KENYASinfonia di aiuti

Anche nei posti più difficili, è possibile far sorgere un’opera «quasi impossibile», come un ospedale. Eppure, unendo insieme fantasia, generosità
e competenza, il sogno può avverarsi. Come è successo nell’arido Tharaka…

S orta nel 1957 in uno sperduto lembo del Tharaka, 180 km a nord di Nairobi, la missione di Matiri copre un’area di 600 kmq con una popolazione di 46 mila abitanti di vari gruppi bantu.
La popolazione vive di pastorizia e, malgrado le frequenti siccità, di agricoltura di sussistenza, limitata alla coltivazione di miglio e granturco, dai quali ricava una polenta che è spesso l’unico pasto quotidiano.
Le strade sono pessime, l’acqua scarseggia. Per migliorare le condizioni di vita dei suoi parrocchiani, padre Orazio Mazzucchi, missionario della Consolata, unendo al servizio pastorale una capacità manageriale, ha trasformato Matiri in un perenne cantiere. La missione ospita varie strutture scolastiche e, fin dai primi anni ’60, un ambulatorio che per anni ha rappresentato l’unica forma di assistenza alla popolazione, afflitta delle principali malattie tropicali: malaria, tubercolosi, parassiti, lebbra, tracoma, Aids.
Rita: un volto
accanto a… Cristo
Nel 1987, il dispensario ha fatto un primo salto di qualità, grazie a un’infermiera volontaria piemontese, Rita Drago, arrivata sul posto con il Cuamm (medici missionari); da allora, non è più ripartita.
La sua dedizione e competenza le hanno subito guadagnato stima e fiducia della popolazione, in particolare delle donne, che hanno trovato in lei un valido aiuto sia nelle emergenze sanitarie, che nella gestione della vita familiare e prevenzione di malattie infettive. Tanto è l’affetto della gente di Matiri, che, al momento di adornare la modesta chiesa della missione con un ciclo di affreschi ispirati al vangelo, hanno voluto inserire anche il volto di Rita tra le figure che attorniano il Cristo.
Già allora frequentavano Matiri i volontari dell’Avi (Associazione volontariato insieme, di Montebelluna TV), nata su impulso del concittadino padre Pierino Schiavinato, uno dei tanti missionari della Consolata usciti dal seminario di Biadene. Tramite Rita, le donne tharaka presentarono all’Avi l’esigenza di assistenza continua e qualificata durante la gravidanza. Grazie all’associazione montebellunese, la collaborazione dei clan locali e gruppi organizzati femminili, nel 1995 si è potuto inaugurare una piccola mateità che, con i suoi 15 posti letto, ha garantito assistenza a circa 700 parti l’anno.
Fondamentale si rivelava l’apporto, sia in termini di lavoro personale che finanziario, del decano dell’Avi, Mario Olivato, che, con questa struttura a servizio dei bambini, ha voluto ricordare un figlio scomparso precocemente.
tutti insieme,
appassionatamente
Nel corso degli anni, la mateità ha trovato la collaborazione di vari medici volontari, che passano le loro vacanze a Matiri, dando una mano a Rita. Ma la mancanza di una sala operatoria e modee attrezzature diagnostiche non permette una piena risposta alle necessità dei pazienti; per di più, i 40 km di sterrato, che separano Matiri dall’ospedale più vicino (impercorribili durante la stagione delle piogge), potevano trasformare in tragedia anche la più banale patologia.
Tra i medici volontari passati a Matiri c’è anche Giorgio Giaccaglia, primario dell’Unità terapia intensiva dell’ospedale di Migliarino (Ferrara), che ha alle spalle una breve esperienza di volontariato presso l’ospedale di Sololo, nel nord del Kenya: ormai prossimo alla pensione, quando, come tanti suoi colleghi, potrebbe dedicarsi interamente ai guadagni dorati della libera professione, non accetta di assistere impotente alla perdita di tante vite e matura l’idea di trasferirsi in pianta stabile a Matiri, per avviare la costruzione di un vero ospedale.
La moglie Antonia, a sua volta infermiera, è la prima a condividere e incoraggiare il progetto. Giorgio ne parla, nel 1999, con un altro montebellunese, padre Livio Tessari, all’epoca responsabile dell’ufficio di cornordinamento degli ospedali africani dei missionari della Consolata; comincia a coinvolgere attorno a quest’idea colleghi e amministratori della sanità ferrarese, con i quali dà vita all’«Associazione Emiliano De Marco». Ancora una volta l’impegno per i bambini del Tharaka si lega al ricordo di un giovane italiano, mancato precocemente.
Padre Livio lo mette in contatto con Gino Merlo, presidente dell’Avi, e il progetto prende forma, potendo contare anche sul parallelo intervento di altre realtà del volontariato, come l’Ong «Mondo giusto» di Lecco e l’Associazione «La sola verità è amarsi» di Barzanò (LC).
I volontari lombardi sono alle prese con la costruzione di un acquedotto per fornire acqua alle opere di Matiri, di una centralina idroelettrica da 70 kw e un progetto di sviluppo agricolo: tutto sfruttando le acque del fiume Mutonga (cfr. Missioni Consolata, marzo 2003).
Tra il 2000 ed il 2003 si susseguono i rilievi e la progettazione, curata dall’architetto Zarattini di Ferrara, i contatti con la diocesi di Meru, le autorità locali e le varie iniziative di raccolta fondi, che coinvolgono banche, enti locali e donatori privati del Veneto e dell’Emilia. Vengono anche raccolte e rigenerate varie attrezzature sanitarie dismesse dagli ospedali.
con la benedizione
di sant’orsola
Nel luglio 2001, mons. Silas Silvius Njiru, vescovo di Meru, pone la prima pietra del costruendo ospedale, che, nel frattempo, vede nascere a Caserta un nuovo gruppo di sostenitori, riuniti nell’associazione «Una mano tesa per Tharaka».
I lavori di muratura vengono affidati ad Agrikenya Ltd, un’impresa di Nairobi gestita da un costruttore italiano, e decine di volontari trevigiani e ferraresi spendono le loro vacanze occupandosi di impiantistica, generatori elettrici, pannelli fotovoltaici, macchinari elettromedicali e quant’altro.
Non mancano (è ovvio!) né imprevisti e ritardi legati alla situazione locale, né le incomprensioni tra persone che stanno imparando a conoscersi strada facendo; ma, a eccezione di un residuo contenzioso con Agrikenya, l’entusiasmo, la fantasia e la consapevolezza dei bisogni che attendono una soluzione consentono di superare ogni ostacolo.
Il primo ottobre 2003, l’ospedale entra in attività e, nella sua gestione, viene coinvolta la congregazione delle Orsoline, che manda a Matiri tre suore indiane con competenze infermieristiche e amministrative. In un’area dove solo lo 0,5% della popolazione dispone di una stabile occupazione, l’ospedale significa anche una sessantina di nuovi posti di lavoro tra infermieri, assistenti sanitari, inservienti e addetti alla cucina.
Grande è la gioia per questo risultato, anche se velata dalla scomparsa di padre Livio Tessari, spentosi a Torino appena tre mesi prima.
Questo primo stralcio funzionale si sviluppa su circa 2.000 mq di superficie e dispone di due sale operatorie, sala parto, 50 posti letto di degenza, radiologia, ecografia, laboratorio analisi, ambulatori e locali di servizio. È la prima struttura del Tharaka a essere realizzata con copertura in tegole e tetto autoventilante, il che garantisce una buona temperatura intea. Ad essa si affiancano una casa per le suore e una per i volontari; sono state gettate le fondamenta per un terzo alloggio, destinato ai medici residenti.
L’assistenza medica e chirurgica è affidata a Giorgio Giaccaglia e all’infettivologa Marina Tadolini, ai quali si affiancano medici e paramedici emiliani e campani (si spera a breve anche veneti), anche se a regime l’ospedale dovrà necessariamente assumere personale medico locale. L’impegno di spesa ha già superato i 600 mila euro (senza contare l’apporto personale dei volontari) e almeno altri 200 mila di attrezzature e opere sono stati foiti dal Consorzio acquedotto del Po per l’approvvigionamento idrico.
Le previsioni per le spese di gestione sono di 250/300 mila euro all’anno, che sicuramente non possono essere reperiti sul posto e continueranno a lungo a impegnare le associazioni che ne hanno promosso la costruzione; mentre le aspettative che la popolazione riversa sulla struttura richiederebbero, già oggi, l’avvio di un primo ampliamento.
Il 31 gennaio 2004, il vescovo di Meru ha benedetto il nuovo ospedale dedicandolo a sant’Orsola, con una cerimonia nella quale padre Orazio Mazzucchi e Giorgio Giaccaglia hanno dato un emozionato benvenuto al superiore generale della Consolata, padre Pietro Trabucco, al superiore regionale padre Luigi Brambilla, autorità locali, volontari di Ferrara (accompagnati dall’assessore Alessandra Chiappini), di Montebelluna, Caserta, Barzanò, Fano e altre realtà che gravitano attorno alla missione. Il rappresentante del governo kenyano, che ha partecipato alla cerimonia, si è sbilanciato: ha promesso l’arrivo di una linea elettrica. Staremo a vedere.
A 80 anni suonati, è presente anche Mario Olivato che, nel frattempo, lasciata in buone mani la crescita della «sua» mateità, ha trovato tempo, energie e risorse per occuparsi di bambini orfani o abbandonati, affidati alle cure di Rita. Grazie a Mario, oggi Matiri può ospitarli in una nuova casa. La benedizione ai 65 degenti e le loro patologie, che spaziano dal morso del coccodrillo alle grandi ustioni, alla gravidanza complicata da malaria acuta, danno l’idea dei bisogni che affliggono la popolazione, mentre l’attaccamento alla vita di una piccola creatura, salvata il giorno prima con un cesareo dall’équipe di Giorgio, rafforza in tutti l’entusiasmo e la determinazione per continuare a lavorare.

La festa ha rischiato di trasformarsi in tragedia: sulla via del ritorno a Nairobi, alcuni partecipanti all’inaugurazione, tra cui l’assessore Chiappini e Antonia Giaccaglia, sono stati coinvolti in un incidente, riportando varie fratture. Ricoverati al Nairobi Hospital, hanno avuto la conferma che dalla sanità privata puoi trovare aiuto solo se disponi di adeguata carta di credito.
A Matiri invece, come ha ricordato nel suo saluto il vice presidente Avi, Francesco Tartini, l’ospedale di sant’Orsola si ispira al principio che la salute non è né un’opera di carità, né un bene di consumo; ma un diritto umano fondamentale.

Francesco Tartini




KENYA – Abbondanza di mucche e di… parole

Alcuni fortunati europei hanno potuto assistere
a una cerimonia che da secoli
si ripete uguale tra i masai di Kenya e Tanzania,
per ottenere benedizione e salute.

L’ orologio che scandisce la vita pastorale dell’etnia masai (Kenya e Tanzania) ha un ritmo lento, ma perseverante. In questa nostra era, è davvero inimmaginabile imbattersi in cerimonie tribali, celebrate così raramente che, a volte, la memoria umana non riesce più a registrarle.
Il fotoreportage illustra una di queste cerimonie solenni: erano ormai più di trent’anni che non veniva celebrata!

Siamo nel profondo cuore della riserva masai del Kenya, verso i confini del Tanzania, dove vivono gruppi di masai che, salvo l’orologio al braccio o la radiolina a pile, potrebbero benissimo essere scambiati per pastori di secoli fa, guidati dal sole e dalla luna, dalle piogge e dalle immigrazioni degli animali della savana.
Alcune suore cattoliche e una dottoressa italiana, per gentile invito, hanno potuto partecipare a questa solenne cerimonia e immortalare, per la prima volta nella storia, alcuni momenti del rito della fertilità.
Nell’immenso spiazzo (boma) lasciato libero temporaneamente dai numerosi greggi di capre e mandrie di mucche, si è radunata tutta la comunità femminile della regione. È il più solenne e sacro raduno delle mamme masai dei dintorni. Siamo a El Kisongo, uno sperduto puntino nell’area geografica del Kenya, territorio non ancora intaccato dai furori della civiltà.
I soli uomini presenti sono i grandi dignitari, rappresentanti i vari clan che ruotano intorno alle zone di pascolo di El Kisongo. Spicca tra tutti ’loiboni o grande sacerdote. Ostenta una parrucca di peli di coda di mucca, una sgargiante coperta azzurra, orecchini nuovi e collane dal significato a noi sconosciuto. Regge una zucchetta contenente latte, che sarà usato durante la cerimonia.
Gli altri assistenti, avvolti nelle coperte rosse, i fianchi cinti da un perizoma, sono rasati di fresco (segno di purificazione). Tutti si sono portati appresso il famoso scranno treppiede (a volte anche quadripiede): grande segno di autorità.
Le donne – tutte mamme – in lunghe vesti coloratissime, fanno girotondo nell’ampio recinto. Quelle ancora giovanissime si sono portate dietro i pargoletti appesi alla schiena, ben protetti sia dal sole, come dal vento che spira (a volte pungente) dal vicino Kilimangiaro. Anche se la giornata è serena e il sole abbacina, il manto di cotone che tutti e tutte portano allacciato alla spalla, ripara e, nello stesso tempo, dona un colore di festa.

Il primo atto della cerimonia è il sacrificio di un bue, alla presenza del gran sacerdote e dignitari. Il luogo del sacrificio viene così considerato «santificato»: sarà il centro di tutte le cerimonie che via via verranno effettuate.
Davanti a un grande drappo nero appeso a due paletti, viene scavata una buca, che viene poi ricoperta di pelli e in cui si verserà del latte di vacca. Ogni donna e anche la sua bambina (non i maschietti) passeranno a lavarsi i piedi in quel latte, sotto il controllo di un anziano.
Accanto al drappo nero, garrisce al vento una fronda di palma. Questa ha un particolare significato e sarà uno dei temi della grande preghiera del ’loiboni durante la benedizione finale: la foglia di palma che si lacera al vento, formando così altrettante foglie, vuole indicare l’uomo e la donna che si ripetono in tanti figli, trasmettendo in essi la loro stessa vita.
La fila di donne passa davanti al gran sacerdote, che impone su ognuna una speciale collana e, come segno di benedizione di Enkai (Dio), colora la fronte di caolino bianco e latte. Anche gli anziani ripetono la cerimonia del gran sacerdote. Bere latte fresco di mucca e latte cagliato significa partecipazione comunitaria delle donne alla «preghiera della fertilità». Le bevute si susseguono… mentre passano le ore. Non sembra vi sia fretta alcuna, se gli strilli dei pargoli ogni tanto richiamano alla realtà di allattamenti soccorritori. Pluff!… con curiosa manovra la mamma fa saltare con destrezza il piccolo, che se ne sta dietro la schiena, e lo riceve delicatamente sul davanti… pronto alla pappa!
La preghiera comunitaria guidata dal ’loiboni invoca, ora, su tutta la gente ogni bene:
«Enkai, tu resterai fermo
al di sopra di tutte le cime dei monti
del monte splendente (Kilimangiaro).
Sii lacerato come le orecchie
della palma
lacerata dal vento…» (allusione alla frasca di palma, che sta davanti al panno nero, simbolo della divinità).
Le richieste a Dio di «beni» comprendono l’abbondanza di mucche (sempre prime nella scala dei valori), di piogge, di pascoli, di mamme e di prole. Si chiede a Dio protezione contro gli animali feroci e le malattie del bestiame e degli uomini. E siccome, invitati speciali di onore ci sono le suore e una dottoressa, si chiede anche per loro «che possano essere mamme di tanti figli e curare tutti i loro malanni».
La cerimonia finale, come segno di partecipazione alla grande festa, sarà l’imposizione di una strisciolina di panno nero, messo al braccio destro di ogni mamma (simbolo dell’accompagnamento di Dio). Infine, tra canti e danze a Enkai, la distribuzione di vari amuleti protettori.
Il sipario si chiude quando il sole traccia ombre lunghe sul boma. Già intorno ci sono le mucche e le capre, tornate dal pascolo, in attesa di entrare nel recinto per essere munte del poco latte (un bicchiere appena). E poi i guerrieri, con le loro lance, si metteranno in guardia tutt’intorno, per proteggere il loro tesoro contro le bestie feroci della notte.

