È il filosofo che ha portato la teoria e la prassi della nonviolenza gandhiana in Italia. È stato, tra le altre cose, fondatore del Movimento nonviolento e ideatore della marcia Perugia-Assisi. Una serie di volumi ne ripropongono il pensiero.
Aldo Capitini (Perugia 1899 – 1968) è il grande maestro della nonviolenza del Novecento italiano. È suo il contributo determinante per l’introduzione nel nostro paese del pensiero e della prassi nonviolenta secondo la lezione gandhiana.
La sua figura, rimasta marginale per decenni nella cultura italiana, nell’ultimo trentennio ha conosciuto un rinnovato interesse da parte di un certo numero di studiosi.
Tra questi, Mario Martini occupa un posto di indiscussa centralità. Egli, infatti, allo studio del pensiero di Capitini ha affiancato una vasta attività divulgativa tesa, da un lato, a farlo conoscere tramite incontri pubblici e, dall’altro, a promuovere nuove edizioni dei suoi scritti.
Forse proprio per questa ragione, Martini non ha mai dedicato al fondatore del Movimento nonviolento italiano una monografia sistematica: la sua scelta è sempre stata quella di «far parlare lo stesso Capitini».
Anche il libro a sua firma uscito quest’anno per le edizioni Aras, L’altra via di Aldo Capitini, non è propriamente un saggio. Esso raccoglie diversi testi, tra cui alcuni inediti, scritti da Martini nel corso degli ultimi trent’anni come introduzioni a nuove pubblicazioni dei libri del filosofo perugino, studi in lavori collettanei, articoli, ecc.
Avere riunito in un volume unico tutti questi interventi rappresenta davvero una buona notizia.
Nel libro tutti i principali temi capitiniani sono toccati e sono oggetto di indagine critica. In particolar modo, si analizzano gli aspetti filosofici e religiosi della visione del mondo di Capitini, il quale, nella luce della stella polare della nonviolenza, intreccia in modo stimolante e originale teoria e pratica, metafisica e pedagogia, politica e religione, dimensione sociale e prospettive escatologiche, disobbedienza civile e spirito profetico.
Le ragioni della nonviolenza
Per chi intendesse accostarsi direttamente alle pagine di Aldo Capitini, il punto di partenza potrebbe essere un’antologia curata dallo stesso Mario Martini, Le ragioni della nonviolenza (Ets, 2016). Il volume si propone di presentare le principali nervature della riflessione capitiniana sulla nonviolenza, tenendo però costantemente presente che per l’autore il momento della riflessione non può essere disgiunto da quello dell’azione.
Il filo rosso del libro è dunque un quadro nel quale le «premesse teoriche», già ben riconoscibili nel primo scritto del 1937, Elementi di un’esperienza religiosa, si saldano al concreto «impegno nonviolento», il cui vertice simbolico può ritenersi la Marcia della pace Perugia-Assisi che Capitini ideò e che si svolse per la prima volta il 24 settembre 1961.
Religione aperta
Va ricordato che negli ultimi anni sono state ripubblicate due opere di Capitini che possono essere considerate delle vere e proprie summae del suo pensiero e rappresentano testi ideali dai quali partire per uno studio approfondito di questo autore.
Nel 2011 Laterza, che di Capitini fu il primo editore, ha riproposto Religione aperta, pubblicazione affidata anche in questo caso alle cure di Mario Martini.
Il libro, che uscì nel 1955 e da lì a poco venne incluso nell’Indice dei libri proibiti (soppresso nel 1966), affronta in modo organico i vari aspetti che caratterizzano l’esperienza religiosa dell’autore, incentrata sull’idea di «apertura» e in contrapposizione alle religioni istituzionalizzate, cristallizzate in una rigida dogmatica, strutturate in forme di potere.
Una decina di anni dopo la pubblicazione di Religione aperta, nel 1966, apparve un altro testo fondamentale riedito di recente, La compresenza dei morti e dei viventi (Libreria editrice fiorentina, 2022). L’idea di «compresenza», già affiorata in diversi scritti precedenti, trova la sua ultima e più compiuta elaborazione in queste pagine dense di pensiero, forse ardue sotto certi aspetti, di certo teoreticamente vertiginose, nelle quali Capitini prova a mostrare in tutte le sue articolazioni la propria prospettiva metafisico religiosa fondata sulla speranza nell’avvento di una realtà ultima, liberata dai vincoli della sofferenza e della morte.
Amico di Norberto Bobbio
Un cenno merita, infine, la pubblicazione dell’epistolario capitiniano, o meglio di una parte di esso. Anche questa è un’iniziativa che deve molto all’impegno di Mario Martini, che la promosse quando presiedeva il comitato scientifico della Fondazione Capitini e che venne accolta dall’editore Carocci, presso il quale, tra il 2007 e il 2012, apparvero sei volumi di carteggi, uno relativo alle lettere di ambito famigliare, gli altri intercorsi con alcune figure di rilievo pubblico: Walter Binni, Danilo Dolci, altro nome imprescindibile per la nonviolenza italiana del Novecento, Guido Calogero, Edmondo
Marcucci e Norberto Bobbio. Quest’ultimo, che si è confrontato a lungo con Capitini, ha sempre rivolto grande attenzione alla questione della pace e allo studio dei pacifismi, seppure con declinazioni teoriche differenti.
Lo stesso Bobbio, peraltro, dopo la scomparsa dell’amico, avvenuta nel 1968, gli ha dedicato due brevi saggi (composti in momenti diversi e ripubblicati assieme qualche anno fa dalle Edizioni dell’Asino in un opuscolo intitolato Il pensiero di Aldo Capitini) che rappresentano quanto di meglio sia stato scritto su di lui e che possono costituire un’altra porta d’accesso alle sue idee.
Massimiliano Fortuna
I laici non mancheranno mai
Siamo nel 1891, dieci anni precisi prima della fondazione dell’Istituto missioni Consolata, Giuseppe Allamano, sebbene impegnato in Torino come rettore del Santuario della Consolata e nel Convitto ecclesiastico, pensa, prega e si consulta per capire se la fondazione di un istituto esclusivamente missionario in Piemonte sia nella volontà di Dio e nei disegni della Chiesa. Scrive a questo riguardo al padre Carlo Mancini, religioso lazzarista residente a Roma, perché esplori presso la congregazione di Propaganda fide la possibilità e l’opportunità di questa nuova avventura missionaria. Nella lettera così si esprime: «Anche oggi ho un certo numero di sacerdoti (i laici poi non mancheranno) che mi stanno ora giornalmente attorno sollecitandomi di metter mano a quest’opera».
Questo primo discreto accenno alla presenza dei laici diventerà sempre più chiaro nella mente di Giuseppe Allamano e dieci anni dopo, nel 1901, fonda l’Istituto missioni Consolata che accoglie parimenti sacerdoti e laici. Nel 1902 la prima spedizione missionaria verso il Kenya è formata da quattro missionari: due sacerdoti e due laici. Tale formula si dimostra subito vincente, poiché essa è capace di integrare in maniera armonica lo sviluppo umano portato avanti dai laici con il ministero pastorale dei sacerdoti e, in seguito, con i preziosi servizi delle Suore missionarie.
L’Istituto, con il passare degli anni, si sviluppa e tutti i suoi membri fanno i voti religiosi. Così, assieme ai sacerdoti, nasce il ramo dei «Fratelli»: sono laici che si votano per sempre alla missione con la professione religiosa. La loro presenza si dimostra preziosa e indispensabile, soprattutto quando si tratta di aprire nuovi campi di evangelizzazione in Africa.
Arriviamo poi al Concilio Vaticano II che richiama tutti i battezzati alla loro responsabilità di rispondere alla chiamata evangelizzatrice e missionaria. Ne fa eco l’enciclica Redemptoris Missio che esorta i laici a «impegnarsi, sia come singoli, sia riuniti in associazioni, perché l’annuncio della salvezza sia conosciuto e accolto da ogni uomo e in ogni luogo; tale obbligo li vincola ancora di più in quelle situazioni in cui gli uomini non possono ascoltare il Vangelo e conoscere Gesù se non per mezzo loro» (71).
Anche oggi non mancano al nostro Istituto i laici che, rispondendo all’invito del beato Allamano e ai costanti richiami di papa Francesco, offrono la loro collaborazione all’opera missionaria, sia in patria che in altri continenti, esercitata soprattutto nel campo educativo e sanitario, senza escludere attività prettamente pastorali per l’annuncio del Vangelo. Stimolare e sostenere il prezioso contributo dei laici nel campo missionario dovrebbe essere l’impegno di tutti coloro che amano l’opera missionaria della Chiesa.
padre Piero Trabucco
La spiritualità del «di più»
Per l’Allamano, il missionario è l’uomo del di più, deve strafare, non può accontentarsi del minimo indispensabile: bisogna fare tutto bene, «il bene va fatto bene».
Un «di più» per la gloria di Dio
«Magis» è un avverbio latino che significa di più o più grande. È implicito nella frase latina legata ai missionari della Consolata ad maiorem Dei gloriam, che significa «per la maggior gloria di Dio». Magis descrive chi fa di più per Cristo, o di più per gli altri. Indica l’aspirazione o l’ispirazione collegata alla formazione di una spiritualità centrata su Gesù Cristo.
Definito in termini più semplici, magis descrive l’eccellenza o la qualità di una impresa: non c’è scuola o impresa sulla terra che non rivendichi l’eccellenza nella descrizione della sua missione. Il magis ci ricorda costantemente che tutte le decisioni che prendiamo, per quanto personali o private possano sembrare a prima vista, hanno ampie implicazioni nella vita della comunità, e quindi il bene comune è un valore da tenere sempre presente.
La spiritualità del magis
In questo contesto, una spiritualità guidata dal magis è quella che cerca il di più, la qualità e l’eccellenza: non si accontenta del minimo indispensabile, ma è incessantemente incline a cercare qualcosa di più grande.
Negli scritti del beato Giuseppe Allamano, questo magis può essere visto in diversi modi:
È la spiritualità che cerca la qualità e l’eccellenza per la maggior gloria di Dio e per il servizio all’umanità. Lo ricorda con chiarezza quando parla di quei missionari che rispondono con poca generosità e senza esagerare; nella sua spiritualità non c’è spazio per il minimo indispensabile.
Lo vediamo anche quando, in modo attivo, invita ad approfittare delle circostanze. Per Giuseppe Allamano non si tratta di aspettare le occasioni d’oro, ma di trovare l’oro nelle occasioni a portata di mano.
Questa ricerca dell’eccellenza, questo fare di più, questa spiritualità, questo magis, Giuseppe Allamano lo vuole vedere nella vita dell’Istituto e nella vita dei suoi missionari.
Nella vita dell’Istituto
In occasione del decimo anniversario della fondazione morale dell’Istituto (24 aprile 1910) Giuseppe Allamano diceva che questa comunità era stata fondata non per lui ma ad maiorem Dei gloriam (per la maggior gloria di Dio). Tutto ciò che l’Istituto ha fatto in passato, tutto ciò che fa attualmente e tutto ciò che farà in futuro, è per la maggior gloria di Dio che si manifesta nella sua missione e nel servizio all’umanità.
Quindi, tutte le attività e tutti gli strumenti di promozione umana scelti per l’evangelizzazione dei non cristiani hanno a che vedere con questo: le fattorie agricole, i laboratori industriali, le scuole, le visite a domicilio, gli orfanotrofi, i collegi e l’assistenza medica… tutto rivela il di più, la ricerca minuziosa della qualità dell’opera.
Lo riconosce anche il cardinale Van Rossum, prefetto di Propaganda fide, che in un incontro con Giuseppe Allamano continuava a ringraziare per tutto il buon lavoro che l’Istituto stava facendo sottolineando che «questo che voi fate va al di là di quello che si deve fare, non si è obbligati a fare tutto questo». In tutta risposta, l’Allamano aggiungeva: «Abbiamo fatto solo il nostro dovere; uno non dovrebbe essere prete se non sente zelo per le anime». Ecco evidente il magis che l’Istituto ha ricevuto dal Fondatore come eredità.
Nella vita del missionario
La spiritualità guidata dal magis dell’Allamano la vediamo anche nella vita di ogni missionario.
Nella risposta alla propria vocazione il magis è molto presente: non basta essere chiamati, non basta rispondere alla chiamata, non basta entrare nell’Istituto e non basta nemmeno andare in missione. Tutte queste cose hanno un senso se contengono una risposta piena, generosa e costante alla grazia di Dio.
Il magis riappare nel lavoro, nella preghiera e nella carità. Il lavoro deve essere fatto con spirito di generosità: «I missionari – diceva – sono generosi e possono lavorare per molti». E nella preghiera un missionario non può dire di pregare troppo: «Lo dico a voi, non si può mai dire di pregare troppo».
Nella carità desiderava in ogni comunità non una semplice carità, ma una carità sempre attenta all’altro, una carità che sopporta tutto, una carità capace di amare secondo la misura di Dio. «Il nostro cuore – diceva – è così piccolo che non lo possiamo dividere tra Dio e le creature. Dio vuole tutto il nostro cuore e quindi dovremmo amare con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima, con tutta la nostra mente, con tutte le nostre forze».
Sull’esempio di Cristo
Quindi, con la spiritualità del magis e infondendo uno spirito di generosità e costanza, l’Allamano aiutava ogni missionario a rispondere bene alla sua vocazione, ad amare e servire Dio con zelo, a mettersi con generosità al servizio di Dio e del prossimo e a rivitalizzarsi.
San Paolo esorta i suoi cristiani a vivere una vita piena di amore, seguendo l’esempio di Cristo che «ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (Ef 5,2) e ricorda loro che questa vita ci trasforma in ambasciatori di Cristo perché «per mezzo nostro, è Dio stesso che esorta» (2 Cor 5,20).
È proprio la spiritualità del di più che ci permette di essere apostoli zelanti, veri ambasciatori di Cristo.
padreCharles Orero
UNA SCUOLA CON SPIRITO MISSIONARIO
Il 7 ottobre 2022, anniversario della beatificazione di Giuseppe Allamano, avvenuta nel 1990, i 1.705 studenti della scuola bilingue «Giuseppe Allamano» di Bogotá (Colombia), hanno celebrato la Giornata missionaria mondiale evidenziando il carisma del fondatore dei Missionari della Consolata e titolare della loro scuola.
Eucaristia a più voci
Per una di quelle sincronicità che avvengono lungo i cammini della missione, hanno concelebrato l’eucaristia nel cortile della scuola tre missionari della Consolata che hanno condiviso con gli studenti le loro diverse esperienze di vita e di missione.
Il primo, padre Im Sang Hun (Marcos), attuale superiore dei missionari della Consolata in Argentina, con il suo inconfondibile accento coreano (Corea del Sud), ma supportato da un eccellente spagnolo, ha interloquito con sette giovani della scuola che studiano il coreano. Il secondo, padre Francisco Pinilla, preside della scuola, con una lunga esperienza di missione in Etiopia, ha rivolto ai presenti alcune parole in amarico, una delle cinque lingue parlate nel Paese.
Il terzo, padre Salvador Medina, missionario in Colombia e Brasile, ha fatto lo spelling del proprio nome «Sal-va-dor», per spiegare il significato della missione, che in sintesi parla della partenza degli inviati per svolgere un compito: «sal», imperativo del verbo partire; «va», imperativo del verbo andare; «dor», nel dolore in portoghese. Lasciare se stessi e il proprio mondo – cultura, geografia, religione e posizione sociale -, andare nel mondo dell’altro diverso ma uguale ed essere «sale» per dare sapore e gusto, per preservare e guarire il dolore «dor».
«Così ha fatto Dio – ha continuato padre Medina -, attraverso il suo missionario e inviato, Gesù (Dio salva) come Emmanuele (Dio-con-noi), per la potenza dello Spirito che ci rende comunione e comunità. Questo è ciò che tutti noi, studenti, maestri e servitori della vita, possiamo e dobbiamo fare, in nome del Dio della vita, per servire la vita in tutte le sue manifestazioni, specialmente là dove è più minacciata o ferita. Tutto perché la vita non muoia e valga la pena di essere vissuta».
Commemorazione del beato Giuseppe Allamano
«Proprio in un giorno come oggi, 32 anni fa, il nostro fondatore è stato riconosciuto a Roma, da papa Giovanni Paolo II, come una persona che ha compreso la missione di Dio e vi ha dedicato la sua vita, i suoi studi e i suoi beni. La scuola porta il suo nome, che ne ispira la spiritualità, la pedagogia e la dimensione missionaria universale.
Come disse il Papa all’Angelus di quel giorno, il 7 ottobre 1990, in piazza San Pietro: «I nuovi beati, Giuseppe Allamano e Annibale Maria Di Francia (beatificati lo stesso giorno), entrambi formatori di sacerdoti e apostoli dell’animazione vocazionale, intercedono anche per noi».
Per questo motivo la loro beatificazione durante lo svolgimento del «Sinodo per la nuova evangelizzazione» acquista un significato particolare.
«Sono, infatti, testimonianza vivente delle meraviglie che lo Spirito Santo opera in coloro che rispondono generosamente alla chiamata divina. Con il loro esempio, ricordano a tutti l’urgenza di chiedere “al padrone della messe di mandare operai nella sua messe” (Mt 9, 38), e incoraggiano i sacerdoti, i seminaristi e i loro formatori, apostoli della nuova evangelizzazione, a percorrere senza dubbio e con gioia la via della santità, che è l’abbandono fiducioso alla volontà di Dio e il servizio senza riserve ai fratelli.
Insieme a loro, ci rivolgiamo ora alla Madre del Salvatore, venerata dal beato Allamano con il titolo di Consolata, e dal beato Annibale Maria Di Francia con il titolo di Maria Fanciulla».
Il viaggio e la missione continuano
Nelle aule gli studenti e gli insegnanti hanno proseguito la giornata delle missioni ricordando e aggiornando le loro conoscenze e lasciando volare la loro immaginazione attraverso i cinque continenti, con i loro diversi colori, visitando culture, balbettando lingue, conoscendo usi, tradizioni e religioni per organizzarli, artisticamente ed esteticamente nel cosiddetto «Angolo missionario», che poi è stato oggetto di pellegrinaggio e scambio tra tutti.
