Un’esperienza di riconciliazione da esportare

MIRACOLO IN CORSO

Dialogo e perdono hanno guidato il Sudafrica sulla via della pace e della riconciliazione nazionale, diventando un modello per altri popoli in situazioni di conflitto. Con gli stessi valori umani e cristiani vengono affrontati i problemi che ancora assillano il paese.

Lo scorso aprile, il Sudafrica ha celebrato 10 anni di libertà. Il cambio politico, dalla minoranza bianca alla maggioranza nera, è avvenuto in modo pacifico e, fin dall’inizio, si è respirato uno spirito di riconciliazione, salutata come un miracolo e un segno di speranza. Nessuno di noi pensava che pace e democrazia si sarebbero potute realizzare tanto velocemente ed efficacemente come in Sudafrica.
Pur con tutti i suoi limiti, l’esperienza sudafricana è sicuramente uno dei segni del nostro tempo e quindi altamente significativa per la riflessione teologica cristiana. Essa annuncia la possibilità di pace e riconciliazione in contesti di conflitti apparentemente irrimediabili.
Tuttavia, è importante ricordare che questa riconciliazione è tutt’oggi incompleta e presenta seri problemi che dovranno essere assolutamente affrontati in un prossimo futuro. Tutto sta nell’atteggiamento da scegliere: vedere tale riconciliazione incompleta come un bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno. Nella situazione attuale, l’avere un bicchiere pieno a metà, invece di un bicchiere vuoto o rotto, è già un dono per il quale dobbiamo essere grati.

Il ruolo di guida

Sono molti nel mondo a credere che il miracolo sudafricano sia stato frutto, quasi esclusivamente, del lavoro di una sola persona, un leader e statista eccezionale: Nelson Mandela. Non c’è persona al mondo che non sia stata profondamente impressionata dalla sua totale mancanza di risentimento e dal suo spirito di perdono, nonostante i 27 anni di dura prigionia.
La sua figura impressiona per la libertà personale, che gli permette di esprimere le proprie idee e fare ciò che crede sia giusto, senza essere condizionato da ciò che può pensare o dire la gente, compresi i sostenitori più accaniti. Siamo stati testimoni dei suoi straordinari gesti di riconciliazione, come quando andò a prendere un tè da Betsie Verwoerd, l’anziana vedova dell’ideatore dell’apartheid.
Mandela non è l’unico grande leader espresso dal Sudafrica. Walter Sisulu, per esempio, deceduto l’anno scorso, fu una persona eccezionalmente umile e nobile, che ispirava sentimenti patei e mai fu tentato dalla fame di potere, prestigio o denaro. È sempre rimasto nell’ombra, anche se Mandela lo ricorda come suo consigliere e ispiratore. Entrambi sono stati in prigione a Robben Island.
Inoltre, non possiamo dimenticare Albert Luthuli, primo sudafricano a vincere il premio Nobel per la pace, e Oliver Tambo, fine e infaticabile guida dell’African National Congress (Anc), che visse in esilio durante gli anni cupi della prigionia di Mandela e Sisulu e che, purtroppo, non visse abbastanza a lungo per assistere alle prime elezioni democratiche del paese. Stesso destino toccò a Stephen Biko, torturato e ucciso nel 1979 dalla polizia dell’apartheid, ma ancora ricordato come eroe e sorgente d’ispirazione.
Anche due dirigenti del Partito comunista sudafricano meritano di essere menzionati per il significativo contributo al miracolo della riconciliazione: Chris Hani, figura estremamente importante e carismatica, assassinato dai bianchi di estrema destra nel 1993, e Joe Slovo, militante dell’Anc. Nonostante fosse un bianco, Slovo seppe guadagnarsi la stima di tutti e giocò un ruolo fondamentale nel negoziato e nel primo governo, prima della morte avvenuta alla fine degli anni ’90.
Anche grandi personalità religiose contribuirono in maniera significativa al processo di pace e riconciliazione del Sudafrica: il vescovo anglicano Desmond Tutu, il dottor Beyers Naude, direttore del Christian Institute e l’arcivescovo cattolico di Durban, Denis Hurley. E poi migliaia di «eroi sconosciuti», tra cui molte donne, imprigionati, torturati e uccisi affinché il popolo sudafricano potesse godere la libertà.
Ciò che l’esperienza sudafricana ci insegna è che la giustizia, la pace e la riconciliazione possono essere raggiunte solo grazie a una leadership efficace, cioè, non solo forte e capace di imporre decisioni, ma soprattutto umile, onesta, disinteressata e fondata su una profonda libertà personale.
Usando un concetto cristiano, potremmo definire questo stile come «santità», applicata alla guida di un popolo. Il fatto che essa sia stata vissuta da persone che poco o nulla avevano a che fare con la chiesa, è una sfida alla nostra teologia.

Politica di non-razzismo

L’Anc, a cui aderiva la maggior parte dei grandi leaders politici, ha sempre sostenuto una politica non razzista. Il vero nemico, sostenevano, non era la popolazione bianca, il National Party o il presidente segregazionista P. W. Botha, ma l’ingiustizia insita nel sistema dell’apartheid. Era il sistema da distruggere, non la gente.
Il conflitto, così come era inteso, non era tra minoranza bianca e maggioranza nera, ma tra politica razzista e politica non razzista. Di fatto, i bianchi che erano realmente convinti della necessità di una politica anti-razzista lottarono a fianco dei neri, mentre alcuni neri che, per qualsiasi ragione, decisero di adattarsi al sistema di segregazione razziale, cornoperarono con la politica razzista dei bianchi. Questo avvenne soprattutto nelle cosiddette homelands o bantustans.
Il conflitto sudafricano non fu tribale, né etnico e tanto meno religioso. Difatti, escludendo tutta la gente di colore, senza distinzione di cultura, religione o origine etnica, il regime dei bianchi riuscì a suscitare l’unanime opposizione di tutti i gruppi etnici e religiosi neri. Dato che solamente coloro che erano giudicati di pura stirpe bianca erano ammessi al voto, il conflitto divenne tra razzismo e democrazia più che tra bianchi e neri semplicemente.
Naturalmente non tutti leggevano la situazione in questo modo. Ci furono interminabili discussioni se essere non-razzisti o anti-razzisti, se ammettere o meno i bianchi nella lotta, se bisognava parlare di lotta di razza o di classe. Ma non c’è dubbio che la politica di trattare il sistema di apartheid in sé come il vero nemico contribuì in maniera sostanziale alla tranquilla transizione politica e, pur con tutti i suoi limiti, alla riconciliazione che ne è seguita.
Tutto ciò ha pure reso possibile ai cristiani e persone di altri credi religiosi di appoggiare la lotta con una teologia di giustizia e pace; fu anche possibile, tra l’altro, stigmatizzare il peccato di razzismo senza odiare i peccatori.

Ruolo della società civile

Un altro elemento tipico del cambiamento in Sudafrica fu lo sviluppo di una forte società civile. Siccome solo ai partiti politici di opposizione più moderati era permesso di operare, i veri oppositori dell’apartheid, bianchi e neri, agirono dentro e attraverso gli organi della società civile. Molti sudafricani erano infatti membri di movimenti «fuori legge» come l’African National Congress (Anc), il Pan African Congress (Pac) o il South African Communist Party (Sacp), ma di fatto lavorarono in movimenti civili come sindacati, movimenti giovanili, studenteschi e femminili, come pure in organizzazioni di volontariato o non governative, che si occupavano di realtà sociali come povertà, educazione, analfabetismo o handicap. Chiese e comunità religiose, specialmente i movimenti e organismi religiosi impegnati nel campo di giustizia e pace erano pure viste come parte integrante della società civile.
All’interno di questi organismi, gente di differente colore e credo impararono a lavorare uniti contro il comune nemico: l’apartheid. Nel 1983, quasi tutte queste organizzazioni e movimenti, compresi alcuni movimenti ecclesiali, si unirono per formare il fortissimo Fronte democratico unito (Udf).
L’incrollabile fiducia nella società civile è uno dei tratti distintivi che ha caratterizzato l’esperienza sudafricana, rispetto ad altri stati africani o mondiali dove gli unici protagonisti in conflitto sono stati solo i politici di professione. Ne è un esempio la Repubblica democratica del Congo, dove la società civile non ha alcuna voce. I conflitti sono lotte di potere tra uomini politici e i loro eserciti.
È impossibile esagerare il ruolo della società civile nel miracolo sudafricano, specialmente dopo che giunse a formare un fronte comune contro l’apartheid, facendo sì che sfociasse in una vera lotta di popolo, in cui anche le comunità religiose poterono fare la loro parte.
È stata la fede delle comunità a rendere in gran parte possibile la riconciliazione in Sudafrica. Le comunità di fede, specialmente le chiese cristiane (anche se non tutte), appoggiando la lotta all’apartheid e rifiutandone l’ideologia come «eretica», hanno aiutato a smantellare la segregazione razziale e portare i politici e rivoluzionari intorno al tavolo dei negoziati.

Il cammino dei negoziati

Da anni il governo del National Party aveva cercato di contenere la rivoluzione. Al tempo stesso, l’Anc era impegnato in azioni di guerriglia urbana, nota come lotta armata; la gente comune, specie attraverso l’Udf, stava rendendo il paese ingovernabile; le chiese delegittimavano la politica dell’apartheid, mentre le sanzioni inteazionali facevano vacillare l’economia.
Il regime aveva tentato ogni forma possibile di repressione per mantenere lo status quo: arresti di massa, torture, uccisioni, intimidazioni, propaganda, giustificazioni teologiche, spionaggio, infiltrazioni, tattiche di divide et impera, massacri orrendi… fino a trovarsi a un bivio: raggiungere un qualche tipo di accordo, oppure proseguire nella distruzione reciproca, affogando il paese in un bagno di sangue.
Dal canto suo, l’Anc aveva sempre spinto per una soluzione negoziata. Le varie forme di lotta, compresa quella armata, tendevano a questo: condurre il regime al tavolo dei negoziati. I leaders dell’Anc sapevano perfettamente che una vittoria militare o un colpo di stato erano impossibili.
In entrambe le parti quasi tutti arrivarono a capire che un negoziato doveva offrire la possibilità di una vittoria per tutti, senza vinti né vincitori. Il National Party e i suoi alleati dovevano capire che non ci sarebbe stata alcuna riconciliazione senza «giustizia»; l’Anc e i suoi alleati dovevano rendersi conto che non ci sarebbe stata alcuna pace senza «compromesso».

Pace senza giustizia

Nel corso degli anni un numero crescente di bianchi venivano implorando pace e riconciliazione; però non erano disposti a sacrificare i loro privilegi e concedere uguali diritti alla maggioranza nera, in una nazione indivisa. Volevano la pace senza la giustizia. Fu necessario negoziare duramente per cambiare questa visione.
Al contrario, la maggioranza nera oppressa era sospettosa verso ogni compromesso che, in un modo o nell’altro, li avrebbe lasciati in una situazione di svantaggio o discriminazione. Era urgente trovare una risposta alle paure dei bianchi. Alla fine i negoziatori trovarono modi ingegnosi per aggirare l’ostacolo, facendo concessioni provvisorie chiamate sunset clauses (clausole del tramonto). Una di queste, per esempio, fu il prolungare la durata delle amministrazioni municipali.
Fu quindi possibile accordarsi su una costituzione provvisoria, che consentisse di giungere a elezioni democratiche, per poi scrivere una costituzione definitiva, in cui tutti avrebbero avuto il diritto di esprimersi. Oggi abbiamo una delle costituzioni più progressiste del mondo e un’efficace corte costituzionale. Risultato di tale processo è la crescita di una cultura dei diritti umani e una società fondata sulla legalità.
Il processo di riconciliazione in Sudafrica si fonda nettamente sulla fede da tutti condivisa nel valore del dialogo. Per questo, oggi, sudafricani bianchi e neri viaggiano nel mondo per portare il loro aiuto nelle situazioni di conflitto, «predicando» i valori delle soluzioni negoziate.
Una caratteristica dell’esperienza sudafricana merita di essere ricordata: i negoziati non sono stati mai mediati o facilitati da forze estee, neppure quando essi minacciavano di interrompersi o quando, in un paio di casi, erano arrivati a un punto di rottura. Il fatto che gli stessi negoziatori furono capaci di raccogliere i pezzi in continuazione e riportare il processo in carreggiata, deve essere attribuito alla eccezionale saggezza e magnanimità dei nostri leaders.