Non lontano, le nevi splendenti del Kilimangiaro continueranno a riflettere la luce della luna, testimoni, da secoli, di vita e cerimonie di un popolo che non ama calendari e tanto meno il ruggire di motori e fermate di autobus; o arrembaggi di uffici alla ricerca di un segretario che abbia la pazienza di scrivere una carta d’identità dove, insieme a un nome, ci sia anche la compiacente definizione «over 18», con la quale si fa livello di tutte le età, dai diciotto anni ai cento.
Con buona pace di tutti quanti.

Giuseppe Quattrocchio e Francesca Lipeti




KENYA – Quando Gesù nacque bambina

Una piccola orfana
è accolta in una famiglia africana: la notte
di natale, prende il posto di Gesù bambino
nel presepe e continua
ad essere accolta e amata come una benedizione divina.

È l’antivigilia di natale; l’estate calda e piena di luce: restare a casa a far poco o nulla è scoraggiante quanto mai. Mancano due settimane alla riapertura delle scuole (in Kenya l’anno scolastico inizia in gennaio), ma la gioia della vacanza e della festa del natale elettrizza non solo i bimbi d’Europa, ma anche quelli del continente nero.

– Vieni, Scolastica; andiamo a trovare alcuni amici.
L’invito di mamma Mary alla figlioletta, ultima di quattro figli, non poteva giungere più accetto.

– Dove andiamo, mami?

– Partiamo e vedrai.

Mamma Mary mise in una borsa di plastica una manciata di samosa (specie di frittelle ripiene di carne e spezie) e prese la strada che porta alla grande bolgia di Kibera: una delle più grandi e tristi bidonville di Nairobi, ove si accalca mezzo milione di individui di tutte le etnie del Kenya.

– Hai degli amici qui dentro? – riprese Scolastica, quasi paurosa di quel luogo da tutti ritenuto un covo di briganti.

– Non aver paura. Mami è con te.
Mamma Mary puntò dritta verso una costruzione di vecchi pezzi di assi tenuti insieme faticosamente da listelli e fil di ferro. Il tetto, fatto di vecchie latte di benzina spianate col martello, ormai arrugginite e sforacchiate, riparava dal sole, non certo dalla pioggia. Chiamarla casetta avrebbe offeso anche un apprendista carpentiere; definirla pollaio… si sarebbero offese le galline.

– Odi? (permesso?) – chiese mamma Mary, mentre spingeva una specie di paravento di pezzi di plastica e sacco catramato.

Nell’interno, diventato tutto ad un tratto silenzioso, decine di puntini luminosi fendevano la semioscurità: sembravano altrettanti occhi di gattini spalancati.
– Hamjambo watoto! (salve bambini) – salutò la donna.
– Hatujambo, mama! (salve, mamma) – fece eco un coro di vocine.

Anche Scolastica, che si era quasi nascosta dietro la mamma, si fece avanti per stringere una selva di manine, che avrebbero avuto bisogno di tanta acqua e sapone.

Quella «topaia» (questa volta senza offesa per i topi) voleva essere un «orfanotrofio». Venti o trenta bambini erano stipati in quella stanza, sotto la sorveglianza benevola di una matrona africana, che aveva tentato di intrecciare il suo grande cuore e la monumentale statura con la estrema povertà e la triste realtà di un gruppo di bambini rimasti orfani e da tutti abbandonati. Almeno potevano avere un luogo per dormire, scaldandosi a vicenda, una scodella dove pescare qualche foglia di cavolo, una manciata di polenta da divorare.

Mamma Mary conosceva già quella situazione. Ma Scolastica ebbe un momento di brivido, specie quando sentì due mani umide aggrapparsi alle sue gambe, come per sostenersi a qualcosa e non lasciarsela scappare.

Scolastica guardò in basso; i suoi occhi si incontrarono con quelli lucenti di una bimba dai vestiti scoloriti e laceri. Non una parola. Una guardava in giù, l’altra guardava in su, con occhi di speranza. Neanche la distribuzione dei samosa interruppe quella specie di abbraccio.

– Hai idea di chi possa essere questa bimba? – chiese alla matrona mamma Mary, che aveva notato lo strano comportamento della bimba.

– Me l’hanno portata dopo che anche la mamma fu trovata morta. La piccola aveva tanta fame. Dovrebbe essere di etnia luo, poiché i genitori venivano dalla regione del lago Vittoria. Niente di più. Neppure il nome. Ho cominciato a chiamarla Owino ed essa mi risponde quando uso questo nome.

Owino restava imperterrita attaccata alle gonne di Scolastica.

– Vedi, Scolastica? Ti vuole bene! E se le regalassimo un po’ di amore in questi giorni di natale?

– Ci sto!

Non furono necessari lunghi discorsi: la matrona non ebbe difficoltà a concedere ad Owino la «libera uscita».
Documenti? E quali documenti? Papà e mamma sconosciuti, morti di aids, sepolti o abbandonati chissà dove. Ben venga uno spiraglio di bontà e per una creatura che ha tutti i diritti di vivere!

E uscirono in tre da quella stanza, tenendosi per mano. Scolastica stringeva forte la manina di quella «bambola in carne ed ossa», per paura che nella ressa della bidonville qualcuno gliela portasse via.

A casa la bimba fu accolta con gioia. Gli altri tre figli, uno dei quali universitario, si dissero onorati di far posto alla bimba piovuta dal cielo.

Il bagnetto nella vaschetta di plastica, con tanto di spugna e sapone, fu una commedia per tutta la nuova tribù. Owino spuntò fuori come se fosse stata rifatta nuova; fu rivestita dei vecchi abiti di Scolastica: alcuni spilli e qualche ritocco, ed ecco la nuova star della famiglia.

«Che nome le mettiamo? – domandò Scolastica, dando subito la risposta -. Propongo Little Mary, (piccola Maria) in onore di mamma che l’ha scovata». Apprato senza fiatare.

La notte Little Mary dormì un sonno tranquillo, anche perché non sentiva, una volta tanto, gli stimoli della fame arretrata. Dormì in una culla, la prima volta in vita sua: la vecchia culla di famiglia, usata da tutti e quattro i figli.

Il giorno seguente c’era un gran da fare in casa Mary per preparare il natale: pulire, lavare, cucinare qualcosa di speciale senza la solita polenta.

Giunge la sera. La «messa di mezzanotte», in certi posti del Kenya, non è pensabile per le difficoltà di trasporto e motivi di sicurezza.

– Mamma, abbiamo dimenticato il presepio! – disse Scolastica, guardando attorno come se avesse smarrito qualcosa d’importante.
– Ma non abbiamo la capanna né le statuine dei pastori.

– Abbiamo Gesù bambino in carne ed ossa, la nostra Little Mary, che Gesù ci ha regalato per natale. Noi faremo Maria, Giuseppe e i pastori; a mezzanotte porteremo Little Mary nel nostro presepio.
– Dove metteremo il nostro Bambin Gesù? La culla non va bene!

– Nel cestino del nostro cucciolo. Bob avrà pazienza di aspettare la fine della festa.
Verso mezzanotte, in un’aura di gioia e fantasia tutta africana, il presepio vivente prese a muoversi dalla cucina alla camera da letto; Maria e Giuseppe portavano un cesto di vimini tutto addobbato; Scolastica, seria e compunta, reggeva in braccio Little Mary e la depose delicatamente nella cesta di Bob. Poi mamma Mary intonò in kikuyu «Tu scendi dalle stelle…».

Il coro era piccolo e neppure troppo intonato, ma tanto gradito al cielo e agli angeli, presenti e osannanti anche quella notte.

La storia avrebbe voluto che nella mangiatornia ci fosse un «bambino» Gesù; ma credo che anche il buon Dio avrà sorriso alla fantasia del cuore africano, che in questa bella notte aveva fatto nascere un Gesù «bambina», nella cesta del cucciolo di famiglia.

T re giorni dopo natale, mamma Mary, che da tanti anni è segretaria tuttofare in casa nostra, mi raccontò quanto era successo in famiglia, come se fosse la cosa più naturale al mondo.
– Hai pensato, Mary, al rischio in cui ti sei cacciata? – le domando.

– Ci ho pensato a lungo e ne ho parlato con i figli: abbiamo deciso di tenerla come un dono di Dio. Da quando nacque Scolastica, dieci anni fa, e mio marito se ne è andato, lasciandomi sola, senza lavoro e mezzi, intorno a me ho sempre trovato tanta bontà. Sono riuscita ad allevare i miei figli dignitosamente e mandarli tutti e quattro a scuola. Dio ci ha benedetti. È ora che anch’io restituisca al Signore tanta bontà che ha usato verso di noi.

Cercai di guardare altrove, fingendo di essere occupato, perché due lacrimoni mi scendevano dagli occhi.

– Mary, hai pensato che anche la bimba possa avere il male dei suoi genitori?
– Sì. La farò visitare e saprò curarla. La bimba ha bisogno di medicine e, soprattutto, dell’amore di una madre e il calore di una famiglia.

Una visita accurata rivelò che Little Mary aveva ereditato il male dei genitori. Ma la notizia non scombussolò né cambiò il progetto di accettarla in famiglia.

O ggi Little Mary è cresciuta. Si è rinforzata in salute, grazie anche all’aiuto di amici italiani a cui ho raccontato questo «fioretto africano». Ha ancora bisogno di cure; ma l’amore che ha trovato intorno a sé è la migliore medicina e l’aiuta a superare le difficoltà.
Alla scuola di Scolastica e mamma, Little Mary ha imparato a parlare tre lingue, si destreggia bene tra le compagne dell’asilo ed è pronta per passare alla scuola elementare.

Nessuno è ancora riuscito a sapere esattamente come si chiamasse. Ma che importa? Forse un giorno qualche pignolo ufficiale governativo vorrà sapee di più. E allora – ci scommetto – mamma Mary, con la sua furbizia e senso dello humour, tirerà fuori questa spiegazione: «È un Gesù “bambina”, venuta dal cielo, accolta provvisoriamente nella cesta del nostro cucciolo, ma amata da tutti noi, come l’ultima figliola che il Signore mi ha donato».

Giuseppe Quattrocchio




KENYA – Come fermare la tramissione dell’HIV

In Africa, i disastri dell’Aids non dipendono soltanto dalla mancanza di medicinali (introvabili o troppo cari), ma anche dall’ignoranza e dai comportamenti degli uomini. Intanto, anche qui, i convegni medici si tengono sempre in lussuosi hotel a 5 stelle… Un duro atto d’accusa dal Kenya.

Dal 21 al 26 settembre si è tenuta a Nairobi, in Kenya, la 13.ma «Conferenza internazionale sull’Aids e infezioni trasmesse sessualmente» (Icasa). La conferenza è stata giudicata un «successo» dalle autorità, ma non tutti sono d’accordo.

Commenta un osservatore locale, il dottor I.K.W. «Govei, Organizzazioni non governative ed Onu organizzano conferenze, seminari e fiere quasi quotidianamente, su diverse tematiche, con l’Hiv/Aids sempre in primo piano. La maggioranza di questi convegni sono permeati da grande ipocrisia.
Le conferenze sono invariabilmente tenute in alberghi o ritrovi turistici a “5 stelle”. La spesa di una settimana per un singolo delegato sarebbe sufficiente per comprare i farmaci anti-retrovirali per almeno 100 persone per un anno.

I delegati, alla fine della conferenza, se ne vanno, dopo aver goduto di una eccellente “vacanza” in luoghi esotici, a spese altrui, e presto si dimenticheranno delle decisioni prese. In questa conferenza non sembra che alcun delegato o gruppo abbia ufficialmente visitato le baraccopoli o alcun villaggio rurale dove l’epidemia è rampante».

Quasi tutti gli studi presentati, statistiche ecc., non sono altro che «fotocopie retoriche» di quello che tutti ormai sanno. Le multinazionali farmaceutiche partecipano solo per la pubblicità che ne derivano, e si tengono ben stretti i brevetti con i quali producono i farmaci anti-retrovirali che gli ammalati disperatamente ricercano.

Molti dei professionisti, medici, ecc., finita la «vacanza», non vedono l’ora di ritornare alle loro lucrose pratiche, ossia curare la gente che può pagare lautamente. Gli ammalati delle zone rurali rimangono abbandonati come prima.

Cosa capita effettivamente a livello di «strada»? Scrive sul Washington Post la giornalista Martha Blunt: «Incontrai Stella in un bar di Nairobi. Bellina, dal corpo snello, mi diceva di avere 18 anni, ma sembrava più giovane. Rimasta orfana non riesce a trovare lavoro, tuttavia ha abbastanza da mangiare, un posto per dormire e porta dei vestiti decenti. Mentre beviamo qualcosa, arriva il “benefattore” di Stella, un sessantenne ben vestito con la fede nuziale, e abbastanza corpulento, che cerca di allontanarmi dalla sua “fidanzata”».

I sociologi dicono che si tratta del fenomeno di «sesso attraverso le generazioni» diventato comunissimo nei paesi africani; altri lo chiamano The kiss of death from sugar daddies («Il bacio della morte ricevuto dal “paparino”»); oppure in swahili baba sukari o baba mkate. In cambio di sesso le ragazze ricevono vestiti, la retta scolastica, da mangiare e, presto o tardi, l’infezione dell’Hiv.

La girandola è micidiale: le ragazze passeranno il virus al prossimo «paparino», che lo passerà alla moglie, la quale infetterà il prossimo neonato.
Il fenomeno è semplicemente la manifestazione, in termini modei, dell’atavica pratica della poligamia. Per generazioni, l’uomo africano benestante prendeva la prima moglie da ventenne, la seconda da trentenne, la terza da quarantenne, la quarta da cinquantenne e via di seguito. Ogni moglie doveva essere in età procreativa, ossia dai 13 anni in avanti. Questa usanza, ancora diffusa nelle zone rurali, è praticamente impossibile tra i ceti educati e urbanizzati. Di qui la pratica della «ragazza» sistemata in qualche angolo della metropoli.

Statistiche più o meno attendibili riferiscono che un terzo delle ragazze teen-agers (adolescenti) in Africa Orientale sono Hiv positive. Gli uomini credono che le ragazze giovanissime non comportino rischi e le medesime pensano lo stesso verso l’uomo benestante. A parte le relazioni sessuali «civili» di cui sopra, l’altra causa maggiore d’infezioni tra le minorenni sono gli abusi perpetrati sulle ragazzine nell’ambito familiare. La pratica è largamente diffusa tanto nelle campagne come nei centri urbani. Molte di queste giovanissime, rimaste orfane a causa dell’epidemia Aids, per forza si adattano a vivere con i parenti, in stato di virtuale schiavitù.

Una bambina orfana di 12 anni, intervistata dagli osservatori di Human Rights Watch, cosí rispondeva: «Mio zio, per farmi cedere, mi batteva con un cavo elettrico. Prima di andare ad abitare con gli zii, stavo con altri parenti. Il mio fratellastro mi violentava già quando avevo 9 anni».

MILIONI DI INFETTATI

Già dalle prime battute della conferenza di Nairobi risultava evidente che i farmaci anti-retrovirali, anche se venduti a basso prezzo, non sarebbero sufficienti a fermare l’epidemia. Toccherebbe ai governi acquistarle a prezzo speciale dalle aziende farmaceutiche e distribuirle gratis ai più bisognosi.

Diversi delegati hanno accusato certi paesi ricchi di sovvenzionare le conferenze per motivi politici, senza provvedere le medicine urgentemente indispensabili. La conferenza di Nairobi ha attratto 7.000 partecipanti da 109 paesi, che in 100 sedute hanno prodotto oltre 300 documenti scientifici, utili per gli archivi ma non tanto per gli ammalati. La 14.ma conferenza si terrà ad Abuja, in Nigeria, nel 2005.

Le statistiche aggiornate, per quel che valgono, parlano di 30 milioni d’africani infetti dal virus, sui 42 milioni nel mondo. Nell’Africa nera circa 2.4 milioni di persone sono morte d’Aids nel 2002. In Kenya circa 3 milioni sarebbero infetti, con oltre 500 mila morti fino ad oggi. Tuttavia le statistiche locali vanno prese per quel che valgono. I dati pubblicati sono molto approssimativi. Nelle zone rurali la gente normalmente muore di «malaria»…

Per quanto riguarda il Kenya, la conferenza ha prodotto una serie di direttive di carattere penale e legislativo, ma non ha promesso molto circa la possibilità di fornire i farmaci anti-retrovirali a tutte le persone infette. Evidentemente occorrono grandi capitali, che solo gli aiuti dall’estero possono fornire. Una nota positiva è quella che l’esercito americano, l’anno prossimo, in Kenya, inizierà una campagna di prove cliniche per un vaccino in via di sviluppo negli Usa.