La giornata si è conclusa con la realizzazione di un «salvadanaio missionario» in ogni aula, riempito con il dono della loro solidarietà, che è stato inviato a Cuba, una bellissima isola che si è «spenta» a seguito dell’uragano Ian, il 28 settembre, quando il suo sistema elettrico è crollato, lasciando 11 milioni di cubani senza elettricità.
Conclusione
In questo modo, la comunità educativa Giuseppe Allamano di Bogotá si è unita al resto dei luoghi dove il 7 ottobre è stata ricordata e celebrata la vita e l’eredità di colui che continua a essere maestro di missionari, un’opera iniziata in Africa e che si è estesa in tutto il mondo grazie a fratelli, sacerdoti, suore e laici che continuano ad «annunciare la gloria di Dio alle nazioni».
équipe di Animazione missionaria giovanile e vocazionale Imc Colombia
Mozambico e Angola: due paesi, uno stile
Raccogliamo in questo articolo le chiacchierate con padre Sisto Elias, superiore della regione Mozambico, e padre Fredy Gomez, responsabile del gruppo di missionari in Angola, che restituiscono un’immagine di un modo di fare missione basato soprattutto sulla collaborazione con le comunità locali.
Lo scorso 15 giugno è stata chiusa la sedicesima e ultima base della Renamo (Resistenza nazionale mozambicana), il gruppo militare, oggi partito politico conservatore, che fra il 1977 e il 1992, nella guerra civile mozambicana, ha combattuto il Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico), il partito al governo di ispirazione marxista. La base si trovava a Vinduzi, nei pressi del parco nazionale di Gorongosa (provincia di Sofala), storica roccaforte della Renamo, e la cerimonia ha visto Ossufo Momade, segretario della Renamo, consegnare l’ultima arma da fuoco, un mitragliatore AK-47, nelle mani del presidente mozambicano e leader del Frelimo, Filipe Nyusi@.
Con questo atto si è concluso il processo di disarmo, smobilitazione e reintegrazione (Ddr nell’acronimo portoghese, da Desarmamento, desmobilização e reintegração), che a cominciare dal giugno 2019 ha interessato un totale di 5.221 guerriglieri (257 donne e 4.964 uomini). Durante la cerimonia, il presidente Nyusi ha assicurato che si procederà ora al pagamento delle pensioni per gli ex combattenti, molti dei quali si trovano in condizioni economiche precarie dopo la smobilitazione, almeno secondo quanto dichiarato nel 2021 a Radio France International dal presidente della Renamo, André Magibire@.
Se questo conflitto è concluso – il prossimo 4 ottobre ricorreranno i 31 anni dalla firma, a Roma, del trattato di pace fra Frelimo e Renamo – lontano dalla fine sembra quello nel nord del paese, nella provincia di Cabo Delgado, dove dal 2017 è in corso un’insurrezione armata jihadista, alla quale però molti combattenti locali hanno aderito soprattutto perché si sentono esclusi dai benefici economici derivanti dalle scoperte di minerali e idrocarburi nella zona. Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, a maggio scorso risultavano nel nord del Mozambico oltre 834mila sfollati interni, mentre altre 420mila persone avevano fatto ritorno nelle zone da cui erano fuggite, di cui quasi 392mila in località all’interno della provincia di Cabo Delgado, 27mila in quella di Nampula e un migliaio nel Niassa@.
Vi sono infine gli effetti del ciclone Freddy@, che tra febbraio e marzo ha colpito principalmente il Malawi e le regioni del nord del Mozambico, peggiorando le condizioni igienico sanitarie e aggravando l’epidemia di colera che era già in corso e che, secondo i dati dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), fra l’inizio dell’anno e il 15 maggio scorso aveva fatto registrare poco meno di 90mila casi e 1.900 morti solo fra Malawi e Mozambico@.
«La ricostruzione è ancora in corso», racconta padre Sisto Elias, missionario della Consolata mozambicano e superiore regionale al secondo mandato, «ma sarà completata in tempo per la stagione di produzione, che va da agosto a novembre». Negli ultimi due anni, la salina ha vissuto nella propria gestione un cambiamento profondo, incentrato sul metodo di lavoro che i Missionari della Consolata in Mozambico si sono dati sotto la guida di questa direzione regionale: «Abbiamo deciso di decentralizzare e investire sulle risorse locali», spiega Sisto. «Da Maputo facciamo la supervisione, garantiamo costanti visite sul campo e rimaniamo noi i responsabili in ultima istanza. Ma a portare avanti le attività sono le persone della comunità locale, sul posto».
Ora alla salina sono legate due imprese, una per la produzione e trasformazione del sale e una per la vendita all’ingrosso, così da garantire una migliore divisione del lavoro oltre che rigore nella gestione economica e nelle procedure igienico sanitarie. Rigore, precisa padre Sisto, che è lo stato mozambicano stesso a chiedere e a verificare con controlli e ispezioni.
«Produciamo e commercializziamo all’ingrosso tre tipi di sale: il Sal do Índico, che è il nostro marchio per il sale alimentare comune, il Flor do Índico, che è il fior di sale, cioè il prodotto più pregiato, e il Sal de pesca, un sale di qualità inferiore che si usa nella zootecnia oppure nella conservazione del pesce». La salina ha venti lavoratori fissi, che arrivano fino a 80-90 durante la stagione della produzione. Ma la salina rimane, come è sempre stata, un’impresa il cui fine è prevalentemente sociale: «Innanzitutto, l’attenzione è per i lavoratori, per sostenerli nei momenti di difficoltà, per garantire a loro e alle loro famiglie l’accesso all’istruzione, alla sanità. Ma non solo: i fondi per costruire la scuola primaria di Lichinga, nel Niassa, e la secondaria di Nampula sono venuti in buona parte dalla salina». E le scuole stesse sono gestite in modo decentralizzato, appoggiandosi a personale di fiducia in loco: il ruolo dei missionari è quello di effettuare frequenti visite per verificare la trasparenza nella gestione economica e l’alta qualità dell’insegnamento. «E per gli studenti le cui famiglie si trovano in condizioni di povertà estrema dimostrate, la scuola ha un sistema di borse di studio finanziate con le rette delle famiglie in grado di pagare».
Lotta malnutrizione a Capalanca in Angola
Il centro nutrizionale di Cuamba
Una simile gestione decentrata si applica anche al lavoro del centro nutrizionale che si trova nella cittadina di Cuamba, nel Niassa. Fino a qualche anno fa, il responsabile dei progetti attivi al centro nutrizionale era uno dei missionari della Consolata presente nella missione e parrocchia di Cuamba. Con la cessione della parrocchia ai sacerdoti diocesani, da circa due anni i missionari non sono più lì. «Questo ci ha costretto evidentemente a ridimensionare le attività del centro», spiega ancora Sisto, «rinunciando ad esempio ad avere una persona incaricata che prestasse servizio costante». Ma la malnutrizione è ancora presente e il centro è importante nel contrastarla. «Abbiamo deciso di mandare avanti le iniziative in sostegno ai bambini malnutriti semplicemente acquistando e stoccando in un magazzino latte in polvere e altri cibi che si conservano nel tempo e organizzando le distribuzioni alle famiglie bisognose attraverso i cristiani locali».
La presenza del centro e le sue attività di lotta alla malnutrizione si sono rivelate molto importanti per affrontare due emergenze che si sono sovrapposte nell’ultimo anno: l’arrivo da Cabo Delgado di diverse famiglie di sfollati, e le inondazioni legate al ciclone Freddy. Così, in una relazione dell’aprile scorso, padre Sisto riportava che, per far fronte ai maggiori bisogni causati da questi eventi, il centro ha collaborato con gli agenti di salute e l’Ingd (Istituto nazionale per la gestione e la riduzione dei rischi da catastrofe) per fornire assistenza alle persone ospitate in due centri di accoglienza della zona: riso, zucchero, olio, sapone, latte e farina sono stati acquistati e distribuiti a 187 famiglie con una media di 5 figli ciascuna, per un totale di 935 bambini e adolescenti, ai quali è stato assicurato l’apporto nutrizionale indispensabile.
Arte Macua a Maua in Mozambico su stimolo di padre Frizzi
Maúa, l’eredità di padre Frizzi
Il lavoro di padre Giuseppe Frizzi che, a partire dal 1987, ha studiato e sistematizzato il patrimonio etnolinguistico del popolo Macua Xirima@, continua a essere valorizzato e promosso dai suoi confratelli in Mozambico anche attraverso l’avvio di collaborazioni con entità come la Fondazione Fernando Leite Couto, dedicata al padre del noto scrittore e giornalista mozambicano Mia Couto. «Per prima cosa, la Fondazione ci aiuterà a far sì che tutto il materiale di padre Frizzi – libri e altri scritti – contenuti nel centro studi di Maúa ricevano i necessari riconoscimenti di legge riguardo alla proprietà intellettuale. Poi si cercherà di rendere più fruibili le parti del lavoro del Centro studi che hanno riguardato la filosofia e l’antropologia, separandole da quelle incentrate sulla teologia, in modo da creare testi, saggi, raccolte che possano essere usati per l’approfondimento in ambito accademico o della ricerca in generale».
Altra novità che riguarda il Centro studi Macua Xirima è il trasferimento della sua parte museale a Massangulo, dove c’è un’altra presenza dei missionari della Consolata. Massangulo è più vicina alla strada, meno isolata di Maúa, conclude padre Sisto, e lì un museo sarà più facilmente raggiungibile dai visitatori.
Arte Macua a Maua in Mozambico su stimolo di padre Frizzi
«Una parte del problema», spiega padre Fredy Alberto Gómez Pérez, missionario della Consolata colombiano e responsabile della comunità di sette missionari attivi in Angola, «è anche il fatto che molti angolani ritengono l’agricoltura un’attività non dignitosa, preferendole altri lavori come l’insegnante, il funzionario pubblico, l’impiegato». Questo approccio delle persone non è ovviamente la sola causa del mancato sviluppo socioeconomico del paese che, come il Mozambico, ha vissuto fra il 1975 e il 2002 quasi tre decenni di guerra civile, i cui segni sul tessuto produttivo oltre che sulla società e sull’ambiente richiedono molto tempo per essere cancellati.
Cappella di Luacano all’inizio dell’avventura missionaria in Angola
Giovane missione
Come in tutte le presenze della Consolata di più recente fondazione, il lavoro dei missionari procede in modo molto graduale e si colloca in zone ai margini, di confine, si tratti delle periferie urbane, delle aree a cavallo fra città e campagna o dell’entroterra più remoto. «I Missionari della Consolata sono arrivati in Angola nell’agosto 2014 e oggi lavorano in tre ambiti con caratteristiche molto diverse tra loro», racconta padre Fredy. «La prima parrocchia che l’allora vescovo della diocesi di Viana, monsignor Joaquim Ferreira Lopes, ci ha affidato è stata quella di Santo Agostinho, a Bairro Capalanca, alla periferia della capitale Luanda. Un anno e mezzo dopo abbiamo rilevato la parrocchia di Nossa Senhora da Consolata nella zona di Funda, che si trova poco fuori Luanda ed è una realtà per metà urbana e per metà rurale. La terza presenza è presso la parrocchia di Santa Maria Mãe de Deus, nel comune di Luacano», che si trova oltre 1.300 chilometri a est, a circa due ore dal confine con la Repubblica democratica del Congo: «Luacano è veramente una realtà ad gentes», sottolinea Fredy, «in mezzo alle savane intorno al lago Dilolo» (su Luacano vedi MC di maggio 2023@).
In questo momento il lavoro dei missionari, oltre che all’evangelizzazione, si rivolge agli ambiti della salute e dell’istruzione: piccoli progetti di assistenza ai bambini malnutriti, creazione di equipe di pastorale sanitaria, formazione per i giovani che non frequentano la scuola. A Luacano, inoltre, i missionari hanno cercato di migliorare i servizi di base anche fornendo acqua alla comunità locale attraverso pozzi e formando gli adulti con programmi di alfabetizzazione.
Per gli anni a venire, i missionari contano di riuscire a dare alle attività un carattere più strutturato. Un annoso problema che accompagna da sempre il loro lavoro è quello di doversi dotare di spazi dove sia possibile organizzare e dare continuità alle iniziative che portano avanti.
«Il progetto del Centro sociale Santo Agostinho» nel Bairro Capalanca di Luanda, spiega padre Fredy, «è nato come risposta più elaborata e sistematica alle sfide di cui parlavo sopra, perché per realizzare tutti gli altri progetti, sia di carattere sociale che di evangelizzazione, abbiamo bisogno di uno spazio adeguato». Servono uno studio medico per assistere i malati e monitorare lo sviluppo dei bambini, una cucina per preparare il cibo e un refettorio per servire il pasti offerti agli anziani seguiti dalla Caritas parrocchiale, stanze per la formazione e la catechesi.
«Dopo una lunga attesa si è deciso di iniziare i lavori con un fondo ricavato accantonando le offerte dei fedeli, ma da soli non riusciremo a terminare i lavori nei tempi desiderati per rispondere alle urgenze che abbiamo». Per questo padre Fredy si è rivolto a Missioni Consolata Onlus per ottenere aiuto nella ricerca di fondi, proponendo un progetto dal costo complessivo di circa 95mila euro.
Chiara Giovetti
Arte Macua a Maua in Mozambico su stimolo di padre Frizzi
Non tutti i debitori sono eguali
Tutti i paesi sono indebitati. Al Nord come al Sud del mondo. Eppure, le conseguenze del debito sono molto diverse. Per pagare i creditori i paesi poveri non forniscono ai propri cittadini neppure i servizi minimi di salute e istruzione. Oppure, semplicemente, falliscono. Come sta accadendo.
Tutti i governi del mondo sono indebitati, quelli ricchi più di quelli poveri, ma i primi se ne preoccupano di meno perché sono capaci di farcela meglio. Secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi), a fine 2021, il debito pubblico complessivo ammontava a 90mila miliardi di dollari. Una somma enorme, che non dovrebbe far dormire la notte se pensiamo che tocca a noi cittadini restituirla. Eppure, impallidisce se la mettiamo a confronto con l’intero debito che grava sul mondo. Questo perché, oltre agli stati, anche le famiglie e le imprese hanno i loro debiti che, messi assieme a quelli pubblici, a fine 2021 ammontavano a 235mila miliardi di dollari. Di questi quelli riconducibili ai governi rappresentano solo il 38%.
Il debito pubblico dei paesi ricchi
Il Fondo monetario internazionale suddivide il debito pubblico mondiale in due gruppi: quello dei paesi avanzati e quello dei paesi emergenti e in via di sviluppo. I paesi avanzati comprendono una quarantina di stati, che complessivamente ospitano un miliardo di persone (12,5% della popolazione mondiale), a cui è garantito un reddito medio pro capite di 55mila dollari l’anno. I paesi emergenti e in via di sviluppo rappresentano gli altri 160 stati che, complessivamente, ospitano sette miliardi di persone (87,5% della popolazione mondiale), che vive con un reddito medio pro capite di 7mila dollari l’anno. Il 68% del debito pubblico mondiale è a carico dei paesi avanzati. Fra essi il più indebitato in termini assoluti sono gli Stati Uniti che, a fine 2022, avevano un debito pubblico pari a 31mila miliardi di dollari. Ma in termini relativi, ossia in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil), il debito pubblico più alto del mondo è quello giapponese pari al 227% del Pil, mentre quello statunitense è al 124%. Quanto all’Italia, il suo debito pubblico al 31 dicembre 2022 era attestato a 2.764 miliardi di euro pari al 145% del Pil. Fra i paesi emergenti, quello col debito pubblico più alto è la Cina, con 10mila miliardi di dollari, all’incirca un terzo di tutto il debito di questa parte di mondo.
In media, i paesi avanzati hanno un debito pubblico pari al 111% del proprio Pil. Quelli in via di sviluppo solo il 67% del loro Pil. Una diversità di carico che emerge anche dal debito pro capite. Su ogni abitante della parte ricca del mondo grava una quota di debito pubblico media pari a 67mila dollari. Sugli abitanti del resto del mondo, invece, gravano solo 4.400 dollari. Eppure la condizione di questi ultimi è assai peggiore dei primi perché le conseguenze del debito non dipendono solo dal suo ammontare, ma da varie altre variabili sintetizzabili in tre punti: verso chi è stato contratto il debito, con quale valuta, con quale capacità fiscale.
La questione del debito. Foto rupixen.com – Unsplash.
Le banche centrali e la creazione di moneta
Partendo dal primo punto, «verso chi», le possibilità sono due: verso soggetti interni o verso soggetti esteri. Nel primo caso la situazione è molto più gestibile e leggera che nel secondo. Si veda, come esempio, il Giappone che, pur avendo il debito pubblico più alto del mondo, non crea eccessivi allarmismi perché esso è essenzialmente verso i propri cittadini e verso la propria banca centrale. Quest’ultima, per statuto, deve collaborare in maniera stretta con il governo e deve assisterlo nelle sue esigenze finanziarie se necessario concedendogli anche prestiti tramite emissione di nuova moneta. Ad oggi il 43% del debito pubblico giapponese figura come debito verso la Banca centrale del Giappone e ha la caratteristica di poter essere definito un «debito non debito» perché, pur esistendo da un punto di vista contabile, non sortisce alcun effetto da un punto di vista pratico.
Tutti i paesi del Sud del mondo dispongono di una banca centrale, che magari ha anche il compito di colmare i deficit di bilancio creati dal proprio governo. Ma va precisato che l’intervento della banca centrale può andare a segno senza contraccolpi soltanto se attuato in paesi economicamente forti. Se si immette nuovo denaro in paesi con una struttura produttiva fragile, l’effetto più probabile è l’inflazione, ossia la crescita dei prezzi. Semplicemente perché l’apparato produttivo non riesce a rispondere alla nuova ondata di domanda provocata dall’emissione di nuova moneta. Un esempio è l’Argentina. Nel 2020 il governo di Fernandez decise di effettuare spese a debito con emissione di nuova moneta, ma nell’agosto 2022 dovette cambiare politica per un’inflazione che aveva raggiunto il 100%.
Tra prestiti interni e prestiti esteri
L’alternativa è il ricorso ai prestiti di origine interna o di provenienza estera. Quelli di origine interna sono in valuta locale e possono venire dai risparmi dei cittadini o dal sistema bancario locale.