Commissione verità e riconciliazione

La risoluzione negoziata doveva includere qualche forma di amnistia per le decine di migliaia di persone colpevoli di violazioni dei diritti umani durante il regime di apartheid. Senza di essa, non era possibile alcun accordo. L’ultima clausola della Costituzione provvisoria obbligava il futuro governo a stabilire i meccanismi per regolare tale amnistia.
Nel 1995, l’anno dopo le prime elezioni democratiche, fu istituita la Commissione verità e riconciliazione (Trc), composta da 17 membri e presieduta dal vescovo Desmond Tutu, con il mandato di investigare le gravi violazioni dei diritti umani, facilitare la concessione di amnistia a coloro che avrebbero confessato tutto ciò che avevano commesso, provando che lo avevano fatto per motivi politici. Inoltre, la commissione doveva suggerire le modalità per restituire alle vittime la propria dignità e suggerire qualche forma di risarcimento.
Negli anni seguenti, furono raccolte più di 20 mila dichiarazioni da parte delle vittime, di cui 2 mila in udienze pubbliche, trasmesse integralmente dalla radio e in parte dalla televisione. Ci furono 8 mila domande di amnistia, anch’esse rese attraverso udienze pubbliche.
Per più di due anni i sudafricani dovettero ascoltare rivelazioni quasi giornaliere sui traumi del loro passato. Il faccia a faccia tra carnefici (alcuni pentiti, altri no) e vittime (alcune disposte a perdonare, altre no), fu un’esperienza ricca di emozione.
Essendo un tribunale para-legale, non poteva pretendere il pentimento dei responsabili, né il perdono delle vittime, tanto meno arrivare a fornire le prove sulla sincerità di entrambi. Questo tipo di riconciliazione appartiene infatti all’ambito religioso (come il sacramento della confessione) o alla sfera delle relazioni interpersonali.
Ci furono alcune dimostrazioni molto drammatiche di rimorso e grandi gesti di perdono sia durante le udienze della Trc che negli anni successivi. Bisogna però sottolineare che, per i più, non fu per niente facile constatare l’impunità di alcuni dei peggiori responsabili di crimini contro l’umanità. Alcuni capi dell’apartheid non si presentarono neppure davanti alla Trc. Era il duro prezzo da pagare per raggiungere la pace. Molto probabilmente si sarebbe potuto fare di più per le vittime; ma non c’è alcun dubbio che la Trc è stata un potentissimo strumento di riconciliazione in Sudafrica e senza tale esperienza non si potrebbe parlare di pacificazione del paese.

La sfida continua

Per svariate e serie ragioni, il processo di riconciliazione in Sudafrica rimane incompleto. Il razzismo, per esempio, rimane diffuso. È una forma mentale che, si sapeva, non poteva scomparire da un giorno all’altro. Si dice che è stato solo messo sotto il tappeto. Affiora di tanto in tanto e, leggendo tra le righe, se ne può riconoscere la presenza.
I bianchi, oggi, sono pronti a negare di essere «razzisti», lo sentono come grave insulto. Ma poi, capita spesso di sentire declamare frasi del genere: «Io non voglio essere razzista, però…».
Abbondano le incomprensioni fra bianchi e neri. Alcune sono di matrice culturale, altre nascono dall’incapacità di riconoscere quanto la comunità nera ha dovuto soffrire durante il regime. Nel loro insieme, i bianchi mancano di riconoscenza per il miracolo di riconciliazione avvenuto in Sudafrica.
Bisogna dire che non tutte le differenze e divisioni sono di carattere razziale e che tutti stiamo imparando, in modo sorprendente, a vivere insieme come nazione. I dirigenti attuali fanno tutto il possibile per celebrare e promuovere la riconciliazione. Il 16 di dicembre, festa nazionale che una volta celebrava una vittoria militare, ora è il nostro «giorno della riconciliazione». Lo sforzo per la riconciliazione continua, perché, come ricorda spesso il presidente Thabo Mbeki, siamo ancora una nazione divisa.
L’altro grande male è la povertà. Molto è stato fatto: costruzione di milioni di case, estensione del servizio idrico ed elettrico, miglioramento di strade e scuole, economia in espansione… eppure molte persone sono ancora disoccupate e vivono in miseria. La giustizia economica sarà la grande sfida del futuro.
Problema speciale è la criminalità, cresciuta enormemente con la fine dell’apartheid. Non sappiamo perché. Vi sono senza dubbio molti fattori concomitanti che spiegano l’aumento di rapine a mano armata, furti di auto, assalti ad abitazioni e banche, spaccio di stupefacenti, frode, corruzione, violenze sessuali e sui minori. Sarebbe troppo lungo analizzae le cause. Diciamo, tuttavia, che il Sudafrica non è il tipo di paese che permette a questi fatti di passare inavvertiti e senza la volontà di cambiarli, ma cerchiamo di aiutarci a vicenda per non diventare apatici e compiacenti.
In cima alla lista di tutti i problemi troneggia quello dell’Hiv/Aids. Il Sudafrica è uno dei paesi più colpiti al mondo da tale pandemia.
Nel prossimo futuro, la nostra democrazia, economia e lo stesso processo di riconciliazione saranno messi in crisi dalla morte di milioni di giovani, molti dei quali istruiti ed economicamente produttivi, da milioni di orfani e da una popolazione sempre più traumatizzata da questa nuova tragedia.
Il dramma dell’Hiv/Aids aggrava la situazione psicologica della popolazione sudafricana, già profondamente traumatizzata dal terrorismo del passato e dalla criminalità del presente. Altri soffrono il complesso di colpa o d’inferiorità. Individualismo e avidità si insinuano dappertutto. Molti guardano al futuro con cinismo e disincanto. Abbiamo poca pace interiore e poca libertà personale. Anche questo è un grosso problema.
D’altro canto siamo un paese dinamico, pieno di energia e attivismo. Discutiamo, dibattiamo, litighiamo e ci accusiamo a vicenda. Ma di fronte ai problemi del razzismo, povertà, delinquenza, corruzione, violenze e Aids, organizziamo proteste, mobilitazioni, dimostrazioni e campagne. Nel linguaggio politico del Sudafrica rispondiamo con il toyi-toyi (danza dei militanti contro l’apartheid, ndr).
Questo è un segno di speranza per il futuro, perché, tra l’altro, queste forme di protesta riuniscono persone di differenti razze e fedi e culture. Dal punto di vista della speranza cristiana, poi, nonostante abbiamo fatto tanta strada, dobbiamo andare ancora molto più lontano.
Lo Spirito di Dio è sempre stato attivo in mezzo a noi; ma dobbiamo riscontrare che pace e riconciliazione sono ancora limitate, poiché molti di noi, presi individualmente, non sono in pace con se stessi, non sono ancora in pace con la terra né con Dio. Senza un maggiore grado di pace interiore, gli esseri umani, in Sudafrica come altrove, troveranno sempre difficile vivere tra loro in pace e armonia.

Albert Nolan




DOSSIER ZAMBIAAids: generazione devastata

Nel 1999 il 20% della popolazione era infetta; solo l’1% può accedere alla cura antiretrovirale; 1 milione i bambini orfani a causa della malattia. La generazione tra i 25-40 anni è decimata.

Malata di tubercolosi, magrissima, Rose, 42 anni, non mangia perché non riesce a deglutire, spesso vomita. La figlia abita vicino, ma non va mai a trovarla. Si vergogna. Della tubercolosi? No! La tbc è probabilmente solo una complicazione dell’abbassamento delle difese immunitarie dovuto all’Hiv. In altre parole, dell’Aids, la nuova «peste» che sta devastando l’Africa meridionale, portandosi via piano piano tutte le risorse migliori.
Gli stati dell’Africa australe contano le più alte percentuali di infezioni da Hiv/Aids al mondo. Lo Zambia è uno dei paesi più colpiti. Il 42% delle donne in età fertile sono sieropositive, con alto rischio in caso di gravidanza. Il 90% dei bimbi sieropositivi contrae il virus dalla madre.
Fino al 1999 il 20% dell’intera popolazione dello Zambia era sieropositivo; oggi la percentuale è scesa al 16%: l’abbassamento è dovuto all’incremento dei morti, ma anche alla minore incidenza dell’infezione, grazie al molto lavoro di prevenzione fatto in questi anni, sia sul piano dell’informazione che su quello della prevenzione più strettamente medica.
Ma il rischio persiste, anche per tutti coloro che necessitano di sangue, perché i sistemi di trasfusione sono poco sicuri.

EMERGENZA SANITARIA

In Zambia la gente è abituata a convivere con la morte. L’età media della popolazione è 42 anni. Si muore per dissenteria, per un’eia, un’appendicite, di parto, per quelle che in Europa sono semplici indisposizioni e per complicazioni alle quali gli ospedali locali, per carenza di attrezzature o farmaci, non riescono a far fronte. La radiografia è rotta, il paziente muore. Il liquido della flebo entra in circolo troppo velocemente, il paziente muore.
Il 10% dei bambini non arriva a un anno; il 17% muore prima dei cinque, soprattutto per malaria (428 casi su mille) e tubercolosi (180 casi su mille). I bambini che riescono a sopravvivere spesso soffrono di patologie legate alla malnutrizione.
È l’emergenza sanitaria, alla quale lo Zambia deve fare fronte con 756 medici governativi (uno ogni 13.200 abitanti nelle città e uno ogni 40 mila nelle aree rurali; in Italia ce n’è uno ogni 100 abitanti) e 10.500 tra infermieri e paramedici (1 ogni 10 mila abitanti). Una delle tante conseguenze della povertà.
L’altissimo debito estero, oltre 7 miliardi di dollari, continua infatti a sottrarre fondi alle strutture sanitarie e sociali. Il bilancio del Ministero della salute per il 2003 è stato di circa 83 milioni di euro all’anno, 8 euro a persona.
Conseguenze sociali
Stigma e discriminazione non permettono a chi è sieropositivo di condurre una vita «normale». La generazione dei 25-40enni, quindi la fascia attiva e più colpita, è decimata, con conseguenze devastanti sui minori.
Negli ultimi anni il numero degli orfani in Zambia è aumentato a dismisura: oggi i minorenni che hanno perso uno o entrambi i genitori sono oltre un milione: il 10% del totale della popolazione. Di questi, circa 630 mila sono rimasti orfani a causa dell’Aids, che colpisce in particolar modo le persone fra i 25 e i 40 anni.
Più del 50% dei bambini senza genitori ha meno di 15 anni. Fra i bambini che frequentano la scuola, gli orfani sono il 48%.
Nel paese non esistono strutture destinate a ospitare i bambini che hanno perso i genitori: fino a pochi anni fa, erano i nonni o gli zii a farsi carico di loro, accogliendoli in famiglia. Oggi questo passaggio non è più «automatico»: il numero degli orfani continua a crescere e spesso le reti parentali non riescono a sostenere da sole tutti i bambini che si ritrovano senza genitori. Ci sono nonni che, ritrovandosi con cinque o più nipoti orfani, riescono ad accogliee in casa solo due o tre, lasciando «sulla strada» gli altri.
Le comunità parrocchiali si stanno interrogando sul «problema orfani» che si pone in questo momento con grave urgenza. Una delle risposte possibili è quella di affidare gli orfani a coppie o vedove che già hanno figli propri, ma che scelgono di «allargare» la loro famiglia. In cambio della loro disponibilità queste persone ricevono dalla parrocchia un contributo per poter sostenere i figli adottivi.

