erano mica nascoste. Solo che erano zeppe solo di… emozioni e progetti.
Chiara e Sabrina, Paolo e Luigi

È SCONVOLGENTE CHE…

P er anni ho sognato l’Africa. Quest’anno i miei piedi hanno toccato il suolo del Kenya. Toata in Italia, ho ascoltato alcuni ragazzi che parlavano dell’Africa un po’ romanticamente: «Tutto è bello, i missionari non ti hanno fatto mancare nulla, la gente è meravigliosa e sembra che persino i coccodrilli siano buoni».
Per me non è stato così. In Africa c’è fame e i coccodrilli… Per raggiungere un qualsiasi luogo, si deve camminare ore a piedi sotto il sole; e non solo una volta, come è stato per me, ma per tutta la vita. Eppure si sa ridere e ballare.
È sconvolgente che qualcuno rischi di morire per una ferita, perché l’ospedale più vicino è a due ore di buche. È sconvolgente trovarsi davanti una «mami» all’undicesimo figlio in grembo. È sconvolgente la fierezza della gente, nel suo modo di camminare o guardarti, soprattutto se non ti conosce. A volte è anche un po’ timorosa.
Non ho incontrato folle di persone che ti corrono incontro a braccia aperte dicendo: «Fa’ come se fossi a casa tua» (esclusi i missionari: padre Orazio Mazzucchi e Rita Drago, a Materi, sono stati accoglientissimi). Ho incontrato persone difficili da conquistare, ma anche oneste da diventare amiche quando si è condiviso qualcosa, e non prima. Ho visto individui gentili, nella speranza che dall’Italia mandassi loro dei soldi per aiutarli a studiare. Se potessi lo farei, ma lavoro per studiare anch’io.
P erò, quando me ne sono andata, avevo voglia di piangere salutando Peter, che non smetteva di abbracciarmi. Peter è un infermiere del dispensario, che ho aiutato durante gli screening dei bambini; parla un inglese tanto osceno che ho impiegato una settimana per capire foreign body (corpo estraneo).
Porto nel cuore gli infermieri con i quali si andava a «fare le cliniche»: cioè visitare i villaggi dove le mamme portano i bambini perché siano pesati e vaccinati. Ho in cuore Murugi e Kariungi, orfani di mamma alla missione… Ho imparato a cambiare i pannolini e addormentare (impresa non facile) un pupo stanco. Nel cuore c’è pure Beard, il cuoco, che la mattina insegnava a me e a Francesca, mia cara compagna, delle frasi in kimeru, la lingua degli ameru. Vivono anche nel Tharaka: una zona povera, perché manca la possibilità di utilizzare l’acqua dei fiumi.
Non aver acqua a qualsiasi ora, lavarsi con quella fredda in bacinelle… forse non è molto faticoso se ci si adatta. Ma se questo dura una vita?
È duro per la prima volta nella vita sentirsi «il diverso», che i bambini guardano incuriositi, e non solo essi. La nostra pelle è ruvida; stupiscono le vene visibili e bluastre dei polsi e i nei. Incredibile è la curiosità della gente: se potesse, ti si infila in tasca per vedere cosa c’è.
È sconvolgente osservare la gente che non fa nulla e, soprattutto, capire che fare qualcosa o non far nulla cambia poco le cose; sconvolge vederla seduta ad aspettare e aspettare, senza lamentarsi. Sconvolgono le donne che partoriscono senza urlare. Sconvolgente è la colazione all’Hilton Hotel: costa un quinto dello stipendio di un infermiere.
Ma è importante adattarsi alle abitudini locali, perché hanno valore anche le cose che sembrano un gioco: contrattare quando si fa la spesa, per esempio, vuol dire rispettare la persona (pagare una cosa tre volte il suo valore significa, più che farsi beffare, ostentazione).
Alcuni dicono di avere sentito in Africa la presenza di Dio in modo più forte. Però Dio è presente in Kenya come in Italia: lo trova chi vuole incontrarlo, non importa il dove. Forse in Africa è un po’ più facile fare silenzio, quel silenzio indispensabile per ascoltare e tanto facile da smarrire tra tivù e discoteche.
L’Africa mi ha insegnato l’apertura. È l’unico modo per capire e accettare gli altri e forse anche se stessi e Dio.
L’Africa è colore: il rosso mattone della terra polverosa che ti rimane ovunque; l’azzurro del cielo che sembra di giorno più grande e di notte disordinato per le stelle irriconoscibili; il bianco delle nuvole; il rosso e giallo dei frutti e fiori. È sapore: mille gusti diversi, prima strani e poi squisiti (mango, papaia, passion fruits, margarina, chai, cioè il tè col latte). È suono: processioni nottue di circoncisori, canti, tamburi, passi di ballo, parlare sussurrato e veloce, voci di bambini.
L’Africa è odore: così forte all’inizio che dà fastidio. È nell’aria, sulle persone, sui vestiti, su di te. L’odore intenso diventa poi un compagno, un amico di cui senti la mancanza… A casa mia c’è una stuoia su cui ho riposto gli oggetti portati dal Kenya. Di tanto in tanto afferro una borsa: infilo il naso per risentirne l’odore.
Erika Cravero