Il Fondo monetario internazionale stima che il 30% del debito pubblico dei paesi emergenti è detenuto dalle banche locali. Con differenze che possono essere molto ampie fra paese e paese. Ad esempio, in Uruguay le banche private detengono appena il 10% del debito pubblico, in Cina l’80%. Dati altrettanto particolareggiati sugli altri creditori locali, purtroppo, non circolano, per cui non è possibile tracciare un quadro preciso sulla composizione dei creditori interni dei governi del Sud.
Invece, esistono statistiche molto accurate sul debito verso soggetti esteri, evidentemente perché ci riguarda. Infatti, si tratta di debito contratto verso le nostre banche, i nostri governi, i nostri investitori e verso i guardiani dell’ordine economico internazionale, ossia il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Una quota controllata a vista dalle nostre istituzioni timorose di perdite, ma mai persa di vista neanche dai governi del Sud considerato che deve essere restituita in dollari, euro e altre valute estere che non possiedono, o possiedono in maniera molto limitata.
Cumulativamente i governi del Sud del mondo sono indebitati verso il resto del mondo per 5.200 miliardi di dollari, all’incirca il 15% del proprio debito complessivo. Ma, oltre ai governi, anche imprese, banche e altri soggetti privati del Sud del mondo sono indebitati con soggetti esteri, per cui il debito complessivo dei paesi emergenti verso l’estero ammonta a 9mila miliardi di dollari secondo la Banca mondiale, a 11mila, secondo la conferenza su commercio e sviluppo delle Nazioni Unite (l’Unctad).
foto-Frantisek Krejci-Pixabay
Le conseguenze della esportazione di capitali
In ogni caso, tutti concordano nel riconoscere che è difficile tracciare una linea di demarcazione netta fra debito estero di tipo pubblico e debito estero di tipo privato, perché qualsiasi pagamento da effettuare in valuta estera, presuppone riserve in dollari o in euro che tocca ai governi garantire. Per questo assumono grande importanza eventuali squilibri che si vengono a creare con l’estero in ambito commerciale.
Un esempio è il Malawi, che nel 2022 ha visto balzare la quota di entrate pubbliche destinate al servizio del debito estero dal 5% al 44%, come conseguenza dell’enorme quantità di debito in dollari contratto dalle banche locali per coprire i costi di importazione di prodotti vitali.
Oltre che dai maggiori costi per le importazioni, le riserve di valuta estera possono essere corrose anche da altre operazioni come i prestiti richiesti da banche e imprese locali per il perseguimento dei propri fini. Senza dimenticare i capitali trafugati all’estero non sempre sottobanco, ma a volte legalmente, come mostra il caso argentino. Nel 2018-2019 in Argentina il governo Macrì legiferò a favore della libertà di esportazione di capitali che provocò al paese uno squilibrio nei conti con l’estero per decine di miliardi di dollari. Un deficit a cui venne posto rimedio tramite un prestito di 40 miliardi di dollari ottenuto dal Fondo monetario internazionale.
Un’operazione a favore delle classi più ricche fatta sulle spalle di tutta la comunità, perché ora tocca al popolo argentino ripagare il debito verso il Fondo.
Oltre che dalle scelte compiute da governi e soggetti economici, il debito verso l’estero risente molto di tutto ciò che si muove sullo scacchiere internazionale. Basta un’inversione di marcia nell’andamento economico, l’alterazione di prezzo di beni strategici, la variazione dei tassi di interesse da parte delle grandi economie, e il debito verso l’estero si può fare più leggero o più pesante.
Secondo la Banca mondiale, dal 2010 al 2021 il debito estero complessivo dei paesi emergenti è più che raddoppiato, passando da 4mila a 9mila miliardi di dollari. E se, nei primi anni, l’aumento era imputabile al maggiore dinamismo degli operatori economici del Sud, che si affacciavano sulla scena internazionale per ottenere maggiori prestiti a scopi produttivi, dal 2019 l’aumento è imputabile a fenomeni mondiali che si sono mossi per conto proprio. Primo fra tutto la recessione mondiale da Covid che ha provocato una riduzione delle esportazioni del Sud con conseguente riduzione degli introiti in valuta estera. E se nel 2021 c’era stata una ripresa, nel 2022, due fatti nuovi hanno riportato i paesi del Sud del mondo nella tormenta.
Per primo, l’aumento dei prezzi delle derrate alimentari e dei prodotti energetici, come conseguenza della guerra in Ucraina. Per secondo, l’aumento dei tassi di interesse a seguito di un cambio di politica delle banche centrali occidentali che ormai avevano come principale obiettivo il contenimento dell’inflazione.
È stato per il convergere di questi due fenomeni che la situazione debitoria del Sud del mondo verso l’estero si è fatta particolarmente critica soprattutto per i paesi più fragili e più dipendenti dall’estero.
L’Egitto, ad esempio, nel corso del 2022 ha bussato sia alle porte degli Emirati arabi uniti che del Fondo monetario internazionale per ottenere in prestito alcuni miliardi di dollari utili a fronteggiare l’aumento dei prezzi dei cereali acquistati sul mercato mondiale. Un nuovo debito ottenuto a condizioni più svantaggiose per effetto dell’aumento dei tassi di interesse a livello internazionale.
I creditori del Nord e il servizio del debito
Nel 2021, la somma inviata dai governi del Sud del mondo ai vari creditori del Nord per interessi sul debito è ammontata a 115 miliardi di dollari. Nel 2010 ammontava a 47 miliardi di dollari. Quindi, in dieci anni, l’aumento è stato del 144%. Se poi agli interessi aggiungiamo la quota restituita come capitale, troviamo che la somma complessiva inviata dai governi del Sud ai creditori del Nord, ammonta, nel 2021, a 400 miliardi di dollari.
Come dire che, in quest’anno, il Sud del mondo ha destinato al servizio del debito il 14,3% delle proprie entrate pubbliche, mentre nel 2010 ne destinava solo il 6,8%. Il calcolo è dell’organizzazione britannica Jubilee Campaign, che però avverte come esistano ampie differenze tra paese e paese.
In Sri Lanka, ad esempio, il servizio del debito estero assorbe il 60% delle entrate pubbliche, nello Zambia il 45%, in Angola il 33%, in Mozambico il 25%. Tutti paesi incapaci di garantire ai propri cittadini i servizi minimi di tipo sanitario ed educativo. E, tuttavia, ormai incapaci di onorare i propri impegni anche nei confronti dei creditori, considerato che Sri Lanka, Ghana e Zambia hanno già dichiarato fallimento.
Vari altri paesi rischiano di seguire la stessa sorte, per cui lo stesso Fondo monetario internazionale chiede di intervenire per alleggerire la situazione debitoria del Sud del mondo. Che tradotto significa disponibilità dei creditori ad annullare almeno parte del debito. Ma l’impresa non si presenta facile considerato che il 63% del debito estero dei governi del Sud è verso banche e altri soggetti privati a cui nessuno vuole porre regole.
Francesco Gesualdi
foto-QuinceCreative-Pixabay
Marzuk, il beniamino
Il 13 maggio 1903, arrivando al porto di Mombasa, Kenya, la terza spedizione dei Missionari della Consolata e la prima delle Vincenzine del Cottolengo ricevono un dono speciale: Selmi, Angior e Marzuk, tre piccoli schiavi appena liberati. Qui la storia del più piccolo.
La foto del bimbo in mezzo ai cavoli , non si sa bene se scattata per evidenziare quanto sia piccolo lui o quanto siano grandi i cavoli, pur apparsa più volte su questa rivista, mantiene sempre la sua innegabile simpatia. E come ogni foto di oltre cento anni fa, porta in sé una storia.
Foto AfMC /Filippo Perlo
Il bambino dei cavoli, presto battezzato Giacomino in onore del canonico Giacomo Camisassa, aiutante e amico del beato Giuseppe Allamano, si chiama Marzuk (che significa il beniamino) e ha più o meno quattro anni quando schiavisti somali provenienti dal Benadir (zona della Somalia vicino a Mogadiscio, allora colonia italiana) lo rapiscono dal suo villaggio nel sud dell’Etiopia per venderlo nella penisola arabica. Con lui sul dhow (la grande barca a vela tipica di quei mari) ci sono altri due bambini un po’ più grandicelli, Selmi e Angior, e diverse ragazze.
Ma quel dhow non arriva in Arabia: una cannoniena italiana che pattuglia l’Oceano Indiano per bloccare i negrieri, infatti, lo intercetta e libera tutti gli schiavi. Emilio Dulio, governatore del Benadir, affida i tre bambini al cavalier Giulio Pestalozza (1850-1930), console italiano a Zanzibar (da cui dipende Mombasa) che li tiene per oltre un anno, ma poi, dovendo rientrare in Italia per fine servizio, li consegna a padre Filippo Perlo, giunto a nella città portuale per accogliere la terza spedizione di missionari della Consolata (quattro preti, uno studente di teologia e un fratello) e la prima delle suore Vincenzine del Cottolengo (otto in tutto), arrivate a Mombasa il 13 maggio 1903.
Dal porto i nuovi arrivati raggiungono in treno la casa procura nel villaggio di Limuru, la prima stazione dopo Nairobi e la più vicina (si fa per dire) alla missione di Fort Hall (in seguito Murang’a) dove è in costruzione la casa per le suore.
Il 31 maggio è la festa di Pentecoste. È l’occasione ideale per battezzare il piccolo Marzuk. Padre Filippo Perlo scatta prima una foto dei tre nei loro abiti da «schiavetti» (foto qui sotto) e poi fa rivestire il suo figlioccio e gli altri due con un bell’abito battesimale bianco.
Quel giorno Marzuk diventa Giacomino, mentre gli altri due, di 8 e 9 anni, continuano la loro preparazione catechistica per essere battezzati più avanti a Murang’a con i nomi di Giuseppe (come l’Allamano) e Agostino (come il cardinal Richelmy di Torino).
Le suore, a fine giugno, entrano finalmente nella loro nuova casa, costruita secondo le regole di sicurezza imposte dagli inglesi. I tre ragazzi vanno con loro, e Giacomino diventa davvero il «beniamino» di tutti. Sveglio, svelto e intelligente, parla l’italiano e anche un po’ di piemontese che ha imparato dalle suore ancora prima del kikuyu e dell’inglese. Attivo e attento, si presta ai piccoli servizi, recita le poesie nelle feste e si fa benvolere da tutti. La foto con i due cavoli è rivelatrice della sua simpatia contagiosa.
Crescendo, mentre i suoi due compagni mettono su famiglia, Giacomino, che nella casa serve come «boy» (domestico) con salario, seguendo una profonda ispirazione interiore, comincia invece a esprimere il desiderio di mettersi al servizio del Signore e della missione come sacerdote. Così nel 1917, quando monsignor Filippo Perlo inizia il primo nucleo di seminario, lui è tra i primi a esservi accolto. Tra il 1920 e il 1927 fa i suoi studi filosofici e teologici nel seminario sant’Agostino a Nyeri e viene ordinato sacerdote con Tommaso Kemango, il primo sacerdote kikuyu, il 5 febbraio 1927 (foto a inizio testo).
Dal 1927 al 1950, don Giacomino serve come sacerdote diocesano nelle missioni di Gaichanjiru, Kianyaga e Ngandu nel vicariato di Nyeri. Intanto matura in lui il desiderio di diventare missionario. Il 6 aprile 1950 scrive a padre Domenico Fiorina, superiore generale dei Missionari della Consolata: «Da quando ero giovane sacerdote sentivo la vocazione di farmi religioso, cioè sacerdote della Consolata…».
Ottenuto il consenso, padre Giacomino Camisassa Díma Irma (così si firma nella lettera), il 18 giugno 1950 inizia il noviziato alla Certosa di Pesio (Cuneo), che lascia presto per il troppo freddo, e il 19 giugno 1951, a Roma, emette i primi voti come missionario.
Tornato in Kenya, per quasi trent’anni lavora nelle missioni della diocesi di Nyeri, fino a quando l’8 agosto 1979 il Signore lo chiama alla festa dei servi fedeli. Marzuk, il beniamino, ora conosce davvero l’Amore più totale.
Gigi Anataloni
Padre Giacomino – attorniato da bambini
Operatori di perdono
Nata in Colombia venti anni fa, in un contesto di guerra civile, la scuola di perdono e riconciliazione «Espere» oggi è diffusa in 20 paesi nel mondo. Anche in Portogallo, grazie a padre Albino Brás che l’ha sperimentata nei suoi anni di favela a Rio de Janeiro. In un tempo di conflitti a ogni livello, il perdono e la riconciliazione sono una strada di evangelizzazione.
I conflitti e la violenza sono all’ordine del giorno nella favela della parrocchia Nossa Senhora da Consolata a Rio de Janeiro. Per questo nel 2003, dopo sei anni di presenza sul territorio, padre Albino Brás decide di partecipare a un corso di «Espere» (Escuelas de perdón y reconciliación), la scuola di perdono e riconciliazione fondata in Colombia e poi diffusa in diversi paesi nel mondo dal confratello padre Leonel Narváez Gómez.
Il corso offre a padre Albino quegli strumenti che gli mancavano per dare corpo al desiderio di promuovere il perdono e la riconciliazione tra la sua gente. S’innamora a tal punto del metodo di Espere che, quando lascia il Brasile per il Portogallo, decide di farsene promotore anche nel suo paese di origine e in Europa.
Oggi afferma con convinzione che quella della risoluzione dei conflitti e della giustizia riparativa è una strada prioritaria di umanizzazione e missione.
In favela per la pace
«La mia prima destinazione è stata in Brasile. Sono arrivato lì il 17 maggio 1997», racconta padre Albino, nato il 15 agosto 1965 a Loureira, distretto di Leiria, regione centrale del Portogallo.
Ultimo di sei fratelli cresciuti in campagna in una famiglia umile, padre Albino è entrato in seminario a soli 13 anni, nel 1979, ed è stato ordinato nel 1996.
«Il lavoro pastorale in un contesto di favela è stato impegnativo. Come sacerdote appena ordinato, ho imparato lì il meglio del mio ministero e della mia vita missionaria. Ho lavorato molto in quegli anni nella pastorale delle favelas, nella dimensione socio caritativa, con i minori abbandonati, nella Commissione diocesana per i diritti umani, ma anche e soprattutto nell’ambito della spiritualità, della catechesi e dell’evangelizzazione.
Le sfide sono state molte. Ho vissuto momenti difficili, di persecuzione e violenza. Ma credo che sia proprio nelle situazioni di tensione che la Chiesa deve essere presente, anche correndo dei rischi, per promuovere la pace e il rispetto reciproco».
Una cultura del perdono
Padre Albino conosce il progetto Espere, nel 2003. «Padre Leonel ha tenuto una conferenza a Rio de Janeiro su violenza, conflitti, perdono e riconciliazione. Ero sensibile a questi temi, anche per la difficile realtà di Rio, e sono andato a seguirla. Poche settimane dopo ho fatto il corso.
Sebbene il progetto si chiami “scuola”, non è qualcosa di teorico: Espere offre un’esperienza di perdono e riconciliazione partendo dalla vita di ogni persona. Investendo nella creazione di una cultura del perdono, le Espere riparano la vittima e, allo stesso tempo, cercano il recupero dell’autore della violenza, a scapito di una giustizia meramente punitiva molto presente nelle società di oggi, anche in Europa.
Espere nasce dalla prospettiva non solo di sognare un mondo di pace, ma di lavorare concretamente per realizzarlo.
Mi è sempre stato detto che dovevo perdonare, ma mi mancava il “come”, e con Espere ho trovato gli strumenti, il processo, il metodo, per renderlo possibile.
Inoltre, Espere è in linea con il carisma dell’Imc e con il Vangelo della consolazione: perdono e riconciliazione, compassione e misericordia, amore e pace che derivano dall’esercizio della giustizia riparativa».
Subito dopo aver seguito il corso, padre Albino lo replica nella sua parrocchia. Le valutazioni dei partecipanti sono buone e il missionario si rende conto che produce trasformazione a livello personale, comunitario e sociale.
La missione in Portogallo
Il 14 gennaio 2005, padre Albino lascia il Brasile per il Portogallo.
Tra il 2005 e il 2012 sta nella comunità Imc di Fatima dove lavora nell’animazione missionaria e nella pastorale giovanile. È direttore nazionale del Segretariato Imc per la missione, coordina per sette anni il Corso di missiologia promosso dagli Istituti missionari ad gentes (Imag) e dalle Pontificie opere missionarie portoghesi. Fonda il gruppo Jmc (Giovani missionari della Consolata) che cresce negli anni.
«Sono stato poi in missione per quattro anni al Bairro do Zambujal, nel comune di Amadora, un sobborgo dell’area metropolitana di Lisbona – prosegue padre Albino -. Zambujal è un quartiere abitato principalmente da due gruppi etnici: africani e zingari. È stato molto impegnativo.
Nel 2016, poi, ho assunto la direzione di Fatima Missionária, la rivista fondata dai Missionari della Consolata in Portogallo quasi 70 anni fa. Dopo aver lasciato la direzione della rivista, oggi continuo a contribuire come collaboratore e lavoro anche nell’area della comunicazione dell’Imc in Portogallo, soprattutto nei media digitali.
Dalla fine del 2016 sono nella comunità Imc di Olivais, a Lisbona come superiore. Nell’aprile di quest’anno sono stato nominato Segretario dell’Imc Europa».
Espere a Zambujal
Domandiamo a padre Albino quando e perché ha ripreso in mano il programma di Espere nella sua terra di origine: «Ho sentito il bisogno di riprendere il progetto Espere quando mi trovavo nel Bairro do Zambujal, un quartiere periferico con molte tensioni tra le varie etnie.
Ho riunito un’équipe, abbiamo fatto formazione, tradotto materiali e programmato corsi.
Fino allo scoppio della pandemia da Covid-19 che ci ha costretti a fermarci, ne abbiamo tenuti nove. Il team nazionale era composto da undici facilitatori organizzati in due nuclei: Lisbona e Porto. Espere consiste in due moduli di alcuni incontri ciascuno: un modulo sul perdono e uno sulla riconciliazione».