INIZIATIVE PROMOSSE

L’attenzione verso il problema dell’Aids è alta; numerose sono le iniziative sia da parte dello stato, per quanto riguarda le campagne di prevenzione, sia da parte della comunità sociale.
Tali programmi di prevenzione promuovono e incoraggiano l’apertura e il riconoscimento pubblico della malattia, ma c’è ancora molta strada da fare in tal senso. Non è raro che all’interno dello stesso nucleo familiare non si sia a conoscenza della malattia di uno dei membri. Soprattutto nelle zone rurali o nei compound, la malattia è tenuta ancora nascosta, sia per evitare di essere vittime di ghettizzazione, sia perché, dichiarando di essere infetti da tubercolosi (prima e quasi certa conseguenza dell’infezione) e non da Hiv, si è certi di accedere al programma nazionale almeno per la cura della Tbc.
Alle carenze dello stato tentano di supplire le organizzazioni di volontariato e i missionari. Si occupano degli orfani, organizzano scuole comunitarie per garantire l’istruzione di base, aprono ospedali, promuovono campagne di informazione contro l’Hiv, sostengono i care giver, i volontari locali che 2-3 volte a settimana percorrono chilometri a piedi per dare assistenza a domicilio ai malati cronici.
Per fortuna la Zambia ha i suoi angeli custodi (vedi riquadro). Ne abbiamo incontrati due: Astrid Paganini e suor Egidia Di Luca, francescana missionaria, infermiera, presente dal 1960.
Suor Egidia è la responsabile dell’unico ospedale ortopedico, situato nella capitale Lusaka. «Abbiamo cominciato nel ‘95 con 6 posti letto: ora sono 40 – spiega -. Dal 1995 a giugno 2004, sono state effettuate 5.500 operazioni. Ai malati diamo cibo e assistenza, a volte anche il trasporto per riportarli a casa. Per i bambini è tutto gratuito. Facciamo anche le protesi».
Astrid, medico, presente dal 2003 con il marito e i quattro figli, lavora volontariamente nell’ospedale distrettuale governativo di Kafue, a un’ora di strada da Lusaka. Le domandiamo come si difende il paese dall’Aids. «Si promuovono molte campagne di sensibilizzazione, anche le strade sono piene di cartelli informativi, ma non è facile, perché prima di tutto si tratta di un problema culturale. La gente sa che può evitare il contagio con il preservativo, ma lo usa troppo poco. Innanzitutto, perché impedisce la procreazione. Poi perché è difficile associare un atto con una malattia, che magari si manifesta molti anni dopo.
Le conseguenze non sono immediatamente evidenti. A volte chi decide per il test è già all’ultimo stadio e non possiamo fare più nulla. Ma anche verso il test c’è una certa disaffezione. Le donne temono le ire dei mariti che, in caso di sieropositività, le accuserebbero sicuramente di infedeltà coniugale. La morte, poi, in ogni caso, arriva in giovane età. La si accetta con serena rassegnazione. Per la gente sapere che è sopraggiunta a causa dell’Aids o di qualcos’altro è uguale. Anzi, a volte preferisce che l’Aids non venga diagnosticato, perché servirebbe solo a provocare depressione, viste le difficoltà di cura.
Nel paese solo 15 mila pazienti, l’1% di tutti i malati, sono curati con farmaci antiretrovirali, in grado di rallentare la progressione della malattia. Ogni ospedale aderisce a un programma per ridurre la trasmissione del virus da madre a figlio; questo tipo di cura nel 50% dei casi ha successo, ma è molto costosa. Un mese di cura per una persona costa 8 dollari, sempre troppo per una popolazione il cui 75% vive con meno di un euro al giorno.
I tre pilastri su cui si basano le campagne di prevenzione sono: ABC, ovvero A come astinenza; B come be faithful (fedeltà coniugale); in ultima istanza, C come condom. Bisognerebbe cominciare nelle scuole a insegnare la prevenzione; e bisognerebbe utilizzare maggiormente il counseling, servizio di consulenza per le coppie, visto che l’Hiv ha molte implicazioni, non solo legate alla salute, ma anche all’impatto sociale».
Il governo ha diviso lo Zambia in distretti sanitari, a ognuno dei quali destina mensilmente dei soldi. C’è un ufficio distrettuale dove sono situate la direzione generale e la logistica. In ogni distretto ci sono alcuni health centers, che funzionano come i medici di base. Rappresentano il primo gradino del sistema sanitario al quale ci si deve sottoporre obbligatoriamente. Solo se non si è riusciti a risolvere il problema lì, si ricorre all’ospedale.
Una «piaga» dello Zambia è la cosiddetta «fuga dei cervelli». Medici e infermieri sono attratti dagli stipendi più elevati offerti dai paesi circostanti e anche dall’Europa. Chi rimane, o è professionalmente meno bravo, o comunque è meno motivato.
L’ospedale dove opera Astrid è l’unico in un distretto di 240 mila abitanti. Vi lavorano 110 persone tra personale sanitario e non. La struttura è sorta nel settembre 2003 per volere di don Antonio Novazzi e della comunità. Accoglie, in quattro reparti distinti, uomini, donne, bambini e puerpere. Nonostante questo, il 50% delle donne ancora partorisce in casa con l’aiuto di altre donne. Ci sono: laboratorio, radiologia, sala operatoria, cappella per i funerali, perché sarebbe molto più oneroso per i familiari trasportare i morti altrove.
Facendo di necessità virtù, don Antonio ha avviato una falegnameria, dove vengono costruite bare e vendute a costo simbolico, così che tutti possano avere una sepoltura dignitosa. Lavorare in questa terra significa anche questo.

BOX 1

WILLY AMISI

Il giorno della laurea erano in 84, ora in Zambia sono rimasti solo in 12. Gli altri colleghi hanno lasciato il paese, preferendo Europa e Stati Uniti.
Epidemiologo, 33 anni, madre congolese e padre zambiano, sorriso aperto, il dott. Amisi ha fatto gli studi superiori in Belgio, dove ha trascorso l’adolescenza al seguito del padre diplomatico. Ha una laurea in medicina, conseguita all’Università dello Zambia in 6 anni anziché nei 7 di corso, una specializzazione in epidemiologia, ottenuta in Giappone grazie a una borsa di studio.
«Dopo aver visto tanti paesi e conosciuto diverse realtà, ho deciso di tornare a esercitare la professione di medico in Zambia». Se gli si chiede il perché, il suo sorriso diventa più luminoso: «Devo essere onesto: questa è la mia patria e questo è il mio paese, mi sembra giusto stare qui. Ma soprattutto qui ho possibilità che altrove i miei colleghi non hanno».
Il suo stipendio è molto più basso di quello di un medico che eserciti in un ospedale europeo, ma qui egli ha la possibilità di fare ricerca. Inoltre è membro della Southen Africa Hiv Clinic and Society, associazione professionale che decide sui protocolli di trattamento dei malati di Aids, terapie e distribuzione delle medicine nella zona dell’Africa meridionale, membro di vari comitati e associazioni sanitarie nazionali.
«Lo so – dice sempre senza malizia -, forse un discorso del genere mi fa sembrare un imperatore. Una volta laureato ho fatto un anno di inteato presso l’ospedale universitario di Lusaka. Avevo scelto: avrei esercitato in una realtà statale o comunitaria. Volevo avere contatto con la gente che quotidianamente si rivolge a un ospedale. La situazione sanitaria dello Zambia è grave, moltissimi sono i malati di Aids e coloro che arrivano in ospedale quando è troppo tardi o che non arrivano affatto. Il mio lavoro vuole soprattutto basarsi sulla prevenzione. È mia ambizione portare la salute prima che la gente si ammali. In Africa non basta curare; bisoga fare in modo che sempre meno persone si ammalino».
Poi il volto di Willy Amisi si oscura un poco: «Ho scelto il mio paese perché credo fermamente che altrove non potrei stare bene come qui, perché credo che il mio destino mi voglia qui; ma vedo in Zambia tanti problemi che stentano a trovare una soluzione. Mancano farmaci, strutture, infermiere, ma si assiste a grandi sprechi. C’è chi ha grandi automobili e chi non può pagare le medicine, chi muore perché non c’è il farmaco che lo curi. Amo la politica privata e far sapere la mia opinione, ma non amo i partiti e la politica politicante, non è quella che farà il futuro dello Zambia».

Benedetta Musumeci

BOX 2

Angeli custodi
Astrid Medema è nata in Olanda 38 anni fa. Sposata con il milanese Franco Paganini, madre di 4 figli, medico dal 1992, con un corso di formazione per lavorare negli ospedali rurali del Sud del mondo, è in Zambia dal settembre 2003, dopo una precedente esperienza nel 1995. Conta di fermarsi nel paese per 2-3 anni.
Un bell’impegno per una madre di quattro figli.
«Ancora prima di scegliere di fare medicina, sapevo di voler andare nel Sud del mondo. L’ho messo subito in chiaro quando ho incontrato mio marito. E lui mi ha capito. Ai figli qualche volta mancano l’Italia, i nonni, la televisione… ma si sono integrati bene. Vanno a scuola con i ragazzi del posto, hanno i loro amici».
Cosa significa essere medico in un paese del Sud del mondo?
«Mi piace molto il mio lavoro e sono convinta di essere molto più utile qui che in Europa. È dura, perché il carico di lavoro è enorme. Siamo solo due medici nell’ospedale e facciamo un po’ di tutto, dalla logistica alla contabilità. Poi c’è l’aspetto psicologico. Ci sono situazioni per le quali non ti senti all’altezza. Vedi persone che muoiono quando sai che in altri paesi si potrebbe salvarle. Allora ti senti addosso una grande responsabilità. A volte ti scoraggi, perché mancano i mezzi; tante volte mi è capitato di piangere perché non ce l’ho fatta. A forza di rapportarsi alla morte, si diventa più duri, più cinici. Altrimenti non si potrebbe continuare a lavorare. Ma se uno sceglie medicina, dovrebbe venire qui a svolgere il suo lavoro. Qui se non ci sei tu, non c’è nessun altro».

Suor Egidia Di Luca è in Zambia da 44 anni. È arrivata nel febbraio 1960 quando aveva appena 19 anni. È originaria di San Cipriano d’Aversa (CE) e dal 1958 appartiene alla congregazione delle suore francescane missionarie di Assisi. Partita da Venezia in nave con due consorelle, è giunta a Beira in Mozambico dopo 19 giorni di navigazione. Un viaggio lungo e disagevole e pochissime informazioni sulla destinazione.
L’impatto con l’Africa è stato duro?
«Non conoscevamo la lingua; eravamo in una casetta nella foresta, senza luce, con pochi farmaci e tantissima gente che veniva a farsi curare. Di giorno eravamo infermiere e di notte sarte, per vestire i bambini, quasi tutti nudi. Ci sono stati anche momenti brutti. In un periodo venivamo continuamente attaccate: rubavano, ci tagliavano i fili del telefono… Quella volta ho rischiato l’esaurimento e sono tornata in Italia per un po’. In Italia ho avuto un incidente gravissimo: quattro mesi di ospedale e un anno per riprendermi. Mi sconsigliavano di tornare in Africa, ma questa è la mia casa».
Grazie al diploma di infermiera, dal 1995 suor Egidia gestisce l’unico ospedale ortopedico dello Zambia, che si trova nella capitale. «Quando mi sono ripresa dall’incidente, sono ripartita. Arrivata qui, ha cominciato a farsi strada l’idea dell’ospedale. Abbiamo acquistato un edificio dell’ex presidente Kaunda e poi, un po’ alla volta, l’abbiamo fatto ristrutturare. Le prime operazioni i medici le facevano in ginocchio, per terra. Poi le cose sono migliorate. Abbiamo avuto molti contributi dall’estero».
Una vita lontana dal paese di origine e dai propri cari, mai pentita?
«Ora che sono anziana (64 anni, ndr) sento di più la fatica, ma non mi sono mai pentita della scelta. Quando ho deciso di partire avevo 19 anni e i miei genitori non erano d’accordo. Il distacco è stato difficile; ero molto legata a mamma e papà. Quando la nave si è staccata dal porto sembrava che mi si spezzasse il cuore. Mio padre mi guardava impietrito. Poi, nel tempo, è passata. Ho trascorso quasi tutta la vita in Zambia, con tanta soddisfazione, anche perché la gente mi ha sempre voluto bene. Questo ospedale è tutta la mia vita».
Ro.Go.