INTANTO, IN SWAZILAND…

Cosa fanno gli altri governi in Africa per tenere sotto controllo la piaga dell’Aids? Per esempio, il Swaziland ha uno dei tassi d’infezione Hiv più alti del mondo.
Nel settembre 2001, il giovane monarca re Mswati III, di 35 anni, educato in Inghilterra, decretava un bando che proibiva le relazioni sessuali a tutte le donne sotto i 23 anni. Tuttavia, il giovane monarca, che aveva già «sposato» 11 ragazze, s’invaghiva della 12.ma poche settimane dopo aver scelto la numero 11: la diciottenne Nomonde Fihlawas, che aveva appena vinto la corona di miss Swaziland 2003.

Evidentemente il re contravveniva al suo decreto, emanato nel settembre 2001. Il Parlamento, in seduta speciale, lo condannava a pagare la «multa» di un bue grasso, senza dover rinunciare alla nuova «moglie».
Per chi si interessa di antropologia minore africana, riassumiamo il «modus operandi» con il quale il re del Swaziland si sceglie le «regine». La fidanzatina n. 11, una 17enne di nome Noliqhwa Ntentensa, verrà «sposata» regolarmente non appena avrà compiuto i 18 anni. Ntentensa è stata scelta dal monarca (l’anno scorso, 2002) dopo aver scrutinato una video cassetta di ragazze semi nude, che ogni anno partecipano alla tradizionale «danza delle canne» in onore della regina madre. Per la reed dance di quest’anno (2003) il re Mswati ha partecipato di persona.

Così ha commentato l’inviato speciale dell’agenzia di stampa Reuters: «Ludzidzini (Swaziland), venerdì 5 settembre 2003. Decine di migliaia di ragazzine hanno danzato, a seni scoperti, davanti al re sperando di attrarre la sua attenzione e diventare la sua prossima “moglie”. Quest’anno alla reed dance hanno partecipato un numero record di 50.000 teenagers. Nella scelta “reale” lo stato di verginità della ragazza è di rigore assoluto».

Questa «cerimonia» tuttavia attrae critiche da tutte le parti. Il piccolo regno africano è immerso nella povertà e devastato dall’epidemia dell’Aids. Una ragazza 17enne intervistata così ha risposto: «Sono stanca di essere povera. Spero che il re si accorga di me». Una grossa polemica era scoppiata dopo la danza del 2001. La madre di una ragazza aveva denunciato la scomparsa di sua figlia dal cortile della scuola, rapita, a quanto si diceva, dalle guardie del palazzo e forzata a vivere nel medesimo come «dama di compagnia». La bufera si era smorzata dopo pochi giorni. Ancora una volta aveva vinto il «palazzo».

Giorgio Ferro




KENYA- Anche gli africani hanno il mal di denti


Questa è la storia dell’Apa, una piccola associazione di dentisti italiani, che, quando possono, fanno i volontari in Africa.

Il Kenya, uno degli stati più belli del continente nero, è spesso preso come immagine oleografica dell’Africa letteraria o turistica. A molti richiama alla memoria i romanzi di Hemingway o Karen Blixen, oppure le immagini viste nei documentari televisivi e nelle agenzie di viaggio: tribù quasi «primitive», grandiosi paesaggi naturali, savane e foreste abitate da animali feroci.
Anch’io, fino a qualche anno fa, così immaginavo il Kenya e quando, nel 1992, i missionari della Consolata mi invitarono a lavorare come dentista volontario nel loro Consolata Hospital di Nkubu, uno sperduto villaggio del Kenya equatoriale, non esitai a dare la mia disponibilità.
Gli immensi scenari erano un’attrattiva irresistibile e l’idea di offrire gratuitamente la mia professione a persone che avevano necessità di cure dentarie, ma impossibilità di ottenerle, mi appagava la coscienza. Certo non mi sarei mai immaginato di trovarmi immerso in una natura così fantastica, ma soprattutto di fronte a una miseria così diffusa e profonda, accettata dagli africani con stupefacente dignità.
In realtà, chiunque abbia visitato il Kenya, come del resto gran parte dell’Africa, al di fuori dei lussuosi villaggi turistici o lontano dalle classiche rotte turistiche, avrà constatato l’estrema povertà che colpisce la stragrande maggioranza della popolazione. Milioni e milioni di persone che vivono dimenticate nel loro tragico presente ed escluse da ogni benevolo futuro. Abitano villaggi sperduti, desolanti suburbi a ridosso delle grandi città o spaventose baraccopoli che non hanno nulla da offrire, se non povertà, fame, malattie.
Quando per la prima volta ho visto la miseria in cui versa l’Africa, i bambini affamati che cercano cibo fra i rifiuti delle discariche, la gente che muore come le mosche per l’Aids (700 al giorno solo in Kenya) o per malattie curabili (come la malaria o la tubercolosi), i giovani che non potranno mai imparare a leggere e scrivere per indisponibilità di mezzi e di scuole, la mia vita è un po’ cambiata e con i miei amici mi sono chiesto se noi non potevamo fare qualcosa.

POVERTÀ E INDIFFERENZA
Sì, la povertà, una parola scomoda, complessa nelle sue implicanze, che non definisce soltanto uno stato di indigenza materiale, ma una più tragica e vasta realtà che caratterizza gran parte della popolazione del nostro pianeta; in espansione anche nei paesi ricchi, ma nel Sud del mondo rappresenta un problema di vera e propria sopravvivenza.
Per quale ragione i media continuano ad ignorare la miseria africana che si consuma così nell’indifferenza generale? Perché la tragedia delle Torri gemelle di New York, ha riempito per mesi le pagine dei giornali e i programmi televisivi, ma nessuno parla mai dei 9.000 bambini (fonti Unicef) che ogni giorno in Africa muoiono per malattie da denutrizione? Forse esistono morti di serie A e morti di serie B? Forse bisogna produrre immagini shock, affinché i media parlino della piaga della fame?
Ormai mi sono reso conto che esistono almeno due modi di vedere l’Africa: il primo tristemente realistico; l’altro mediato dai sistemi informativi di massa che, quasi sempre per ragioni economico-politiche, dipingono il continente con toni erroneamente ottimistici. Ma poiché ho avuto la ventura di conoscere la prima Africa e la gente stupenda che la abita, con alcuni amici ho pensato che anche noi, nel nostro piccolo mondo di odontorniatri, potevamo fare qualcosa; senza pensare a progetti faraonici o a chissà quali grandi mete, ma così, in semplicità, e soprattutto senza quella fastidiosa ostentazione o senso di superiorità che caratterizza una parte del volontariato umanitario.
Perché interessarsi dei poveri dell’Africa, mi si chiede, quando sono tanti i poveri qui in Italia, alcuni dei quali provenienti proprio dal continente nero? È vero. Però da noi fortunatamente non si muore di fame e chiunque può accedere a un ospedale per farsi curare o può frequentare una scuola elementare per imparare a leggere e scrivere, a meno che non viva nella clandestinità.
È altresì vero che l’Africa è flagellata da malattie ben più gravi che non le malattie dentali, basti pensare alla lebbra, la malaria, la febbre gialla, la poliomielite e oggi l’Aids, la nuova malattia dei poveri che sta causando in questo continente la più devastante epidemia a memoria storica. Se però consideriamo che la patologia dentale è la più diffusa al mondo, in quanto ne colpisce il 95% della popolazione, viene da sé che il «mal di denti» è una pena aggiuntiva per persone già martoriate da fame, analfabetismo, siccità, penuria di mezzi, sfruttamento.

«AMICI PER L’AFRICA»
In questo contesto, nel 1999, dopo anni che già si lavorava in Kenya come dentisti volontari, noi colleghi medici, insieme ad amici di vecchia data, abbiamo pensato di fondare un gruppo di volontariato odontorniatrico, che abbiamo chiamato Apa.
Queste tre lettere sono l’acronimo di «Amici per l’Africa», ma «apa» è anche una parola che in lingua swahili significa «giuramento», una felice coincidenza suggeritaci da un missionario, che richiama un patto di amicizia tra noi e l’Africa. Un giuramento per un impegno di amicizia fra odontorniatri e professionisti del dentale, che ha l’ambizioso proposito di coniugare professione medica e volontariato, nel complesso mondo della povertà africana. Non un’associazione dalle idee grandiose (che poi magari non trovano realizzazione), bensì un gruppo agile e consolidato di colleghi e vecchi amici, ognuno con un proprio ruolo preciso, che non intende far l’elemosina agli africani, ma condividere tempo, mezzi, capacità professionali, con riguardo alle loro diversità e senza sensi di superiorità nei confronti di alcuno.
Mentre nel mondo occidentale vi è abbondanza di dentisti e di tutte le più sofisticate tecniche di cura, in quello che genericamente è ancora definito «Terzo mondo», il ridotto numero di professionisti, l’elevato costo delle apparecchiature e dei materiali odontorniatrici, rendono di fatto impossibile la cura dei denti alla maggioranza delle persone. Questo spiega perché la percentuale di dentisti ammonti, per esempio, a 1 su 1.000 abitanti in Italia, mentre in Kenya si riduca drasticamente a 1 su 200.000, in prevalenza concentrati nelle grandi città.
Oggi lavoriamo in 5 ambulatori, che sono ubicati alla periferia di Nairobi, a ridosso delle bidonville di Kahawa e di Embul Bul, e in zone rurali del Kenya centro-settentrionale (Nkubu, Sagana e Isiolo). Si trovano all’interno di strutture ospedaliere o di ambulatori missionari cattolici, e sono stati da noi allestiti ex novo, oppure erano già esistenti prima del nostro arrivo, ma di fatto non utilizzati per mancanza di operatori.
Il centro di Nkubu, dove iniziò la nostra attività nel lontano 1992, da cinque anni è stato ceduto all’ospedale missionario di sua pertinenza, il Consolata Hospital, sotto la direzione di un dentista keniano e di una suora del medesimo ospedale, che si è recata due anni nei nostri studi in Italia per acquisire le nozioni di odontorniatria di base, qual’è quella richiesta in quei luoghi. Non intendiamo infatti lavorare soltanto in prima persona, ma cerchiamo di istruire personale locale, che possa portare avanti l’attività anche in nostra assenza. Riteniamo infatti che l’africano a cui offriamo la nostra professionalità, debba essere motivato ad uscire dal circolo vizioso dell’aiuto fine a sé stesso, che gli addormenta la mente senza incentivarlo a migliorare, ma anzi lo rende dipendente dal donatore.
Daniele Comboni, fondatore dei missionari comboniani, più di un secolo fa, sosteneva che «bisogna aiutare l’Africa con gli africani».

PERCHÉ VOLONTARI?
Nel tragico scenario di povertà e sventure di questi popoli abbandonati, nell’ indifferenza del mondo, quale significato può avere il lavoro di noi dentisti volontari?
Più di una volta ce lo siamo chiesti. Ovviamente noi dell’Apa non ci siamo prefissati l’impossibile obiettivo di ribaltare la situazione; semplicemente non possiamo stare con le mani in mano ad assistere alla miseria di popoli e paesi, di cui abbiamo conosciuto l’inimmaginabile povertà e le continue privazioni.
Ciò non di meno, quando pensiamo alle migliaia di persone che abbiamo curato in tutti questi anni e a tutte quelle persone che beneficiano degli studi medici che abbiamo loro donato, oggi affidati a personale locale africano, allora diventa chiara la validità del nostro operato, dimostrata anche dalle parole e dai gesti di riconoscenza dei nostri pazienti.
Non sono incline alla retorica o all’esibizionismo e spero che nessuno di noi dell’Apa voglia ritenersi chissà quale campione della causa dei poveri o aspiri ad arrivare primo a una qualche fiera delle vanità, ma al di là del mio credo religioso, penso (e continuo a pensarlo da 11 anni, di là dalle mode e dai sentimentalismi passeggeri) che per quanto poco importanti, anche piccole e volontarie azioni solidaristiche di singole persone o di piccoli gruppi come il nostro, possano avere una loro utilità.
Forse serviranno più a noi che agli africani, ma non penso sia un gran male; forse serviranno per una gratificazione personale, ma anche questo ritengo sia umano e non mi dispiace che un’«umana debolezza» in questo frangente si rilevi utile e preziosa. Martin Luther King diceva: «Non mi fa paura la cattiveria dei malvagi, ma il silenzio degli onesti».
Come si racconta nelle pagine di Pole Pole, da questa nostra lunga e mai conclusa esperienza, noi se non altro impariamo quanto piccoli siano in verità i nostri problemi davanti a chi non ha cibo per cibarsi, acqua per gli usi quotidiani, farmaci e ospedali per curarsi, scuole per imparare a leggere e scrivere e non possa confidare sull’aiuto di nessuno. Persone tuttavia che accettano queste sventure con un’incredibile e toccante dignità, che lungi da un’inutile retorica, dovrebbe esserci di insegnamento.

Andrea Moiraghi




MATIRI (KENYA): progetto «Acqua per la vita»

STREGATI DA UN SOGNO
È quello di padre Orazio
Mazzucchi, parroco di Matiri
(Kenya): dare elettricità,
acqua potabile e irrigua
alle popolazioni assetate
della sua missione.
Il progetto ha contagiato
numerose persone
e organismi, fino a tradurre
il sogno in realtà.

Indimenticabile Matiri! Vi arrivai
una sera dell’ottobre 1998, dopo
un paio d’ore di viaggio, fendendo
la polvere sollevata dall’auto
che ci precedeva. Nonostante i finestrini
chiusi, penetrava implacabile e
si amalgamava al sudore provocato
dal calore crescente a mano a mano
che dall’altopiano del Meru si scendeva
verso la regione del Tharaka.
Una bella doccia era in testa a tutti
i desideri; ma dovetti mettermi in
fila e attendere un paio d’ore prima
che il serbatornio dell’acqua si riempisse
nuovamente.
Il giorno dopo compresi le cause
dell’inghippo, quando padre Orazio
Mazzucchi mi portò sul ciglio della
collina dove sorgono le numerose
strutture della missione, mi indicò il
fiume Mutonga, sotto uno strapiombo
di un centinaio di metri, e una
pompa asmatica che rifoiva l’acqua
a tante opere.
«Presto un grande acquedotto foirà
acqua in abbondanza per le attività
della missione e le coltivazioni
agricole della gente della zona» disse
padre Orazio. E cominciò a spiegare
il progetto che aveva in mente e
i contatti già avviati con alcune associazioni
di sostegno.
In verità, quelle spiegazioni furono
subito cancellate dalla memoria,
sia dal sole canicolare che mi annubilava
la mente, sia perché mi sembravano
un progetto faraonico.
A quattro anni di distanza il sogno
si è materializzato: un tubo di 5 pollici
rifornisce in continuazione acqua
potabile a tutta la missione.

