LA REDAZIONE


LA REDAZIONE (ma non solo)

Aggiornamento del 16/12/2023

Questo sito Web è una produzione editoriale della redazione della Rivista Missioni Consolata (MC).
Missioni Consolata comprende anche la rivista Amico, che dal 2012 è solo online (amico.rivistamissioniconsolata.it) e appare in forma cartacea come inserto (10 pagine) di MC cinque volte all’anno, e l’inserto (6 pagine) Beato Giuseppe Allamano, la cui edizione indipendente è cessata a fine 2015. Sul beato Allamano c’è documentazione abbondantissima nel sito giuseppeallamano.consolata.org/


LA REDAZIONE:

Negli oltre cento anni di storia la rivista ha visto l’alternarsi di molti redattori, dapprima solo Missionari della Consolata (IMC), poi, negli ultimi decenni, anche laici.  Il primo direttore fu il canonico Giacomo Camisassa, mano destra del fondatore dei missionari, il beato Giuseppe Allamano. Nell’ultimo cinquantennio si sono alternati, come direttori, i padri Mario Bianchi, Gabriele Soldati, Francesco Bernardi, Benedetto Bellesi e Ugo Pozzoli.

Gigi Anataloni è il direttore responsabile. Lavora nei media dal 1976, prima come direttore della rivista Amico e collaboratore di MC, poi come direttore della rivista «The Seed» in Kenya (1992-2009), da dove è stato richiamato a MC nel 2009. Dal 2023 è anche direttore dell’Archivio fotografico dell’Istituto Missioni Consolata (AfMC)

Dal 1 aprile 2023 Marco Bello è il direttore editoriale della rivista.

Benedetto Bellesi (1937-2013), giornalista della rivista dal 1987 e suo direttore per alcuni anni, è tornato alla Casa del Padre il 3 luglio 2013.


I COLLABORATORI 

La rivista si avvale di molti collaboratori esterni sia in modo saltuario che regolare:

Collaboratori laici:

    • Angelo Fracchia, biblista che cura le pagine di Così sta scritto da gennaio 2019
    • Chiara Giovetti, cooperazione e progetti MCO, Missioni Consolata Onlus
    • Francesco Gesualdi, per approfondimenti sull’economia
    • Piergiorgio Pescali, per reportage dall’estero
    • Rosanna Novara Topino per le tematiche medico-ambientali

    e anche molti altri (passati e presenti), tra cui:

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    • Daniele Biella
    • Daniele Romeo
    • Davide Casali
    • Enrico Casale,
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    • Stefano Vecchia,
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Missionari e altri religiosi:

  • Sergio Frassetto, che cura Chiesa nel mondo e l’Allamano
  • Mario Bandera, già direttore del Centro Missio di Novara
  • Ugo Pozzoli, ex-direttore della rivista, ex Consigliere Generale dell’IMC e ora responsabile di Missioni Consolata Onlus

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La redazione ha sede a Torino, in Corso Ferrucci n. 14, 10138 Torino (TO)
tel. 011 4400 400 (centralino).

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Le 37 mila copie di «MISSIONI CONSOLATA» sono state stampate dalla tipografia «Elcograf Spa» fino al numero di gennaio-febbraio 2024.


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’Īsā e Mohammed (nella Siria in guerra)

Padre Paolo Dall’Oglio

Questa conversazione con padre (abuna)
Paolo Dall’Oglio – avvenuta prima della sua sparizione in Siria (a fine luglio)
– è incentrata sul dialogo tra la Chiesa cattolica e l’Islam. Fondatore della
comunità monastica di Deir Mar Musa, allontanato dal paese mediorientale nel
giugno 2012, il gesuita è noto per la sua posizione nettamente contraria al regime
di Assad. Lo raccontiamo attraverso alcuni suoi scritti, mentre a oggi
(settembre 2013) di lui non si hanno ancora notizie certe.