Padre Albino è il primo a promuovere il progetto Espere in Portogallo, ampliando così la crescente Rete internazionale già presente in diciannove paesi.
Liberazione e guarigione
I destinatari dei corsi sono i più vari: gruppi parrocchiali, comunità religiose, «abbiamo ricevuto richieste anche dalla Spagna – prosegue padre Albino -. C’è un grande desiderio di applicare i corsi anche nelle carceri.
Nell’ultimo organizzato, quasi tutti i partecipanti erano coordinatori e volontari del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati (Jrs) la cui missione è “accompagnare, servire e difendere” i rifugiati, gli sfollati e tutti i migranti in situazioni di vulnerabilità.
È stato bello sapere che stavamo aiutando il processo di perdono e riconciliazione di tanti migranti. Spesso sono persone con ferite aperte, a volte rancori e risentimenti. Molti sono dovuti fuggire da guerre, persecuzioni religiose e politiche, tante situazioni avverse, tanto odio, ferite nel corpo e nell’anima che hanno bisogno di liberazione e di guarigione».
Spezzare la violenza
Oltre ai corsi, il missionario tiene diverse conferenze e interviste ai media nazionali. «Le persone mi confidano che l’approccio al tema del perdono e della riconciliazione porta molta novità nella loro vita. Si rendono conto che è la chiave per spezzare i circoli viziosi della violenza.
Sebbene questa metodologia sia nata in Colombia, in un contesto di “frontiera della violenza”, credo che essa sia necessaria anche per un paese come il Portogallo, e in un continente come l’Europa che, pur non avendo la guerriglia, vive altre forme di violenza: in famiglia, nella coppia, nelle scuole, al lavoro.
La via della convivenza, della fraternità e della comunione è una via che tutti dovremmo seguire, perché, quando perdoniamo, portiamo benefici a noi stessi prima ancora che alla persona che ci ha offesi.
I benefici del perdono non rimangono confinati nell’interiorità, ma hanno ripercussioni dirette anche sullo stato fisico di ciascuno. Papa Francesco dice che “il perdono è fonte di gioia, di salute, e chi non perdona si ammala fisicamente e mentalmente”. Oggi è noto che chi non perdona ha una maggiore tendenza ad ammalarsi.
Quando lo facciamo, interrompiamo questo ciclo. È un processo di guarigione personale e, a poco a poco, della società».
Il perdono evangelizza
Durante la pandemia il gruppo ha dovuto interrompere i corsi, perché la metodologia di Espere richiede la presenza fisica dei partecipanti. Padre Albino progetta di riprendere quest’anno, dopo l’estate.
Lui considera le Espere uno strumento privilegiato di evangelizzazione che l’Imc può utilizzare con frutto anche in Europa.
«Il perdono dei peccati è nel mandato missionario che Gesù dà agli apostoli. Fa parte della missione della Chiesa. E sarebbe una povertà se lo limitassimo al sacramento della Confessione.
Il perdono è un elemento della spiritualità umana. È un tema che sta acquisendo sempre più importanza anche in scienze come la psicologia, la sociologia, l’antropologia, la biomedicina.
In questo momento abbiamo una guerra fratricida in Ucraina, nel mezzo dell’Europa. Ma tutto il mondo è assetato di processi di perdono e riconciliazione.
Tutti i conflitti, tutte le guerre esistono perché le persone, i gruppi, i capi delle nazioni, i Paesi, si lasciano intossicare dal veleno di rancori e risentimenti storici che li fanno degenerare nella violenza. Questo è ciò che sta accadendo oggi nella Russia di Putin: in questo momento la capitale mondiale del risentimento e dell’odio.
Mi chiedo: quale futuro sarà possibile, dopo questa guerra, in quei paesi? Saranno nemici per sempre, in una sorta di guerra fredda perenne e di pace marcia?
In Europa, con tutti i problemi che ho già sottolineato, abbiamo più che mai bisogno di mediatori, di operatori di pace. E i missionari dovrebbero essere specialisti in questo. Mediatori di conflitti, facilitatori di comunione.
Quali altre vie di missione può percorrere l’Imc in Europa?».
Missionari sulla soglia
Padre Albino, durante la nostra intervista ci ricorda il Progetto missionario che l’Imc ha scritto nel 2021 durante la Conferenza della Regione Europa: «È un progetto che ci invita ad approfondire il “cosa”, il “come” e il “dove” della nostra missione in questo continente. Il tutto, ovviamente, tenendo conto di chi sono i missionari delle nostre quasi 40 presenze europee. Le nostre comunità, colorate con le tonalità dell’interculturalità, rappresentano un valore aggiunto in un’Europa dove i temi dell’accoglienza, dell’unità nella diversità e, più in generale, della fraternità vengono minacciati ogni giorno di più.
Mi piace quando il Progetto missionario chiede a noi missionari in Europa di essere persone che stanno “sulla soglia”, capaci di leggere la complessità della realtà, disponibili ad abitare le periferie esistenziali e antropologiche, ad andare dove altri non vogliono o non possono, chiamati a “prenderci cura” del creato, della giustizia, della pace e della riconciliazione, consapevoli che è questo che ci rende missionari».
Europa, luogo di missione
«Non è una novità che l’Europa sia oggi un innegabile campo di missione – aggiunge ancora padre Albino -. Il nostro istituto ha fatto scelte teoriche e missionarie molto attraenti: lavorare nelle periferie esistenziali, con gli immigrati e i rifugiati, dentro una società edonistica, individualista e consumistica.
Ma ho l’impressione che ci manchino alcuni strumenti per lavorare in una prospettiva veramente missionaria. La società cambia velocemente, e i missionari non sempre si preparano per accompagnare il cambiamento.
È necessario sintonizzarsi con un mondo segnato dalla massificazione delle tecnologie, dalla pluralità di voci e pensieri potenziati dalle reti sociali, dalle fake news, dall’intelligenza artificiale.
Di fronte a queste realtà, la reazione più immediata di molti di noi può essere quella di chiudersi e dire: “Se la realtà è così, peggio per la realtà!”. E allora, rimanendo fuori, il Vangelo cessa di avere la possibilità di essere lievito nella pasta, nella società.
Per questo, penso e sostengo che dobbiamo migliorare i nostri metodi. Sì, perché molte volte individuiamo le cause missionarie ma poi non definiamo il metodo: il come, con quali strumenti, definendo il processo.
Posso dire che il successo di Espere nel mondo deriva proprio da questo: aver trovato una metodologia efficace, un processo con dei passi da seguire e un risultato da presentare.
E questo dovrebbe essere trasversale a tutte le cause, i progetti e gli impegni missionari in una realtà e in un continente missionariamente impegnativo come l’Europa.
L’evangelizzazione qui non sembra facile, ma credo che, nella fede in Cristo e nella potenza del nostro carisma allamaniano e consolatino, è possibile».
Luca Lorusso
Le scuole di perdono e riconciliazione
Le Scuole del perdono e della riconciliazione (Espere, Escuelas de Perdón y Reconciliación) sono un percorso pensato per aiutare persone offese da diversi tipi di violenza a guarire le ferite, trasformare la memoria, generare pratiche riparatrici e ritrovare la fiducia. Sono improntate a una metodologia pedagogica esperienziale e ludica che attiva nei partecipanti un processo personale di perdono e riconciliazione che permette loro di identificare e alleviare le conseguenze delle violenze subite nella vita e di ristabilire dei legami sani con se stessi e con la comunità, generando coesione sociale.
Il programma Espere ha una durata di 96 ore suddivise in dodici moduli, e si sviluppa in due fasi: quella dedicata al perdono e quella dedicata alla riconciliazione. I gruppi sono composti normalmente da 15-21 persone.
Le Espere, ideate da padre Leonel Narváez Gómez, missionario della Consolata colombiano, attuale presidente della Fundación para la Reconciliación nata il 13 marzo 2003, si sono diffuse in 19 paesi e hanno lavorato con più di 2 milioni di persone.
Negli anni, hanno ricevuto diversi riconoscimenti nazionali e internazionali, tra cui il Premio Unesco per l’educazione alla pace nel 2006.
Esiste un luogo, nei Caraibi, dove il tempo sembra essersi fermato. Nelle piantagioni di canna da zucchero lavorano gli haitiani, quasi in schiavitù. In questa società le donne hanno un ruolo centrale. Ma spesso non è tenuto in conto, perché non lavorano nel campo. Un giovane antropologo ci porta a incontrarle.
«Non so cosa sia l’amore – afferma Nora -. Non mi sono mai innamorata in vita mia. Ogni volta che poteva capitare mi fermavo a pensare e mi dicevo: non posso innamorarmi, perché chi mi aiuterà? Chi si farà carico di me? Nella mia vita ho sempre avuto paura di fallire e ho sempre pensato ai miei figli».
«Il futuro? – si domanda Anabel – Non saprei… Penso solo a come vivere oggi, a come crescere i miei figli, perché è già molto duro il presente e non ho tempo per pensare al futuro. E poi quello che vogliamo noi non conta: puoi desiderare una bella vita, una casa grande con un giardino e tante belle cose, ma sono solo sogni e i sogni ci rovinano la vita, te la rendono amara, perché non si avverano mai». Nora e Anabel sono due delle donne che hanno «scritto» insieme a Raúl Zecca Castel, il libro «Mujeres. Frammenti di vita dal cuore dei Caraibi».
Raúl è un antropologo che ha fatto la sua tesi di dottorato con una ricerca sul campo nei bateyes della Repubblica Dominicana (Rd). I bateyes sono le comunità dei coltivatori di canna da zucchero: normalmente haitiani, migranti o nati sul posto. In queste piantagioni si lavora in condizioni molto simili a quelle dei secoli della schiavitù, quando Hispaniola (così si chiama l’isola delle Grandi Antille condivisa da Haiti e Repubblica Dominicana), nel XVIII secolo, era la colonia che esportava la maggiore quantità di zucchero e quindi la più redditizia del mondo.
Dalla tesi di dottorato di Raúl è nato un volume di taglio antropologico, dal titolo «Mastico y trago» (mastico e ingoio), pubblicato nel 2023. L’antropologo ha però voluto allargare la diffusione di alcuni aspetti. Ha selezionato le «voci» di sette donne per realizzare un altro libro, agile e diretto, ma allo stesso tempo duro, come è dura la realtà nella quale ci porta, senza filtri.
L’autore scrive nell’introduzione: «Il tentativo è quello di decolonizzare l’immagine astratta della donna a favore del suo riconoscimento come soggetto concreto e reale, dunque nella sua infinita molteplicità. Le voci di questo libro, perciò, raccontano e rappresentano unicamente se stesse».
E continua: «Il volume, nell’offrire al lettore le testimonianze dirette di sette donne, a tutti gli effetti le vere autrici, non intende occuparsi di loro né intende coglierne il loro presunto punto di vista e, soprattutto, non intende proporre alcune interpretazioni, né alcun giudizio morale sulle loro scelte di vita».
Perché Mujeres
Raúl Zecca Castel è oggi assegnista di ricerca in antropologia culturale all’Università di Milano Bicocca, dove segue un progetto sul lavoro afrodiscendente informale nelle discariche in Repubblica Dominicana. Allo stesso tempo insegna antropologia culturale alla scuola di Interior design, decorazione e didattica museale all’Accademia delle belle arti di Brescia, e tiene un altro insegnamento di storia sociale dei media, nel corso di laurea di Comunicazione e società all’Università statale di Milano.
Lo abbiamo incontrato a una presentazione dei suoi libri. Ci spiega come nasce l’idea di Mujeres.
«Nel 2013 avevo compiuto una prima ricerca dedicata esclusivamente alla manodopera maschile, i braccianti tagliatori di canna. L’idea era quella di verificare cosa fosse cambiato per chi lavora ancora oggi nelle piantagioni di canna da zucchero dominicane, le stesse dell’epoca coloniale, che erano state segnate da un forte regime di schiavitù.
Ancora oggi la mano d’opera è prettamente maschile, perché si tratta di un lavoro molto faticoso. Il libro che ne era uscito, una monografia etnografica, intitolata Come schiavi in libertà, da una frase di un bracciante intervistato, parlava esclusivamente di uomini. Mi sono poi reso conto, però, di aver trascurato tutta una componente importante della società di piantagione, che era quella femminile».
Così Raúl ha un’altra occasione, la tesi di dottorato: «Avevo la possibilità di rimediare a questa mancanza e ho deciso di ribaltare completamente la prospettiva, e dedicarmi unicamente alla condizione che vivono le donne in questa realtà. Non vanno nelle piantagioni, ma restano all’interno dei bateyes, e sono coloro che portano avanti la comunità dal punto di vista sociale. Da un lato riproducono la forza lavoro (in quanto madri, nda), e dall’altro dipendono dagli uomini, perché l’unico lavoro retribuito è quello nella piantagione di canna. Le donne sono quindi forzate a legarsi con gli uomini per questioni economiche e a intrattenere una serie di relazioni di convenienza, scambi sessuali, economici o di altri benefici».
Raúl ricorda il periodo della sua ricerca sul campo con una certa nostalgia, non solo professionale: «È stata un’esperienza molto immersiva. Tra il 2017 e il 2018 ho trascorso sei mesi in una comunità, il batey di Ciguapa, condividendo il mio tempo con alcune famiglie, in particolare con le donne, e ho instaurato rapporti che andavano al di là della ricerca e sono diventate relazioni di amicizia, di fiducia, costruite nel corso del tempo. A volte le donne si sono confidate, si sono aperte con me, al di là di ogni mia aspettativa. Temevo, infatti, che essendo uomo avessero delle difficoltà e resistenze, invece, proprio il fatto che per la prima volta un uomo si interessava non ai loro corpi, ma alle loro storie e alle loro vite, per loro è stata una cosa inedita, e a maggior ragione avevano voglia di parlare con me».
Mettersi in ascolto
Così è nato Mujeres: «Una selezione delle interviste realizzate con sette di queste donne, con le quali ho trascorso più tempo. Era un’esigenza di restituzione di quel debito umano che ho contratto con loro. Non si trattava di dare voce a qualcuno. Sono persone che hanno una loro voce ma spesso non viene ascoltata.
Dal punto di vista antropologico, non ho fatto altro che introdurre il contesto, quindi ho dato qualche coordinata per comprendere un minimo quella realtà. Ma sono le donne le vere autrici del libro che si raccontano attraverso una serie di riflessioni, aneddoti, desideri. Parlano dei figli, delle relazioni con gli uomini, dell’amore, di tutti gli aspetti della vita sociale, economica, politica ed emotiva che caratterizza le loro comunità, lasciando al lettore la possibilità di mettersi in ascolto».
Raúl, nella stesura del libro, è riuscito a coinvolgere direttamente le «testimoni autrici»: «Sono riuscito anche a pubblicarlo in edizione dominicana, quindi in lingua spagnola, rendendolo accessibile, per coloro che sono alfabetizzate, anche alle dirette protagoniste. In realtà, durante la stesura, avevo avuto modo di fare una restituzione con ognuna, leggendo loro le parti che le riguardavano, intervenendo nel caso in cui non si trovassero d’accordo o modificando alcune cose che magari volevano chiarire meglio. È stato un lavoro collaborativo nel senso che è nato da loro, e io ho cercato di rispettare la loro idea riguardo la loro storia di vita».
Chi sono
La fascia di età delle protagoniste va dai 30 a i 60 anni. Circa la metà sono nate ad Haiti e arrivate in Repubblica Dominicana da piccole, l’altra metà è nata da questa parte dell’isola.
Il fenomeno della migrazione haitiana in Rd è una questione storica. Ci sono ancora i migranti stagionali nei periodi di taglio della canna, quando occorre più forza lavoro, ma, ci spiega Raúl, i giovani di recente migrazione sono spesso impiegati nelle città e in altri lavori, come nell’edilizia, perché «l’economia dominicana sta cambiando, è orientata al secondario e al terziario, settori che assorbono quindi la forza lavoro migrante». Ma i bateyes sono un fenomeno quasi storico. Gruppi di persone che vivono nei pressi delle piantagioni, quindi in luoghi remoti e difficilmente raggiungibili: «Sono comunità che nascono all’interno di un’economia improntata sulla produzione della canna da zucchero, che oggi non trova più tanto significato, ma continuano a vivere con le stesse caratteristiche dai tempi coloniali. La maggior parte di queste comunità sono ancora del tutto isolate, difficili da raggiungere. Con servizi scarsi, come l’elettricità che, se c’è, è altalenante, l’acqua presa dai pozzi e le scuole quasi inesistenti. I cicloni, molto frequenti, isolano le comunità per una o due settimane, circondandole di acqua e fango. Sono luoghi che vivono situazioni estreme dal punto di vista igienico, sanitario, sociale, economico. Di fatto, dei ghetti».
Haitiani
C’è poi la questione etnica, perché nei bateyes vivono e lavorano quasi esclusivamente haitiani o loro discendenti. I rapporti tra haitiani e dominicani sono storicamente stati sempre complicati. Haiti, prima repubblica nera a raggiungere l’indipendenza e secondo stato nelle Americhe (dopo gli Stati Uniti), ha occupato varie volte il territorio della Repubblica Dominicana. Nel paese, ancora oggi, la discriminazione degli haitiani è forte.
«C’è una storia difficile tra la Rd e Haiti. Quest’ultima è stata additata come il paese della barbarie, perché a maggioranza afro discendente. C’è quindi stata questa introiezione da parte degli stessi migranti haitiani, che spesso disconoscono le proprie radici, tra le quali la religione vodù e le loro credenze».
Come per le tradizioni, anche per la lingua: «Per lo stesso motivo, le seconde generazioni tendono a non volere imparare il creolo (kreyol, la lingua parlata ad Haiti, nda), proprio per le introiezioni dell’ostilità della società dominicana. Magari lo capiscono, ma cercano di non parlarlo in pubblico, e non hanno la smania di voler mantenere la cultura, la tradizione. Mentre, invece, i giovani migrati da poco parlano in prevalenza la lingua di origine».
Invertire i rapporti di potere
Come detto, il fatto che un uomo, per di più europeo, si interessasse alle loro storie è stata per l’antropologo una chiave di accesso, perché era un riconoscere che le loro vite sono importanti, degne di ascolto: «E anche il fatto che facessi un lavoro su di loro, era una maggiore motivazione per raccontare quello che stavano soffrendo. Erano infatti consapevoli di una condizione di sofferenza, il che permetteva a loro di riflettere e di cercare strategie di emancipazione.