Romina Gobbo




BRASILE Undicesimo capitolo generale Missionari Consolata

Sandali al vento

Con l’11° Capitolo generale i missionari della Consolata hanno esaminato il lavoro degli ultimi tempi e progettato il cammino dei prossimi sei anni, per rispondere alle sfide del mondo attuale e alle attese dei popoli in cui svolgono la loro opera di evangelizzazione.

Zaccaria, dallo sguardo sorridente. C’è pure lui, alto ed esile come un grissino. Partecipa, insieme ad altre 48 persone provenienti da Africa, America, Asia ed Europa, all’11° Capitolo generale di São Paulo (Brasile). È la massima assemblea dell’Istituto Missioni Consolata.
Ogni sei anni i missionari della Consolata, presenti i loro delegati da tutti i paesi dove operano (oggigiorno 22), sostano un mese abbondante a valutare il trascorso sessennio e a programmare quello futuro. Inoltre il Capitolo elegge la nuova direzione generale dell’Istituto, composta da un superiore e quattro consiglieri.
In pullman… Zaccaria appare alquanto spaesato, mentre dal finestrino rincorre la sterminata metropoli paulista, immersa in una fungaia di grattacieli. Approdato tutto solo dalla Costa d’Avorio, si sente troppo smilzo in una nazione dove tutto è «maior do mundo».
Tuttavia, oggi, 11 aprile, apertura ufficiale del Capitolo generale, Zaccaria si rasserena un poco. Con i 48 colleghi (comprese le missionarie della Consolata, anch’esse riunite in Capitolo), dopo il viaggio in autobus, si trova a pregare nel santuario mariano di Nossa Senhora Aparecida. Ma questa «signora» è una «madonnina»: non bella, troppo nana, a pezzi. Si racconta che, nel 1717, sia «apparsa» ad alcuni pescatori addirittura senza testa!
Ma sorride. Forse è l’unica Madonna al mondo che sorrida sempre con smagliante spontaneità. Zaccaria se la gode, perché ride come lui ed è nera quanto lui.
Zaccaria King’aru è un missionario della Consolata kenyano. Appartiene al popolo dei kikuyu, nato a Tuthu nel 1953, esattamente nel villaggio dove il 29 giugno 1902 i missionari della Consolata celebrarono la prima messa in Kenya in onore della loro omonima patrona.
Attualmente padre Zaccaria è il superiore, in Costa d’Avorio, dei 13 missionari della Consolata italiani, congolesi, spagnoli, kenyani e colombiani. Al Capitolo di São Paulo è il loro portabandiera.

Dopo 37 giorni di sessioni, incontri, dibattiti e gruppi di studio, l’11° Capitolo generale chiude i battenti tra il sollievo comune.
Il 16 maggio padre Zaccaria fa le valigie, per ritornare in Costa d’Avorio. Non è un problema raccogliere poche camicie e canottiere. Più difficile, invece, è districarsi fra la congerie di relazioni, schede, comunicati e mozioni che il Capitolo ha prodotto. «Troppa carta!» mormora tra sé il missionario maneggiando una pila di fotocopie.
Ma, dovendo informare i confratelli sui lavori e le scelte del Capitolo, padre Zaccaria passa in rassegna con cura l’intera documentazione acquisita e si sofferma pure a rileggerla. Anche perché è interessante.
Recita, per esempio, la relazione dell’Italia: «Bisogna essere testimoni della missione ad gentes, che supera la questione degli aiuti economici. Nostro compito specifico è invitare la chiesa locale e la società civile a respirare un’aria di mondialità e a destare in tutti una sana inquietudine per il regno di Dio. Se la chiesa è rannicchiata sui propri problemi e paralizzata da schemi del passato, dobbiamo offrire le vivaci esperienze delle giovani chiese, e non solo raccontare avvenimenti patetici, tali da suscitare facili emozioni per elemosinare denari. L’animazione missionaria è ben altro!».
A proposito di soldi (ma non solo), ecco quanto si scrive dal Tanzania: «Ringraziamo la Provvidenza, che ci giunge attraverso vari canali: parenti, amici, benefattori e associazioni varie. È spesso un coro di generosa solidarietà, a volte del tutto inattesa. Forse la missione non può che avere che questo unico cespite sicuro: la Provvidenza. Riconoscenza, sobrietà, responsabilità e fedeltà amministrativa devono essere le caratteristiche con cui noi, missionari, riceviamo e doniamo. Ma anche disceere, valutare bene ed essere pronti, eventualmente, a ridimensionare il nostro stile di realizzare la missione…».
Quanto al Kenya (paese cui Zaccaria è, ovviamente, molto attento), le diocesi di Maralal e Marsabit sono ancora un campo d’avanguardia, con aree di primissima evangelizzazione. Il problema di tanti idiomi e il disagio di vivere in zone impervie non facilitano il lavoro missionario. Ciononostante, si auspica un rinnovamento della pastorale, che coinvolga maggiormente la popolazione locale.

Varie volte, durante il Capitolo, è risuonato il termine «pandemia», assai più eloquente del pur grave «epidemia». Oggi la pandemia per antonomasia si chiama Aids e furoreggia in Africa. «Aids che per molti è una parola-tabù, da non pronunciarsi mai» ha denunciato in assemblea padre Zaccaria. «Aids che ha ucciso 500 persone nel mio villaggio natale e sei fratelli nella mia stessa famiglia» ha precisato un altro capitolare africano, raggelando l’uditorio.
Nell’Africa subsahariana dove operano i missionari della Consolata, dall’Etiopia all’Uganda, dal Congo al Mozambico, l’Aids produce il deserto: scompare la generazione degli adulti (la più valida economicamente e culturalmente), lasciando alle spalle solo vecchi e bambini orfani, sovente sieropositivi.
Dal Sudafrica si è udita, forse, la voce più sconsolata. In media, ogni giorno, un migliaio di persone contrae il virus Hiv-Aids. Nel 2004 oltre 400 mila individui sono deceduti. Però (ed è un’assurdità!), nonostante la forte pressione internazionale per usufruire di farmaci a basso costo, «il governo sudafricano, ottenutili, non ha approvato alcuna terapia, quale ad esempio gli antiretrovirali durante il parto». Perché?…
La relazione dal Sudafrica (a suo tempo caratterizzato dall’odiosa discriminazione razziale, imposta ai neri dai bianchi) ha impressionato anche per il clima di insicurezza e paura che regna in varie parti del paese: a tal punto che alcune abitazioni sono munite di «recinti ad alta tensione elettrica» per respingere i malintenzionati.
Intanto l’anziano e saggio Nelson Mandela raccomanda a tutti «un piano di ricostruzione e sviluppo che nasca dall’anima».

Data la diversità culturale, padre Zaccaria ha ascoltato con interesse soprattutto gli interventi riguardanti le nazioni dell’America. Nazioni socialmente travagliate. Fa testo l’Argentina (un tempo granaio del mondo), dove ieri si moriva anche di fame, mentre oggi si sopravvive alla «buena de Dios». Oppure il Venezuela, che vede crescere spudoratamente il divario fra ricchi e poveri.
Per i missionari della Consolata la scelta dei bisognosi è sempre stata una priorità. E bisognosi sono, specialmente, i popoli indigeni. In Argentina e Venezuela la loro scoperta (o riscoperta) qualifica la missione.
Gli aborigeni latinoamericani sono stati il cavallo di battaglia in tante campagne di sensibilizzazione. L’ultima in ordine di tempo è stata «Nos existimos»: ha riguardato i contadini poveri, gli emarginati urbani e gli indios di Roraima (Brasile). Ebbene, con quale gioia, il 16 aprile, i capitolari hanno salutato l’omologazione dell’area indigena Raposa/Serra do Sol di Roraima! Esultanti specialmente i padri Antonio Feandes e Laurindo Lazzaretti, nonché fratel Carlo Zacquini, operanti in loco…
E la Colombia? Da decenni, con i suoi 25 mila morti ammazzati all’anno, è dilaniata da un tasso di violenza superiore persino a quello dell’Iraq. Eppure non mancano spiragli di luce, come la Scuola di riconciliazione e perdono «Espere». È un antidoto efficace al clima di odio instauratosi nella nazione per motivi politici. «Gli effetti positivi di questa scuola – ha affermato padre Piero Trabucco, ex superiore generale – potrebbero suggerire al nostro Istituto di favorire l’iniziativa ovunque svolgiamo un’azione missionaria».
Dunque, riconciliazione e perdono, però non disgiunti da verità e giustizia.
Poiché i missionari della Consolata sono intercontinentali, padre Zaccaria ha accolto con stupore l’analisi sul Nordamerica (Stati Uniti e Canada). Qui la multiculturalità è, nello stesso tempo, dono e fardello. In ogni caso assurge a sfida che i missionari, sia di cultura inglese che francese, vogliono affrontare con coraggio.
E coraggioso è stato padre Leonard De Pasquale, superiore del Nordamerica, nell’affermare che «gli Stati Uniti esportano la loro ideologia di democrazia in un modo non accettabile da tutti i cittadini. Di conseguenza molti si sono opposti all’aggressione degli Usa all’Iraq, come pure alla politica di controllo e dominio del mondo».

Valigia in mano e borsa a tracolla, padre Zaccaria King’aru lascia Rua Itá 381 – São Paulo, sede dell’11° Capitolo generale. Poiché assai difficilmente vi rimetterà piede, il missionario, prima di andarsene definitivamente, si volta a guardare per l’ultima volta… e incontra sulla facciata dell’edificio l’altorilievo della Consolata: bislungo, sproporzionato, impassibile. Non sorride questa Madonna; anzi, non ha neppure volto. Ma è volutamente incompiuta.
E forse, proprio per questo, è eloquentissima. Senza manto, indosserà e il sari indiano e il pareo tanzaniano e il ruana colombiano. Senza sguardo, avrà gli occhi verdi della mamma canadese, quelli a mandorla della coreana o le pupille estasiate dell’etiope.
Consolata e consolatrice, sorella e madre di tutte le genti.

Box 1

«Il nostro stile
di vita e missione»

È il titolo del documento ufficiale prodotto dall’11° Capitolo generale. Consta di due parti. La prima offre una sintesi articolata sul come i missionari della Consolata:
– sono discepoli di Cristo,
– vivono l’appartenenza al proprio istituto,
– manifestano la comunione,
– prestano servizio missionario,
– dispensano i misteri di salvezza,
– amministrano i beni materiali,
– sono organizzati.

L a 2a parte (assai diversa dalla prima) comprende alcune «schede» con proposte operative attinenti a:
– santitá di vita come orizzonte della missione,
– comunitá multiculturale e interculturale,
– comunione e collaborazione con altre forze,
– attenzione all’ad gentes degli areopaghi,
– giustizia, pace e integritá del creato,
– dialogo interreligioso,
– formazione di base e permanente,
– fratelli missionari consacrati,
– animazione missionaria e vocazionale,
– mezzi di comunicazione sociale
– sfida dell’Aids.

N el sessennio 2005-2011 la direzione generale dei missionari della Consolata sarà composta dai padri:
– Aquiléo Fiorentini, superiore generale
– Stefano Camerlengo, vicesuperiore e primo consigliere
– Francisco de Asís Jesús López Vásquez, secondo consigliere
– António Manuel de Jesus Feandes, terzo consigliere
– Matthew Ouma, quarto consigliere

C omplessivamente i missionari della Consolata sono un migliaio. Provengono da Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Congo, Corea del Sud, El Salvador, Eritrea, Etiopia, Inghilterra, Italia, Kenya, Mozambico, Polonia, Portogallo, Spagna, Tanzania, Usa, Uganda, Uruguay, Venezuela. Operano, in comunità inteazionali, in questi stessi stati (esclusi Cile, El Salvador, Eritrea, Polonia, Uruguay). Ma sono presenti anche a Gibuti.