FAME E SETE

N el mese trascorso a Morijo abbiamo avuto fame e sete: non di lasagne al foo o di un bicchiere di pinot, ma di amore, silenzio, gioia, solidarietà, fratellanza.
Ora i nostri sensi sono diventati più acuti. Il cuore ricerca purezza. La mente si prefigge solidarietà. E la nostra persona ne esce cresciuta, ma anche perplessa su «chi» siamo e il «perché» della vita. Siamo un granellino di polvere, ma anche un fiore dall’infinita fragranza.
A Morijo abbiamo visto, ascoltato, parlato e compreso di più il Signore.
Colui dove il niente è tutto,
la semplicità è ricchezza,
il silenzio è parola;
Colui che risiede la nostra anima.

AA.VV




LETTERAPadre Davide

Cari missionari,
certi che padre Davide Condotta ha raggiunto il Padre che sentiva vicino anche nella sua vita quotidiana, vogliamo esprimere il vuoto che ha lasciato nella nostra famiglia. Con avidità leggevamo le sue lettere dalla missione, colme di saggezza e sapienza. Sapeva incoraggiarci senza giudicare; aveva incarnato nella sua vita il vangelo con molta umiltà.
Ricordiamo con piacere la domenica delle palme, quando, camminando insieme, fra le «bidonvilles» di Mombasa, padre Davide aveva un’attenzione per tutti: bambini, giovani, mamme, non escludendo i non cattolici, anzi… Si capiva quanto era amato. Rimane il rammarico di non aver più tra di noi un uomo ricco di bontà, cultura e intelligenza.
A noi, però, ha lasciato un’eredità incisiva: «Mai dimenticare che Egli è con noi, come ha promesso… Non importa dove e come metteremo la nostra pietruzza (Europa, Africa ecc.), perché ciò che conta è il metterla come vuole Lui, per costruire il regno di Dio».
Parole che, pur non nuove, hanno acquistato significato, perché pronunciate da chi le ha vissute.

Padre Davide Condotta, missionario in Kenya, è deceduto da diversi mesi. Eppure continuiamo a ricevere numerose testimonianze di stima.
In altre parole: la missione contagia.

Emma e Paolo Moratto




LETTERAI nostri 100 anni

Cari missionari,
il 24 ottobre 1998 a Torino, nel salone «Beato Allamano», la rivista «Missioni Consolata ha celebrato i 100 anni di attività. Una manifestazione solenne per un pubblico scelto di «addetti ai lavori». Un appuntamento cui non sono potuto mancare. Esprimo il più sentito apprezzamento per quanto l’avvenimento ha inteso rappresentare.
È stato dibattutto «il Sud del mondo, fra giudizi e pregiudizi»: un tema di attualità e di grande interesse, difficile da trattare. Il livello e la personalità dei relatori lasciavano intendere l’opportunità della scelta; e le attese non sono state deluse.
I 100 anni di «Missioni Consolata» hanno segnato anche la storia degli omonimi missionari, iniziata con il loro primo invio in Kenya. La rivista, nell’arco di 100 anni, ha accompagnato la storia di centinaia e centinaia di missionari e missionarie «sulle strade del mondo». Vicende religiose, sociali e politiche hanno coinvolto quattro generazioni, almeno, di lettori in avvenimenti epocali, spesso drammatici.
La riflessione su «il Sud del mondo» ha trovato ascoltatori attenti e particolarmente sensibili. Buona la presenza dei giovani, attratti pure da musiche e canti appropriati in una coice festosa.
Il numero straordinario del centenario di «Missioni Consolata» 100 anni sulle strade del mondo è un prezioso documento da conservare per la storia. Personalmente ho pure molto gradito il libro-omaggio «Uomini e donne senza frontiere» di Benedetto Bellesi.
Alfonso Dellavedova
Torino