Ho deciso di non intervenire in Mujeres con un mio filtro, per mostrare come, anche in situazioni così difficili, le donne trovano dei margini di rivendicazione, autonomia, attraverso una serie di narrazioni che magari non sono così aderenti alla realtà, ma che servono loro per pensare di avere uno spazio di libertà, che in alcuni casi conquistavano effettivamente».
Un esempio frequente è quello delle relazioni prostitutive: «Quella che da un certo punto di vista è una relazione di dipendenza, di subalternità dal punto di vista relazionale, loro lo ribaltavano dicendo: “Quello che io ho è un corpo, te lo faccio pagare”. In un certo senso invertivano i rapporti di potere. Come dire: sono gli uomini che dipendono da noi. Antropologicamente è interessante. Nelle nostre categorie di analisi la prostituzione è una condizione di sfruttamento delle condizioni di subalternità della donna. È così, ma ascoltando la voce delle dirette interessate c’è una narrazione che ribalta la prospettiva: siamo noi che decidiamo se a quanto e quando vendere il nostro corpo».
Le voci delle sette donne del batey Ciguapa danno origine a un racconto potente, spesso duro, ma con venature di tenerezza. Mostrano la vita concreta di ogni giorno, con le sue fatiche, le paure e le speranze. «Anche aprendo il libro a caso ci si trova immersi in quello che è un dialogo. Come se il lettore fosse presente in questo gruppo di donne che parlano tra di loro e ascoltasse le loro storie. E lui stesso ha la possibilità di farsi la sua idea, diventando attore del senso e del significato che vuole attribuire alle parole che legge».
Marco Bello
In volo con Camilla
Un po’ per caso, un’insegnante scrittrice s’imbatte in una storia su una malattia rara. Con grande sensibilità ne scrive un romanzo. Un’associazione di genitori di piccoli malati lo legge e lo fa suo. Invita l’autrice a un incontro nazionale, cambiando per sempre la sua vita.
A fine dicembre 2022 ho pubblicato un libro dal titolo «La farfalla nella bolla di sapone». L’idea di questo romanzo breve è nata quasi per caso meno di un anno fa, pensando a tanti bambini e bambine che soffrono di qualche malattia, e alle loro famiglie che ogni giorno con costanza e amore combattono affinché possano vivere una vita normale e soprattutto possano guarire.
Quella che ho raccontato è la storia di Matilde, una bimba dalla pelle fragile come le ali di una farfalla. Matilde rappresenta simbolicamente tutti i bimbi colpiti dall’epidermolisi bollosa (Eb), che vengono appunto chiamati «Bambini farfalla».
Dalle pagine del diario del protagonista, un ragazzo di tredici anni a cui nasce una sorellina bellissima, ma fragile come una farfalla, emergono la lotta, i momenti difficili, e anche i sorrisi, le gioie e le speranze di una famiglia unita e tenace, che non si arrende, perché deve vincere una battaglia molto importante, ovvero convivere e sconfiggere una malattia rara.
Il libro parla di una tematica intensa e commovente, volutamente trattata, attraverso gli occhi di un ragazzo, con leggerezza e ironia.
È una storia ambientata ai giorni i nostri, in cui la vita quotidiana di una famiglia si intreccia con la pandemia; una storia fatta di dolore e sacrifici, ma anche di tanto coraggio e speranza, che conduce a un lieto fine perché il motto dei protagonisti è: non arrendersi mai e non smettere mai di sognare e di sperare.
Un mondo che si apre
Dopo aver scritto il romanzo, mi si è aperto un mondo che non conoscevo, ed è per questo che il mio intento è di fare qualcosa per sensibilizzare (nel mio piccolo) su questa malattia per la quale, a oggi, non esiste ancora una cura risolutiva. Ma la scienza medica deve essere sostenuta nella ricerca ora più che mai, perché grandi passi avanti sono stati fatti nell’ambito della terapia genica, l’unica in grado di garantire una guarigione definitiva delle lesioni.
Ho quindi deciso di devolvere l’intero ricavato del mio libro all’associazione Le ali di Camilla, che ho avuto modo di conoscere a fine marzo, in occasione degli «Eb Days» organiz- zati a Modena per far incontrare ricercatori, medici e famiglie.
Voglio ringraziare la presidente Stefania Bettinelli (fino a gennaio 2023 responsabile delle relazioni esterne del Centro di medicina rigenerativa e di Holostem, e da molti anni vicina ai pazienti), per avermi invitata al loro incontro: una lezione di vita che vale più di mille pagine di studi.
Per me e mio marito sono stati due giorni molto intensi, ricchi di emozioni indescrivibili, che porteremo sempre nel cuore.
Lì ho avuto modo di conoscere ricercatori, medici, operatori, volontari e persone che si adoperano per supportare i pazienti (bambini, ragazzi e adulti) e le loro famiglie nel difficile percorso di cura. Come Giulia e Christian, i genitori di una delle due piccole Camilla da cui prende il nome l’associazione, che hanno coinvolto l’intero paese di Casina, in provincia di Reggio Emilia, nelle attività dell’associazione.
E abbiamo incontrato bambini e adulti meravigliosi, che non si lamentano delle difficoltà che ogni giorno devono affrontare, del dolore fisico e dell’incertezza del futuro. Abbiamo condiviso molti momenti, sono nate delle belle amicizie e soprattutto ci siamo sentiti accolti come in una grande famiglia.
Impatto emotivo
La partecipazione a quell’incontro ha avuto un impatto emotivo molto forte su di me. Ho visto i bambini con le mani e le braccia bendate e le ferite aperte, ho visto i giovani con le mani chiuse o con arti amputati. E se è vero che, in un primo momento, l’occhio cade sulle fasciature e sulle ferite, basta davvero poco per guardare oltre, per vedere la persona e non la malattia, perché, come ha detto Rebecca, una bimba goriziana di nove anni, «Io voglio che i miei compagni di scuola sappiano la verità, e solo io posso dirla: io sono una bambina normale come loro, ma semplicemente con una malattia che rende la mia pelle fragile come le ali di una farfalla. E loro mi hanno capita. Questo mi ha sorpresa e resa felice».
Rebecca ci ha colpiti per la sua forza, per il sorriso, per le riflessioni profonde e per l’impegno che lei e la sua famiglia portano avanti sia nel progetto “Camilla va a scuola”, con il libro Vuoi volare con me?, per l’inclusione scolastica, sia con il gruppo musicale i Trovieri, che ha dedicato la canzone «Mille colori» ai bambini farfalla.
Al progetto «Camilla va a scuola» ha collaborato anche la scuola dell’infanzia frequentata dalla vicentina Chiara, di tre anni, che indossa una maglietta protettiva e le fasciature alle manine. Vedere il video in cui ride felice e fa le attività insieme ai compagni è stato un momento di pura gioia. Per lei e per le compagne e i compagni le maestre hanno inventato la storia «Stella Caterina».
Un altro libro che è stato presentato, Perfettamente imperfetta, è quello in cui Claudia, collegata dalla Sardegna, racconta la sua vita e le difficoltà che ha dovuto affrontare. Il libro vuole essere un messaggio ai giovani e un aiuto di speranza per le persone fragili che si perdono nelle difficoltà e nei labirinti della vita. «So e sento che è bello amare la vita nella sua semplicità e nelle sue avversità; è bello non sentirsi mai inferiori a nessuno, perché ognuno di noi vale tanto», ha detto Claudia.
Una vita complessa
La «verità» a cui Rebecca si riferiva è che l’Eb rende la pelle fragile e propensa alla formazione di dolorose bolle in seguito a traumi anche minimi. Le lesioni facilmente si infettano comportando gravi rischi. Per questo è necessario proteggere con bendaggi speciali la pelle.
I pazienti impiegano circa tre ore al giorno per effettuare le medicazioni. L’esempio che ci è stato fatto, affinché si potesse capire la gravità e l’intensità del dolore è stato questo: è come mettere la mano su una piastra rovente e rimanere con la carne viva (cosa che con l’Eb si verifica sugli arti, ma anche nelle altre parti del corpo).
Nei casi gravi, le bolle possono manifestarsi all’interno del corpo, ad esempio nelle mucose interne di bocca, gola ed esofago e provocare anche dolorose lesioni alle cornee. Esse si possono prevenire con l’utilizzo di speciali lenti a contatto che l’associazione fornisce ai pazienti.
Strumenti importanti
Spesso le mani delle persone malate di Eb tendono ad atrofizzarsi e le dita a incollarsi tra loro, impedendo di compiere i normali atti della vita quotidiana. Ed ecco allora che il toscano Alessandro (che oltre al lavoro in ospedale, è iscritto al terzo anno di Scienze motorie per specializzarsi in riabilitazione motoria), insieme all’associazione sta portando avanti il «Progetto Eb Aid», con il quale è stato possibile brevettare un guanto multifunzionale (da lui progettato e realizzato), con tanti alloggiamenti stampati in 3D che permette ai pazienti con Eb e mani parzialmente o totalmente chiuse, di ancorare e utilizzare gli utensili di uso quotidiano (cucchiaio, forchetta, biro, spazzolino da denti, ecc.).
Poiché l’Eb negli adulti spesso provoca tumori della pelle, molti pazienti hanno subito amputazioni degli arti. Purtroppo, però, essi non possono utilizzare le normali protesi perché la loro pelle non sopporterebbe l’effetto sottovuoto che è necessario creare per mantenerle ferme sui monconi. Sempre attraverso il «Progetto Eb Aid», Lucio, di Arezzo, con la stampa 3D ha realizzato protesi leggerissime ma funzionali con cui riesce a utilizzare anche il braccio amputato mantenendo una certa autonomia.
A fruire di questi ausili sarà anche Michela, che abbiamo conosciuto insieme a Nicola. Sono una coppia di ragazzi pugliesi che dimostrano come l’amore vada oltre la malattia. Un sentimento sbocciato a due mesi dall’amputazione di Michela e che prosegue da due anni.
Insieme a loro, a cena, abbiamo conosciuto Alessandro, arrivato da Roma con la mamma Valeria, Gianfranco di Alessandria e la famiglia della piccola Gaia di Torino, Michele, arrivato dalla Sicilia con la mamma, e la numerosa famiglia di Diego che ha viaggiato in treno dalla Campania.
Nel corso dell’incontro, non sono mancati alcuni momenti dedicati alla clinica e alla ricerca.
La professoressa Cristina Magnoni, coordinatrice del Percorso diagnostico terapeutico assistenziale (Pdta) dedicato all’Eb, al Policlinico di Modena, insieme alla dottoressa Chiara Fiorentini e alla professoressa Manuela Simoni, ha dedicato una tavola rotonda al miglioramento del Pdta come percorso da costruire insieme attraverso la preziosa alleanza tra medici e famiglie, fondamentale in una malattia rara come l’Eb.
Il Pdta coinvolge oltre trenta specialisti (tra cui neonatologi, pediatri, genetisti, oculisti, chirurghi dermatologici, chirurghi della mano, gastroenterologi, anestesisti) e rappresenta un punto di riferimento per centinaia di pazienti, provenienti da tutta Italia. Questi, al momento vengono ospitati dall’associazione in hotel convenzionati nei pressi dell’ospedale, almeno fino a quando non si riuscirà a realizzare il progetto «Una casa per Camilla».
Terapia genica
Modena è anche un riferimento internazionale per la ricerca, in particolare per la terapia genica.
All’incontro abbiamo potuto conoscere il professor Michele De Luca, direttore del Centro di medicina rigenerativa «Stefano Ferrari» dell’Università di Modena e Reggio Emilia, e socio fondatore e direttore scientifico dello spin-off universitario Holostem Terapie avanzate, uno dei maggiori esperti al mondo di biologia delle cellule staminali.
De Luca ha salvato la vita a un piccolo paziente con un intervento raccontato dai principali media italiani e internazionali nel 2017 in occasione della pubblicazione su Nature, la rivista scientifica più importante del mondo. Nel 2015 Hassan, un bambino siriano di sette anni, affetto da epidermolisi bollosa giunzionale, era stato ricoverato nel centro ustioni dell’ospedale di Bochum in Germania per le ferite causate dalla rara patologia genetica che colpisce gli epiteli, ulteriormente aggravate da un quadro clinico così severo da dovergli indurre il coma farmacologico per poter sopportare il dolore.
I medici, dopo aver fallito nel curare il piccolo paziente con le terapie disponibili, avevano contattato il professor De Luca che nel 2006 aveva pubblicato il risultato della prima sperimentazione al mondo di terapia genica a base di cellule staminali geneticamente corrette, eseguita a Modena su Claudio, un paziente torinese allora poco più che trentenne. Grazie a quel solido risultato, ripetuto su un secondo paziente in Austria, le autorità regolatorie tedesche avevano autorizzato il trapianto salvavita sull’80% della superficie corporea del bambino di lembi di epidermide geneticamente corretta coltivata in laboratorio. «Oggi Hassan sta bene e la sua nuova pelle cresce con lui», ha spiegato De Luca, che ha aggiunto: «Rimuovere le medicazioni dopo dieci giorni e vedere la pelle completamente rigenerata al posto delle lesioni è stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita». Da questa storia vera è nato il romanzo «Il bambino farfalla» scritto da Alessandro De Francesco.
Un’esperienza
Vivere i due giorni degli Eb Days di Modena mi ha fatta sentire incredibilmente piccola, e piena di gratitudine.
Per iscriversi alle Ali di Camilla basta una quota associativa simbolica di 10 euro all’anno. Il mio intento è di portare a conoscenza e sensibilizzare sulla realtà dei bimbi farfalla, e contribuire a sostenere qualche progetto, perché siamo tutti pezzi di un puzzle che si chiama vita e soltanto uniti e solidali lo potremo completare.
Cinzia Charrier*
*Insegnante di italiano, è diventata scrittrice durante il lockdown. Dopo il primo romanzo La neve sul mare, 2020, ha pubblicato La tigre e il colibrì, 2022, e La farfalla nella bolla di sapone, 2023. Tutti i libri di Charrier sono autoprodotti e sono reperibili su internet.
L’associazione che promuove la ricerca
Le ali di Camilla
Le ali di Camilla è un’associazione di promozione sociale fondata a Modena nel 2019 per promuovere la ricerca e la cura dell’epidermolisi bollosa (Eb) e di malattie rare degli epiteli di rivestimento, potenzialmente trattabili con terapie avanzate a base di cellule staminali epiteliali sviluppate dal Centro di medicina rigenerativa «Stefano Ferrari» dell’Università di Modena e Reggio Emilia.
L’associazione, che porta il nome di due piccole bambine farfalla che sono volate in cielo, rispettivamente a tre e a dieci mesi, supporta anche l’ambulatorio multidisciplinare per l’Eb dell’Azienda ospedaliero universitaria Policlinico di Modena e assiste i pazienti e i loro familiari, provenienti da tutta Italia e dall’estero, in occasione di visite e ricoveri.
Ha inoltre sviluppato diversi progetti per migliorare la qualità della vita dei pazienti, come «Camilla va a scuola», per l’inserimento scolastico dei bambini farfalla, «Camilla va a cavallo», per consentire ai pazienti di familiarizzare con l’ippoterapia e «Una casa per Camilla», per realizzare una struttura di accoglienza nei pressi del Policlinico di Modena, dove i pazienti possano alloggiare in occasione di visite e ricoveri con tutti i comfort e gli adattamenti di una casa.
Le Ali di Camilla si finanzia attraverso il 5×1000, la realizzazione di bomboniere, la presentazione di libri, i concerti, le manifestazioni sportive, il sostegno di una squadra di pallavolo, di due equipaggi di rally e moltissime altre iniziative solidali. Per maggiori informazioni potete visitare il sito www.lealidicamilla.org.
C.Ch.
La storia di Claudio
La forza di credere nel futuro
Il primo paziente trattato al mondo con la terapia genica per l’Eb è Claudio, nato nel torinese (dove ancora vive) nel 1970. «L’avventura con la terapia genica», come la chiama Claudio, comincia alla fine degli anni ’90, quando il professor Michele De Luca lo contatta per chiedergli se è disponibile a una sperimentazione, la prima in assoluto. Claudio accetta e instaura subito un ottimo rapporto con il ricercatore, basato sulla chiarezza, sulla fiducia e sulla stima reciproca, un’amicizia che non si perderà più.
Anche supportato dalla sua fede profonda, comincia a pensare che questa possibilità non sia frutto del caso, ma un disegno superiore, in risposta a tante domande e a tanti perché che lo hanno attanagliato nel corso degli anni. Lo slogan di Claudio è: «Vivere l’attimo presente, senza entusiasmarsi troppo per i successi, ma anche senza demoralizzarsi se qualcosa va storto». Nel 2005, a Modena, a Claudio vengono trapiantati, sulla parte anteriore delle gambe, due lembi di epidermide geneticamente corretta. Sono due parti non molto estese, ma è un grande successo per la scienza perché su quei lembi di pelle non si formeranno più le bolle che caratterizzano l’Eb.
La sperimentazione su Claudio ha aperto la strada ad altri pazienti, come ad esempio Hassan, che Claudio ha incontrato a Modena nel 2019, e ad altri pazienti attualmente in sperimentazione clinica al Policlinico di Modena.
La vita di Claudio non è semplice. Ci sono le medicazioni quotidiane, i continui rischi di carcinomi, ma la sua tenacia e l’amore che dà e riceve sono più forti delle difficoltà. «Ho avuto un grande privilegio: il dono di aver conosciuto delle persone meravigliose con le quali ho instaurato un bel rapporto di amicizia».
Nel 2014, quando Claudio si è sposato, non ha potuto che scegliere Michele come suo testimone di nozze. Qualche anno dopo, come un raggio di sole, ad allietare la sua vita e quella di sua moglie Irene arriva una bimba che, come dice Claudio, non poteva che chiamarsi Emanuela.
C.Ch.
Islanda, miti e realtà. L’isola bivalente
Viaggio nell’isola del Nord Europa
Mappa con l’Islanda e gli altri paesi del Circolo polare artico.