Francesco Beardi




LETTERE – “Avrei tante cose da dire…”

Gentile Angela Lano,
premetto che sono un volontario, praticante e anche ausiliario della Sindone (questo per ovvi motivi, dato che non sono d’accordo col suo articolo di marzo 2005 pag. 28).
Non regge il paragone con la nostra emigrazione verso gli Usa e altri paesi: si trattava di un popolo di religione cristiana, come la maggior parte della gente del paese nuovo; per cui non portava gravi turbamenti al riguardo, non avrebbe picchettato di luoghi di culto completamente diverso; anzi ha collaborato alla costruzione di chiese nuove ecc. Inoltre non esisteva un blocco della nostra religione, come in Arabia, Sudan, Congo, Iran…
Non c’era un abisso totale insuperabile (lo si vede tutti i giorni) di usi e costumi e a cui è sciocco e, anzi, «colpevole» passare sopra, nell’entusiasmo dell’accoglienza: l’ultima disgrazia del crollo della casa occupata da extracomunitari (madre e bimba rumene, morte a Torino il 6-3-2005, ndr) non è forse responsabilità di chi dice, in fondo, «venite, venite»?
Se va avanti così, la cattolicità potrà crollare, infiltrata e circondata da ogni parte dall’islam, che si vede sempre più in tv, su libri, su giornali, su tutto, per un buonismo errato (ci manca solo la Turchia…).
Tante cose avrei da dire ancora, ma forse «non potrai portae il peso».
Guarda che la maggior parte degli italiani la pensa così, e anche C. Biffi ecc.

A lei e alla «maggior parte degli italiani che la pensa così» avremmo anche noi tante cose da dire. Come «ausiliario della Sindone», vorremmo solo invitarla a leggee bene il significato: l’immagine che vi è impressa dovrebbe ricordarle il Cristo «in agonia fino alla fine del mondo» per dirla con Pascal, cioè, che continua a patire e morire in coloro che fuggono dalla miseria, fame, ingiustizie e oppressioni di ogni genere. E quando ci sarà il giudizio dei popoli (Matteo 25), non le sarà chiesto come ha adorato il Cristo nell’«uomo della Sindone», ma se lo ha riconosciuto e servito nell’affamato, assetato, ignudo, malato, profugo, senza tetto… sia cristiano che islamico.

lettera firmata




Le operazione di mantenimento della pace

Il «Dipartimento delle operazioni di mantenimento della pace» (Dpko) delle Nazioni Unite è stato istituito nel 1992 ed ha come mandato principale il mantenimento della pace e della sicurezza, nonché la prevenzione di conflitti a livello internazionale.
Il Dpko è presente con le sue «missioni di pace» in tutti i continenti, ma prevalentemente in Africa dove nell’ultimo decennio è stata registrata una terribile escalation di guerre e conflitti interni. Nonostante il Dpko sia amministrativamente uno dei dipartimenti del segretariato delle Nazioni Unite ed abbia sede nel «palazzo di vetro» di New York, mantiene una certa indipendenza ed ha al suo servizio circa 11.000 funzionari. Nessuna agenzia od altro dipartimento dell’Onu impiega ed ha mai impiegato un così grande numero di personale, specializzato nei più svariati settori (finanza, ingegneria, logistica, trasporto aereo, personale, etc.). Se poi includiamo anche i contingenti militari (i cosiddetti «caschi blu») – che sono in prestito dai vari stati membri – sorpassiamo abbondantemente le 75.000 persone. Il budget operativo è peraltro sostanzioso e sfiora i 4 miliardi di dollari per l’anno corrente. E non vorrei dimenticare di ricordare che Kofi Annan, prima di assumere la carica di segretario generale dell’Onu, fu il dirigente apicale di questo dipartimento.
Le origini e gli obiettivi del Dpko sono certamente nobili. Quasi duemila sono i funzionari caduti in servizio dal 1948 dalla prima operazione di pace. Chi non ricorda, ad esempio, il brasiliano Sergio Viero de Mello ucciso, insieme ad altri colleghi, a Baghdad nell’agosto 2003? Molti però sono anche gli scandali attribuiti ai caschi blu operanti sotto la bandiera dell’Onu. Alcuni di questi scandali sono certamente stati ingigantiti e strumentalizzati dalla stampa americana per diffamare le Nazioni Unite.
Negli ultimi 5 anni il Dpko è cresciuto quasi esponenzialmente sia in termini di personale che di budget, proprio per poter far fronte alle continue emergenze. Delle 21 operazioni di pace presenti nei 5 continenti, vorrei ricordare quelle in Etiopia-Eritrea (Unmee), in Congo (Monuc), in Costa d’Avorio (Onuci), in Sudan (Unmisud), in Liberia (Unmil) ed in Haiti (Minustah).

Non facciamoci però ingannare da questo improvviso ed apparente «buonismo». Infatti, come ricorda il proverbio, non tutto quello che luccica è oro. Sulla base della politica della «guerra preventiva» promossa dagli Stati Uniti e dai suoi alleati, e di cui l’invasione dell’Iraq è stato un esempio spettacolare, non ci sono solo motivi umanitari o di prevenzione di conflitti ad avere facilitato la costituzione, in tempi relativamente rapidi, di queste nuove operazioni di pace.
Facendo la parte dell’«avvocato del diavolo», vorrei farvi notare che tutte queste operazioni di pace (ad esclusione di Haiti e dell’Eritrea) si trovano in paesi notoriamente ricchi in risorse naturali (essenzialmente petrolio, oro e pietre preziose) che hanno sempre fatto gola ai due membri permanenti più importanti del Consiglio di sicurezza: ovvero Usa e Regno Unito.
Come si spiegano invece gli interventi in Haiti ed in Eritrea-Etiopia? Haiti: molto semplicisticamente si potrebbe dire che gli Usa non vogliono trovarsi nuovamente migliaia di profughi sulle loro coste come accadde ripetutamente negli anni passati. Infatti, addirittura prima che la missione di pace in Haiti (Minustah) fosse approvata dal Consiglio di sicurezza nel giugno 2004, in febbraio gli Usa già avevano inviato i propri marines a prelevare il presidente Aristide ed a mantenere l’ordine pubblico.
L’Eritrea e l’Etiopia invece, dopo l’11 settembre, hanno assunto un ruolo geopolitico rilevante come baluardo contro il dilagante fondamentalismo islamico e contro i confinanti «paesi canaglia» (Sudan, Yemen, Somalia). Inoltre, la politica americana in Etiopia ed in Eritrea è particolarmente ambigua: un giorno si dà un colpo alla botte, il giorno dopo al cerchio. E intanto il processo di pace tra i due paesi africani (i cui due presidenti sono cugini di primo grado) continua a non decollare. Uno stallo virtuale appositamente prolungato.

Le operazioni di mantenimento di pace dell’Onu sono autorizzate dal Consiglio di sicurezza di cui, non dimentichiamolo, fanno parte 5 membri permanenti con potere di veto. Usa e Regno Unito, entrambi membri permanenti del Consiglio di sicurezza, non solo hanno un fortissimo controllo politico sulle sue risoluzioni, ma contribuiscono anche molto efficacemente a «piazzare» i propri uomini all’interno del Dpko.
È una strategia collaudata, ben pianificata e che è finanziata purtroppo coi soldi di tutti i 191 stati membri, inclusi quelli dei contribuenti italiani. L’Italia, pur contribuendo sostanzialmente (dal 5 al 6 contributore annuale in termini assoluti) al budget operativo del Dpko, non ha nessuna voce in termini di decisioni e di presenza di funzionari civili. E gli organigrammi del personale «civile» impiegato nelle varie missioni di pace dimostrano quanto sopra.
La maggior parte del personale in posizioni apicali è «anglosassone», ovvero inglesi, americani e australiani. Se poi si perfeziona ulteriormente l’indagine si scopre che la quasi totalità di questo personale «civile» è formato da ex militari di professione. Ma come entrano tutti questi ex militari nel sistema delle Nazioni Unite? Un’opera di «intelligence» e di «lobbying» efficacemente realizzata da parte di questi governi.
Se ne vedono tanti di «007» nei corridoi del Palazzo di vetro, anche se certamente non altrettanto astuti, simpatici e coraggiosi come i James Bond televisivi al servizio della regina.

Barbara Mina

Barbara Mina




LETTERE – Per la felicità di…

Cari missionari,
siamo tre amici. Siamo solo tredicenni e frequentiamo il terzo anno della scuola media statale «Carducci – Trezza».
Tutti e tre abbiamo obiettivi diversi per il futuro, ma tutti e tre abbiamo a cuore la tragica condizione che vige nella Repubblica Democratica del Congo. Il nostro interesse si è accresciuto quando, in chiesa, abbiamo trovato la rivista Missioni Consolata che, per l’appunto, parlava del Congo.
Sull’ultima pagina vi erano anche delle informazioni sulla scuola di lingua swahili di Torino. L’argomento ci appassiona parecchio; ma, data la nostra età e la lontananza, non possiamo frequentare la scuola. È per questo che vi chiediamo se, gentilmente, potreste inviarci dei fascicoli di lingua swahili per principianti. Saremmo molto felici se accettaste la nostra richiesta, che ci darebbe l’opportunità di realizzare un sogno e di formarci in maniera più aperta alle diversità che segnano questo nostro mondo.
Confidando pienamente nell’obiettivo che ci accomuna e precisando che, se necessario, siamo anche disposti a versare una certa quota per ricevere i fascicoli, porgiamo i nostri più distinti saluti.
«Kwa heri».
Sara, Ida e Fabrizio
Cava de’ Tirreni ( SA)

Con Sara, Ida e Fabrizio la speranza è assai di più di un obbligo… Ragazzi, vi ricordiamo che il kwa heri con il quale ci avete salutati sta per «arrivederci»; ma letteralmente significa: «per la felicità». La vostra felicità.

Sara, Ida e Fabrizio




Futuro… in costruzione

Fratel Domenico ha sfidato i rischi della lunga guerra che ha insanguinato lo Zaire, oggi Repubblica democratica del Congo.
La pace non sembra ancora in vista, ma egli continua, mattone su mattone,
a costruire un futuro di speranza per i congolesi.

Da oltre 20 anni mi trovo nella Repubblica Democratica del Congo, precisamente nella regione nord-orientale dell’Alto Uele. La mia attività si è svolta in tre centri missionari: Neisu, Doruma, Isiro.

PRIMO AMORE
Per 8 anni a Neisu, ebbi la fortuna di lavorare insieme al compianto padre Oscar Goapper, medico missionario della Consolata, portando avanti la costruzione dell’ospedale da lui ideato e gestito. Erano anni felici.
Oltre all’ospedale, con una capacità di 150 posti letto e relativi servizi, ero impegnato nell’edificazione della scuola elementare, della residenza dei missionari e di altre strutture necessarie al funzionamento delle attività religiose e di sviluppo promosse dalla missione.