Caro direttore,
innanzitutto la ringrazio per la mattinata del 24 ottobre, che ho trovato ricchissima di informazioni, analisi, speranze, amicizia, stimoli all’impegno. Una mattinata veramente «missionaria».
Solo ci ha tutti amareggiati, sul finale, l’atteggiamento aggressivo e razzista del dottor Mario Parker (italiano di origine panamense), che da quasi 30 anni è a Torino e si produce in sterili affondi contro l’occidente cristiano. È grave che abbia un certo seguito tra gli africani sprovveduti.
Parker è stato offensivo soprattutto nei confronti di padre Filipe Couto, classificato «cerebroleso» (perché «colonizzato» dai bianchi cristiani), e di Igor Man, tacciato di xenofobia. Con i nostri applausi abbiamo espresso solidarietà ai due relatori, che hanno risposto bene.
Piergiorgio Gilli
Torino

Nella mente degli organizzatori, il 24 ottobre scorso non è stato un’autocelebrazione, bensì un invito alla riflessione.
«Il Sud del mondo fra giudizi e pregiudizi», dibattuto in occasione dei 100 anni di Missioni Consolata, è pure il tema del dossier di questo numero.

aa.vv.




Lacrime

Cari missionari,
nel 1973 padre Luigi Andeni ed io abbiamo iniziato a Sololo (Kenya) una bella esperienza: io come medico volontario dell’Ummi. Oggi, 15 settembre 1998, la televisione mi ha trafitto con il triste annuncio della morte del missionario. Una morte violenta. La morte di un martire. Ho pianto, perché sono debole.
Amelio Galliera
Codroipo (UD)

Con lei, dottor Amelio, abbiamo pianto anche noi, e tanti altri in Italia e Kenya.

Amelia Galliera




La tentazione della bambagia

L’ineffabile Fidel

Caro direttore,
ho letto di recente su un numero di «Times» (Londra) la classifica, aggiornata annualmente dalla rivista «Forbes», delle persone più ricche del mondo. «Vanitas vanitatum»!
In questa classifica compare un certo Fidel Castro, residente a L’Avana (Cuba), il cui patrimonio è stimato in 100 milioni di dollari USA (circa 170 miliardi di lire), distribuito fra miniere di nichel, piantagioni di canna da zucchero e risorse turistiche. Non c’è male per un osannato esponente del proletariato mondiale!
Che cosa ne dicono gli adoratori dell’ineffabile Fidel?
Pier Giorgio Motta
Torino

Noi non siamo tra gli «adoratori» di Fidel, ammesso che esistano… Spesso la coerenza di vita lascia a desiderare in molti. Certamente in noi.

Carezze

Cari missionari,
ho osservato sulla vostra interessante rivista i padri e i fratelli che ci hanno lasciato per ritornare alla «casa del Padre»… e i miei occhi si sono inumiditi.
Questi «eroi» sono vestiti come noi, forse con gli stessi nostri difetti, ma con un entusiasmo mai domo, una speranza mai soffocata, una fede mai annacquata, e hanno dimostrato con i fatti che, quando si lascia cantare Dio nel cuore e nella mente, può nascere un arcobaleno: un arcobaleno che a noi serve per catturare un pezzo di cielo. Voi, cari missionari, siete proprio le «palpebre», ossia le carezze della nostra anima.
Ennio A. Rebuffini
Torino

La lettera contiene pure una nota, che ricorda come «palpebra» derivi dal latino e significhi anche «carezza». Che i missionari siano «le carezze della nostra mente» è un apprezzamento straordinario. Non meritiamo tanto.

Miniere? No, buchi!

Caro direttore,
ho letto su «Missioni Consolata» di aprile 1998 l’articolo sulle «miniere» del Tanzania. Io avrei usato il termine «buchi».
Questi «buchi» sono stati invasi dall’acqua. Meglio: l’acqua piovana scendendo dalla collina ha trasformato la strada in un torrente melmoso, allagando le «miniere» insieme ai lavoratori. I giornali hanno parlato di un centinaio di annegati. I soccorsi sono giunti da Moshi, a 70 chilometri di distanza, e dal Sudafrica: con delle pompe hanno estratto solo una quindicina di corpi.
I lavori in quei «buchi» non li chiamerei neanche «attività minerarie artigianali». Il tutto per estrarre la «tanzanite».
p. Lorenzo Poloni
Tanzania

Amare e giuste precisazioni di un missionario, che denuncia la totale mancanza di sicurezza nell’«affare delle pietre preziose».