Piccola, sperduta, spopolata. I boschi sono scomparsi da secoli. I ghiacciai stanno sparendo rapidamente a causa dei cambiamenti climatici. L’energia a disposizione è tanta, ma i turisti sono forse troppi. E anche i casi di depressione tra i suoi abitanti. L’Islanda è bella, ma non idilliaca come retorica racconta.
L’aria «si distingue per via di rarefazione e di condensazione nelle varie sostanze. E rarefacendosi diventa fuoco, condensandosi invece diviene vento, poi nuvola, e ancora più condensata, acqua, poi terra, e quindi pietra».
L’Islanda sarebbe stata la terra che il filosofo di Mileto, Anassimene (586-528 a.C.), da cui sono tratti questi versi, avrebbe probabilmente amato. I quattro elementi costituenti la materia da lui per primo teorizzati e che poi Empedocle (V secolo a.C.) avrebbe fissato in una concezione scientifica che avrebbe resistito fino al Medioevo, si scatenano da millenni nelle viscere di quest’isola per poi liberarsi sulla sua superficie plasmandone il territorio.
Anche se politicamente l’Islanda appartiene all’Europa, geologicamente l’isola è lo spettacolare palcoscenico in cui le due placche continentali europea e americana si incontrano permettendoci di calpestare il suolo dell’una o dell’altra.
I turisti si divertono ad attraversare il «Ponte tra i continenti» che si trova nella penisola di Reykjanes. Si lanciano saluti dalla placca americana a quella europea. A Þingvellir, le guide amano spiegare ai turisti che si inoltrano nel canyon di Almannagjá di stare camminando esattamente tra le due placche tettoniche, anche se in realtà le due faglie non sono così nettamente divise e il canyon di Almannagjà si trova interamente nella placca americana (e per calpestare il suolo europeo occorre attraversare per diversi chilometri tutta la pianura sino ai primi contrafforti che si vedono verso est).
Il piccolo porto di Husavik, nell’estremo nord dell’Islanda. Foto Christian Klein – Pixabay.
Le forze naturali: risorse e disastri
È comunque proprio questa conflagrazione naturale causata dalle forze tettoniche – che qui in Islanda ha trovato la sua espressione più spettacolare – la causa del fallimento, prima, e del successo, poi, della colonizzazione di questa terra.
Fallimento, perché per secoli la popolazione dell’isola ha dovuto lottare contro l’esuberanza degli agenti naturali e un clima rigido che limitava la coltivazione del terreno rendendo la vita al limite della sopportazione.
Secondo Halldór Laxness, scrittore islandese premio Nobel nel 1955, i suoi connazionali sono l’unico popolo che ha distrutto la natura del loro stesso Paese. La colonizzazione è coincisa con la deforestazione secondo l’idea di una natura da combattere invece che da proteggere.
Successo perché proprio la natura, insieme all’isolamento del Paese, ha da un lato protetto l’Islanda dalle guerre che hanno imperversato in Europa e nel mondo e, dall’altro, a partire dagli anni Novanta, ha favorito lo sviluppo dell’industria turistica, da anni in continua espansione.
Le case colorate della capitale islandese Reykjavik. Foto Tom Podmore – Unsplash.
Turismo ed energia da fonti rinnovabili
Nel 2022 sono stati 1,29 milioni i turisti che hanno raggiunto il paese a fronte di una popolazione totale di soli 390 mila abitanti. Pur non avendo ancora raggiunto la punta massima del 2018, quando i visitatori furono 1,82 milioni, l’aumento post pandemia è comunque considerevole, tanto da contribuire per il 6,2% del Pil nel 2022, ma suscitando qualche critica anche da parte della popolazione.
Le arterie cittadine sono ormai trafficate, gli incidenti causati dai guidatori non esperti che si avventurano in strade non asfaltate o che rimangono impantanati nei guadi sono in aumento, così come i rifiuti e gli atti di vandalismo (voluti o accidentali). La pressione demografica, che a prima vista potrebbe sembrare poco influente in un paese di 103mila km2 (un terzo dell’Italia), inizia a farsi sentire sull’ambiente (il 90% dei viaggiatori si concentra in aree limitate e utilizza mezzi propri per gli spostamenti) mentre il costo della vita, dei servizi e del mercato immobiliare aumenta, soprattutto a scapito degli abitanti. I prezzi degli appartamenti sono improponibili anche per un islandese, il cui stipendio medio si aggira sui 3.800 euro al mese: un appartamento in centro in una città di medie dimensioni costa sui 4mila euro al metro quadrato e a Reykjavik raggiunge anche i 6-8mila euro. Accanto ai disagi creati dal turismo, la natura islandese dona però anche indubbi vantaggi, in primo luogo sul piano energetico.
L’87% dell’energia prodotta nell’isola proviene da fonti rinnovabili (nell’Unione europea rappresenta il 18.6%, in Italia il 18,4%). Le imponenti masse d’acqua che si riversano nei fiumi generando cascate impressionanti forniscono energia idroelettrica per il 62% del totale dell’energia prodotta nel Paese (nell’Unione europea è il 5,4%, in Italia il 6,4%), mentre il vapore che fuoriesce ininterrottamente dal sottosuolo, oltre a riscaldare le piscine termali, alimenta le centrali geotermiche che contribuiscono al 25% della produzione energetica nazionale.
Nonostante la geotermia sia considerata fonte energetica a basso impatto ambientale, le emissioni di CO2 (anidride carbonica) e CH4 (metano) sono comunque considerevoli. I gas serra, sommati a gas tossici come l’idrogeno solforato (H2S), in un impianto geotermico sono emessi durante il processo di generazione. Nei giacimenti sotterranei i fluidi caldi, contenenti principalmente CO2 e metano, vengono portati in superficie, ma mentre il vapore acqueo può venire liquefatto, i gas in esso contenuti non sono condensabili. Al fine di evitare che i gas serra si diffondano nell’atmosfera a Hellisheiði, poco distante da Reykjavik, la più grande centrale geotermica islandese e l’ottava al mondo, è prevista l’installazione di un impianto Dacs (Direct air capture storage).
Mentre visito la struttura, Edda Aradóttir, Ceo della compagnia, mi illustra il progetto «Mammoth», un sistema che, una volta funzionante (si pensa entro il 2025), sarà capace di catturare nominalmente fino a 36mila tonnellate di anidride carbonica l’anno per poi insufflarla a 800-2.500 metri nel sottosuolo dove, nel giro di un paio d’anni, si trasformerà naturalmente in minerali carbonati.
Una vista spettacolare della valle di Oxnadalur con la fattoria Hals. Foto Piergiorgio Pescali.
Il riscaldamento climatico e i ghiacciai dell’isola
Il riscaldamento climatico, che gli islandesi cercano di mitigare limitando ulteriormente le già minime emissioni di gas serra rilasciate dal loro sistema energetico, è evidente a Fjallsárlón e Jökulsárlón dove trovo ad aspettarmi Andrea e Claude, entrambi geologi, con cui compio un giro per le lagune glaciali. L’innalzamento delle temperature che sta assottigliando il Vatnajökull, una massa di ghiaccio grande quanto il Friuli-Venezia Giulia, agisce in due modi: da una parte espone le morene all’aria e dall’altra fa arretrare il fronte glaciale. La fuliggine delle attività vulcaniche e la polvere che si deposita sulla superficie del ghiacciaio rendono il suo manto di un colore grigiastro che riduce l’albedo (il potere riflettente di una superficie bianca, ndr) con la conseguente accelerazione dello scioglimento, trasformando il ciclo in un pericoloso uroboro (l’uroboro è il serpente che si mangia la coda, ndr) climatico.
A dieci chilometri di distanza dal Fjallsárlón, si apre la laguna di Jökusárlón, più vasta e più bella della precedente e per questo anche quella più assaltata dai turisti. La Jökusárlón è formata dalla lingua glaciale del Breiðamerkurjökull che, dopo essersi espansa fino al 1890, dagli anni Venti del XX secolo ha iniziato a ritrarsi lasciando spazio a uno specchio d’acqua che si è venuto a formare a partire dal 1935. Oggi questo lago è ampio circa 18 chilometri quadrati e la sua superficie aumenta a velocità sempre più elevata. «L’Islanda ha solo 390mila abitanti e conta ben poco nella lotta contro il cambiamento climatico, ma è spesso presa a esempio per il suo impegno nel contribuire all’impegno per mantenere l’aumento della temperatura sotto il punto di non ritorno», afferma Andrea.
Vero è, però, che un paese poco densamente abitato che ha la fortuna di godere di fonti naturali energetiche poco impattanti dal punto di vista ambientale e – perdipiù – pressoché inesauribili, è sicuramente molto più favorito di altre nazioni.
Del resto, non tutto in Islanda funziona al meglio.
«Abitare in Islanda non è facile» mi dice Guðrún, studentessa di chimica all’University of Iceland che, per guadagnarsi da vivere, passa le vacanze lavorando come cameriera in un bar di Vik: «I turisti arrivano, rimangono estasiati dalla baia, dal Paese, dalle pecore, dalle cascate, dal mare, ma poi, dopo una o due settimane, se ne ritornano da dove sono venuti, nel caldo delle loro città, nella vita notturna, nei concerti. Escono al mattino con il sole e sanno che quella giornata rientreranno con il sole. Se vogliono possono bersi una birra o andare al ristorante senza spendere una fortuna. Da noi tutto questo è semplicemente impossibile».
Mi viene in mente un passo di «Miss Islanda», il libro di Auður Ava Ólafsdóttir, ambientato negli anni Sessanta, ma ancora attualissimo, in cui Hekla, trasferitasi a Copenaghen, scrive alla sua amica Ísey che «la pioggia (a Copenaghen, ndr) non è orizzontale, anzi scende giù verticalmente, come fili di perle».
L’impressionante volume d’acqua che forma la cascata di Dettifoss, la maggiore dell’Islanda e dell’Europa. Foto Piergiorgio Pescali.
Gli islandesi e il pericolo della depressione
Nella fascia di popolazione compresa tra i 18 e i 29 anni, un islandese su dieci soffre di depressione acuta e lo Stato riserva il 12% del budget della sanità per le malattie mentali. Appena possono, i giovani fuggono dall’isola, spesso considerata come una prigione, per trasferirsi sul continente. Ogni anno circa duemila islandesi tra i 15 e i 64 anni si trasferiscono all’estero. Se è vero che essi rappresentano solo l’1% della fetta di popolazione di quell’età, è anche vero che oggi in termini assoluti sono ben 49mila gli islandesi (il 13,2%) che risiedono permanentemente fuori dal Paese.
A parte pochi paesini che contano qualche migliaio di abitanti (Húsavík, Akureyri, Stykkishólmur, Ísafjörður), la maggior parte dei centri islandesi sono deprimenti e senza alcuna attrazione.
La difficile situazione sociale islandese è raccontata oltre che dalla letteratura anche dalla filmografia: Virgin Mountain, Nói AlbÍnói, The Oath-il giuramento, Rams-Storia di due fratelli e otto pecore, e anche la serie Trapped, raccontano i risvolti di una società ben lontana dall’idilliaco stereotipo in cui i turisti si ostiniamo a dipingere la nazione.
Nell’Islanda dei libri di Halldór Laxness o di Ragnar Jónasson c’è molta più verità di una fotografia scattata durante una toccata e fuga nell’isola. È la vita reale di un’Islanda che preferiamo non vedere o non conoscere: famiglie spezzate, intrighi tra colleghi di lavoro, dialoghi ridotti all’osso ed ermetici, paesaggi desolati, quasi sempre cupi e piovosi, paesini malinconici.
Ne «I giorni del vulcano» di Jónasson, Ívar, il superiore di Ísrún, non vede l’ora di licenziare la collega, ma non potendolo fare le affida i lavori più noiosi e insignificanti mobbizzandola persino di fronte alla direttrice della redazione televisiva in cui lavora.
Mi dirigo verso Siglufjörður, a nord di Akureyri, dove è ambientata la serie televisiva Trapped e dove si dipanano le scene dei libri di Ragnar Jónasson. Una manciata di case sparpagliate su una baia per un totale di 1.300 abitanti. Nonostante non piova, le strade sono deserte. Solo qualche turista si aggira tra la banchina del porto e la fabbrica di aringhe alla ricerca di qualche scena che ricordi i luoghi calpestati da Andri Ólaffson, il poliziotto a capo delle indagini.
Ne «L’angelo di neve», Jónasson descrive magistralmente il paesaggio in cui mi immergo: «Il fiordo li accolse con il grigio opprimente di una giornata coperta. Nuvole scure nascondevano l’anello di montagne impedendo di ammirarne in pieno la magnificenza. Il grigiore rendeva opachi i tetti delle case e i giardini erano coperti da un leggero strato di neve».
A Djúpavik, lungo la costa Strandir, nei fiordi occidentali, la desolazione si ripresenta in modo ancora più deprimente. Nel villaggio vive una sola famiglia immersa nel nulla di un paesaggio che è tanto magnifico quando è illuminato dal sole quanto è demoralizzante quando piove. La cittadina più vicina, Hólmavik, si trova a settanta chilometri al termine di una strada non asfaltata. L’unico hotel è una magnifica oasi di pace aperta nel 1985 da Eva Sigurbjörnsdóttir e dal marito Ásbjörn Þorgilsson che, con i loro figli, hanno trasformato ciò che restava di una vecchia fabbrica di aringhe, chiusa nel 1954, in un piccolo museo in cui artisti esibiscono i loro lavori. D’altro non c’è molto: una stazione di benzina in disuso, il relitto arrugginito della Suðurland che, dopo aver smesso di fare servizio fra Reykjavik e il Breiðafjörður, venne trasferita a Djúpavik nel 1935 e usata per ospitare la manovalanza stagionale della fabbrica di aringhe.
Nonostante il villaggio sia quasi abbandonato, Halldór Laxness ha ambientato qui il suo romanzo «Guðsgjafaþula» (Una narrazione dei doni di Dio, non ancora tradotto in altre lingue), mentre nel 2006 i Sigur Rós hanno suonato nella vecchia fabbrica di aringhe e, nel 2016, Ben Affleck, Willem Dafoe e Jason Momoa hanno girato alcune scene di «Justice League».
Gli iceberg della laguna di Jökulsárlón; il riscaldamento climatico ha liberato blocchi di ghiaccio che fluttuano nella laguna attirando migliaia di turisti. Foto Piergiorgio Pescali.
La politica e la stretta migratoria
L’isolamento a cui sono costretti molti centri islandesi a causa dei collegamenti poco veloci o per le condizioni atmosferiche, ripropone in modo più che mai attuale la questione dello spopolamento delle campagne. Il 94% della popolazione si accalca nelle città. Reykjavik, la cui municipalità da sola raggruppa 243mila islandesi, si sta espandendo: nel 1972 era una cittadina quasi sconosciuta quando per qualche giorno occupò le prime pagine dei giornali di tutto il mondo con la leggendaria sfida di scacchi tra Bobby Fisher e Boris Spassky e nel 1986 tornò alla ribalta grazie alla riunione tra Ronald Reagan e Michail Gorbačëv alla Höfði. Il summit, assieme all’inaugurazione, avvenuta pochi giorni dopo, della chiesa di Hallgrímskirkja, iniziata nel 1945 (anche in Islanda non tutto funziona in modo efficiente), segnarono la svolta della capitale.
Nel Paese iniziarono a riversarsi i primi turisti e, con loro, i primi immigrati. Dieci anni dopo quasi il 3% della popolazione islandese era straniero: oggi lo è il 19%.
L’apprezzata prima ministra islandese, Katrín Ja-kobsdóttir, del Movimento sinistra e verdi, pur avendo nel suo Dna una politica sociale progressista e illuminata, deve fare i conti con una singolare coalizione di governo che la vede alleata di minoranza di due partiti di centro destra, il Partito dell’indipendenza e il Partito progressista. Il primo, con 17 deputati su 63, è il maggior gruppo parlamentare con un orientamento a destra e liberale. Sostenuto dalle cooperative di pescatori e dagli imprenditori, è euroscettico, condividendo questo sentimento con gli altri due alleati.
Il Partito progressista si è invece sempre più avvicinato ai movimenti populisti abbracciando la retorica sovranista, opponendosi a un’eventuale entrata dell’Islanda nell’Unione europea, criticando le istituzioni e i creditori internazionali e chiedendo una stretta nella regolamentazione migratoria.
Chi ne fa le spese sono soprattutto gli immigrati. La politica islandese sta cambiando radicalmente: le difficoltà economiche, come spesso accade, hanno aumentato l’ostilità della popolazione e del governo verso l’immigrazione, in particolare quella economica. Di fronte alla minaccia di rimpatrio («deportazione» è il termine esatto utilizzato dalle Ong islandesi ) di trecento richiedenti asilo (principalmente di nazionalità irachena e nigeriana), nel 2022 diverse organizzazioni, tra cui la Croce Rossa, sono scese in piazza chiedendo al governo di rivedere la sua politica migratoria.
Nei primi quattro mesi del 2023 su 1.771 domande di asilo (813 da venezuelani, 629 da ucraini, 71 da palestinesi e varie altre nazionalità), solo 736 ne sono state accettate (547 ucraini, 67 palestinesi, 36 siriani).
Padre Jacob Rolland con, sullo sfondo, la cattedrale cattolica di Cristo Re nella capitale islandese. Foto Piergiorgio Pescali.
La polemica religiosa
Nel 2018 il governo di Jakobsdóttir è stato anche al centro di una vivace polemica internazionale per il disegno di legge proposto dal Partito progressista che intendeva proibire la circoncisione con una pena fino a sei anni di prigione.
Di fronte a tale pericolo, l’Inter Faith Forum, presieduto da padre Jakob Rolland, della Chiesa cattolica islandese in collaborazione con l’Istituto di studi religiosi dell’Università dell’Islanda, ha indetto una conferenza a cui hanno partecipato rappresentanti laici, cristiani, ebrei e musulmani (la comunità ebraica islandese conta circa 500-600 membri e solo nel 2021 la fede ebraica è stata riconosciuta come una delle religioni ufficiali del Paese).