SAVANA INFUOCATA
Matiri è la prima missione fondata
nel cuore del Tharaka, una regione
dove il termometro sfonda spesso
i 40° gradi all’ombra e che i missionari
hanno sempre descritto
come un «foo», per non dire «inferno
». Anche il paesaggio, disseminato
di colline e neri massi vulcanici,
per la maggior parte dell’anno
non ha nulla di paradisiaco, ma solo
erba bruciata dal sole, cespugli spinosi
e serpenti velenosi.
Per questo il Tharaka e i suoi abitanti
furono sempre ignorati dall’amministrazione
coloniale, ma non
dai missionari che, stabilitisi negli altipiani
del Meru, cominciarono ad esplorare
la zona già nel 1911, vi costruirono
le prime scuole e, nel 1957,
si stabilirono definitivamente a Matiri,
dando poi origine ad altre due
missioni in quella landa infuocata.
Il Tharaka rimane ancora una delle
zone più povere del Kenya a causa
di diversi fattori: isolamento geografico,
mancanza d’acqua, scarsità di
strade e mezzi di comunicazione, disoccupazione
e malanni vari, come
alcolismo e presenza endemica di varie
malattie (malaria, tubercolosi, lebbra,
parassitosi, tracoma…).
La regione, dal tipico paesaggio
della savana, ha scarso potenziale agricolo;
ma esistono, lungo i pendii
delle colline e negli avvallamenti, aree
fertili, dove la gente cerca di trarre
il sostentamento per una vita grama,
coltivando miglio, sorgo, legumi
e fazzoletti di granoturco. Nel resto
pascolano alcune capre, pecore e pochi
bovini, allevati per avere un po’
di latte e carne, ma solo in occasioni
di feste e celebrazioni: il bestiame,
secondo il costume tradizionale, serve
per «comperare» la sposa.
Ma la sopravvivenza di uomini e
bestie è alla mercé del cielo: se un anno
non piove, è fame nera.
Le strade sono sterrate e impraticabili
durante la stagione delle piogge
e polverose nel periodo asciutto.
Manca lavoro e futuro, per cui si assiste
a una continua emorragia di
giovani, che cercano fortuna a Nairobi
o nelle città della costa.
Non esistono ospedali nella zona;
quei pochi sono lontani e proibitivi e
qualche volta si rifiutano di attendere
ai pazienti del Tharaka, sapendo
che non hanno un soldo in tasca.
Per rispondere alle esigenze della
popolazione della parrocchia, 46 mila
abitanti su un territorio di 600
kmq, Matiri si è sviluppata enormemente
e offre servizi d’importanza vitale:
un dispensario, dove ogni giorno
vengono curate circa 300 persone
e che sta diventando un piccolo ospedale,
grazie alla presenza continua
di una infermiera professionale, Rita
Drago, e alla presenza periodica di
medici volontari; una mateità con
20 posti letto, dove nascono circa 50
bambini al mese; una scuola matea
con 50 allievi, una scuola elementare
con 300 alunni, una scuola secondaria
maschile con 80 allievi; il Village
Politechnic (scuola professionale)
con 90 studenti.

UN LAVORO A OPERA D’ARTE
Con tante opere e persone, l’acqua
è questione di vita o di morte. Stufo
dei grattacapi causati dalla pompa asmatica, tre anni fa padre Orazio lanciò
una duplice sfida, riassunta nel
motto «Acqua per la vita»: portare
acqua potabile alla missione e quella
del fiume nei campi della popolazione
circostante.
Nel 2001 il guanto fu raccolto dal
gruppo missionario «La sola verità è
amarsi» di Barzanò, da decenni legato
al missionario, e dall’associazione
non governativa «Mondo giusto
» di Lecco, che stesero il progetto
e cominciarono ad attuarlo.
Un gruppo di volontari brianzoli
raggiunse Matiri e spianò la strada
per il passaggio dei macchinari dalla
missione al fiume. Altri membri delle
due associazioni avviarono la raccolta
di fondi, coinvolgendo in una
catena di Sant’Antonio persone, organismi
e istituzioni varie, compreso
il comune di Mairago, paese natale di
padre Orazio, sindaco in testa.
Proprio a Mairago, in una giornata
di raccolta, era intervenuto per caso
Osvaldo Felissari, presidente del
Consorzio acque potabili di Milano
(Cap), che fu contagiato dal progetto
e lo presentò al consiglio di amministrazione:
seduta stante fu deciso di
fornire tubature e assistenza tecnica.
Prima, però, bisognava studiare
bene la fattibilità del piano. Mappe,
elementi tecnici e indicazioni verbali
non erano sufficienti per un’impresa
così seria. Il Cap decise di inviare
un tecnico per studiae meglio
la fattibilità sul luogo. Si offrì volontario
un ex dipendente in pensione,
Marino Anselmi, che il 20 maggio
2002 raggiunse Matiri. Per un mese
e mezzo egli studiò il terreno e, via telefono,
chiedeva gioalmente aiuto
all’ingegnere capo del Cap per risolvere
i problemi che incontrava.
Quindi, da Milano furono spediti
vari container con tubi, pompa, filtri,
generatore e materiale di consumo;
da Barzanò furono inviati una ruspa,
martello pneumatico e ricambi; dalla
Malpensa partirono idraulici ed elettricisti
che, arrivati a Matiri, si misero
subito al lavoro, attorniati da un
nugolo di ragazzini e altri curiosi.
Si cominciò a riattivare un pozzo,
trivellato da tecnici svedesi a poche
decine di metri dal fiume Mutonga e
mai usato. Con l’impiego di 60 operai
locali, ne fu ampliata la bocca fino
a 37 metri di profondità e posta
la pompa: dopo una settimana il
pozzo era riattivato.
Ma il diavolo ci mise subito la coda:
la pompa si rivelò inadeguata e si
guastò irrimediabilmente. Nel giro
di pochi giorni, il Cap spedì per via
aerea altre due pompe (una di riserva)
di potenza superiore alla prima.
Ma i funzionari della dogana di Nairobi,
con scuse cavillose, fermarono
la cassa con i macchinari per una decina
di giorni, mettendo a dura prova
la pazienza dei tecnici milanesi.
Le nuove pompe erano perfette
per il pozzo africano: potevano erogare
1.000 litri di acqua in 8 minuti,
il tempo necessario per svuotare il
pozzo, che ritorna al livello primitivo
dopo 40 minuti. Una scelta tecnica
azzeccata: consentiva di risparmiare
carburante e non si rischiava il cedimento
delle pareti del pozzo, essendo
questo circondato dalla roccia.
A questo punto iniziò la seconda
fase dell’intervento: la posa delle tubature,
per una lunghezza complessiva
di 1.200 metri e con un dislivello
di 200.
Con la ruspa venne scavata la trincea
e disposta una duplice linea di
tubi: l’una in plastica (Pvc), destinata
all’acqua potabile; l’altra, molto
più grande, in acciaio, per il futuro
impianto di irrigazione. La saldatura
di questi ultimi richiese un lavoro
acrobatico, data la natura rocciosa e
il dislivello della collina.
Mentre si ponevano i tubi, i volontari
di Barzanò cornordinarono il
lavoro dei muratori nella costruzione
di una cabina per il pozzo riattivato
e un locale per la stazione di
pompaggio, a fianco del quale Anselmi
istallò un filtro a sabbia, per
depurare l’acqua dall’argilla, e un
bypass per il contro lavaggio, per facilitare
la manutenzione dell’impianto.

BRINDISI CON ACQUA GELATA
Il 2 giugno 2002 è un giorno storico
per Matiri: da un tubo di 5 esce la
prima acqua potabile, tra il tripudio
della gente. La sera, missionari, volontari
e tecnici brindano con bottiglie
di acqua refrigerata, quella che,
con ironia e malcelato orgoglio, Anselmi
battezza col suo nome: «Acqua
Marino: ha un sapore gradevole, incomparabilmente
migliore di quella
del fiume, da cui attinge la gente del
posto, mettendo a rischio la salute».
Le analisi successive ne confermeranno
la bontà.
Il signor Anselmi è tornato a casa
entusiasta dell’esperienza africana,
non solo per la riuscita del progetto,
ma per le tante cose imparate dalla
gente. «Da quando sono in pensione,
ho fatto tanti viaggi all’estero, in
Cina, Nepal, Africa, Messico; ma
tutti insieme non valgono questa esperienza».
Ciò che maggiormente lo ha sorpreso
è la preparazione tecnica di alcuni
collaboratori, usciti dalla scuola
professionale di Matiri. «Tutti eccellenti
– precisa Anselmi -, uno lo
era in modo particolare, Joseph: si è
dimostrato un bravissimo saldatore,
operaio affidabile e molto intelligente.
A qualcuno ho dovuto insegnare
come tenere il badile: lo imbracciava
all’apice del ferro, facendo fatica
doppia; ma una volta imparato, lavorava
con lena e ammirevole efficienza».

IL SOGNO CONTINUA
Terminato il primo acquedotto, i
tecnici del Cap hanno lasciato Matiri,
ma non è detto che non possano
tornare a dare gli ultimi ritocchi al lavoro
compiuto fino a oggi e a quello
ancora in corso e provvedere all’addestramento
di personale locale per
la manutenzione dei vari impianti idraulici.
Nella missione, infatti, è rimasto un
volontario di Barzanò per chiudere il
cerchio del progetto «Acqua per la
vita»; un sogno non meno ambizioso
di quello già portato a termine.
Superati gli intoppi provocati dalle
rivalità dei clan, è già stato scavato
un canale di 2,5 km per prelevare
l’acqua a monte del fiume e, con una
caduta di 15 metri, alimentare una
turbina elettrica, per poi essere convogliata
nei tubi di acciaio e irrorare
alcune aree agricole attorno alla missione.
Tale acquedotto permetterà alla
popolazione di rendersi economicamente
autonoma, coltivando prodotti
non solo per il sostentamento
familiare, ma destinati anche alla
commercializzazione.
La centrale idroelettrica, invece,
foirà la corrente necessaria alle numerose
strutture della missione. Il
surplus energetico diuo e notturno
sarà utilizzato per il pompaggio
dell’acqua potabile e irrigua.
Si prevede che per la seconda metà
di quest’anno l’opera sarà in funzione.
«Avremmo potuto ingaggiare
una compagnia di Nairobi, che avrebbe
fatto il lavoro in pochi mesi –
spiega Franco Godina, presidente
del gruppo “La sola verità è amarsi”
e sindaco di Barzanò -, ma abbiamo
preferito coinvolgere la gente, dando
lavoro e facendo in modo che
sentano il progetto come cosa propria,
anche se la realizzazione definitiva
richiederà un paio d’anni. Al
tempo stesso si prepara il personale
che possa curare la manutenzione
e gestione ordinaria
della struttura».

Benedetto Bellesi




Ancora su «Kenya, amore nostro»

Cari amici redattori,
questa volta non scrivo
per una delle mie solite
puntualizzazioni, ma per
rallegrarmi con voi per
l’ottima riuscita del numero
speciale, dedicato ai
100 anni dei missionari
della Consolata in Kenya.
È stato chiarificatore di
molte inesattezze nell’immaginare
la realtà della
missione e ha aiutato ad
ammirare il coraggio di
questi uomini e il mistero
della loro vocazione. Senza
una chiamata divina, è
impossibile andare (e restare)
in luoghi così lontani
e inospitali.
Mi ha molto colpita la
pratica di circoncisioni e
delle mutilazioni sessuali.
Dolorosissime! Ma che significato
hanno? Si praticano
ancora? Come può il
missionario indurre il
cambiamento di certi costumi?
Mi piacerebbe saperlo.
Ancora un «bravissimo!
» ai redattori, così documentati
e competenti.

Alle «mutilazioni sessuali» abbiamo dedicato
un dossier (cfr. Missioni
Consolata, maggio 2002).
Ma occorre considerare il
fenomeno presso ogni
popolo e cultura, senza
generalizzare. Di regola
le mutilazioni sono legate
ai riti di «iniziazione», attraverso
i quali si realizza
l’entrata degli e delle adolescenti
nella vita completa
del gruppo di appartenenza.
Le mutilazioni
cui si sottopongono i
ragazzi sono da considerarsi
una prova di coraggio
(cfr. Achille Da Ros,
Popoli e culture, Emi, Bologna
1982).

Giulia Guerci




Kenya: l’ospedale di Wamba

Egregio direttore,
a nome degli «Amici di
Wamba» mi congratulo
per il numero speciale di
ottobre, in occasione del
centenario dei missionari
della Consolata in Kenya.
In particolare gli «Amici» ringraziano l’autore
del servizio sulla diocesi
di Marsabit, per non aver
dimenticato l’ospedale di
Wamba e l’«insostituibile
figura di medico dalla
sconfinata generosità»
che è Silvio Prandoni.
Colgo l’occasione per
suggerire di dedicare un
«servizio» al Catholic Hospital
di Wamba e ai 36
anni di costante e silenziosa
presenza del dott. Silvio
Prandoni, vero esempio
di missionario laico.
Da 30 anni la nostra associazione
auspica una valorizzazione
del «laicato
missionario» nella chiesa
cattolica: siamo ancora ai
primi timidi passi.
Coraggio, direttore, è
dalle missioni che bisogna
partire per debellare il
«clericalismo, che è la malattia
infantile del cattolicesimo».

Rilanciamo la palla: tra
gli Amici di Wamba c’è
una penna che possa scrivere
tale «servizio»? Saremmo
felici di pubblicarlo
e dare un altro colpo
al clericalismo.

Ferruccio Gandolini




Ancora sul Kenya

Caro direttore,
grazie del numero speciale
sul «nostro» Kenya, tanto
amato. Col marito Feando
e i figli ho visitato questa
terra affascinante da
Mombasa a Loyangallani.
Seguo ancora le vicende
del paese attraverso gli
scritti dei missionari, che
donano se stessi per i fratelli
kenyani… Mi sono goduta
il numero «Kenya, amore
nostro» dalla prima
parola all’ultima. Ancora
grazie, direttore.

Il grazie va soprattutto
al popolo del Kenya, alla
chiesa locale, ai missionari,
oltre che ai redattori
di Missioni Consolata.

Paola Andolfi Mariani




KENYA, AMORE NOSTRO

«Il 28 giugno 1902, ottava della
festa della Consolata, alle ore
4,30 ho la santa soddisfazione
di celebrare la prima messa che si sia
detta in questa parte del Kikuyu.
Consacro alla Consolata queste povere
anime, supplicandola che ci ottenga
dal suo Divin Figlio di poter presto
raccogliere frutti abbondanti di vita
eterna». Così scrisse padre Filippo
Perlo, da Tuthu, fra i KIKUYU. Con lui
c’erano padre Tommaso Gays e i fratelli
coadiutori Celeste Lusso e Luigi Falda.
Iniziava dunque, 100 ANNI FA,
l’evangelizzazione dei missionari
della Consolata in Kenya,
neo colonia britannica.
Un’«avventura» tutta in salita.
Perché?

«MA NOI NON SIAMO COME LORO»
Uno scozzese che rapava le donne, e non solo.
I bianchi che comandavano
e i neri che obbedivano, e non solo.
Mentre i missionari ne risentivano negativamente.

IL RICORDO NEFASTO
DI BOYES

Gli europei che, dal 1895 e con
vari intenti, misero piede nel Kenya
dei kikuyu lasciarono negli abitanti
un ricordo ostile. Lo confermò il
capo locale Karuri, che commentò
il primo incontro con il bianco: «Ne
ebbi paura. Credetti di vedere un
dio e, appena a casa, prima di entrare
nel villaggio, presi un montone
per fae un sacrificio a quel dio
bianco, affinché non mi seguisse in
casa mia» (cfr. «Fonti»).
La figura che, all’inizio e più di
ogni altra, riscosse una deplorevole
nomea, fu J. Boyes. Questo scozzese,
accompagnato da 60 askari senza
scrupoli, terrorizzò Tuthu e dintorni,
al punto che la gente emigrava
in massa nell’eventualità di un
suo insediamento nel villaggio.
Era un commerciante e predatore
di bestiame, che fece strage
di elefanti incamerando
enormi quantità di avorio.
Non risparmiò le donne; se
qualcuna non gli andava a
genio, la esponeva al pub-
blico scherno, dopo averla rapata a
zero, legata ad un albero e, magari,
fucilata. L’esperienza con quell’europeo
rese i kikuyu molto circospetti:
ogni bianco era un possibile
Boyes.
I missionari della Consolata subirono
in modo negativo l’accostamento
all’avventuriero. «In qualche
villaggio – scrissero – trovammo un
po’ di diffidenza, e la causa è questa:
circa un anno fa venne qui un
certo Boyes. L’arrivo dei bianchi in
questi luoghi fu da qualcuno creduto
un ritorno di Boyes e dei suoi
metodi».
A Nyeri, fino al 1907, gli anziani
si domandavano chi fosse il patri
(padre) e rispondevano: «È un indiano
che viene a vendere cotonate
o un forestiero che compra ragazze
». Bastava addentrarsi nei villaggi
per cogliere la diffidenza.