Adagio con le parole!

Spettabile redazione,
mi soffermo sull’articolo di Roberto Beneduce: «Negazione della ragione».
Crollano i muri (di Berlino), le ideologie di sinistra sono a pezzi ovunque, tranne che da noi! Infatti l’articolista, anziché distinguere, evidenziare, trattare i fatti e poi cercarne le cause, che fa? Parte da una ideologia bell’e pronta: «la colpa è del capitalismo». Quindi non esistono fatti.
Si sa che ci sono delinquenti anche fra gli immigrati, che c’è disagio reale fra gli italiani. Ma questo non appare. Non esistono responsabilità individuali. Se uno spaccia, «la colpa è del capitalismo»! E si tira in ballo persino la psicanalisi.
Cosa replicare a simile pervicacia e ignoranza, sia pure ammantata di «cultura»? Verrebbe voglia di dire: caro dottor Beneduce, vada a vivere a San Salvario, a Torino, dove sicuramente sarà scippato; dove, se ha una moglie o una figlia, starà in ansia per loro; dove potrà vedere spacciare e accoltellarsi.
Ma l’ideologia non si arrende né all’evidenza né alla ragionevolezza. Ecco il vizio capitale dell’intellettuale italiano. Allora ben vengano gli articoli che spiegano quanto sta succedendo nelle nostre città e quanto sia «comodo», ma pericoloso, accusare di razzismo. È negando i fatti che si crea il razzismo!
Caro articolista, come donna, mi sento più tutelata dai costumi italiani che dal modo in cui arabi e neri trattano le donne: lapidazione dell’adultera, reclusione in casa o escissione della clitoride alle ragazze. Ma, purtroppo, lei non cambierà la sua ideologia.
Marina Veglia
Torino

Evitiamo, per favore, le parole pesanti come pervicacia e ignoranza, perché sono macigni.
«Distinguere, evidenziare, trattare i fatti e poi cercarne le cause»: è proprio quello che il dottor Roberto Beneduce ha fatto nel suo articolo. Spesso si lamenta una crisi di valori. In realtà – annota Beneduce – dei valori esistono, e sono: competizione, individualismo, narcisismo, accumulazione, cinismo. Ecco «le cause» di molti comportamenti aberranti, fra cui il razzismo.
La frase «la colpa è del capitalismo» non appare nell’articolo contestato.

Due «padani»
a confronto!

Spettabile redazione,
rispondo all’editoriale «Bravi, bravissimi!» di «Missioni Consolata», settembre 1998.
Sono un vostro lettore, cattolico praticante e leghista militante, e ritengo doveroso ricordarvi che, contrariamente a quanto da voi scritto, la Lega Nord non ha visioni corte, anzi, vede più lontano di tutti i politici contemporanei.
Tengo a precisare che la porta in faccia non la sbattiamo né al prete, né a chi ha bisogno di aiuto. La Lega Nord sbatte la porta in faccia solo ai delinquenti e agli imbroglioni, siano questi politici o religiosi. Aggiungo anche che, all’interno del movimento, ho finalmente ritrovato quei valori nei quali ho sempre creduto e che in nessun altro partito ho riscontrato, a parte l’unico interesse per il denaro.
Siamo accusati di razzismo solo perché siamo legati alle nostre tradizioni; ma questo fa parte di ciò che i nostri padri hanno sempre insegnato. Per questo dovremmo vergognarci? Chi sono allora i veri razzisti?
Venite alle nostre feste e scoprirete che si respira tanta aria di festa popolana, dove tutti sono bene accetti: sì, proprio tutti, anche la gente del meridione e gli extracomunitari. Al contrario, entrate in qualsiasi altra manifestazione politica non leghista: se sarete fortunati, ve la caverete con bende e cerotti.
Lo stesso numero di «Missioni Consolata» riporta l’articolo «Triste sorpresa», con amare riflessioni di un missionario che lavora e lotta per altri uomini, per poi vergognarsi di quanto avviene nel suo paese. L’articolo rafforza la mia scelta politica. Grazie per averlo pubblicato.
Concludo dicendo che Dio non ha creato una sola razza, ma tanti popoli con culture diverse, che si devono rispettare a vicenda. Quindi è inconcepibile che quanto è stato creato venga annullato da scelte socio-politiche catto-comuniste di ammucchiamento, con conseguente perdita di identità, sotto il segno del falso perbenismo mirato esclusivamente al tornaconto elettorale.
Mario Salvinelli
Lumezzane (BS)