Il caso fu ripreso anche dalla stampa: «Se un Paese inizia a proibire una pratica religiosa con la giustificazione dei diritti umani, altre nazioni potrebbero seguirne l’esempio creando un precedente molto pericoloso», mi dice padre Rolland, il quale aggiunge che la sua famiglia polacca ricorda bene gli orrori dei campi di concentramento nazisti. «Era quindi chiaro per noi che dovevamo fermare la proposta sin dall’inizio per evitare che potesse passare inosservata aprendo porte che non devono assolutamente essere di nuovo aperte».
Dopo la conferenza dell’Inter Faith Forum, il parlamento islandese chiese la rettifica della legge al governo, ottenendone il congelamento (non la sua cancellazione).
Un pescatore islandese mostra la preda. Foto Piergiorgio Pescali.
Il marketing dei vichinghi e il nazionalismo islandese
«I nostri antenati erano vichinghi, il nostro popolo è abituato a lottare per la propria sopravvivenza. Se vuoi qualcosa te la devi meritare, non puoi arrivare in Islanda e pretendere che il governo ti conceda tutto quello che non hai avuto nel tuo Paese d’origine» mi dice un sostenitore del «Fronte nazionale islandese», un partito di estrema destra nato nel 2016 che, come si legge nel suo statuto, intende «proteggere il sistema sociale, l’indipendenza dell’Islanda e la cultura islandese».
L’immagine dell’islandese vichingo è oggi sempre più utilizzata in senso nazionalista dall’ultradestra del paese. In realtà, i primi colonizzatori, a partire da quell’Ingólfur Arnarson che nell’874 sbarcò con la moglie Hallveig Fróðadóttir e al fratello di sangue Hjörleifur Hróðmarsson, erano fuggiaschi norvegesi, per lo più poveri contadini, che cercavano terre da coltivare che non fossero soggette alla pesante tassazione reale.
«Siamo più eredi di poveracci che di fieri guerrieri. Dal punto di vista del marketing, però, l’eredità dei landnásmenn (i proprietari delle terre) non rende quanto quella di nerboruti e battaglieri combattenti», sostiene Lúna, neolaureata in Studi medioevali presso la University of Iceland.
Nel «Landnamabók» (Libro dell’insediamento) sono nominati circa quattrocento coloni che arrivarono in Islanda (tra cui centotrenta dalla Norvegia e cinquanta dalla Britannia).
Molti di essi fuggirono dalla Norvegia per le vessazioni di Harold Fairhair (Bellachioma, ndr), altri fuggirono dalle isole britanniche per le sconfitte subite nel Wessex e a Dublino nel 902.
Ancora oggi la storia della colonizzazione dell’Islanda è ricoperta da un velo di mistero. Si parla anche dell’arrivo di monaci irlandesi, i cosiddetti «Papar» (vedi sotto).
Un gregge di pecore a Hverir. Foto Piergiorgio Pescali.
Saghe, leggende e stereotipi
A proposito di stereotipi, nel 2019, ho partecipato a Edimburgo a una conferenza in cui era invitato Hallgrímur Helgason, scrittore pittore presentatore radiofonico, uno degli uomini più famosi in Islanda (e uno dei più contestati, specie negli ambienti della sinistra), vincitore di due Premi letterari islandesi (nel 2001 e nel 2018) e conosciuto anche in Italia per il suo romanzo «101 Reykjavik».
Nel suo intervento, incentrato sul turismo in Islanda, l’autore ha inanellato luoghi comuni degni del migliore assorbitore seriale di leggende metropolitane lette sui social: dalle coppie giapponesi che sbarcano in Islanda in inverno per avere la possibilità di concepire sotto l’aurora boreale perché ritenuto di buon auspicio (una storia inventata di sana pianta che ha avuto origine in Canada e in Alaska), ai gruppi che circolano per Reykjavik chiedendo «a che ora accendono l’aurora boreale» (l’aforisma – molto probabilmente inventato dallo stesso Helgason – deve piacere particolarmente allo scrittore perché lo cita spesso nei suoi interventi variando di volta in volta la nazionalità dei gruppi – ora cinesi, ora filippini, ora giapponesi – che però rimangono immancabilmente asiatici).
«Ecco, ora hai capito perché ci sentiamo in un certo senso orfani letterari», mi spiega una collega islandese. «Purtroppo dopo Laxness non siamo più riusciti a sfornare scrittori di talento».
Eppure, l’Islanda è il Paese in cui la letteratura, specialmente quella epica, è fiorita più che in altri: le innumerevoli saghe di cui si nutre la storia islandese hanno plasmato la cultura e il carattere della popolazione. Ogni luogo, ogni comunità, ogni anfratto racchiude storie di elfi, diavoli, tesori, troll di cui gli attuali toponimi trasmettono ancora l’eredità.
La centrale geotermica di Krafla, nel nord del Paese, appartiene alla Landsvirkjun, il più grande gestore elettrico dell’Islanda, di proprietà statale. Foto Piergiorgio Pescali.
Lo scandalo finanziari0 e il «Best Party»
Continuando a parlare di miti e leggende, ma sul lato secolare, la leggenda che forse è più dura a morire riguarda l’integrità del sistema Islanda dopo la grande crisi finanziaria del 2008 (che ha visto il fallimento delle tre principali banche del paese, ndr).
Dei 202 imputati chiamati a rispondere delle loro responsabilità, solo 25 sono stati incriminati con pene relativamente miti (tra 6 mesi e 6 anni) e a quattro di questi la condanna è stata sospesa. La maggior parte di loro ha scontato la pena nella prigione di Kvíabryggja, un luogo di detenzione all’aperto e non recintata, e rilasciata dopo un anno. «Attraverso i cambiamenti legislativi, le condanne, già brevi, sono diventate comicamente brevi e in pochi mesi sono tornati a pilotare elicotteri e cenare con i loro coniugi nei migliori ristoranti di Reykjavik», afferma Jared Bibler, ingegnere al Mit di Boston e direttore della squadra investigativa che ha indagato sulla crisi pubblicando in un libro del 2021 un dettagliato resoconto della sua esperienza.
Geir H. Harde, il primo ministro islandese al tempo dello scandalo, dopo essere stato «punito» con la nomina ad ambasciatore dell’Islanda negli Stati Uniti, è oggi direttore esecutivo alla Banca mondiale per gli Stati nordici e baltici.
A seguito della debacle finanziaria, l’Islanda ha conosciuto una rivoluzione politica che si è riverberata sull’intero pianeta: un attore comico, Jón Gnarr, ha formato un partito, il Best Party, che con la sua satira affermava di non voler mentire ai propri elettori: «Dato che i partiti sono segretamente corrotti, noi promettiamo di essere apertamente corrotti».
Il Best Party, nato inizialmente come uno scherzo, è diventato ben presto una realtà politica: nel 2010 ha partecipato alle elezioni comunali di Reykjavik, vincendole con il 35% dei consensi e conquistando sei dei quindici seggi del consiglio comunale. Anarchico, figlio di un poliziotto comunista, Jón Gnarr, pur non avendo mai terminato le scuole secondarie, è diventato sindaco della capitale islandese per quattro anni.
Tra dichiarazioni ironiche («importeremo ebrei per avere finalmente in Islanda qualcuno che ne capisce di economia»), consiglieri improbabili («mi lascio consigliare dai Moomin e dagli elfi, che mi hanno detto che l’Islanda deve aderire all’Unione europea»), Reykjavik sotto Gnarr ha risanato il debito e si è riscoperta una città colorata abbandonando lo squallido grigiore e quella patina di austera compostezza che la contraddistingueva.
La Orkuveita reykjavíkur (Or), l’azienda energetica municipale che aveva accumulato due miliardi di dollari di debiti, è stata risanata licenziando il direttore generale e duecento dipendenti, chiamando esperti, depoliticizzando l’azienda e trasferendo gli uffici in una sede meno costosa. Le reti dei trasporti pubblici e delle strutture educative (scuole e asili) sono state riorganizzate (non senza vivaci proteste da parte della popolazione) e in città sono stati costruiti 25 km di piste ciclabili.
Foche nei pressi del villaggio di Djúpavík, nei fiordi occidentali. Foto Piergiorgio Pescali.
Dall’indipendenza alle guerre del merluzzo
L’ascesa politica di Gnarr e il suo stesso modo di parlare e di agire nel nome del popolo è stato certamente favorito dalla cultura islandese. Viaggiando per la nazione non si può fare a meno di notare la quantità di riferimenti alla pace: strade vivacizzate con i colori arcobaleno, semafori con luci a forma di cuore, una vita tranquilla (per molti, troppo tranquilla).
Non dobbiamo però farci ingannare: pur essendo un Paese pacifico e senza esercito, l’Islanda ha sempre tratto beneficio dalle guerre.
In «Gente indipendente», Halldór Laxness scrive che «La guerra mondiale continua a portare benefici al Paese e alla gente, tanto che non la chiamano altro che guerra benedetta […] e più andava avanti, più la gente ne aveva piacere. Tutti i buonuomini si auguravano che potesse continuare il più a lungo possibile».
La Seconda guerra mondiale ha segnato una tappa fondamentale per l’Islanda: con l’occupazione statunitense, che dal 1941 si sostituì a quella britannica, nel 1944 l’isola ottenne l’indipendenza dalla Danimarca, allora sotto occupazione tedesca. Dopo la fine del conflitto, gli islandesi ricevettero più aiuti procapite rispetto a tutti gli altri europei occidentali.
L’adesione alla Nato contribuì anche alle tre vittorie nelle «guerre del merluzzo» (1950-1970), combattute con successo contro il Regno unito a colpi di speronamenti e, a volte, anche con scambi di artiglieria navale tra la Guardia costiera islandese e la marina britannica, intervenuta a difesa dei propri pescherecci. Con il 10% del Pil legato alla pesca, Reykjavik non poteva (e ancora oggi non può) permettersi di condividere con altre flotte più numerose e attrezzate della sua, le pescose acque artiche. Il governo islandese chiedeva con insistenza che lo sfruttamento dei mari fosse esclusiva prerogativa delle sue navi. Priva di una propria marina, l’Islanda giocò la carta geopolitica minacciando di uscire dalla Nato nel caso le sue richieste non fossero state accettate. Alla fine, fu Kissinger a convincere Londra a ritirare le proprie navi. Così, al termine delle tre guerre (1958-61; 1972-73; 1974-75), Reykjavik riuscì a estendere le acque territoriali a duecento miglia dalle proprie coste.
Il ghiacciaio che si getta nella laguna di Fjallsárlón; il riscaldamento climatico da una parte sta facendo ritirare il fronte del ghiacciaio, dall’altro ha permesso di liberare blocchi di ghiaccio che fluttuano nella laguna attirando migliaia di turisti. Foto Piergiorgio Pescali.
Tra Unione europea e Cina
La questione ittica, con il mancato accordo sulle quote di pesca, è stato anche uno dei motivi del ritiro, annunciato nel 2013 e messo in pratica nel 2015, della richiesta di adesione dell’Islanda all’Unione europea, anche se, secondo un sondaggio svoltosi nell’aprile 2023, il 44% degli islandesi sarebbe favorevole all’entrata nella Ue contro il 34% dei contrari.
Nel frattempo, però, l’economia islandese deve trovare nuovi sbocchi e nuovi partner. E un nuovo partner lo ha trovato, preoccupando seriamente gli Stati Uniti, nella Cina.
Dopo il crollo della cortina di ferro e lo spostamento dell’attenzione internazionale in Asia, la piccola, sperduta e spopolata Islanda, anziché perdere la sua importanza strategica, l’ha aumentata. In particolare, a partire dal 2013, quando, su iniziativa dell’allora presidente Ólafur Ragnar Grímsson, Reykjavik ospitò la prima assemblea del Circolo artico. Questo, a differenza dell’Arctic council, il consiglio governativo formato nel 1996, è un organismo a cui possono partecipare istituzioni di vario genere, governative, private, Ong, università, ecc. non necessariamente geograficamente ed economicamente coinvolte nelle attività artiche. Vi partecipano, quindi, anche Cina, India, Corea del Sud, Singapore, Emirati arabi, e questo allargamento di confini ha aumentato il peso specifico della politica islandese aprendo le porte dell’isola all’economia di Pechino. La nuova Via della seta passa anche da qui.
Piergiorgio Pescali
Il getto d’acqua del geyser di Strukkur (Geysir); erutta ogni 5-10 minuti lanciando un getto alto tra i 20 e i 30 metri. Foto Piergiorgio Pescali.
Dorsali, placche, magma, geyser
La dorsale medio atlantica si allunga per circa 15mila chilometri nel fondo dell’oceano e, a mano a mano che il mantello della crosta terrestre si eleva, al di sotto di esso viene a crearsi una depressione che riscalda la roccia. Questo aumento di temperatura porta allo scioglimento della crosta che trova sfogo nelle parti meno spesse dando così origine ai fenomeni vulcanici.
Lungo la dorsale, il magma fuoriesce dalle viscere della terra e, a contatto con l’acqua, solidifica. È così che ogni anno il fondo marino si innalza di 2,5 cm, ma vi sono dei punti in cui il movimento è più attivo che in altri ed è qui che il suolo si è innalzato tanto da affiorare sul livello del mare per formare isole più o meno grandi. L’Islanda è la maggiore tra queste e il suo territorio viene letteralmente spaccato dalla dorsale che si incunea per tutta la sua lunghezza. Una diramazione si stacca verso sud dalla faglia principale all’altezza dei vulcani Grimsvötn e Laki-Fogrufjöll per creare una terza «isola» tettonica che comprende i vulcani Katla e Hekla, mentre nella piana di Þingvellir, sede storica del primo parlamento islandese, la placca continentale americana si divide da una placca minore a sé stante, la microplacca di Hreppar.
La mappa mostra le dorsali (ridges, in inglese) che attraversano o lambiscono il Paese.
Terra tra le più giovani del pianeta (è iniziata ad affiorare circa 20 milioni di anni fa), l’Islanda è in continua evoluzione, come testimoniano i numerosi vulcani attivi e le sorgenti termali di cui i geyser sono l’espressione più scenografica.
Le fratture tra le due placche si allargano ogni anno di circa 2,5 centimetri e il movimento, seppur impercettibile ai nostri occhi, causa una vivace attività sismica che si trasmette in fenomeni che toccano più direttamente la vita della popolazione: terremoti, eruzioni magmatiche o geotermiche.
I materiali ricchi di metalli alcalini sono trasportati in superficie dai cosiddetti hotspot, punti circoscritti particolarmente caldi che affiorano seguendo cunicoli e pennacchi. La presenza di acqua, invece, da una parte è la causa della formazione di getti ad alta pressione che fuoriescono sotto forma di geyser, fenditure del terreno che si collegano a falde riscaldate da rocce a contatto con il magma, dall’altra, quando entra in contatto direttamente con il magma, l’acqua si trasforma in vapore dissociandosi in idrogeno e ossigeno. Questa miscela, innescata dai getti incandescenti, esplode con violenza spargendo cenere vulcanica in tutta la regione e cambiando radicalmente la conformazione del terreno.
Pi.Pes.
I vichinghi, «guerrieri del mare»
La tela dipinta da Oscar Wergeland nel 1877 ricorda l’arrivo dei vichinghi in terra d’Islanda.
L’immagine dell’islandese vichingo è uno stereotipo che ha fatto il suo tempo, ma che continua a essere molto popolare all’estero.
Il termine vikingr al maschile era usato dai norreni (nome generico per i popoli della Scandinavia) per indicare «guerrieri del mare», mentre al femminile, viking, indicava le «spedizioni marittime a fini militari». Oggi la parola vikingr è usata per descrivere chiunque abbia origini norrene nell’era vichinga.
Solitamente assimilati a uomini rudi, mezzi nudi e pelosi, con il barbone rosso che cala dal mento e che si confonde con i capelli lunghi e arruffati nascosti parzialmente da un curioso elmo cornuto, in realtà, i norreni erano una popolazione dai gusti raffinati, eleganti, dedita al commercio con le nazioni più potenti dell’epoca, il Sacro Romano Impero, l’impero arabo, quello bizantino.
I rapporti non si limitarono solo a negoziazioni commerciali di beni di prima necessità, ma consentirono alla società norrena di approfondire la conoscenza di altre culture e apprezzarne la ricchezza artistica.
Grazie ai drekar, le navi dalla chiglia piatta, il popolo dei norreni poteva navigare in mare aperto così come lungo i fiumi a basso pescaggio compiendo esplorazioni in Groenlandia, Islanda e raggiungendo le coste del Nord America, qualche secolo prima di Colombo.
Quella dei vichinghi è un’era che si dipana tra il 750 e il 1050 d.C. Chiamata «Età dell’oro», in essa le società scandinave espansero la loro economia, le loro conoscenze e, dall’XI secolo, assorbirono le influenze cristiane.
Deluderà forse sapere che le corna poste ai lati degli elmi che ancora oggi piacciono tanto ai turisti e ai negozi di souvenir, sono frutto di una leggenda nata in tempi recenti. Fu lo scenografo Carl Emil Doepler a disegnare proprio un elmo del genere per il ciclo «L’anello dei Nibelunghi». Molto probabilmente i vichinghi raramente indossavano copricapi in ferro, preferendo quelli in cuoio, lasciando gli elmi per le cerimonie dei nobili, che se li portavano nelle loro tombe come simbolo distintivo sociale.
L’ecllissi della società vichinga avvenne in concomitanza con la transizione verso il cristianesimo grazie all’opera del re Olaf II Haraldsson (995-1030), il Sant’Olaf a cui tutta la cultura baltica e slava è particolarmente affezionata. È a seguito della conversione forzata del popolo norreno che venne realizzata la famosa stele di Dynna, oggi conservata nel museo di Storia di Oslo. Questo monolito piramidale di tre metri rappresenta una delle prime testimonianze cristiane della regione scandinava. I suoi bassorilievi propongono una commovente Natività e i tre re Magi che seguono la stella di Betlemme, non ancora trasformatasi nella cometa di cui Giotto sarà primo autore, tre secoli più tardi, nella Cappella degli Scrovegni, a Padova.
Pi.Pes.
Sorgenti calde nell’area di Geysir. Foto Piergiorgio Pescali.