A PIEDI SCALZI
Nel 1994 ero a Doruma, un grosso villaggio a una decina di chilometri dal confine con il Sudan. Vi rimasi per 5 anni. Oltre all’amministrazione, mi occupavo dell’officina meccanica e della falegnameria. Al tempo stesso mi fu affidata la responsabilità di portare a termine alcune cappelle rimaste da molto tempo incompiute.
Isolata dal resto del paese, Doruma era dimenticata dal governo centrale e le poche strutture pubbliche erano in pessime condizioni. Il superiore della missione decise di affidarmi il compito di provvedere anche alle riparazioni dell’ospedale locale e delle scuole pubbliche.
Intanto era scoppiata la guerra dei Grandi Laghi, che ben presto si estese allo Zaire, provocando la caduta del regime di Mobutu e lo sfascio del suo esercito. Tra la fine del 1996 e l’inizio del ’97, vivemmo momenti drammatici. Inseguiti dagli invasori ugandesi e rwandesi, i soldati di Mobutu si diedero alla fuga, abbandonandosi a razzie e saccheggi dovunque passassero, non esitando a uccidere chiunque opponesse resistenza. Le missioni dell’Alto Uele furono depredate.
Anche a Doruma, fummo costretti ad abbandonare la missione e rifugiarci nella foresta, insieme con le suore congolesi. Per 15 giorni vivemmo sotto un tendone, finché riuscimmo a imbarcarci insieme agli altri missionari della regione su un piccolo aereo, provveduto da varie ambasciate europee, e raggiungemmo Kisangani e poi Kinshasa.
Quando nella regione, ormai sotto il controllo dei soldati ugandesi, sembrò ritornata la calma, affrontammo varie peripezie per raggiungere Isiro; quindi ci preparammo a rientrare nelle rispettive missioni.
Il superiore padre Ariel Hoyos mi accompagnò a Doruma, insieme a padre Honoré Tsiditeta, giovane confratello congolese. Il viaggio fu lungo, ma senza intoppi. Anzi, lungo la strada la gente ci salutava calorosamente, felice per il nostro ritorno. Arrivati nella parrocchia, le suore congolesi e la popolazione si strinsero attorno a noi, mostrandoci tutta la loro gioia e il loro affetto.
Riprendemmo le nostre attività. La gente pensava che la guerra fosse finita. Noi lo speravamo. Ma all’inizio di ottobre del 1998, arrivò a Doruma una colonna di ribelli sudanesi, che circondarono la missione, dicendoci che erano venuti con intenzioni pacifiche. Invece, ci fecero sedere tutti nella veranda, guardati da quattro «angeli custodi», armati di fucile e granate, mentre gli altri svuotarono le camere, uffici e magazzini. Requisirono pure le nostre auto, per portare il bottino oltre il confine.
Il giorno seguente, sfruttando una loro disattenzione, riuscimmo a eludere la loro sorveglianza e, con l’aiuto della popolazione, ci rifugiammo in un lontano villaggio nella foresta. Vi restammo per un mese, alloggiati in una capanna, affrontando i numerosi disagi della situazione, sostenuti dalla generosità dei nostri cristiani.
All’inizio di novembre, dopo aver derubato e saccheggiato tutta la popolazione di Doruma, i ribelli sudanesi si decisero a rientrare nel proprio paese e potemmo tornare alla missione: la trovammo spoglia di tutto. Ma riprendemmo lentamente le nostre attività per quanto fu possibile.
Seguirono tre mesi di grande incertezza. A più riprese, gli allarmi di eventuali scorribande di ribelli ci costrinsero a mettere in un sacco le poche cose personali che ci erano rimaste e fuggire nella foresta.
Uniti ai nostri cristiani celebrammo il natale nella più squisita semplicità e povertà. Approfittando di un momento di calma relativa, un giovane riuscì a portarci i saluti del nostro superiore, percorrendo in bicicletta i 350 km di strada tra Isiro e Doruma.
Nel suo messaggio padre Ariel diceva che sarebbe giunto da noi al più presto e ci avrebbe portato le cose di prima necessità, comprese le lampade a petrolio. Infatti, arrivò ai primi di febbraio del ’99. La sera facemmo un po’ di festa e ci scambiammo le notizie: erano otto mesi che non ci vedevamo.
La notte trascorse nella calma, ma alle prime ore del mattino fummo svegliati da rumori strani, come sbattere di porte. Ci alzammo in fretta per vedere che cosa stesse succedendo; ma nell’aprire la porta ci trovammo le armi puntate dei militari sudanesi. Ci intimarono di lasciare tutto; ci spinsero fuori; ci fecero sedere sui gradini, e cominciarono a rastrellare tutto quello che trovavano, compresi materassi, coperte e biciclette. Al padre Ariel tolsero pure le scarpe e le calze, lasciandolo a piedi nudi.
Tutto ciò durò circa un’ora, quando si udirono degli spari provenienti dal villaggio. Sentendosi circondati dai giovani armati di Doruma, i ribelli sudanesi, una quarantina, cominciarono a sparare e lanciare granate, per coprirsi la ritirata. Ognuno di noi cercò un rifugio per scampare dai tiri incrociati.
La sparatoria durò un’ora buona. Ne aspettammo un’altra, prima di uscire dai nostri nascondigli e radunarci sotto il porticato della nostra casa. Ci ritrovammo con ciò che avevamo addosso. Seduta stante, il superiore, padre Ariel, decise di ritirarci momentaneamente dalla missione, in attesa di tempi migliori.

RICOSTRUIRE LA SPERANZA
Alle 9.30 del 4 febbraio 1999, salimmo sulla Land Rover, che i ribelli non ebbero tempo di rubare, e lasciammo Doruma con tanta tristezza, promettendo ai nostri cristiani in lacrime di tornare presto. Era invece un addio definitivo, poiché il vescovo decise di sostituirci con due preti diocesani locali, affidando ai missionari della Consolata il compito di organizzare una nuova missione a Mbengu, a 30 km dalla sede vescovile di Dungu.
La sera raggiungemmo la missione comboniana di Rungu, dove celebrammo la messa di ringraziamento per lo scampato pericolo. All’indomani riprendemmo il viaggio e giungemmo a Isiro accolti con gioia dai nostri confratelli.
A Isiro, fin dai primi mesi, sono stato coinvolto nell’iniziativa, lanciata dal superiore regionale, per aiutare i giovani e bambini in difficoltà. Per tale scopo, ci fu dato un terreno con una costruzione non terminata, che abbiamo completato e adattato come Centro di alimentazione per bambini debilitati e ammalati, vittime degli effetti della guerra. Il Centro funziona a pieno ritmo. Siamo riusciti a salvare molti bambini, dando anche una formazione igienica e sanitaria alle loro mamme.
Oltre a fornire alimenti, il Centro ha un laboratorio di analisi, in base alle quali possiamo fornire gratuitamente le medicine necessarie per guarire. Abbiamo ottenuto ottimi risultati con centinaia di bambini. Il 90% dei casi hanno riacquistato la completa guarigione. Alcuni di essi, purtroppo, sono così debilitati, che i risultati sono incerti, soprattutto con i sieropositivi. Tuttavia anche per questi facciamo tutto il possibile per salvarli.
Ci occupiamo pure di bambini che non frequentano la scuola, perché sono orfani o di genitori in estrema povertà. Ad essi paghiamo mensilmente la retta scolastica. Una volta la settimana, il Centro accoglie oltre 200 poveri, ai quali viene dato un po’ di riso, sapone, sale e qualche soldo per poter sopravvivere.
Ogni mercoledì visitiamo i carcerati. Sono una sessantina, alloggiati in un capannone in disuso, diviso in due: una parte riservata alle donne, l’altra agli uomini. Dopo una breve preghiera, i miei collaboratori mi aiutano a distribuire cibo e medicine a chi ne ha bisogno.

IL FUTURO E’ GIOVANE
In questi ultimi mesi buona parte del mio tempo è occupato nella costruzione e ristrutturazione della Maison père Oscar, una casa per studenti provenienti dalle nostre missioni, che frequentano le scuole superiori e universitarie di Isiro. È intitolata al nostro indimenticabile missionario medico padre Oscar Goapper.
La Maison sorge accanto alla clinica universitaria, su un terreno donato dal capo tradizionale della missione di Neisu, di recente convertito e battezzato da padre Antonello Rossi. Le sue strutture murarie sono state completate e ospitano già alcuni giovani studenti, anche se la casa non è completamente arredata. Si è provveduto anche a fornire l’ostello di un’ampia biblioteca, che sarà aperta a tutti gli studenti della città, e di un auditorium, intitolato al nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano.
Inoltre, la Maison ospita il dipartimento di Scienze religiose, per la formazione di insegnanti di religione, agenti di pastorale e diaconi permanenti. L’iniziativa vuole essere un contributo per elevare la situazione culturale della gente tra cui siamo chiamati a testimoniare il vangelo.
Speriamo, inoltre, che quest’opera sia un piccolo tassello per costruire la pace, il dono più desiderato dai nostri congolesi.

Domenico Bugatti




ARTICOLO Lebbra & lebbre

Da mezzo secolo, l’ultima domenica di gennaio è dedicata alla lotta contro la lebbra: un’occasione per sensibilizzare la coscienza umana e cristiana su altre lebbre modee: ingiustizia e indifferenza.

Fu celebrata per la prima volta nel 1954, l’ultima domenica di gennaio. Dieci anni dopo, 116 nazioni avevano aderito all’iniziativa; oggi la Giornata mondiale per malati di lebbra (Gml) è celebrata in tutti i paesi del globo.
Ispiratore di tale iniziativa fu il giornalista e scrittore francese Raoul Follereau (1903-1977), il quale ha dedicato tutta la vita a combattere la lebbra, una malattia antichissima e molto temuta, che costringeva chi ne era affetto a una emarginazione tale che causava una morte sociale prima ancora di quella fisica.
Aveva capito che la lebbra era una delle tante conseguenze del sottosviluppo e che le sue radici sono nell’ingiusta distribuzione delle risorse del pianeta e nell’indifferenza di chi è stato privilegiato dalla sorte. Follereau si è, quindi, impegnato contro la lebbra e contro quelle che ha definito «tutte le lebbre: indifferenza, egoismo e altre forme di ingiustizia».
Ancora oggi, la Gml vuole dare voce a coloro che più di ogni altro al mondo soffrono non solo le conseguenze di una terribile malattia, ma quelle più atroci dell’emarginazione, abbandono, riduzione a una condizione subumana.

Lebbra: stigma sociale

È una malattia contagiosa, causata dal mycobacterium leprae, bacillo isolato nel 1873 da Gerhard Armauer Hansen. Da allora la malattia è definita hanseniasi o morbo di Hansen e i malati hanseniani.
Anche se la malattia è perfettamente curabile, ancora oggi le si accompagna spesso un pesante stigma sociale: le persone che ne sono affette, anche se completamente guarite, sono considerate «diverse» e socialmente emarginate.
Tale stigma è dovuto al retaggio della paura secolare per una malattia che a lungo ha evocato terrore a causa dell’incurabilità e delle tremende mutilazioni che provoca, devastanti e inconfondibili.
CIFRE E CURE
Il bacillo distrugge i nervi periferici, provocando insensibilità, che espone la persona a ferite e conseguente distruzione dei tessuti. Se non trattata con una cura precoce e tempestiva, provoca danni progressivi e permanenti a pelle, nervi, arti ed occhi.
Sono circa 514 mila i nuovi casi registrati nel 2003 (vedi riquadro). Tra i nuovi casi molti sono bambini e 250 mila hanno già danni permanenti che li renderanno disabili per tutta la vita.
In realtà nessuno può dire esattamente quanti siano i malati nel mondo. Quelli diffusi sono i dati provenienti da zone in cui sono presenti servizi sanitari funzionanti. Ma chi può dire oggi quanti malati ci siano in paesi lacerati da guerre o con infrastrutture allo sfascio?
Di fatto, quando si avviano i piani di ricerca dei casi di lebbra in aree poco raggiungibili, si continuano a scoprire numerose persone affette dalla malattia. Tra loro la percentuale dei bambini rimane relativamente alta e prevale la forma tubercolare, cioè il tipo di lebbra che provoca rapidamente le disabilità. Tutto ciò indica una morbilità ancora elevata.
Solo nel 1940, con il dapsone, si cominciò ad avere una cura, ma il farmaco andava assunto per tutta la vita e aveva il solo effetto di rallentare l’avanzata della malattia. A partire dai primi anni ’80, con l’introduzione della polichemioterapia (rifampicina, clofazimina e dapsone), finalmente dalla lebbra si può guarire.
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) raccomanda la polichemioterapia dal 1981. Da 5 a 20 anni è il periodo d’incubazione del bacillo che causa la malattia. Da 6 mesi a 2 anni dura il periodo di trattamento farmacologico. Si stima che più di 6 milioni di persone subiscano oggi le conseguenze fisiche e sociali della malattia.