CAROVANE, TASSE, MACCHINE
I britannici «pacificarono» la colonia
del Kenya dal 1899 al 1902.
Per salvaguardare l’occupazione, le
truppe militari si spostavano da una
regione all’altra continuamente;
gli spostamenti
erano affiancati
da carovane di portatori, che assicuravano
viveri e munizioni. A tale
scopo furono ingaggiati, con la forza,
anche uomini e donne dei territori
sottomessi.
Nacque allora la frase «andare in
carovana», che alludeva ad un grave
pericolo di vita. Infatti numerosi
portatori, durante il tragitto, soccombevano
per mancanza di assistenza
sanitaria, eccessiva fatica ed
attacchi di guerriglia.
Anche il missionario, appena arrivato,
organizzò carovane. Fu questo
l’unico mezzo a disposizione per
aprire e dislocare i suoi centri di influenza.
Una strategia rischiosa, dato
l’esempio negativo del regime coloniale.
Il potere della Corona inglese divenne
effettivo, tra l’altro, con l’imposizione
della tassa sulle case. La
quota fu di due rupie, poi tre e, infine,
sei. Quando scattarono gli aumenti,
parecchi kikuyu, colti alla
sprovvista, si riversarono nella missione
cattolica in cerca di lavoro.
Spesso gli operai del patri furono costretti
a chiedergli un anticipo di stipendio,
altrimenti l’ufficiale del governo
avrebbe razziato loro il bestiame
o bruciato la capanna o
sequestrato le donne.
Il comportamento dell’amministrazione
coloniale fu osservato con
attenzione dal missionario, che temette
una ritorsione del malumore
generale anche nei suoi confronti.
Un detto significativo, che misurava
la diffidenza kikuyu verso lo
straniero, era: «Il bianco ci ha conciati
per le feste». Tali parole, oltre
che ricalcare avversione, erano pregne
pure di magico terrore.
I bianchi apparvero ai kikuyu fra
lo scoppiettio di fucili e il frastuono
di treni, dall’alto di ponti e carri o
comodamente seduti in case di pietra.
Per i nativi tutto ciò sconfinava
nell’incomprensibile, per non dire
diabolico. Un anziano riferì ad un
padre: «Voi bianchi siete padroni
dell’ngoma [spirito malvagio]. Non
c’è un ngoma in quelle cose che voi
chiamate macchine? Vedi, noi ci intendiamo
di ferro e facciamo molti
lavori con esso, ma non abbiamo
mai visto il ferro andare da sé, parlare
e poi uccidere da lontano, sputando
fuoco su chi vuole».
Anche il missionario fu coinvolto
in questo giudizio di timore. Egli sarebbe
stato «un figlio del sole».
Quando correva in bicicletta o metteva
mano all’aratro, tirato da buoi,
la gente esclamava: «Costui è Dio».
L’ultimo atto dell’occupazione, il
più odiato, fu l’espropriazione delle
terre. L’azione fu condotta in vista
delle fattorie da assegnarsi ai coloni,
che avrebbero consolidato la supremazia
bianca in Kenya.
Il missionario accettò il sistema,
ritenendolo un male necessario affinché
la popolazione approdasse al
progresso. Egli diede per scontato il
lavoro come via allo sviluppo.
Ma i kikuyu stentarono a capire:
a cogliere, per esempio, la diversità
di azione dei bianchi del governo rispetto a quelli della missione. Occorse
del tempo per comprendere
che i primi erano una cosa e i secondi
un’altra.

DISTINGUERSI
DAI COLONIALISTI

All’inizio i rapporti fra la missione
cattolica e l’amministrazione coloniale
furono improntati a vicendevole
simpatia.
Tuttavia il missionario non tardò
a comprendere che, battendo quella
via, avrebbe compromesso la sua
opera. Era dunque urgente mutare
rotta. Accorgendosi che il proprio
comportamento era attentamente
studiato dai kikuyu, colse la palla al
balzo per prendere le distanze dal
colonialista: evidenziò la sua identità
facendosi chiamare patri o mundu
wa Ngai (uomo di Dio).
Un altro elemento differenziatore
fu la scorta armata. Era quasi una
regola che il bianco circolasse per il
paese circondato da 30-40 askari. Il
missionario intuì che la presenza di
soldati alle calcagna lo avrebbe accomunato
ai conquistatori. E rifiutò
la scorta fra lo stupore generale.
Esisteva un’altra tentazione: costruire
le missioni, sfruttando la mano
d’opera gratuita degli africani.
Dopo «le spedizioni punitive», il
governo, per scoraggiare nuove ribellioni,
obbligava 100-200 uomini
di ogni tribù a lavorare gratis per le
sue strutture coloniali (strade, fortezze,
abitazioni di askari, ecc.). Il
potere avrebbe avallato il sistema
anche per il missionario cattolico,
che però declinò l’offerta.
Bisognava non dar adito ad alcuna
illazione di connivenza fra i due
poteri: «Tanto più – commentavano
i missionari – che ripetiamo sempre
che qualsiasi lavoro fatto per noi viene
ricompensato. Una tale idea di
giustizia fa molto effetto sugli indigeni,
assuefatti a vedere nei bianchi
soltanto degli usurpatori».
Questa citazione indica un aspetto
importante per diversificare il
missionario dal colonialista: il lavoro
retribuito. I kikuyu ben presto
acquistarono la certezza che, lavorando
con il patri, erano subito pagati
in contanti, e non a colpi di kiboko
(staffile), come accadeva nei
lavori forzati del governo.
La notizia di un «bianco diverso»,
che pagava gli operai, si divulgò rapidamente.
«Durante le carovane,
alla fine della giornata, i portatori
cantavano le lodi del padre: la canzone
diceva che essi volevano sempre
lavorare con lui, perché era buono.
Il genere di bontà era specificato
e consisteva nelle rupie con cui
avrebbe pagato il loro lavoro».

LA MEDICINA GRATUITA
Il missionario, per farsi conoscere
ed accettare, camminava ore e ore
per i villaggi kikuyu «senza neppure
chiedere una banana»: e intanto
curava i malati. Egli non lesinò fatiche
in questa attività. Ogni giorno,
per ben sette ore, visitava i villaggi
distribuendo medicine; oppure attendeva
a malati in missione, curando
anche 100 persone.
Così facendo, la fama di questo
uomo bianco speciale si spandeva
ovunque.
Padre Carlo Ciravegna, ricordando
quell’intenso apostolato, scrisse:
«Di uomini bianchi ne passavano
molti sulle strade carovaniere dei
grandi laghi equatoriali: ma questi
venivano a comprare avorio e a conquistare
il paese; si facevano accompagnare
da askari armati. Invece i
padri non facevano commercio, non
avevan fucili… ma passavano facendo
del bene, curando gratuitamente
i malati. Fare del bene a gente sconosciuta
era per questi poveri neri
un fatto inaudito: per la prima volta
essi vedevano spiegarsi davanti ai loro
occhi stupefatti i miracoli della
carità cristiana».
La strategia per rimuovere le remore,
che impedivano al missionario
l’accesso psicosociale ai kikuyu,
trovò una punta di diamante nell’amicizia
con i capi locali. Il piano fu
realizzato con gradualità.
Già esisteva una piattaforma: la
familiarità con la popolazione, specie
con le donne e i bambini. «Come
volentieri le madri cedono ora
alle braccia delle suore i bimbi, e
quanto sono felici quando esse li accarezzano!
Poco alla volta noi riusciamo
a farci kikuyu ed entriamo
ogni giorno di più nella loro vita».
Visitando Murang’a, il missionario
fu accolto con entusiasmo. Gli
andarono incontro un capo famiglia,
le donne e i bambini, offrendogli
i primi posti attorno al fuoco; e
quando il patri parlava, tutti pendevano
dalle sue labbra. Alla fine dell’incontro,
il pater familias si dichiarò
figlio e servo dell’ospite. La
familiarità raggiunta si concretizzò
in scambi di doni: da una parte un
po’ di tembo (bevanda alcornolica),
latte o un montone e, dall’altra, una
coperta colorata.
Un giorno il genitore di un operaio
del centro di Tuthu si recò dal
missionario, che raccontò: «Egli mi
parla all’orecchio: suo figlio d’ora in
poi è anche mio figlio, e come egli è
padre così lo sono anch’io. Se suo figlio
è cattivo con lui, egli lo batte; se
è cattivo con me, io lo devo battere».
Però il missionario mirava più in
alto, cioè al capo villaggio, sperando
che accattivandosi le simpatie e, soprattutto,
convertendolo al cristianesimo,
la popolazione ne avrebbe
seguito l’esempio.
Lo sforzo di perseguire la fiducia
dei capi provocò pure qualche curioso
inconveniente, come quello di
due capi di Metumi, che divennero
gelosi per il reciproco sospetto che
il padre favorisse uno più dell’altro.

SPERANZE DI CONVERSIONE
Il mutato rapporto con la popolazione
fu portato alla ribalta dai missionari
con soddisfazione.
Un anziano pregava Ngai, con le
mani protese verso il cielo, affinché
elargisse al padre «tanta ricchezza e
una casa alta come il Monte Kenya,
che fosse potente come il capo Karuri
e che lo spirito del male non lo
danneggiasse mai».
Al missionario sembrava che tutto
si mettesse per il meglio.

IN AZIONE CON TRE «PUNTE»
Come coniugare in missione
il verbo «convertire»?
«Prova e vedrai! Escluso
il condizionale,
in ogni altro modo
è difficile».
Se ne discute
a Murang’a.

NON MANCAVA L’IRONIA
Il sub-commissioner nella colonia
del Kenya, L.S. Hinde, disse ai missionari
della Consolata: «Gli indigeni
vi conoscono in un modo differente
da quello con cui conoscono
il governo. Voi, viaggiando anche
in zone inesplorate, già siete per fama
conosciuti e chiamati per nome
come amici». Era una lusinga.
Il missionario non tardò ad accorgersi
che i suoi ragionamenti interessavano
poco la gente.
Padre Francesco Cagliero, durante
un catechismo ai suoi operai, chiese
perché egli fosse venuto fra loro e
quanti dèi ci fossero. Un tale rispose:
«Non so perché tu sia venuto nel
mio paese; né so quanto tu vai chiedendo,
ma mi sembra che tu oggi abbia
bevuto molto vino per venir fuori
con queste interrogazioni».
Non fu solo l’ironia ad ostacolare
l’evangelizzazione, bensì la difficoltà
intrinseca dell’argomento affrontato.
Per quanto si ripetesse che Dio
non è come l’uomo, composto di anima
e corpo, ma puro spirito, immancabilmente
l’uditorio ripiegava
su temi più abbordabili, quali: se Dio
avesse la barba, se fosse bianco o nero,
se indossasse sempre tanti vestiti,
se mangiasse ogni giorno carne.

IL BATTESIMO CAUSA MORTE?
I missionari non furono dei battezzatori
frettolosi. Infatti i primi
battesimi risalgono al 1909-1911: e
a Tuthu, la prima sede fra i kikuyu,
addirittura al 1916. Fino a tale data
si battezzò quasi esclusivamente in
punto di morte. Furono di regola
battesimi di anziani, avvicinati dal
missionario nel suo apostolato itinerante.
Divenuti amici della missione,
ne accettarono pure l’insegnamento
religioso e, data l’età avanzata, furono
battezzati di comune accordo
prima che la morte li cogliesse. Lo
stesso dicasi per i bambini moribondi.
Poiché il missionario battezzava
persone che poco dopo sarebbero
morte, i kikuyu dissero che l’acqua
versata in testa, fosse «avvelenata
dagli stranieri» e causasse la morte.
Fu un’insospettata difficoltà per l’evangelizzazione.
Si contestò la diceria discutendola
pubblicamente. Il battesimo fa veramente
morire? Il patri e la mware
sono battezzati: e sono forse morti?
«Anzi, il Signore li ha fatti ricchi e
sapienti, li tiene come suoi figli e li
difende dallo spirito del male, il quale
ha grande paura del battesimo».
Però la diceria doveva essere sfatata
con gesti visibili. Ecco allora che il
missionario, curando gli ammalati,
praticava a tutti abbondanti lavaggi
in fronte.
Non mancò, poi, l’accusa di malocchio.
Se ne avvide, a proprie spese,
suor Faconda. La missionaria voleva
prendersi cura di una bambina,
che deperiva di giorno in giorno. Incontrò
la madre al mercato, con la
bimba sulla schiena. La kikuyu, vedendola,
non esitò a lanciarle l’mbu
(grido di allarme nel pericolo), mettendo
a soqquadro l’ambiente…
Molti kikuyu parteciparono alla
prima guerra mondiale come portatori.
L’esperienza fu deleteria. Religiosamente
parlando, i pochi superstiti
ritornarono a casa scandalizzati
dal comportamento distruttivo ed
omicida dei bianchi (inglesi e tedeschi),
che pure si dicevano cristiani.
Né riportò esempi stimolanti per
abbracciare il cristianesimo chi lavorava
nelle fattorie dei coloni inglesi.
A Gatanga due cristiani furono apostrofati
dal padrone: «Siete asini, sapete
solo credere a ciò che dicono i
preti e le suore». Poi il farmista sputò
per terra con disprezzo.
E che dire della poliginia, l’eterno
scoglio per l’evangelizzazione?

LA FORZA DELLA TRADIZIONE
Tutte le obiezioni dei kikuyu di
fronte al cristianesimo sono riconducibili
ad un unico denominatore
comune: l’attaccamento rigoroso alla
tradizione.
«I kikuyu non distinguono fra vita
sociale, politica, sessuale e individuale,
ma tutte queste vite (per così
dire) formano un unico complesso,
che non si può sezionare e che ha la
sua ragione d’essere nella tradizione
». Chi la ignora automaticamente
si autoespelle dalla comunità e diventa
straniero.
La tradizione è l’anima del popolo:
rafforza il vincolo di parentela,
lo spirito di corpo e la reciproca accoglienza,
senza la quale ci si trova
disorientati. Infrangere o staccarsi
dalla tradizione significa misconoscere
il proprio paese, rinnegare la
religione degli antenati, attirarsi la
vendetta degli spiriti, esporsi all’ostracismo
degli anziani e contaminarsi
del thahu più orribile (impurità
rituale).
Quando si sentenzia «è tradizione
dei kikuyu», si enuncia un dogma,
che è pericoloso abbandonare o
dal quale deflettere. Furono visti figli
di capi, ritornati dall’Inghilterra
con tanto di laurea, riassumere le abitudini
dei genitori, per nulla scalfiti
dall’Europa.
L’attività missionaria cozzò sempre
contro il corpus integrato degli
usi e dei riti della tradizione, ai quali
i kikuyu erano legati con «una gelosia
e testardaggine da montanari».
«Dopo 37 anni di convivenza con
questa gente – scrisse padre Costanzo
Cagnolo -, pur usando la loro lingua
e seguendo da vicino tutte le loro
manifestazioni sociali, familiari e
individuali, più di una volta mi trovo
perplesso sull’esatta comprensione
della loro mentalità» (1).
Padre Giacomo Cavallo annotò:
«Trovo uno spirito eminentemente
conservatore, di cui è imbevuto il
kikuyu, che gli fa rigettare le cose solo
perché sono nuove». Ogni volta
che si prospetta qualcosa di diverso,
arriva puntuale il leitmotiv: «Però i
nostri vecchi non hanno detto, non
hanno fatto così». Le conversioni al
vangelo segnavano il passo.

GRAVE DISAPPUNTO
Convertire è un verbo all’infinito.
Come coniugarlo? «Prova e vedrai!
Escluso il condizionale, in altro modo
è difficile». La citazione, nel suo
problematico umorismo, ritrae bene
lo stato d’incertezza del missionario.
Egli non si trastullava in chimeriche
illusioni. Tuttavia, di tanto
in tanto, non riusciva a celare il proprio
disappunto di fronte agli scacchi
patiti.
Il fatto dovette impressionare abbastanza,
se un vecchio di Limuru
sentì il bisogno di accostare alcune
suore melanconiche per consolarle.
«I giovanetti, i bambini e le ragazze
vi ascoltano e vi capiscono; le donne,
invece, vanno a lavorare e a raccogliere
patate, e non si intendono
di tali cose: chi mai per il passato le
insegnò ad esse? Aspettate, abbiate
pazienza…».
Attendere e pazientare. Il missionario
era una persona di fede e di
questa si caricava per fronteggiare i
momenti di stanchezza e dubbio.