Padre Paolo Dall’Oglio, gesuita, classe 1954, è stato
rapito in Siria da un gruppo islamista a fine luglio. Su di lui sono girate le
voci più disparate, finanche quella della sua morte. Dall’Oglio – conosciuto
per aver fondato, nel 1991, la comunità monastica Deir Mar Musa, nel deserto
roccioso della Siria, a 90 chilometri da Damasco – si era dovuto allontanare
dal paese nel giugno 2012. Le autorità ecclesiastiche avevano preso questa
decisione dopo che il governo di Assad l’aveva minacciato di espulsione per le
sue posizioni rispetto alla guerra civile siriana.

Qualche mese fa avevamo raggiunto Abuna
(«Padre», in arabo, lingua che lui parla fluentemente) Paolo, come viene
chiamato in Medio Oriente, a Suleymania, nel Kurdistan iracheno, dove era
ospite di una comunità cristiana. La chiacchierata si era incentrata sul suo
percorso spirituale e religioso. Ne è uscito il quadro di una persona senza
compromessi, disposto a mettersi in gioco per una causa davvero grande: il
dialogo islamo-cristiano, tra i seguaci di Mohammed e quelli di ’Īsā (che è il nome di Gesù
tra i musulmani).

Abuna
Paolo, quando e dove è arrivata la vocazione?

Era il 12 maggio 1974. Una data storica,
perché è stato il giorno del referendum sul divorzio in Italia, alla cui
campagna io avevo partecipato. Mi trovavo a Roma, a casa di un amico: la
chiamata è arrivata in modo molto intimo, essenziale, collegata all’universalità
del vangelo. A ciò è seguito un percorso molto profondo, fatto di esercizi
spirituali, noviziato, e nel frattempo di un progressivo avvicinamento al mondo
musulmano, che mi ha incuriosito da subito. Sono diventato gesuita nel 1975,
poco tempo dopo ho fatto i primi viaggi studio, in particolare a Beirut, dove
ho imparato l’arabo.

Che impatto ha avuto con la religione
musulmana?

«Il mio percorso sta tutto nel racconto di un fatto: nel
1978 mi trovavo di passaggio a Bosra, città della Siria, diretto verso
l’Egitto, che volevo conoscere. La sera, entrai nel cortile della moschea, dove
mi vennero incontro due giovani, a cui dissi di essere sporco, e che volevo
esprimere il mio rispetto per la moschea, la casa di Dio, facendo le abluzioni.
Mi diedero una brocca d’acqua e mi indicarono i bagni. Quando tornai, giunta
l’ora della preghiera della sera, la moschea si riempì di uomini e bambini, e
fui invitato a unirmi. Sentii allora una forte attrazione, ma anche il dovere
di non ingannare i miei ospiti. Come avrebbero potuto capire quello che io già
sentivo come una duplice appartenenza? Il mio andare incontro al mondo
musulmano ha origine anche negli esercizi spirituali ignaziani, che seguono la
promessa del Signore a non nascondersi, ad andare in cerca del dialogo con
l’altro. Poi c’è il grande insegnamento del Concilio Vaticano II,
l’inculturazione della fede e la necessità di aprirsi all’ecumenismo.

Quali sono i modelli che segue nel suo
approccio con l’Islam?

Tutti i teologi orientalisti sono di grande
importanza, uno su tutti è Louis Massignon, la cui opera mi guida fin
dall’inizio, così come quella dei suoi allievi. Io come altri, appartengo alla
terza generazione, quella che più di tutte, nonostante il fallimento dello
stesso Concilio Vaticano II, vuole ricominciare da lì per fomentare il dialogo
islamo-cristiano.

In che fase si trova ora l’Islam, agli occhi di
un missionario cristiano?

È in continua evoluzione, con una società
che cerca in vari modi un’emancipazione che spesso risulta contraddittoria,
perché da un lato è fertile, dall’altro è fonte di sofferenze. Non è facile per
un cristiano avvicinarsi all’Islam, ma come prima cosa bisogna togliersi dalla
testa l’idea che si possa disprezzare perché differente: capita invece di
scoprire, con il tempo, cose molto belle, e quando entri in relazioni significative
ci rimani tutta la vita, come sta accadendo a me. È chiaro che a volte le cose
non vanno come dovrebbero, vedi la tragica guerra civile in Siria, oggi in
preda a una crisi tremenda dalla quale io sono dovuto venire via mio malgrado.
Nel rapporto con il mondo musulmano, la chiave sta nell’incontro e nell’evento
sacramentale della relazione, un fatto pentecostale che ci trasforma tutti, ci
rende fratelli. Tre fratelli, allargando il tema ovvero comprendendo gli ebrei.
Massignon dedicava le tre grandi preghiere giornaliere di Abramo a ciascuno di
essi: una per Isacco, simbolo del mondo ebraico, una per Ismaele, ovvero
l’Islam, la terza per Sodoma, la città inospitale in cui Gesù ha portato il suo
messaggio.