Miele della solidarietà

In Italia, la Giornata mondiale dei malati di lebbra è uno dei principali eventi legati all’impegno dell’Associazione italiana amici di Raoul Follereau (Aifo).
Nata nel 1961, l’Aifo ha esteso la sua presenza in tutta Italia: centinaia di volontari, ispirandosi al messaggio di giustizia e pace di Follereau, continuano a dare voce agli ultimi, lottando contro la lebbra e contro tutte le lebbre, cioè contro le forme più estreme di ingiustizia ed emarginazione.
Riconosciuta come Organismo non governativo (Ong) di cooperazione sanitaria internazionale, l’Associazione è attualmente presente in 24 paesi dell’Africa, Asia e America Latina e collabora attivamente con alcune agenzie delle Nazioni Unite, in particolar modo con l’Oms, di cui è partner ufficiale.
Per sensibilizzare la gente nei confronti del problema della lebbra e dei temi legati allo sviluppo sociale e sanitario nei paesi più poveri del mondo, i volontari dell’Aifo animano la Giornata mondiale dei malati di lebbra con diverse iniziative, tra le quali la vendita del «miele della solidarietà» e altri prodotti del commercio equo e solidale. In centinaia di piazze italiane allestiscono banchetti, coinvolgendo le comunità locali, per raccogliere fondi a favore dei progetti dell’Associazione.
Lo scorso anno la distribuzione del «miele della solidarietà» ha coinvolto ben 447 piazze italiane, nelle quali sono stati offerti oltre 30 mila vasetti di miele.
Tra le varie iniziative di sensibilizzazione, grande importanza è data agli incontri con scuole, parrocchie e altre istituzioni, svolti in tutta Italia dai «testimoni della solidarietà». Si tratta di persone direttamente impegnate nella cura dei lebbrosi in vari paesi del mondo.
Per l’edizione 2005 giungeranno in Italia cinque testimoni che operano nei progetti contro la lebbra in Africa (vedi riquadro). Inoltre, per celebrare la 52a Giornata mondiale, è stata organizzata una touée della compagnia teatrale African Footprint Inteational del Ghana, un gruppo di fama mondiale, composto prevalentemente da artisti con disabilità, che si esibiranno in numerose città italiane per testimoniare la ricchezza di valori e di cultura di cui il continente africano è portatore e anche la ricchezza di doti umane e artistiche che le persone diversamente abili sanno esprimere.

Box 1

Stato globale della lebbra nel 2004*

Regione Nuovi casi trattamento rilevati 2003

Africa 50.691 46.205
America 86.652 52.435
Mediterraneo orientale 5.798 3.940
Asia sud-est 304.292 405.150
Pacifico occidentale 10.359 6.068
Mondo 457.792 513.798

* Come riportato da 110 stati – fonte Oms

Box 2

TESTIMONI 2005

Chiara Castellani. Nata a Parma nel 1956, laureata in medicina all’Università cattolica del Sacro Cuore in Roma, ha lavorato per 7 anni in Nicaragua, come medico volontario e chirurgo in zona di guerra.
Dal 1991 è responsabile di un progetto sanitario nella Repubblica democratica del Congo. L’anno seguente perde il braccio destro in un incidente stradale: impara a scrivere e operare con la sinistra e, ancora oggi, continua la sua attività presso l’ospedale di Kimbau. (Della sua incredibile storia abbiamo parlato in Missioni Consolata ottobre-novembre 2004, pp. 87-89).

Padre Emidio Demeneghi. Nato a Mussolene (VI) nel 1939, sacerdote nel 1964 è missionario in Angola dal 1968.
Dal 1994 opera a Kangola, nord del paese, e si occupa dei lebbrosi. Grazie a un progetto Aifo, sono stati diagnosticati 1.064 casi di lebbra su una popolazione di circa 80 mila abitanti; 850 le guarigioni; 96 abbandoni causati dalla guerra; 20 i decessi registrati. Attualmente la lebbra è in regresso.

Saverio Grillone. Nato a Reggio Calabria nel 1940, laureato in giurisprudenza, specializzato in psicologia, diplomato in leprologia e chirurgia ausiliaria in Spagna, dal 1969 al 1976 si è occupato di cura e riabilitazione dei lebbrosi in un programma di cooperazione del nostro Ministero affari esteri in vari centri dell’Eritrea.
Dal 1978 al 1980 è stato esperto del Ministero in qualità di responsabile della campagna di lotta contro la lebbra nella Repubblica delle Comore. Dal 1980 è rappresentante dell’Aifo alle Comore per la realizzazione di vari programmi: lotta contro la lebbra e la tubercolosi, sanità di base di 15 villaggi nella regione di Pomoni; attività a favore dell’infanzia con la creazione di 7 scuole elementari e di una scuola media, con 1.200 bambini scolarizzati.

Suor María Marcela López. Di origine argentina, appartiene alla congregazione religiosa Figlie della Carità, Canossiane. Infermiera professionale, da alcuni anni lavora presso il progetto di lotta alla lebbra nell’Ituri (R.D. del Congo).

Suor Esther Athieno. Di nazionalità kenyana, è infermiera, ostetrica e fa parte della congregazione delle suore dell’Immacolata Concezione di Ivrea. Ha svolto la sua attività in differenti campi medici. Da due anni lavora con i pazienti affetti da lebbra e tubercolosi nell’unità sanitaria di Kadem. Oltre ai malati di lebbra-tubercolosi ricoverati in ospedale, segue quelli che vivono nelle loro comunità, attraverso le cliniche mobili, foendo loro medicine, beni di prima necessità.

Benedetto Bellesi




È partita «salute Africa»

 Secondo le stime del Rapporto Unaids 2004, a fine 2003 l’epidemia Hiv/Aids mostrava queste drammatiche cifre:
• 37,8 milioni di persone affette dal virus, di cui 17 milioni di donne e 2,1 milioni di bambini sotto i 15 anni
• 4,8 milioni di nuovi casi di infezione
• 2,9 milioni di morti nell’anno
• 15,1 milioni di bambini orfani.
L’Africa sub-sahariana, con appena il 10% della popolazione mondiale, presenta la situazione più drammatica:
• 25,1 milioni di persone affette dal virus, di cui 13,1 milioni di donne e 1,9 milioni di bambini
• 3 milioni di nuovi casi di infezione
• 2,2 milioni di morti nell’anno
• 12,1 milioni di bambini orfani.

A fine novembre 2004, è partito – con presentazioni pubbliche a Torino, Milano e Roma – il progetto denominato «Salute Africa. Nella giustizia la lotta all’Aids».
Il Comitato di Salute Africa è stato costituito per volontà di: missionari e missionarie della Consolata, Ospedale Koelliker, Associazione Impegnarsi Serve Onlus, Associazione Amici Missioni Consolata con lo scopo di perseguire programmi finalizzati alla lotta contro l’Aids. Per raggiungere questo scopo, il Comitato si propone di
• sensibilizzare alla prevenzione con il coinvolgimento delle comunità locali
• prevenire e ridurre la trasmissione materno-infantile
• ridurre l’impatto socio-economico dell’Aids nelle comunità di riferimento
• assistere i malati terminali con gesti di consolazione, come accoglienza, cura palliativa e sepoltura.

Salute Africa si propone di operare nei seguenti paesi: Congo Rd, Costa d’Avorio, Etiopia, Kenya, Mozambico, Somalia, Sud Africa, Tanzania, Uganda.
Nei prossimi mesi, anche attraverso questa rivista, si darà informazione su tutte le iniziative del progetto.

SALUTE AFRICA E’…

Sede ufficiale:
• c/o Istituto Missioni Consolata – Corso Ferrucci, 14
10138 Torino
Presidente:
padre Giordano Rigamonti
Segreteria: dott.ssa Elisa Franzò (tel. 011.4400610)

Le E-mail:
• sede di Torino: saluteafrica.torino@consolata.net
• sede di Milano: saluteafrica.milano@consolata.net
• sede di Lecco: saluteafrica.bevera@consolata.net
• sede di Roma: saluteafrica.roma@consolata.net

La redazione



ECONOMIA – Quale economia? (1) Incontro con Serge Latouche


QUALE ECONOMIA? (prima puntata)

Insicurezza, crisi, precarietà, diseguaglianze.
porterà presto le loro idee ad aver ben più larga attenzione.

Incontro con il prof. Serge Latouche

SCHIAVI DEL MERCATO E DELLE SUE LEGGI

 

Francese, sociologo dell’economia ed epistemologo delle scienze sociali, Serge Latouche è stato professore universitario a Lille e a Parigi. Nei suoi lavori, l’economia è vista ed interpretata fuori dai consueti schemi, ormai consunti dalle contraddizioni e dai fallimenti di cui il mondo è pieno.
Esperto di rapporti Nord/Sud, Latouche ha incentrato la propria ricerca sul fallimento dello sviluppo (Il pianeta dei naufraghi), sulla deleteria uniformazione planetaria al modello occidentale (L’occidentalizzazione del mondo), sul recupero della società veacolare e del concetto di dono (L’altra Africa. Tra dono e mercato).
Da qualche anno in pensione, Serge Latouche ha oggi un’intensa attività di saggista e conferenziere.

Professore, siamo in un periodo storico di guerra continua e di recessione economica. Come siamo arrivati a tanto? Questo non è altro che il fallimento della globalizzazione neo-liberista?
«Molti pensano che questa sia una situazione nuova, ma di fatto è nuova solo apparentemente, perché da sempre il capitalismo porta alla guerra, come le nuvole portano la pioggia o l’uragano. Recentemente ho pensato a Giovanni XXIII, che è stato di certo un bravo papa, ma che nell’enciclica Populorum Progressio su un punto si è sbagliato. Papa Giovanni ha scritto: lo sviluppo è il nuovo nome della pace, mentre avrebbe dovuto scrivere: lo sviluppo è il nuovo nome della guerra».
Ecco, la guerra e lo sviluppo. C’è un nesso di causa ed effetto?
«Lo sviluppo economico esiste, nella sua prima accezione, dalla cosiddetta rivoluzione industriale inglese del 1750. Poi si è esplicitato nel secondo dopo guerra: la parola fu usata dal presidente Truman nel 1949. Da quel momento si è visto che l’economia capitalista (per fare il suo nome) è una economia periodicamente in crisi. Così, per superare queste fasi, deve sempre mettersi in guerra.
Tutte le fasi dello sviluppo sono collegate ad un conflitto. Un tempo c’erano le guerre coloniali, devastanti per i paesi che le subivano. Poi ci furono le due guerre mondiali, certo più complesse, ma pur sempre fatte per l’appropriazione di materie prime e sbocchi.
Oggi siamo alle guerre per il petrolio e tra poco a quelle per l’acqua, elemento necessario e prezioso ma sempre più raro. Basti pensare che gli Stati Uniti hanno già bisogno di importare miliardi di metri cubi di acqua dal vicino Messico, paese che pure non ha molte risorse idriche.
Gli scienziati del Pentagono hanno detto chiaramente che per questo modo di vivere le guerre sono un ingrediente indispensabile».
Secondo lei, è lecito parlare di «impero americano»? E se la risposta è sì, quanto durerà e come finirà, se mai finirà?
«La parola “impero”, che è di moda, è un po’ ambigua, perché si pensa sempre all’impero romano…».
Il paragone è quello, è vero…
«…ma un progetto come quello dell’impero romano non è possibile e non interessa gli Stati Uniti e le imprese transnazionali, perché un impero vero dovrebbe prendere in carico tutte le popolazioni, mentre l’amministrazione e i cittadini americani non vogliono assolutamente questo».
Al contrario, vogliono prendere le risorse degli altri stati…
«Vogliono che gli altri paesi siano sottomessi al potere americano e per fare questo devono avere una-due guerre permanenti, ma non vogliono costruire un impero, nel vero senso della parola. Non sono interessati a diffondere la vita americana concreta, ma soltanto la dominazione ideologia e il controllo sul mondo. In questa logica si può parlare di imperialismo, e quello americano è più forte che mai…».

Come si inserisce l’elemento terrorismo in questo contesto storico?
«Terrorismo è una parola molto facile da strumentalizzare, che fa impressione sulla popolazione perché c’è una realtà del terrorismo.
D’altra parte, questa logica politico-economica genera sempre più derelitti e, di conseguenza, carne da terrorismo».