IN DIECI A MURANG’A
Gli storici delle missioni della
Consolata fra i kikuyu ravvisano
nell’1-3 marzo 1904 una data significativa
per l’evangelizzazione dell’etnia.
A Murang’a si ritrovarono
10 missionari per discutere e approvare
un metodo di apostolato.
Nell’incontro, dopo aver preso atto
dei successi ed insuccessi, si prospettò
una strategia d’azione, praticabile
secondo tre direttive.
? Formazione di catechisti: prevedeva
la scelta di alcuni kikuyu intelligenti
e retti, per istruirli e impegnarli
nell’evangelizzazione. Il sistema
fu giudicato buono, ma avrebbe
procrastinato troppo le conversioni.
?¡ Azione sanitaria e scolastica: una
linea che suggeriva di costruire
collegi e ospedali, nella speranza che
i giovani e i malati abbracciassero la
nuova religione. La proposta non riscosse
molte adesioni. Si obiettava
che i genitori dei ragazzi, non ancora
persuasi della necessità dell’istruzione,
avrebbero boicottato la frequenza
scolastica dei figli. Gli ospedali,
poi, esigevano molto denaro,
irreperibile per il missionario.
?¡ Predicazione itinerante, ossia
passare da un villaggio all’altro annunciando
la parola di Dio. Così facendo,
il cardinale Guglielmo Massaia
conseguì buoni risultati fra gli
oromo d’Etiopia (2). Tuttavia il successo
era garantito solo «nei paesi civili
o con una semiciviltà, come l’Abissinia;
ma fra popoli selvaggi e per
indole incostanti e volubili come i
kikuyu, il buon seme inaridirebbe
appena germogliato».
I partecipanti all’incontro di Murang’a
valutarono i pro e i contro di
ogni possibilità. Alla fine optarono
per combinazione delle tre linee d’azione.
Il «metodo misto» fu approvato.

EVANGELIZZAZIONE
GRADUALE

A Murang’a i missionari confrontarono
le loro prime esperienze. Riconosciuto
il pertinace attaccamento
dei kikuyu alla tradizione, convennero
che la missione avrebbe
dovuto procedere con gradualità:
pretendere immediate conversioni
sarebbe stato come «voler far fissare
il pieno sole meridiano a chi fino
allora è stato chiuso in un buio sotterraneo
». Conveniva avanzare con
piedi di piombo e, intanto, spargere
le prime idee evangeliche.
L’evangelizzazione graduale si estrinsecò
nella tolleranza e prudenza
di fronte alla consuetudo locale. A
differenza di varie denominazioni
protestanti (Church Mission Society,
Church of Scotland, Salvation Army,
African Inland Mission, ecc.), si accettò,
per esempio, l’iniziazione.
In un’epoca successiva padre Cagnolo
stigmatizzò la mancanza di
duttilità mentale, scrivendo: «Certi
educatori, che vorrebbero abolire il
corpo delle tradizioni, si creano amare
sorprese, come quando si tenta
di abolire la circoncisione ed altri
usi per sé indifferenti al progresso…
Diamo tempo al tempo». Né si indirono
crociate contro la poliginia.
In conformità alla metodologia esposta,
i primi missionari non si lasciarono
contagiare dalla «malattia
del mattone»: cioè costruire edifici
all’«europea». Scrisse padre Filippo
Perlo: «Non è nostro sistema far le
chiese e poi i cristiani, ma pensiamo
sia metodo migliore l’attendere che
questi sentano il bisogno di quelle».
Per anni la chiesa sarà un capannone
e il campanile si mimetizzerà
con un mugumu (albero sacro), dalla
cui sommità la campana suonerà
a distesa.

L’ALBERO DELLA SFIDA
Di pari passo con l’attendismo,
alcune scelte del missionario indicano
come l’evangelizzazione dovesse
pure sfidare la cultura locale.
Il capo Wambugu (che aveva concesso
al missionario delle agevolazioni
per erigere la sua sede) rispose
picche quando si ventilò l’ipotesi
di abbattere degli alberi sacri, sotto
i quali gli operatori magici compivano
sacrifici per impetrare la pioggia
o la vittoria sugli odiati masai. Il
padre tuttavia, necessitando di un
alto fusto per innalzarvi la campana,
additò proprio un rigoglioso mugumu.
Gli anziani replicarono che, se avesse
toccato l’albero, sarebbe certamente
morto; ma il missionario si
avvicinò alla pianta per incidervi col
coltello una croce. Nello sbigottimento
generale, si rivolse alla gente,
osservando che nulla gli era successo,
perché il «patri è l’uomo di Dio».
Una provocazione per affrettare
l’ora del vangelo.

(1) Padre Costanzo Cagnolo scrisse The
Akikuyu, Mission Printing School, Nyeri
1933 (un’importante monografia sul popolo
in questione, con pregevoli illustrazioni).
(2) Il riferimento al Massaia non è casuale.
I missionari della Consolata intendevano
proseguie l’opera.

ATTENTI ALLO STREGONE!
Nel villaggio tradizionale
lo «stregone» detta legge:
si nasce, si vive e si muore
ai suoi ordini.
E guai a snobbarlo!
Il missionario lo sa e prende
le sue misure.

DAL «MEDICO CONDOTTO»
Non si scherza con la tradizione.
I suoi interpreti sono gli athuuri (anziani).
Essi «formano il gran senato
della nazione; ad essi è dato di conoscere
il bene e il male e, al di sopra
di loro, non v’è che Dio. Dopo
il loro giudizio non c’è appello».
Ma il ruolo degli anziani resta lettera
morta senza il consenso, diretto
o indiretto, del mundu-mugo (medico,
indovino, operatore magico o,
più volgarmente, stregone).
Nel villaggio e nella famiglia l’individuo
nasce, vive e muore ad libitum
del mundu-mugo; nessuna azione, privata o pubblica, sfugge
al suo controllo: «Questi
indigeni non fanno nulla
di importante (o creduto
tale) senza il parere
dello stregone».
Il mundu-mugo dispone
di effettive conoscenze
terapeutiche. Ad un
missionario capitò di
assistere alla medicazione
di una profonda ferita
alla mano; l’arto venne legato
con fili d’erba e poi cucito con lunghe
spine. «Non si può negare che
tutto fosse fatto con una certa cognizione».
Quando però il mundu-mugo affrontava
un male psico-somatico, l’ironia
per il medico e la commiserazione
per il paziente traboccavano.
«Vorrei lo vedeste (lo stregone) nell’esercizio
delle sue funzioni: con
che energia si dà attorno al cliente
per liberarlo dall’ossessione di spiriti,
che gli vogliono fare la pelle. Se
non suda due camicie è solo perché
non ne possiede neanche una…».
Anche i capi si ammalano. E, come
tutti, vengono trattati dal mundumugo.
Ma, al cospetto di un personaggio
influente, lo stregone spesso
annaspa impacciato per una diagnosi
adeguata al paziente. Tuttavia se la
caverà con l’astuzia, asserendo che
«il capo è stato avvelenato da qualche
bestia mentre dormiva; oppure
un rospo gli è entrato in pancia, o
che è stato vittima di imbrogli e filtri
nocivi di qualche nemico».

ALTRE TRE MANSIONI
Il mundu-mugo svolgeva pure altre
importanti funzioni.
?¡ Arbitro di pace. Quando, dopo
un litigio o una guerra, i contendenti
trattavano la pace, si procedeva secondo
un rituale diretto dal mundumugo.
Chi chiedeva la sospensione
delle ostilità offriva i pegni della pace:
una pelle di bue, un fascio d’erba,
uno scranno, una pecora. La controparte
consegnava un montone e
una giovane pecora. Si sgozzavano
gli animali (quelli della controparte);
con il grasso si ungevano sia i pegni
della pace sia le parti che la contraevano.
?¡ Contro ladri e avvelenatori. Un
missionario, durante una visita al villaggio,
dovette sostare, perché si stava
compiendo una cerimonia. «Il
capo e lo stregone… stavano mettendo
una medicina in una piccola
fossa nella strada» e pronunciavano
minacce… Terminata l’operazione e
ricoperta la buca, il padre fu ricevuto
dal capo, che gli spiegò come tutto
ciò avrebbe impedito a qualunque
ladro o avvelenatore di entrare
nel villaggio senza essere visto.
?¡ Maledice e benedice. Fra le maledizioni
primeggiano, per efficacia
e timore, quelle scagliate da genitori
e anziani, specialmente se in punto
di morte… Camminando succedeva
di imbattersi in sentirneri e campi
attraversati da liane, tese a 2 metri
di altezza, oppure contrassegnati da
ramoscelli o pali con appeso un osso
umano. Allora i passanti indietreggiavano,
perché quelli erano segni
di maledizione.
Di fronte a tali segni, ci si rivolgeva
al mundu-mugo. Costui girava a
più riprese attorno al luogo maledetto,
ammonendo che chi lo avesse
violato sarebbe stato destinatario
di disgrazie. Proclamato il divieto,
piantava qua e là dei rami secchi,
ciascuno accompagnato da una maledizione.
«Chi entrerà qui sprofondi
sotto terra, come io vi sprofondo
questo ramo! Chi varca questi confini
inaridisca all’istante come queste
foglie secche».

L’OSTILITÀ DEL MUNDU-MUGO
Per i missionari gli «stregoni» erano
«i sacerdoti del paganesimo»,
i quali a loro volta tolleravano gli
stranieri dalla veste bianca «come
il fumo negli occhi».
Il missionario non mieteva molte
conversioni, ma intanto lavorava. La
sua popolarità, dovuta a dispensari,
scuole e fattorie, cresceva di giorno
in giorno. Il mundu-mugo lanciò l’allarme:
se non si interveniva subito,
quei bianchi avrebbero scalzato la
tradizione e, con essa, il suo potere.
Il patri apparve al mundu-mugo
come un concorrente economico temibile,
capace di rovinargli la piazza
con la cura gratuita dei malati…
mentre lui esigeva bovini e ovini.
Contro la volontà del mundu-mugo
e degli anziani, nel 1907 a Limuru
il missionario riuscì nel difficile
intento di ridurre il tributo di montoni
che i giovani della «classe d’età»
dovevano pagare a quella anteriore
di otto iniziazioni: non più 60 capi
di bestiame, ma due!
Il fatto fu grave, perché provocò
un contrasto fra le generazioni, contrasto
fino allora sconosciuto nella
società kikuyu. Ma questo era quanto
il missionario si riprometteva: disarticolare
il sistema tradizionale per
far spazio al messaggio evangelico.
Il mundu-mugo attaccò il missionario
con accuse precise.
a) Accusa di siccità. Padre Perlo,
fondatore nel 1903 della missione
centrale di Nyeri, all’inizio stabilì la
sua sede sulla collina Niagaitua, in
barba a tutti. Il loro stregone Waweru
lo apostrofò: «Tu ci hai assicurato
che sei venuto in mezzo a noi per
farci del bene, ed ecco che ora ci
porti un gran male, fabbricando la
tua casa su questa collina sacra; Dio
si è offeso, ci nega la pioggia e con la
ostinata siccità annienta i nostri raccolti
e vuol farci morire di fame».
b) Accusa di avvelenamento. Era
morto Wanghengie, un operaio addetto
alla controversa costruzione
della missione sulla collina Niagaitua.
Il mundu-mugo colse la palla al
balzo per diffondere la notizia che il
bianco avvelenava i kikuyu, per pascersi
di notte dei loro corpi. L’accusa,
che mirava ad isolare il missionario,
sortì un certo effetto: «Per
quasi due mesi restammo isolati dalla
gente, per quella specie di blocco
morale di cui gli stregoni, con la loro
infame calunnia, erano riusciti a
circondare la missione».
c) Accusa di sterilità. Il mundumugo
ammoniva incessantemente:
«Chi si fa cristiano non avrà figli in
eterno!». Lo stesso capo Karuri, sul
punto di convertirsi al cristianesimo,
si sentirà minacciare: «Amico, prenditi
guardia! Ti proibiranno di avere
dei figli: vedi un po’ se essi ne hanno!».
Di fronte a tali accuse, il missionario
rispose con l’azione catechetica
e sanitaria. E… qualche mundumugo
mutò atteggiamento.

DA RIVALI AD AMICI
Il primo incontro fra un missionario
e un operatore magico avvenne
il 12 ottobre 1902 (a Tuthu?), per
iniziativa di padre Perlo. Egli intuì
subito l’eccezionalità del personaggio
e, da abile stratega, gli chiese un
appuntamento, come qualsiasi altro
cliente. Al termine il mundu-mugo
pronunciò il responso: favorevole in
tutto.
Padre Rodolfo Bertagna ne cercò
l’abboccamento per un’intervista su
Dio. «Gli chiesi se sapeva così bene
le cose di Dio, come si intendeva
delle sue pecore… Tutto il suo scibile
in materia si riduceva a questo: esservi
due dèi; uno in alto per le cose
al di sopra della superficie terrestre
ed uno in basso, entro terra, da cui
vanno quelli che muoiono. Concluse
la dissertazione con un’aria trionfante,
visto che non l’avevo mai interrotto
né contraddetto».
Diversi missionari strinsero amicizia
con il mundu-mugo. Poteva capitare
che, durante il catechismo, avessero
come uditore lo stesso operatore
magico… L’argomento di una
lezione era l’unità di Dio. Terminata
l’esposizione, il mundu-mugo ap-
provò il maestro, pur stravolgendo
il senso del discorso. «Sentite, uomini,
il padre ha parlato bene. Noi
credemmo sempre che ogni collina
avesse il suo dio, e ci sbagliavamo.
Non ci sono che due dèi: uno per i
bianchi e uno per i neri…».
Il mundu-mugo e padre Antonio
Borda Bossana, una volta conosciutisi,
entrarono in confidenza. «Mi
racconta le istruzioni che ha sentito
dalle suore riguardanti l’eternità dell’anima,
l’unità di Dio, giusto e onnipotente,
e aggiunge che anche lui
ora, quando va a medicare i malati,
fa la preghiera al Dio del patri e insegna
tutto quanto ha sentito di
nuovo. In verità da questi stregoni
non era da aspettarsi così subito un
aiuto tanto prezioso».

LA GRANDE RINUNCIA
Leggiamo in un diario anonimo:
«Ho trovato che i nostri insegnamenti
sono assai diffusi e (per così
dire) inconsciamente assorbiti; tanto
che molti anziani ed anche qualche
stregone mi enunciarono le cose
da noi insegnate riguardo a Dio,
ai suoi attributi, all’anima umana e
alla sua destinazione oltre la tomba,
miste colle loro credenze».
Il testo, del 1905, conferma il mutato
rapporto fra missionario e mundu-
mugo. Non era ancora la conversione,
ma per l’evangelizzatore era
già un consolante risultato. Il salto
di qualità per l’avvicinamento al cristianesimo
fu l’accettazione che i figli
dello stregone si battezzassero.
Karogo aveva cinque mogli e una
stalla che rigurgitava di vacche. Era
un mundu-mugo convinto; per la sua
rettitudine, prudenza e ospitalità era
venerato come un patriarca nell’intera
regione di Tetu e Masera. Acconsentì
che il figlio ventenne Momboy
si convertisse al cristianesimo. A
casa sua strinse un patto di amicizia
con la missione… a scapito di un magnifico
montone!

IL MISSIONARIO NON È…
«Non esiste religione senza il suo
mundu-mugo». Secondo questo proverbio
kikuyu, il missionario fu assimilato
all’operatore magico. Infatti
anch’egli, come il mundu-mugo, curava
gli ammalati, indiceva preghiere
per la pioggia, consigliava.
Padre Gioachino Cravero ascoltò
un dialogo fra un anziano e il capo
Karuri. «Dunque – interruppe il vecchio
– i padri sono anch’essi stregoni?
». «Sicuro – rispose convinto Karuri.
Qual paese e qual popolo non
ha i suoi stregoni? Li hanno i bianchi
in Europa… Perfino Dio in cielo
ha i suoi stregoni, per dare le medicine
a quelli che stanno lassù con lui.
Non è così, patri?».
Padre Cravero non gradì il paragone.
E, tutte le volte che il suo lavoro
era equiparato a quello del presunto
collega, metteva i puntini sulle
«i»: il patri insegnava una verità
certa e traeva la dottrina dalla sapienza
di Dio, mentre il mundu-mugo
si affidava alla divinazione.
Il missionario non accettò di essere
paragonato all’operatore magico
neppure nel campo medico, per
non inficiare il messaggio evangelico
della stessa magia. Che la religione
kikuyu fosse compenetrata di elementi
magici costituiva per lui una
ragione in più per salvaguardare
la propria da una simile affinità, allo
scopo di proporla come un’alternativa
assolutamente nuova.

IL PREZZO DELLA SPOSA
«Intrattenetevi quanto
volete con i neri…
Decantate loro i diritti
delle donne…
Essi vi risponderanno
con il sorriso più fine:
“Ma… la donna
non è un uomo”».