Il monastero di Deir Mar Musa, durante la guerra
civile in corso, ha perso la sua guida, il suo fondatore. L’esperienza cosa le
ha lasciato?

Un’enorme spinta a credere nel dialogo. Al monastero
sono arrivati negli anni per devozione cristiani locali (in Siria prima della
guerra erano l’8% del totale, ndr) di diversi riti: cattolici,
ortodossi, protestanti, armeni, di rito greco, siriaco, maronita.

Inoltre c’è la popolazione musulmana, che
visita il monastero come atto culturale, turistico e spirituale. Un monastero
cristiano in un ambiente musulmano tradizionale è un luogo religioso
riconosciuto. Infine Deir Mar Musa riceveva anche il turismo internazionale,
culturale e ambientale, ed era sede di convegni nazionali, meta di giovani che
venivano a studiare l’arabo. Stiamo parlando di tante, tantissime persone. Un
anno abbiamo contato i bicchieri di plastica utilizzati: erano 50mila. Poi ci
hanno criticato per i bicchieri, che sono stati via via sostituiti con quelli
di coccio… l’aspetto importante era la rete che si è venuta creando, e il fatto
che si scambiassero idee e esperienze di vita persone provenienti da tutto il
mondo e di tutte le fedi.

Come vede l’arrivo di papa Francesco?

Parto dalla scelta del suo predecessore,
Benedetto XVI: un atto di forte coraggio, la testimonianza di un grande signore
che a un certo punto decide di farsi da parte per il bene della Chiesa,
stimolandola a migliorarsi. L’ho accompagnato nelle mie preghiere e merita
molta gratitudine, perché in questo modo porta freschezza all’ambiente,
tagliando le gambe a una sorta di “corte” che avrebbe danneggiato tutto il
sistema. Ora con l’avvento di Mario Bergoglio, l’auspicio è che si riporti il
potere alla sinodalità della Chiesa, ovvero che lui si metta a capo di un
collegio che con responsabilità porti avanti relazioni positive con le altre
confessioni, in particolare si ponga con un’attitudine positiva verso il mondo
musulmano.

Cosa risponde a chi in Italia, politici ma non
solo, rifiuta l’offrire spazi per luoghi di culto a persone di fede musulmana
argomentando che «là non ci fanno costruire le chiese»?

Che è una frase falsa frutto di un luogo
comune: esistono chiese in tutto il mondo musulmano, eccetto l’Arabia Saudita
dove non sono presenti in modo istituzionale. La regola è quindi che le chiese
ci sono, quello che mi scandalizza quando vengo in Italia è vedere moschee
assolutamente non degne delle città in cui sono. Io dico questo: con moschee da
scantinato si fanno musulmani da scantinato, più arrabbiati e meno inseriti nel
contesto in cui vivono.

Quanto torna in Italia cosa nota del nostro
paese?

Ci sono tante reti di persone che si danno
da fare, ma in generale vedo una società narcisista, sempre più chiusa su sé
stessa, in cui tutto è un prodotto da supermercato e il sacro perde il proprio
valore. Invece non bisogna lasciarsi andare nonostante i tempi difficili di
crisi, e ripartire proprio dalle differenze viste come ricchezze, cominciando
con il riconoscimento dell’alterità come parte integrante e non oppositiva del
proprio mondo.

Lasciamo il discorso sul dialogo interreligioso
e ci dica qualcosa sulla sua Siria…

Oggi sono tutti divisi: da una parte chi non
vuole più l’attuale regime, soprattutto giovani che chiedono più libertà.
Dall’altra chi non vuole il cambiamento, perché è sicuro che il dopo sarà
peggio o perché ragiona con logiche patriottiche, contro il complotto
internazionale.