Geotermia, dall’Italia all’Islanda
La generazione di energia elettrica e di calore da geotermia è iniziata in Italia nel 1818 grazie all’ingegnere di origini francesi, Francesco Giacomo Larderel che pensò di sfruttare i getti di vapore che uscivano dal suolo nel comune di Pomarance, nell’allora Granducato di Toscana, per produrre boro utilizzandolo nelle industrie farmaceutiche.
Per omaggiare l’ingegno di Larderel, Leopoldo II decise di dare al luogo il nome dell’ingegnere e il 4 luglio 1904 il proprietario della ditta, Piero Ginori Conti, decise di sperimentare un generatore la cui bobina era alimentata con il calore geotermico. Con l’accensione di cinque lampadine, quel 4 luglio 1904, si inaugurò la geotermia. Sette anni dopo, la prima centrale geotermica al mondo venne inaugurata a Larderello e oggi le 34 centrali geotermiche italiane producono seimila GWh (2.976 GWh in provincia di Pisa, 1.492 GWh in provincia di Siena e 1.403 GWh in provincia di Grosseto), circa la stessa quantità generata in Islanda (5.960 GWh).
La compagnia energetica nazionale islandese, la Orkustofnun, ha la possibilità di rilevare le risorse energetiche presenti nel sottosuolo di qualsiasi terreno, privato o pubblico, nel Paese. Un proprietario di terreno può richiedere la licenza d’uso per poter sfruttare risorse geotermiche (e del sottosuolo in generale) per un periodo limitato.
In Islanda, ad oggi sono state individuate 20 aree geotermiche all’interno di zone vulcaniche attive con vapori che raggiungono temperature sotterranee di 250°C entro i mille metri di profondità e circa duecentocinquanta aree geotermiche lontane dalle zone vulcaniche, i cui vapori, sempre a mille metri di profondità, non superano i 150°C.
Oggi il 90% delle abitazioni islandesi sono riscaldate con impianti che traggono calore dall’energia geotermica e in alcune zone di Reykjavik e di altre città islandesi i marciapiedi, le strade e le aree di parcheggio sono dotate impianti di riscaldamento a geotermia per sciogliere il ghiaccio durante i mesi invernali.
Nel 2000 un consorzio di compagnie energetiche private e pubbliche (HS Orka hf, Landsvirkjun, Orkuveita Reykjavíkur e la Orkustofnun) ha iniziato un progetto, l’Iceland deep drilling project, Iddp, per sfruttare sistemi idrotermali ad altissima temperatura al fine di raggiungere fluidi supercritici che si trovano a 4-5 km di profondità con temperature che raggiugono i 400-600°C. I giacimenti supercritici potrebbero arrivare a una potenza sino a dieci volte superiore rispetto a quelli convenzionali: mentre questi ultimi raggiungono una profondità media di 2,5 km con una potenza equivalente di 5 MWe, quelli Iddp riescono ad attingere giacimenti supercritici con temperature superiori a 450° con una potenza equivalente prodotta pari a 50 MWe.
Pi.Pes.
La cattedrale della Chiesa nazionale d’Islanda nella capiatale del paese. Foto Wikimedia commons.
Chiese e fedeli
La leggenda dei «papar»
Come negli altri paesi nordici, anche in Islanda la grande maggioranza dei fedeli segue la Chiesa luterana. I cattolici arrivarono presto, ma la loro vicenda è priva di certezze storiche.
Padre Jakob Rolland, cancelliere ecclesiastico della diocesi cattolica di Reykjavik, che incontro presso la cattedrale di Landakotskirkja (Cristo Re), afferma che i primi abitanti dell’Islanda furono monaci irlandesi, i cosiddetti «Papar», dal celtico pap e dal latino papa, «padre» o «papa».
Secondo lo storico Axel Kristinsson, invece, non vi è alcuna prova archeologica secondo cui l’Islanda fosse in qualche modo abitata prima dell’arrivo dei norreni (nome generico per i popoli della Scandinavia, ndr) nel IX secolo. Il testo più antico che testimonia la presenza dei papar è l’«Íslendingabók» (Libro degli islandesi), scritto tra il 1122 e il 1133 dallo scrittore e religioso Ari Þorgilsson (1067-1148) in cui si afferma che «L’Islanda fu colonizzata per la prima volta dalla Norvegia ai tempi di Harold Fairhair. […] A quel tempo l’Islanda era coperta da boschi tra le montagne e la costa. C’erano cristiani, che i norvegesi chiamano papar, ma che se ne andarono perché non volevano convivere con i pagani lasciando libri irlandesi, campane e pastorali. Da questo si poté capire che fossero uomini irlandesi». Ma l’Íslendingabók, oltre a essere stato scritto da un rappresentante della Chiesa, non porta alcuna prova, oltre a quella tramandata oralmente circa tre secoli dopo i fatti raccontati, della presenza cristiana.
Quel che è certo, è che la fede cristiana venne abbracciata nel 999 d.C.
La chiesa Hallgrímskirkja, opera del noto architetto islandese Gudjon Samuelsson, a Reykjavik. Foto Piergiorgio Pescali.
Cristiano III e il luteranesimo
Nel villaggio di Holmavík, c’è uno dei musei islandesi più particolari e originali: quello di magia e stregoneria, diretto da Anna Björg Þórarinsdóttir. «In Islanda la Chiesa cattolica e il paganesimo, che portava con sé pratiche magiche, hanno convissuto abbastanza pacificamente», ha commentato la direttrice.
Fu solo dopo il XVI secolo, quando Cristiano III (1503-1559), re di Danimarca e Norvegia, impose la fede luterana anche all’isola, allora possedimento danese, che iniziò la caccia alle streghe.
«Il primo caso di messa al rogo registrato è avvenuto a Eyjafjörður, quando un certo Jón Rögnvaldsson venne accusato di aver praticato casi di stregoneria, mentre l’ultimo avvenne nel 1719 a Þingvellir».
Luterani e cattolici nell’Islanda di oggi
Mons. Dávid Bartimej Tencer, vescovo della Chiesa cattolica islandese. Foto Wikimedia commons.
In termini percentuali, la Chiesa cattolica islandese è la più grande tra quelle dei paesi del Nord Europa, tutti dominati dalle Chiese luterane. Dal 2015 la comunità cattolica è guidata da monsignor Dávid Bartimej Tencer, dell’ordine dei frati minori cappuccini.
Agnes Margrétardóttir Sigurðardóttir, vescovo della Chiesa nazionale d’Islanda. Foto www.kirkjan.is.
La Chiesa principale (70 per cento dei fedeli) è la Chiesa nazionale d’Islanda, luterana. Dal 2012 essa è retta da Agnes Margrétardóttir Sigurðardóttir, la prima donna vescovo del paese.
Piergiorgio Pescali
Hanno firmato il dossier:
Piergiorgio Pescali, ricercatore e consulente in ambito nucleare, è giornalista e scrittore. Da molti anni è un assiduo collaboratore di Missioni Consolata.
A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione mc.
Samuele, modello del «chiamato»
In qualsiasi percorso vocazionale e in tutte le proposte pastorali e catechetiche per ragazzi e giovani prima o poi si deve per forza incontrare la storia del ragazzo Samuele, esempio di disponibilità ad ascoltare la chiamata di Dio anche senza comprenderla
appieno.
L’episodio della chiamata divina nel cuore della notte, rivolta a un ragazzo che non la capisce, e tuttavia dice sì sulla fiducia, è senz’altro impressionante, ed è giustamente apprezzato e utilizzato. Tuttavia è l’intera vita di Samuele che si muove sulla linea della fiducia, dell’ascolto, della disponibilità serena a rimettersi in discussione per continuare a essere un tramite autentico e trasparente dell’intenzione divina.
Se si ricordano i modelli di fiducia in Dio offerti dal Primo Testamento, Samuele non può restarne fuori. Sarà anche per questo che è difficile dire se sia più un profeta o un sacerdote, visto che, normalmente, i due ruoli non coincidono. Forse è anche per questo che ci sono ben due libri biblici che prendono il nome da lui.
Un Dio in ascolto dell’umanità
Sembra peraltro di poter dire, in sintonia con tanti altri personaggi della Bibbia, che anche per Samuele è Dio stesso a mettersi, fin dal principio, in ascolto fiducioso dell’umanità e, soprattutto, dell’umanità più piccola, sofferente e addirittura, secondo i criteri della cultura del tempo, insignificante.
Si narra, infatti, all’inizio del Primo libro di Samuele, che il padre, Elkana, aveva due mogli, una delle quali, Anna, era sterile. L’intera famiglia compiva ogni anno un pellegrinaggio al tempio di Silo, a una quarantina di chilometri a nord di Gerusalemme, costruito ben prima di quello della città santa. Non è difficile capire che la dimensione rituale di quelle occasioni poteva diventare oppressiva e umiliante per chi, come Anna, non era nelle condizioni ideali per il rito.
Il testo di 1 Samuele (1,4-7) ci racconta qualcosa che possiamo integrare con la nostra immaginazione: nel momento del pasto sacro, quando si tratta di dividere l’agnello che è stato offerto in sacrificio, Elkana dà a Peninna, la moglie fertile, la parte che lei deve condividere con i figli e le figlie. Questa, ovviamente, è molto più grande di quella, pur «speciale», riservata ad Anna che, presa in giro dall’altra moglie, si sente ancor più umiliata nella sua infertilità e, quindi, piange e si rifiuta di mangiare.
Elkana, allora, le rivolge le parole più affettuose e tenere che si possano leggere nella Bibbia uscite dalla bocca di un marito: «Perché sei triste? Non sono io forse per te meglio di dieci figli?» (1,8). In una società in cui la donna serve solo a partorire e vale in proporzione al numero dei figli, Anna è sposata a un uomo che la ama così com’è.
Questo però non basta a confortare la donna, che si reca subito al tempio, nell’ora in cui tutti stanno riposandosi per il cibo e per il vino. Lì, nascosto nell’oscurità, c’è solo Eli, il sacerdote capo, che la vede pregare da sola e non a voce alta, ossia con modalità che non erano consuete, e la rimprovera, immaginandola ubriaca (1,12-16). Quando però lei, delicatamente, gli spiega che è solo afflitta, ottiene in cambio l’augurio che il Signore la ascolti (1,17).
Poco dopo Anna resta incinta di Samuele e si impegna, come aveva promesso nella preghiera, a offrirlo non appena svezzato al Signore, perché lo serva nel tempio.
E un’umanità in ascolto di Dio
Ma servire il tempio non significa ancora essere ciò che Samuele diventerà. Il libro biblico fa notare che Dio raramente si fa sentire in quei giorni (1 Sam 3,1). Sono tempi senza una bussola, incerti, come quelli in cui viviamo noi (e come sono la maggior parte dei tempi umani). Per questa ragione, probabilmente, il tempio di Silo non è solo un punto di riferimento religioso ma anche politico.
A guidarlo è lo stesso Eli, sacerdote ormai anziano che, come intuiamo dal racconto biblico, immagina di passare ai propri figli non solo il proprio ruolo spirituale ma anche di potere politico, benché essi non siano proprio degli stinchi di santo.
Samuele è al suo servizio nel tempio, luogo nel quale vive e dorme. Una notte sente una voce che lo chiama. Si alza e va subito da Eli, che lo rimanda a dormire. Quando però il ragazzo va da lui una seconda e una terza volta («Eccomi: mi hai chiamato?»), Eli intuisce che sta succedendo qualcosa che lui, sacerdote, non aveva previsto e forse neppure desiderava.
Pur sorpreso, indica a Samuele la strada da percorrere in docilità e attenzione: «Se succederà ancora, risponderai: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”» (1 Sam 3,10). Anche Eli, stimolato dall’atteggiamento di Samuele, si mette in ascolto e accoglie la novità, pur intuendo che questa comporterà poi l’estromissione della sua famiglia dal tempio. Si mette a disposizione di un progetto che non lo coinvolge più (3,17-18).
Eli è il «vecchio» che deve essere superato, e, anziché abbarbicarsi al suo potere, sa fare spazio a ciò che sta crescendo. Intorno al fiducioso Samuele cresce la fiducia.
Il gioco dell’affidarsi
In effetti il ruolo che Eli ha ricoperto e che sognava di trasmettere ai figli viene invece assunto da Samuele: è come se il bambino che non sarebbe dovuto neppure venire alla luce fosse chiamato a diventare la nuova, definitiva guida di un popolo ancora piccolo, riprendendo l’antica tradizione di essere un «giudice», ossia un capo politico con motivazioni religiose, come all’inizio della storia di Israele in Canaan (1 Sam 7).
Dio, in seguito, prenderà di nuovo per mano Samuele e lo porterà su strade che non’immagina, invitandolo a fidarsi e a guidare un processo che non conosce ancora e che non sa dove condurrà, e che in fondo non condivide.
Anche Samuele, infatti, come Eli, è tentato dall’idea di lasciare in eredità ai propri figli il proprio ruolo di giudice e guida (1 Sam 8,1-3). I suoi due figli, però, non si comportano come lui, e mettono il loro interesse personale, non quello di Dio, al centro.
Se si guida a nome di Dio un popolo, non lo si fa per diritto ereditario, ma perché si è scoperto e si vive il rapporto con Lui.
Per reazione, il popolo che Samuele sta gestendo decide di diventare come gli altri dotandosi di un re e facendosi «un nome tra le genti» (8,4-5). Israele sceglie di non farsi più guidare da Dio, con l’incertezza di un capo nominato di volta in volta, e preferisce la sicurezza di un re con una linea dinastica. Un re che, quindi, lo condurrà in guerra, lo tasserà, lo sottometterà alle sue angherie. Israele preferisce essere servo di un uomo piuttosto che affidarsi a Dio (1 Sam 8,11-18).
Non è un caso che Samuele tenti di ostacolare questo progetto, che vede come un tradimento del Signore da parte del suo popolo.
Di nuovo, però, egli viene preso per mano da Dio, che lo convince a cedere: «Ascolta la voce del popolo, qualunque cosa ti dicano, perché non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di loro. […] Ascolta pure la loro richiesta, però ammoniscili chiaramente e annuncia loro il diritto del re che regnerà su di loro» (1 Sam 8,7-9).
Dio entra nello stesso gioco di ascolto e di fiducia a cui egli stesso ha chiamato Eli e Samuele. Nonostante il popolo non ascolti il suo ammonimento e continui a domandare un re, il Signore non si tira fuori, e incarica Samuele di gestire la situazione ungendo come sovrano, quindi con la ratifica divina, chi sostituirà Samuele stesso, il giudice-sacerdote, nel suo ruolo di guida politica.
Il Dio di Israele, sapendo che la scelta del suo popolo è sbagliata, si lascia tuttavia incatenare alle scelte dei suoi amati, e continua a guidarli, pur avendo minacciato il contrario (lo ammetterà in 1 Sam 12,13-14).
Instabile o fedele?
A essere scelto da Dio come re richiesto dal popolo è Saul, della tribù di Beniamino, la più piccola delle tribù d’Israele. È interessante la scena dell’incontro tra il futuro re e Samuele. Il testo racconta che Saul non sta minimamente pensando al regno, e lo presenta mentre vaga alla ricerca delle asine del padre, smarrite mentre erano al pascolo (1 Sam 9). Nel suo vagare arriva dove si trova «il veggente» e decide di chiedere a lui un’indicazione. Il «veggente», però, lo invita a fermarsi, lo rassicura sulle asine e il giorno dopo lo unge re, prima di fargli intuire che lui pure, nuovo re, dovrà fidarsi e lasciarsi condurre, anche a «fare il profeta» insieme ad altri profeti (1 Sam 10,5-6).
Saul inizia a guidare gli israeliti in battaglia, principalmente contro i Filistei, con esiti altalenanti, ma la scelta divina, si scopre, non è ancora definitiva. Dio volta le spalle a Saul, colpevole di confidare soprattutto nei propri mezzi, e invita di nuovo Samuele ad adeguarsi alla sua volontà e ad andare a ungere un altro re.
E questo nuovo re è tanto improbabile che, quando Samuele si presenta alla casa di Iesse (1 Sam 16) per sceglierlo tra i suoi figli, perfino Iesse si dimentica di lui. Quando infatti Samuele dichiara che non si metterà a tavola a mangiare finché non saranno passati davanti a lui tutti i suoi figli per benedirli e scoprire chi tra essi è stato scelto da Dio, Iesse li presenta al profeta uno dopo l’altro, scordandosi del più piccolo, Davide, che in quel momento è fuori casa al pascolo.
Il secondo re di Israele diventerà tanto importante che nella futura storia del suo popolo fungerà da modello per qualunque regalità e che verrà ricordato come colui che donerà un suo discendente che regnerà per sempre.
Ma tutto questo Samuele non lo vedrà con i suoi occhi, perché morirà lasciando nella sua terra due re, entrambi unti da lui, che combattono tra loro. Morirà senza avere la certezza di aver compiuto le scelte giuste, di aver ascoltato correttamente la parola di Dio.
L’insegnamento di Samuele
Se vogliamo tirare le fila di ciò che abbiamo incontrato, troviamo una costante che rintracciamo in tutte le storie di fede nel Primo e anche nel Nuovo Testamento, e forse una sorpresa non indispensabile, dunque ancora più interessante.
Samuele entra in un gioco di dialogo con Dio, ne viene sorpreso, lo difende, viene invitato a maggiore elasticità, viene condotto su scelte e strade che non avrebbe fatto sue. Il tutto sempre in una condizione di ascolto profondo tra lui e Dio. La fede, insomma, non è tanto questione di obbedienza alle regole, ma di relazione. Una relazione che richiede ascolto e fiducia, soprattutto quando muove a compiere scelte non condivise, o addirittura nuove scelte che appaiono diverse o contrarie a quelle precedenti.
La sorpresa è che tutto ciò parte da una donna sterile che entra con Dio proprio in una relazione di fiducia di questo tipo, nella quale si sente libera di sfogarsi in modo autentico.
La ciliegina sulla torta è che i genitori del più grande sacerdote e giudice della storia d’Israele sono due persone che, contro le aspettative della loro cultura, si amano davvero, al punto che Elkana si affligge per la sofferenza di colei che, secondo le convenzioni del suo tempo, non stava facendo il proprio dovere (dargli cioè dei figli).
Là dove trova umanità autentica, vera, che ama, Dio entra più volentieri.