POVERE DONNE!
Il primo impatto del missionario
con la donna lasciò subito una
traccia profonda nel suo cuore. Le
bambine nude, le ragazze rapate,
le madri a seno scoperto o vestite
con una ruvida pelle
imbevuta di grasso misto a ocra
lo impressionarono.
L’impressione si tramutò immediatamente
in «compassione», allorché
apparve la mole di fatica sopportata
dalla donna. «I kikuyu appartengono
ad una bella razza, che
però nelle donne è degenerata a
causa delle eccessive fatiche».
Il missionario dovette aver ritratto
la donna continuamente curva
sotto pesanti carichi, se
scrisse: «In questo paese la
donna è la vera bestia da soma.
Dal mattino alla sera ogni
riposo le è sconosciuto». Il paragone «bestia da
soma» riecheggerà ancora
nel 1954.
Ci si aspetterebbe un po’ di considerazione
per la donna incinta.
Invece… «le donne sono non di
rado, insieme colle loro creature,
vittime innocenti di tanta schiavitù.
Non sono pochi i casi di aborto
(spontaneo), come sono
ancora abbastanza frequenti
le morti di giovani spose nel
momento di dare alla luce il
frutto delle loro viscere».
Che il «sesso debole» svolgesse
mansioni più numerose del «sesso
forte» è fuori discussione. Ecco che,
mentre le mogli sudano nel campo,
i mariti «vanno a zonzo» a tracannare
birra. Ecco che mentre le sorelle
sono impegnate nel trasporto
di un carico, i fratelli guerrieri si allenano
nel canto e nella danza o lucidano
le lance. E mentre le ragazze
collaborano con le missionarie nella
conduzione di orfanotrofi ed asili,
i ragazzi a scuola rifiutano ogni lavoro,
come i genitori maschi.

INFERIORITÀ PARADOSSALE
La donna subiva una paradossale
discriminazione: non solo svolgeva
un’azione economica superiore a
quella dell’uomo, ma l’assolveva in
una inferiorità psicosociale, indotta
e mantenuta dalla nascita alla morte.
Alla nascita di un figlio, la madre
e le sue assistenti emettevano un trillo
di gioia, ripetuto cinque volte se
era maschio e tre se femmina. Il padre,
per celebrare la venuta al mondo
di un nuovo rampollo, tagliava
cinque o tre canne da zucchero: cinque
per un «lui» e tre per una «lei»…
L’iniziazione per i giovani è l’evento
per antonomasia. È una festa
per tutti, specie per i candidati. Trattandosi
tuttavia delle ragazze, i festeggiamenti
si svolgevano in tono
più dimesso rispetto a quelli per i ragazzi:
una minore coreografia di balli
e canti, un’offerta ridotta di cibi e
bevande.
La donna era la massima incarnazione
della forza-lavoro: dissodava
il terreno, seminava, mieteva e
trasportava a casa. Il suo lavoro non
sempre era compensato da un adeguato
raccolto; bastava una breve
siccità per annullare la sua fatica. In
tale caso, all’inizio di una nuova semina,
la donna doveva assoggettarsi
alla purificazione con il sacrificio
di una pecora o una capra, onde rimuovere
il thahu (impurità) che aveva
frustrato il dovuto raccolto.
Quando la donna cadeva ammalata,
rischiava la morte per mancanza
di assistenza: le si prestava un po’
di cura nei primi giorni di malattia;
ma, se non guariva in fretta, era abbandonata
a se stessa. È sorprendente
che quasi tutti i morenti rinvenuti
dai missionari nella brughiera
fossero donne o bambini.
Nel 1930 era ancora imperante,
se padre Ciravegna poté scrivere:
«Intrattenetevi quanto volete con i
neri, anche coi più svegli ed intelligenti.
Decantate loro i diritti delle
donne; spiegate con pazienza le ragioni
buone a persuaderli dell’onore
a cui la donna ha diritto in forza
della sua debolezza e delle sue funzioni
di madre… Essi, scrollando il
capo, vi risponderanno col loro sorriso
più fine: “Ma… la donna non è
un uomo!”».

LA DONNA SPOSATA
Una moglie come si comportava
nel regime poliginico? Alla stregua
del proverbio «due donne insieme
sono due vasi di veleno», ci si aspetterebbe
gelosie e litigi all’ordine del
giorno. Non era escluso: per questo
ogni moglie viveva separata nella sua
capanna.
Tuttavia, non di rado, si assisteva
ad una pacifica convivenza. Fratel
Benedetto Falda rilevò: «Il bisogno
di aiutarsi per i lavori faticosi dei
campi, il taglio della legna, ecc. fa sì
che queste disgraziate, sfiorite dalla
loro giovinezza, conducano una vita
senza sogni, perché non sono considerate
degne di essere consultate
o di condividere col marito l’amministrazione
della famiglia, ma solo riservate
a produrre figli che aumentino
la ricchezza del capo famiglia».
La poliginia, pertanto, diventava una
scappatornia per sgravarsi dal lavoro.
Talora l’insofferenza femminile esplodeva:
la donna fuggiva di casa.
Era un gesto di enorme coraggio,
perché carico di conseguenze. Se la
moglie abbandonava il marito senza
essere stata picchiata, non poteva più
tornarvi se prima non lo avesse pacificato
«con il sacrificio di un montone». Il che costava.
Eppure alcune mogli erano così esasperate
che ne combinavano «di
belle e strane per costringere il marito
a percuoterle».
Altre volte era l’uomo ad assumere
l’iniziativa di cacciare la donna.
Questo avveniva quando la sposa
dimostrava poco amore al lavoro,
oppure era rea di infedeltà coniugale.
Fu il caso di Wangiuku, adultera
e pigra. La donna, cacciata, andò errando
di casa in casa per un po’ di
cibo e un ricovero per la notte. Il figlio
illegittimo trovò rifugio nell’orfanotrofio
della missione, mentre la
madre finì la sua esistenza azzannata
dalla iena.
Nelle liti minori fra marito e moglie,
il missionario interveniva talora
da paciere. «Non di rado la rappacificazione
di mariti e mogli avviene
per i buoni uffici del patri, raggiunta
con soddisfazione delle parti».

ASILI, COLLEGI, CONVENTI
Con il taglio del cordone ombelicale,
madre e figlio incominciano ad
existere separatamente. Chi nasce,
tuttavia, è ben lungi dall’essere autonomo,
in quanto ha estremo bisogno
degli altri e, in caso di allattamento
naturale, della donna in modo
esclusivo.
Le madri kikuyu raramente, durante
il giorno, deponevano i figli
poppanti. Le vedevi al mercato o in
chiesa, mentre sarchiavano o attingevano
acqua, con il bimbo sempre
lì: sulla schiena o attaccato al capezzolo.
E chi attendeva agli altri figli?
Non «lui», ma sempre «lei».
Però agli svezzati si concedeva parecchia
libertà: un’espressione eufemistica
per nascondere l’impossibilità
fisica di curarsi di loro.
Il missionario, osservando quotidianamente
molti ragazzetti abbandonati
a se stessi e affamati, decise
di raccoglierli in asili. Nel 1920 ne esistevano
15. L’iniziativa favorì sia i
figli sia le madri, per ragioni facilmente
intuibili.
In alcune missioni l’affluenza di
bambini all’asilo fu tale che, mancando
del necessario personale di
assistenza, le missionarie furono costrette
ad accettare solo i figli di famiglie
cristiane. «E non potete immaginare
quanto le donne ci prendono
gusto al sollievo che l’asilo loro
apporta; al mattino presto sono già
lì con i loro piccini; mentre alla sera
non compaiono mai a ritirarseli».
Un altro passo mosso dal missionario
per la «liberazione della donna
» si concretizzò nei collegi femminili.
Il primo sorse a Nyeri nel
1911; nel 1921 erano 13, capaci di ospitare
250 ragazze. In questi centri
erano istruite religiosamente, imparavano
a leggere e a scrivere, si esercitavano
in cucito e culinaria. Specialmente
erano avviate al matrimo-
nio cristiano attraverso una capillare
sensibilizzazione ad opporsi alla
poliginia, basata sulla compra-vendita
della donna.
L’unico onore raggiungibile dalla
donna era quello di generare figli. La
sterile era oggetto di scherno. E una
ragazza che, volontariamente, avesse
rinunciato alla mateità, avrebbe
costituito un caso serio aberrante. Il
missionario mirò proprio a questo:
avere delle donne che professassero
la verginità per «vocazione».
Nyeri, 8 dicembre 1929: 10 ragazze
kikuyu emisero il voto di castità
come suore. Quando, due anni
prima, vestirono l’abito, si tenne il
«siku kuu ya airitu» (il grande giorno
delle vergini).
Per i kikuyu «airitu» sono le ragazze
non iniziate che, se rimaste tali,
non sarebbero mai state ritenute
donne. Il fatto che per delle airitu si
organizzasse una festa infliggeva un
colpo severo alla mentalità kikuyu.
All’unico ideale della fecondità-mateità,
condizione imprescindibile
per realizzarsi, si replicava con quello
inedito della verginità… per il regno
dei cieli (cfr. Mt 18, 12).
Ma la verginità o il celibato comportava
per i kikuyu un atto di fede
nell’assurdo. Economicamente e socialmente
si infrangeva l’istituzione
della «ricchezza della sposa»…
Per l’evangelizzatore era pure «la
rivincita del sesso debole»: dopo essere
stato calpestato per secoli con
dicerie e sarcasmi, esso acquistava
dignità e rispetto anche al di fuori
del dogma della tradizione.

RESISTENZE AL MUTAMENTO
Il sistema maschilista reagì prontamente
ai tentativi di mutamento.
Sull’affluenza dei bambini all’asilo
gravarono le solite accuse di cannibalismo
e di avvelenamento, rivolte
al missionario. Ma, con il passare del
tempo, le prevenzioni scomparvero.
Più lungo si rivelò, invece, il contrasto
circa le ragazze che frequentavano
la missione; a tal punto che i
collegi si limitarono ad essere solo
dei dormitori. Si temeva (non a torto)
che le ragazze si convertissero al
cristianesimo.
Nel giugno 1932 a Murang’a il Local
Native Council discusse la proposta
delle missioni cattoliche di aprire
e finanziare un collegio femminile.
Il primo kikuyu che interloquì
sull’argomento aveva fama di essere
progressista; ma sostenne che «la
donna è una schiava, che deve lavorare
soltanto per il marito e che, pertanto,
non deve essere considerata
degna di educazione alcuna». Così
ragionarono anche gli altri membri
del Consiglio, sancendo la fine dell’emancipazione
della donna.
Ancora più tenace fu l’opposizione
alle postulanti della «vita religiosa
». Poiché, mentre le ragazze del
collegio, alla fine si sposavano e la famiglia
percepiva «il prezzo della
sposa», quelle che invece si chiudevano
in convento non procacciavano
il becco di un quattrino.
Per protestare contro il mancato
guadagno, una madre giurò di impiccarsi
ad un albero del monastero.
Vari genitori fecero ricorso al governo
coloniale, che impose al missionario
di restituire le ragazze o di
pagare una somma equivalente al
«prezzo della sposa». Altre furono
rapite mentre lavoravano alla missione,
rinchiuse in una capanna per
parecchi giorni e battute a sangue.
Erano altri tempi.

ECCO IL RE. EVVIVA IL RE!
Il tormentato
cammino di Karuri
verso il battesimo.
Ma che fare delle
50 mogli?
E la conversione
fu libera? Il valore
determinante
del bene.

NELLA LEGGENDA… DA VIVO
Quando a Tuthu, nel 1902, avvenne
il primo incontro fra il capo
Karuri e il missionario, il kikuyu era
all’apice della sua fama. Ricchissimo
di terre e bestiame, di figli e mogli
(ne avrebbe accasato almeno 50!),
Karuri era il «re» più temuto dagli altri
capi e il più rispettato dalla popolazione.
Intelligenza e forza, ambizione
e volontà gli avevano spianato
la strada verso una eccezionale
ascesa sociopolitica. Come se non
bastasse, vantava una storia personale,
che lo proiettò nella leggenda
ancora vivo.
Karuri sarebbe stato gravemente
ammalato. Secondo il costume locale,
fu confinato nella brughiera e,
quando sembrò morto, abbandonato
in pasto alle iene. Ma qualcuno lo
riportò a casa e guarì. L’evento fu il
trampolino di lancio verso il successo.
Era evidente, infatti, che questo
uomo, vincitore della morte, avrebbe
operato grandi cose.
Per spiegare il fatto si ricorreva al
mito della «doppia origine». Sarebbero
esistiti «due» Karuri: il primo,
quello umano, morto nella foresta…
per lasciare posto al secondo, di
provenienza divina. L’idea era così
radicata che qualcuno, dopo avere
perlustrato la cappella dei missionari,
«vista la madre e il figlio di Dio»,
avrebbe domandato: «Karuri
dov’è?». Come se la chiesa, la casa
di Dio, dovesse essere la naturale dimora
del capo.

UNA FIGURA COMPLESSA
Karuri fu anche un mundu-mugo,
«facitore della pioggia». Si sarebbe
pure dato alla divinazione. «I suoi
responsi sono i più stimati. Egli è richiesto
soprattutto quando si ammala
un capo, e ci va con solennità.
Però egli, più furbo, quando non sta
bene, viene da noi (missionari), perché
ha ormai provato che le nostre
medicine, specie se purganti, l’effetto
lo producono con sicurezza».
Commentando la morte di un ragazzo,
avvenuta nonostante il sacrificio
ufficiato da un mundu-mugo,
Karuri esclamò: «Quanto sono ignoranti
i kikuyu!… Correte a fare la cabala
dallo stregone, e intanto la gente
muore. Non sapete che, prima dei
sacrifici dei montoni agli spiriti, bisognano le medicine? E per dare le
medicine adatte soltanto il patri e le
suore non sbagliano».
A Tuthu pioveva troppo e le messi
marcivano sui campi. Karuri, arrabbiato
con i «facitori della pioggia
» per non essere stati capaci di
arrestarla, li radunò tutti, «e ora sono
là, legati al collo, che si sforzano
coi loro gesti a far cessare la pioggia…
Se non ce la faranno, staranno
lì. E quanti colpi di kiboko si sono
già presi!… Di notte si ritirano nella
capanna; però sono proibiti di accendere
il fuoco per scaldarsi».
Un simile comportamento, contraddittorio,
lasciava trasparire una
complessa personalità, capace di
esulare dal canone della tradizione.
Per il missionario era di buon auspicio.

INTESA E FASCINO
Tra l’evangelizzatore e il leader
nacque subito un’intesa. Al primo
giovò molto, per superare la diffidenza
del popolo. Di fronte agli altri
capi ed anziani, «egli (Karuri)
parla di noi (missionari) e ci presenta
ai suoi sudditi. Dice che siamo venuti
non con pensieri cattivi, ma per
far loro del bene, curarli delle malattie,
insegnare a leggere e scrivere,
difenderli dai nemici».
A Karuri interessò soprattutto l’istruzione.
La prima scuola fu aperta
nel 1902, frequentata dallo stesso
capo e dai suoi figli. All’illustre allievo
il missionario riservò un trattamento
speciale con lezioni private.
A volte nel capo albergavano secondi
fini, come quando esigeva dal
bianco qualche regalo (una coperta
colorata, ad esempio). In tali frangenti
il missionario rifuggiva dal patealismo,
scoraggiando il pretendente.
Al pari di tutti, Karuri subì il fascino
del missionario, specie del suo
servizio gratuito. Secondo l’usanza
kikuyu, chi si rivolgeva ad un superiore
per consigli o per risolvere un
problema, gli offriva un montone
quale ricompensa. Ma Karuri, impressionato
dalla generosità del patri,
non fu da meno: soppresse ogni
donativo dovutogli.
Il missionario aspettava Karuri al
«varco». Nel frattempo mise in atto
varie iniziative per accelerae la
conversione.
?¡ Risiedere vicino al capo. La località
dove erigere la missione, oltre
che centrale rispetto alla gente, doveva
soddisfare il requisito di «essere
alle costole di Karuri, per avere
una costante influenza su di lui».
?¡ Catechizzare il capo a tu per tu.
L’efficacia dell’iniziativa consisteva
proprio in quel «a tu per tu».
?¡ Riposo domenicale alla missione.
Scrisse padre Gaudenzio Barlassina:
«Pigliando Karuri in disparte
gli suggerii, poiché imita il bianco,
di imitarlo anche di domenica,
rifiutando la cira (assemblea) e tutto
il suo lavoro; la festa sia per tutti
di Dio e trascorsa con il padre. Accettò
volentieri».