Caro direttore,
ha fatto bene con l’editoriale «Bravi, bravissimi» a ricordare alla «padaneria» che non ogni idea politica è compatibile con il vangelo, specie se esclude l’altro. Nella fattispecie penso a quel partito del Norditalia che insulta i fratelli italiani del Sud, facendo inoltre appello a un folle secessionismo.
Io sono un italiano-trentino con le qualità e i difetti di tutti gli italiani. La nostra unità nazionale l’ha difesa pure il papa polacco, che di patrie storicamente straziate se ne intende. Il termine «padania» (inventato ieri, ridicolo e insolente a un tempo) desta una ripugnanza basale. Stona applicarlo, strumentalizzandolo, a un convegno missionario. Chi si distingue per presunta virtù civile è meglio che non offra nulla.
Mario Rizzonelli
Dro (TN)
Al leghista diciamo: “bravo, bravissimo!” se il suo movimento accetta tutti, compresi i meridionali e gli extracomunitari… Fatelo non solo durante le feste, ma anche (e soprattutto) nella vita di ogni giorno, trattando tutti con giustizia. Il che non sempre avviene. Si sa – per citare un caso – che il sindaco leghista di Treviso, Giancarlo Gentilini, soprannominato el scerifo, ha rimosso dalla città le panchine pubbliche, perché «i mori» non si sedessero.
All’antileghista diciamo: il Convegno missionario di Verona (24-27 del giugno scorso) ha preso lo spunto dal termine padania per riflettere sul leghismo. Così, ad esempio: «Nel nordest ad una grande dinamicità, sul piano economico e imprenditoriale, rischia di corrispondere sempre di più un impoverimento del senso della vita e un certo dissolvimento dei valori di convivenza».

Lacrime

Cari missionari,
nel 1973 padre Luigi Andeni ed io abbiamo iniziato a Sololo (Kenya) una bella esperienza: io come medico volontario dell’Ummi. Oggi, 15 settembre 1998, la televisione mi ha trafitto con il triste annuncio della morte del missionario. Una morte violenta. La morte di un martire. Ho pianto, perché sono debole.
Amelio Galliera
Codroipo (UD)

Con lei, dottor Amelio, abbiamo pianto anche noi, e tanti altri in Italia e Kenya.
Molto eloquente

Caro direttore,
in questi ultimi mesi sono stata impegnata in un cambio di appartamento; ciò ha comportato, viste anche le nostre condizioni di salute non ottimali, uno stress psicologico e fisico, che ho dovuto affrontare per risolvere alcuni problemi e cercare un ambiente un po’ più confortevole per mia madre.
Il nuovo appartamento non è comunque «la casa dei nostri sogni», perché per me non è prudente fare un mutuo: è sempre un ambiente piccolo rispetto alle mie esigenze di lavoro, così come il mio tenore di vita continua ad essere di «povertà relativa» rispetto a quello delle persone che lavorano nella mia scuola o che frequento nell’associazionismo cattolico.
La mia «povertà relativa» è, tuttavia, una «ricchezza clamorosa» rispetto a chi, specialmente nel Sud del mondo, è privo del minimo vitale.
Per convertire in una spinta positiva i sentimenti di tensione e frustrazione che la «povertà relativa» può produrre, desidero vivere un momento di condivisione con chi non ha nulla a livello abitativo.
Pertanto, caro direttore, la prego di destinare il denaro incluso a qualche bisognoso. Chiedo un ricordo nella preghiera.
(Lettera firmata)

Lettera che la mittente ci aveva chiesto di non pubblicare. Non ne abbiamo rispettato il desiderio, perché riteniamo che la sua lettera sia «molto eloquente». Per tutti.
Il grande poeta indiano Tagore scriveva: «Mi resta ciò che dono: rivivrà nelle mie mani».

La tentazione
della bambagia

Caro direttore,
sono impegnata in un gruppo missionario. Talora nel gruppo viviamo sotto l’effetto di «tranquillanti» e «sonniferi». Però, quando ci svegliamo, siamo capaci di sfondare ogni barriera.
Un augurio per il suo lavoro di direttore della migliore rivista missionaria, perché possa continuare con lo stile di «alzati e cammina». È un augurio che rivolgiamo pure a chi preferisce coccolarsi nella bambagia.
Chiara Carreras
Cagliari

All’inizio del 1999 e alla vigilia del 2000, l’augurio di Chiara è… chiarissimo. E molto pertinente.

Chiara Carreras