Sta dicendo che il fenomeno si riprodurrà sempre di più?
«Naturalmente. È evidente che sarà così. Da questo punto di vista Bush ha ragione quando dice che siamo partiti per una guerra lunghissima, infinita. Perché la difesa del modo di vivere occidentale presuppone un’ingiustizia globale, sempre più forte che genera risentimento, povertà, miseria, e dunque un terreno favorevole al terrorismo».

Cecenia, Palestina, Iraq: il terrorismo suicida ha fatto scuola. Come si arriva a sacrificare la propria vita?
«Il terrorismo è sempre esistito, ma quello di oggi è effettivamente diverso. Come francese, ricordo la guerra in Algeria. Allora si parlava di terroristi algerini, ma erano gruppi costituiti per uccidere gli altri.
Al massimo, c’erano dei rischi da correre, ma non c’era la sicurezza di autodistruggersi. Oggi il kamikazismo è sistematico e, al medesimo tempo, più difficile da combattere. È stata creata una disperazione mai vista su scala planetaria e purtroppo sta allargandosi».

Lei ha analizzato i danni prodotti dall’«americanizzazione del mondo». Ma come si spiega che l’american way of life abbia avuto tanto successo?
«Questo non è un gran mistero. Dal cinema di Hollywood alla pubblicità, dai McDonald’s alla Coca-Cola tutto lavora per valorizzare l’american way of life. E poi, da che mondo è mondo, gli schiavi vogliono imitare i padroni…».

D’accordo, ma gli europei non sono così poveri. Eppure una parte di essi è attratta dall’american way of life…
«Per forza, da molto tempo noi facciamo parte della “megamacchina” americana. La gran parte delle imprese transnazionali sono americane e naturalmente si vede soltanto quella che è la punta dell’iceberg…».

Lei parla di «megamacchina». Il libro omonimo inizia così: «Siamo imbarcati su un bolide che marcia a tutta velocità ma ha perso il guidatore»…
«La “megamacchina” è l’organizzazione planetaria, che attraverso la combinazione di tecniche economiche e scientifiche, sociali e politiche, ha imposto il proprio dominio sul mondo, trasformando tutti gli aspetti della vita, anche quelli culturali.
Attraverso la globalizzazione, infatti, l’economia è entrata nella cultura o, peggio, ha preso il posto della cultura, con effetti distruttivi sulle culture tradizionali e sulle identità locali».

Il concetto è chiaro. Ma chi sta dietro la «megamacchina»?
«La “megamacchina” è anonima e senza volto, ma i suoi rappresentanti si chiamano G8, Club di Parigi, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Organizzazione mondiale del commercio, Forum di Davos, Camera internazionale del commercio (potente organismo di cui non si parla mai)».

Oggigiorno, sembra che le crisi economiche siano sempre più lunghe e soprattutto sempre più frequenti… Gli economisti spiegano che i cicli ci sono sempre stati. I politici dicono che l’occupazione comunque aumenta, dimenticando di precisare che i nuovi occupati sono quasi totalmente lavoratori precari (loro dicono «flessibili»), sfruttati e sempre malpagati.
«Il problema della crisi economica generalizzata è che non ci sono più sbocchi: con la mondializzazione l’ultima frontiera è saltata. Fabbrichiamo sempre più beni di consumo, ma chi può comprarli?
Questa contraddizione ha potuto essere gestita per 50 anni, perché c’erano lo stato sociale nei paesi del Nord e una politica di sfruttamento dissennato della natura e dei paesi del Sud. Oggi la mondializzazione ha rotto questo modo di organizzazione e necessariamente la crisi è più forte.
D’altra parte, non dimentichiamo che il modo di vivere degli occidentali non è più sostenibile. Finora è stato possibile soltanto perché due terzi dell’umanità hanno accettato di vivere al di sotto del minimo».

Lei ha parlato dello «stato sociale». Secondo lei, perché si sta procedendo al suo smantellamento?
«Lo stato sociale è stato scalzato dalla mondializzazione del mercato. Attenzione, però. Gli stati non spariscono. Sparisce soltanto la loro possibilità di regolare l’economia, mentre resistono ed anzi si rafforzano gli strumenti repressivi in mano loro.
Naturalmente questo smantellamento è stato incentivato dalle imprese transnazionali e dai sostenitori della “megamacchina”, di cui abbiamo detto.
Se il progetto di un impero mondiale americano è destinato allo scacco, il progetto di controllo sociale rimane. Lo si vede anche in paesi, come la Germania e la Francia, che si sono opposti a Bush. Anche quei paesi attuano una politica intea di repressione e di controllo della popolazione, perché l’insicurezza e la crisi sono nel cuore di questo sistema economico e sociale».

Si è molto parlato negli ultimi anni dei movimenti civili e della società civile a livello mondiale (da Seattle a Porto Alegre) che lottano per un mondo diverso da quello in cui viviamo. Secondo lei, hanno un futuro o è una moda passeggera?
«Hanno un futuro di sicuro, perché anche da noi questo sistema diventa sempre più insopportabile. Ormai anche al Nord c’è distruzione dell’ambiente, c’è disuguaglianza, c’è povertà. Non è necessario andare al Sud…».

Dunque, i movimenti civili e mondiali hanno un futuro perché propongono un’idea diversa?
«Sì, hanno un futuro perché la protesta continuerà e sarà imponente. Nonostante gli stati siano diventati repressivi (con le leggi, con le forze dell’ordine, ecc.), questi movimenti continueranno a crescere».

E come singoli possiamo fare qualcosa di concreto? I nostri piccoli gesti quotidiani servono?
«Naturalmente. Ci sono molte cose da fare, ma debbono essere tutte in funzione dell’obiettivo. Dobbiamo partecipare ai movimenti, alle proteste, alla resistenza, già a livello mentale rifiutando di lasciarci colonizzare completamente dalla pubblicità dei media e dal “pensiero unico”. Dobbiamo – come sempre scrivo nei miei libri – “decolonizzare il nostro immaginario” e mettere al centro della nostra vita significati e ragioni d’essere diversi dall’espansione della produzione e del consumo.
Ogni piccola resistenza, anche apparentemente ridicola (come la mia per internet, il cellulare o l’auto), è utile».

Lei ha scritto che «siamo al centro di un triangolo i cui tre vertici sono: la sopravvivenza, la resistenza e la dissidenza». Potrebbe chiarire il concetto?
«Prima di tutto dobbiamo sopravvivere. Sopravvivere significa adattarsi al mondo nel quale viviamo, ma non significa che dobbiamo approvarlo né aiutarlo a funzionare, al di là della necessità.
Poi dobbiamo resistere. Dobbiamo ricordarci che siamo imbarcati su una “megamacchina” che fila a gran velocità senza pilota e che quindi è condannata a fracassarsi contro un muro. Resistere significa allora tentare di frenare, di cambiae la direzione, se è ancora possibile.
Dobbiamo infine pensare di poter lasciare il bolide e saltare al momento opportuno: questa è la dissidenza».

Passiamo a qualche proposta che possa aiutare a trovare un’alternativa economica, professore. Una delle parole che lei utilizza di più è «decrescita». Un termine che non esiste in alcun dizionario economico e che metterebbe i brividi in qualsiasi consesso…
«Sì, una delle mie parole d’ordine è decrescita.
Come facciamo noi occidentali a dire ai cinesi: se tutti voi volete una macchina, il pianeta verrà distrutto? È per questo che abbiamo il dovere di dare l’esempio: cominciamo noi a decrescere. Non facciamo come gli americani che a Kyoto dissero che i paesi del Sud devono diminuire le emissioni di gas inquinanti…
I paesi occidentali hanno il dovere di dare l’esempio, cambiando il modo di vivere. La decrescita, grazie alla riduzione delle dimensioni delle imprese, delle istituzioni e dei mercati, valorizza la dimensione locale, favorendo l’affermarsi di forme politiche partecipate e conviviali. In ultima analisi, la decrescita è una attitudine naturalmente etica, che ha un valore straordinario, perché dimostra che si può vivere felicemente, consumando molto meno».

Abbiamo parlato delle responsabilità degli Stati Uniti. E dell’Europa che si può dire?
«Noi abbiamo lo stesso modello economico e questo spiega la rabbia degli americani che dicono: noi andiamo a fare la guerra anche per voi, eppure voi fate obiezioni continue.
E, una volta tanto, non hanno tutti i torti. C’è una contraddizione nella posizione europea che continua a sostenere un modello di funzionamento economico quasi eguale a quello americano, ma non vuole accettae tutte le conseguenze».

Cosa dovrebbe fare l’Europa?
«Se vogliamo veramente costruire un’Europa come potenza autonoma, dobbiamo fare qualcosa anche dal punto di vista economico. Dobbiamo continuare a difendere il modello sociale e creare uno spazio economico autonomo».

Concretamente…
«È assolutamente necessario introdurre delle barriere protezionistiche per non distruggere quel che rimane del modello europeo e avere uno spazio di libertà.
Non c’è autonomia in un sistema completamente globalizzato. Come ha cinicamente detto Henry Kissinger, la mondializzazione è il nuovo nome della politica egemonica americana».

Dalle sue esperienze in Africa (Congo, Mauritania, Senegal), lei ha tratto uno dei suoi libri più noti: «L’altra Africa, tra dono e mercato». Se dovesse dire due parole sul continente africano, come lo descriverebbe?
«È difficile, perché è un continente di paradossi; un luogo tra i più disperati del mondo, eppure anche un luogo di speranza…
Statisticamente l’Africa non esiste più. Produceva il 2% del prodotto interno lordo mondiale quando scrissi quel libro ed era il 1997. Oggi la percentuale è scesa all’1%.
Settecento milioni di abitanti sopravvivono, ma non tutti sono disperati. Anzi, si vede la gioia di vivere, la speranza. Eppure, consumano molto meno di quanto sarebbe loro diritto».

Se qualcuno le chiedesse di disegnare un possibile futuro, positivo e ottimista, ce la farebbe?
«No, perché non penso ad un futuro, ma a diversi futuri. Sono, da questo punto di vista, più ottimista degli altri, perché credo che non ci sia un altro mondo possibile, ma altri mondi possibili. Lo stesso movimento no-global è un movimento tipicamente occidentale. Mancano i musulmani, mancano i cinesi, che sono più di metà dell’umanità. Ci sono – è vero – anche rappresentanti del Sud, ma quasi sempre sono occidentalizzati.
Per questo, non possiamo dire che il movimento no-global è “la società civile mondiale”. Siamo (anch’io mi ci metto) l’opposizione occidentale all’Occidente».

Scusi, ma dove sta allora l’ottimismo di cui parla?
«Penso al crollo di questo modello, che è già fallito. Penso a tutte le culture e a tutti i popoli che costruiranno questi futuri, tutti diversi, facendo una sintesi tra la tradizione perduta e la modeità inaccessibile».

Paolo Moiola

Box 1

Le spese militari nei primi 10 paesi (2003)

Paesi: Spese Spesa % su totale
militari (a) pro-capite (b) mondiale

Stati Uniti 417,5 1.419 47 %
Giappone 46,9 367 5 %
Gran Bretagna 37,1 627 4 %
Francia 35,0 583 4 %
Cina 32,8 25 4 %
Germania 27,2 329 3 %
Italia 20,8 362 2 %
Iran 19,2 279 2 %
Arabia Saudita 19,1 789 2 %
Corea del Sud 13,9 292 2 %

(a) Spese in miliardi di dollari Usa
(b) Spesa annuale in dollari Usa
Fonte: Sipri

Box 2

La spesa pubblica in Europa (2003): spesa pro-capite (in euro)

Paesi: Istruzione Sanità Assistenza Ambiente Difesa

UE 1129 1.625 1.558 144 429
Francia 1.356 1.918 1.754 208 608
Germania 1.062 2.000 2.049 126 370
U.K. 1.048 1.595 1.619 127 595
Italia 887 1.230 545 149 424

Fonte: Eurostat

Paolo Moiola