LA DIFFICILE CONVERSIONE
Se le conversioni dei kikuyu al cristianesimo
furono travagliate, quella
di Karuli le superò tutte per difficoltà.
Lo «scandalo dell’apostasia»
dalla tradizione e il timore della conseguente
vendetta degli ngoma pesarono
sull’animo di Karuri come
un incubo. Gli anziani e i capi minori
gli puntavano di continuo il dito
del «non ti è lecito».
Gli sciamani si dimostrarono i più
irriducibili, poiché la defezione del
grande capo avrebbe segnato la loro
parabola discendente. Senza di
lui, come avrebbero potuto conservare
il potere? Secondo gli anziani,
era gravissimo «correr dietro a certe
dottrine dei bianchi», che stavano
mangiandosi tutta la ricchezza
del paese.
Fra le difficoltà affrontate da Karuri,
è da menzionare anche la critica
pretestuosa del protestantesimo
e dell’islam contro il cattolicesimo.
I missionari anglicani inglesi guardavano
in cagnesco quelli cattolici
italiani (e viceversa). «Chi sono gli
italiani? Povera gente in cerca di che
sfamarsi. Figurarsi! Nel loro paese
sono tanto schiavi che sono obbligati
a fare gli askari per niente… I padri
poi ti costringeranno ad adorare
una muiritu, ad inginocchiarti davanti,
vedrai!» (allusione alla Vergine
Maria). Per un kikuyu inginocchiarsi
davanti ad una muiritu, cioè
una ragazza non iniziata, era un’umiliazione.
I musulmani sfruttarono l’opinione
secondo cui l’islam, oltre ad assicurare
un progresso rispetto al culto
tradizionale, sarebbe stata anche
una religione più adatta alla mentalità
kikuyu.
Che dire, poi, della scandalosa incoerenza
degli stessi cristiani con le
loro intee divisioni? Gli ufficiali
dell’Impero britannico, attillati, seri
e potenti, «com’è che non vengono
in chiesa? Perché non sono tutti
cattolici, se la vostra è l’unica vera
religione? E il re d’Uganda, perché
non è cattolico, ma protestante?».
Infine l’ostacolo della poliginia.
Non fu di poco conto per Karuri rinunciare
alle sue 50 mogli. Al di là
della componente affettiva (da non
sottovalutare), quelle donne valevano
centinaia e centinaia di montoni,
dozzine e dozzine di buoi! Con il
battesimo tutto sarebbe svanito.

GIUSEPPE
E MARIA CONSOLATA

Candidata al battesimo c’era pure
Wanjiru, «la regina» delle 50 consorti
di Karuri. Fu lei che il capo
scelse come sposa per il resto della
nuova vita. Le altre furono date in
moglie ad amici e conoscenti, con i
quali Karuri aveva debiti di riconoscenza
per servizi ricevuti.
Il 6 gennaio 1916 Karuri e Wanjiru
furono battezzati con il nome di
Giuseppe e Maria Consolata.
Karuri visse appena 5 mesi da cristiano.
Il missionario, che ne aveva
favorito la conversione fin dal 1902,
vide coronati i propri sforzi dopo 14
anni, quando la vita del capo volgeva
ormai al tramonto.
Quali furono gli effetti dell’avvenimento
per la causa dell’evangelizzazione?
Buoni, secondo padre Perlo.
Qualche missionario credette di
scorgere in tutta la popolazione l’attesa
evoluzione psicologica, favorevole
all’accettazione del battesimo.
Alcuni kikuyu si sarebbero perfino
chiesti: «Karuri si battezza! È dunque
questa la via da seguire?» (*).
Ma la realtà fu diversa. Maria Consolata,
per esempio, la promettente
moglie cristiana di Karuri, morto il
marito il 14 maggio 1916, ridiventò…
Wanjiru. Altrettanto significativo fu
il fatto che nessuno dei figli più influenti
di Karuri si fece cattolico.

PRESSIONE?
Ogni conversione religiosa trascende
la logica umana. Per i missionari
quella di Karuri era da attribuirsi
principalmente all’azione della
«grazia divina».
Questo tuttavia non fuga le perplessità
umane sull’accaduto. Non si
potrà mai stabilire quanto la conversione
del capo sia stata libera e sincera.
Ci si chiede se nel missionario
ci sia stata pressione… In ogni caso la
sua buona fede è fuori discussione.
La ricerca di un’azione adatta al contesto
culturale e, particolarmente, gli
scoraggiamenti e i dubbi dimostrano
che l’evangelizzatore non ebbe altro
scopo che quello religioso e che
operò secondo coscienza.
La buona fede, dimostrata e convalidata
da opere di carità, salvò i
missionari dall’essere accomunati ai
colonialisti. «Il padre non è uno straniero
» osserveranno i kikuyu durante
la lotta dei Mau Mau per l’indipendenza
del Kenya (1950-54).
Ma le stesse opere di carità potrebbero
prestarsi all’accusa: «Così
facendo, voi li comprate alla fede».
Però giova ricordare come i missionari
si siano astenuti da doni inutili
e abbiano proposto la conversione
evangelica nella sua essenza.
Essi hanno operato con dedizione
cristiana, sull’esempio di Gesù
Cristo, «il quale passò facendo del
bene e sanando tutti» (At 10, 38).
(*) Il personaggio fu analizzato da padre
Filippo Perlo nel libro Karoli, Istituto
Missioni Consolata, Torino 1925. Il
sottotitolo «Il Costantino Magno del
Kenya» è eloquente.

Superficie: 582.646 kmq.
Popolazione: 30 milioni (stima 2000).
Capitale: Nairobi (2,5 milioni di abitanti).
Gruppi etnici: kikuyu 17,7%, luhya 12,4%, luo 10,6%,
kamba 9,8%, kisii 6%, meru 5%, mijikenda 5%, kalenjin,
turkana, maasai, pokot, borana, samburu, indo-pakistani
(80 mila), europei (45 mila), arabi (40 mila).
Lingue: kiswahili (ufficiale), inglese e idiomi locali di origine
bantu (luyia, gusii, guria, akamba, kikuyu, embu, meru,
mbere, tharaka, swahili, mijikenda, segeju, pokomo, taita,
taveta), nilotici (maasai, samburu, turkana, teso, njemps,
el molo, kalenjin, nandi, marakwet, pokot, tugen, kipsigis,
elkony, luo) e cusciti (boni, somali, rendille, orma, borana,
gabbra).
Religione: tradizionale 60%; cattolici 26%; protestanti
7%; musulmani 6%.
Ordinamento statale: Repubblica presidenziale; membro
del Commonwealth, Onu, Oua, associato Ue.
Presidente e capo del governo: Daniel Arap Moi dal
1978. Dicembre 2002: elezioni presidenziali senza Moi.
Economia: agricoltura per esportazione: caffè, tè, ananas,
piretro, fiori, cereali; allevamento, specie tra i pastori
nomadi; turismo (377 milioni $ Usa nel 1997).
Indice sviluppo umano: 0,508 (130° su 174 paesi).
Analfabetismo: 17,5%.
Pil pro capite: 350 $ Usa (1998).
Debito estero pro capite: 242 $ Usa (1998).

FONTI CONSULTATE
Tutte le testimonianze e citazioni,
riportate nel presente articolo e
in quelli successivi, sono tratte con
qualche adattamento da: Francesco
Beardi, I MISSIONARI DELLA CONSOLATA
FRA I KIKUYU DEL KENYA, 1902-
1933, Torino 1980.
È una tesi di laurea in antropologia
culturale alla facoltà di Scienze
politiche del capoluogo piemontese,
che si avvale di tutti gli articoli
sui kikuyu pubblicati dalle
riviste mensili «LA CONSOLATA» e
«MISSIONI CONSOLATA» dal 1902 al
1933. La tesi valorizza pure diari
di missionari, non pubblicati, ma
esaminati da: Alberto Trevisiol, I
PRIMI MISSIONARI DELLA CONSOLATA NEL
KENYA, 1902-1905, Università Gregoriana
Editrice, Roma 1983.
Per un’introduzione alla storia e
cultura dei kikuyu fino all’arrivo dei
missionari della Consolata, si legga
il saggio di Francesco Beardi,
I KIKUYU DEL KENYA, in «Il popolo
kikuyu», Edizioni Missioni Consolata,
Roma 2001, pp. 11-30.
Circa l’impatto del cristianesimo
sulla cultura tradizionale kikuyu, si
veda: Silvana Bottignole, UNA CHIESA
AFRICANA SI INTERROGA, Morcelliana,
Brescia 1981.

GLOSSARIO KIKUYU E MERU
– Airitu: ragazze non iniziate
– Areki: sodalizio degli anziani
(meru), meno importante di «njuri»
– Askari (usato da europei): soldati
kenyani alle dipendenze degli
inglesi
– Athuri: classe degli anziani
– Mbu: grido di allarme nel pericolo
– Mugumu: albero sacro
– Mundu-mugo: medico tradizionale,
operatore magico, indovino,
stregone (volgarmente)
– Mungu (swahili): Dio
– Mware: suora missionaria
– Mwareki: singolare di «areki»
– Mwiritu: singolare di «airitu»
– Ngai (kikuyu): Dio
– Ngoma: spirito malvagio di un
defunto
– Njuri: classe degli anziani meru
– Patri: padre missionario
– Thahu: impurità rituale

CHI È II L DEMONIO?
Un punto focale, secondo la metodologia
missionaria di Murang’a,
fu la presentazione del messaggio
cristiano usando le categorie
mentali della cultura locale. Oggi si
parla di inculturazione del vangelo.
I missionari come si atteggiarono
di fronte a questa tematica? Va da sé
che, ai loro tempi, essi si sentirono
latori di una religione che doveva essere
più accettata che proposta. Ma
sorprende come la loro predicazione
si sia incarnata nell’habitat culturale
locale, assumendone talora la dialettica
concettuale.
Ecco un dialogo fra padre Cagliero
e i lavoratori della missione. Il tema
è: «Il diavolo non è l’anima dei
defunti».
– Chi è il diavolo? – chiese il padre.
– Non lo sappiamo. Dillo tu e lo sapremo
anche noi.
– Secondo voi, il diavolo è l’anima
dei morti. È così?
– Sì, padre. Quando uno si ammala,
uccidiamo un montone per offrirlo al
diavolo, dicendo: «Anima di mio padre
cessa di fargli del male».
– Ebbene, questo è errato. Se il demonio
fosse l’anima dei nostri genitori
defunti, come voi dite, come potrebbe
farci del male? Un genitore,
che da vivo ama i figli, morto che sia,
cessa forse di amarli?… Tu, per esempio,
quando sarai morto, maleficherai
i figli che ora ami? «No, mai!»
rispose l’interpellato.
– Allora, perché affermate che il diavolo
è lo spirito dei morti?
– Adesso che conosciamo la verità
non lo diremo più.
Lo stesso missionario si cimentò
con un articolo complesso del credo
cristiano: la divina figlianza adottiva
dell’uomo. «Per spiegarmi, mi servii
di un fatto comune fra i kikuyu.
Un fanciullo, senza genitori e parenti,
viene adottato da un altro nel
modo seguente: l’adottante uccide
un montone alla presenza dell’adottando,
riempie una tazza di sangue
e, dopo avee bevuto alquanto, la
porge da bere al fanciullo, che con
quell’atto diventa suo figlio. Così –
dissi – fa Iddio con gli uomini. Questi,
nascendo macchiati, sono senza
padre in cielo, sono anzi schiavi del
demonio; ma l’acqua del battesimo,
data dal padre, libera dalla schiavitù
del demonio e ci fa figli di Dio».
L’assemblea, attonita ed ammirata,
esclamò: «Costui è sapiente e sa
di tutto: conosce perfino i nostri costumi».
Una missionaria sfruttò la categoria
del thahu per spiegare il
peccato originale: come il primo è una
impurità che contamina, diffondendosi
a macchia d’olio, così il secondo
si trasmette di padre in figlio.
Ma il battesimo purifica tutto.

IL BUONO E IL CATTIIVO
Si è detto che i primi battesimi solenni
di adulti risalgono al 1909-
1911. Non è esatto. Il primo battesimo
fu quello di Waweru, mundumugo
di Murang’a, l’11 giugno 1905.
Mentre era catecumeno, un’epidemia
gli sterminò tutti i montoni. La
moglie l’accusò di essere lui la causa
della moria, perché favorevole alle
«dottrine del bianco», irritando
così gli antenati. Waweru rispondeva:
«No, no: i genitori vogliono sempre
bene ai loro figli, e i nostri vecchi
non hanno cessato di amarci. Iddio
è padrone dei nostri montoni: c’è
dunque da arrabbiarsi se egli dispone
delle cose sue?».
A chi gli consigliava di sacrificare
agli spiriti per placarli, dichiarava:
«Preferisco rivolgermi direttamente
a “Dio padrone”, il quale saprà bene
far cessare i miei infortuni». Fu battezzato
sfidando gli altri stregoni,
che lo tacciarono di tradimento.
Affascinante è la storia di Kagwe,
di Karima. Fabbro trentenne,
impazzì e bruciò la sua officina. Ustionato
in tutto il corpo, guarì, ma
non dalla pazzia. La fantasia popolare
lo circondò presto di un alone
mitico: figlio delle fiere, dormiva con
loro trasformandosi egli stesso in bestia;
si cibava di cadaveri come le iene,
lottava coi leoni. Godeva però di
intervalli di lucidità; anzi, erano
sempre più frequenti.
Un giorno ritoò sulle ceneri della
sua capanna, sotto lo sguardo curioso
di 40 stregoni, che decisero di
guarirlo del tutto e avviarlo alla magia.
Kagwe divenne mundu-mugo, la
cui fama valicò la regione, al punto
da scalzare quella di tutti gli altri 40
messi insieme.
Venuto a diverbio con il capo degli
stregoni, lo infilzò con la lancia
e gli succedette nella medesima dignità.
Uccise pure un soldato indigeno;
e fu sferzato con 20 colpi di kiboko
per 10 giorni consecutivi ed imprigionato
un anno.
Pessimi i rapporti con la missione.
Accusò il padre di aver causato la
meningite che decimò i kikuyu; ma
il missionario, proprio durante il processo
che dibatteva il caso, lo zittì.
Kagwe allora mutò tattica: cercò l’intesa
truccata con il rivale bianco.
E qui il tranello giocò lo stesso artefice,
a tal punto che una sera chiese
al patri il battesimo. «Tu!».
– Sì, io, Kagwe!
– Vedremo…
Quel «vedremo» comportò prove
interminabili. Quando ormai tutto era
pronto, ne arrivò ancora una, l’ultima,
la più ardua. «Kagwe, io ti battezzo,
ma a una condizione…».
– Quale?
– Che tu edifichi la tua casa presso la
missione.
Il mundu-mugo tentennava. L’indomani
disse: «Accetto». Però, sul
punto di costruire la capanna, buttò
via ogni strumento gridando: «No,
non posso!». Il padre escogitò un
compromesso: affidare il lavoro a operai.
L’8 settembre 1919 Kagwe, ex assassino
e mundu-mugo infausto, si
chiamò Giovanni Battista.

Quando lei osò… parlare
A Tetu e a Gikondi alcune ragazze catecumene si ribellarono alla poliginia,
determinando una situazione conflittuale.
Ma l’esempio più clamoroso di «femminismo», che coinvolse anche il missionario,
riguardò Wangare, accasata presso Kemoso. Il marito non aveva
ancora consegnato tutti i montoni pattuiti per «il prezzo della sposa» e,
per giunta, la bastonava.
La donna notificò il fatto al genitore, il quale, in vista del processo, cercò
il sostegno del patri. Al processo Wangare osò prendere la parola opponendosi
a Kemoso, che naturalmente si dichiarava innocente.
«Non l’avesse mai fatto! Esplose tutto l’antifemminismo dei kikuyu, con
l’aggiunta dell’assioma che le donne non hanno voce in capitolo. Ciò che
rovinava tutto era l’atteggiamento nuovo, contrario alla tradizione, di Wangare,
la femminista selvaggia, che non sapeva, non voleva tacere». Con un
gesto espressivo di protesta, gli anziani e il marito abbandonarono il processo.
La donna perse la battaglia e fu condannata, perché il suo intervento nel
processo fu giudicato un affronto al consiglio degli anziani. Fu condannata
perché lei, donna, aveva parlato in «pubblico», mentre le spettava solo
il «privato».

FRANCESCO BERNARDI