Lei vede questo complotto?

No, ma vedo che nella violenza attuale pesa
in modo sconvolgente l’immobilismo delle forze inteazionali. Come si fa a
lasciare sprofondare questo paese senza fare nulla? Obama non fa seguire fatti
alle parole per non mettere in crisi la sua rielezione? C’è poi da considerare
un altro fattore oggi all’apparenza fuori controllo: chi finanzia e decide le
azioni terroristiche? La verità è che oggi la Siria è il ring di pugilato del
mondo: Iran contro Turchia, Sunniti contro Sciiti, Nato contro Russia. E
l’arbitro, l’Onu, che rimane impotente a causa del diritto di veto.

Come uscire dalla grave situazione attuale?

Io ho due proposte concrete per
riappacificare la Siria dalle divisioni. Una: inviare nelle strade siriane
almeno 50mila corpi civili e nonviolenti inteazionali, che si interpongano
tra le parti in conflitto, soprattutto ora che violenza e armi sembrano essere
l’unica risposta. Queste figure ci sono, e vanno impiegate con un ruolo
riconosciuto da tutti i belligeranti, per ridare ai siriani il loro diritto
all’autodeterminazione. L’altra idea è quella di creare, fin da subito,
laboratori, punti di incontro tra i milioni di siriani all’estero per
convincerli a trovare una soluzione comune e smetterla di darsi addosso. Se
loro recuperano il dialogo, poi anche in patria potranno farlo.

Non è tardi per il dialogo, viste anche le
atrocità commesse dal regime?

Le torture sono abominevoli, ma ricordiamoci che non è
niente di nuovo. Fino a poco fa era la stessa Cia, l’intelligence statunitense,
a sponsorizzare i paesi arabi che ne facevano uso contro l’integralismo
islamico. Comunque, la possibilità di risolvere il conflitto con il dialogo c’è
ancora: lo testimoniano le centinaia di giovani che mi fermano per strada
dicendomi che loro rifiutano la logica della guerra civile. Nonostante le
vessazioni, nel paese sono migliaia quelli che non vogliono imbracciare le
armi. Il problema è che con il passare dei giorni sono sempre meno, soprattutto
se nessuno dà loro segni di speranza.

Daniele
Biella

Date
1954 – Nasce a Roma.
1975 – Entra nella Compagnia di Gesù.
1991 – Fonda nel deserto siriano la comunità monastica di
Deir Mar Musa.
2012 – È costretto a lasciare la Siria a causa delle sue
posizioni sulla guerra civile.
2013 – luglio – Rientrato in Siria, scompare, probabilmente rapito.
2013 – agosto – Dalla Siria giungono notizie contraddittorie
sulla sua sorte.
2013 – settembre – Esce il suo ultimo lavoro, Collera e
luce. Un prete nella rivoluzione siriana, Emi, Bologna.
 
I libri di padre Dall’Oglio

Collera e luce, un prete nella rivoluzione siriana,
Edizioni Emi, Bologna, settembre 2013.
La sete di Ismaele. Siria, diario monastico
islamo-cristiano
, Il Segno dei Gabrielli, San Pietro in Cariano 2011.
Innamorato dell’Islam, credente in Gesù, Edizioni Jaca
Book, Milano 2011.
Speranza nell’Islam, Casa editrice Marietti, 1992.

 
L’inutilità della storia

Kosovo (1999), Afghanistan (2001), Iraq (2003), Libia
(2011), Siria (2013?). La storia non insegna nulla, soprattutto a chi non ha
interesse a imparare. Nell’era dell’iperinformazione prevale sempre e comunque
la disinformazione.

Mentre la galassia dei ribelli siriani è in evidente difficoltà,
Assad viene accusato di aver usato armi chimiche, in quartieri periferici di
Damasco (21 agosto). «L’utilizzo delle bombe chimiche è tutto da provare. Se
sono state utilizzate, non è certo chi le abbia gettate» (mons. Giuseppe
Nazaro).

Ieri erano Bush, Blair e Aznar. Oggi sono Obama, Cameron e
Hollande. Dicono che occorre intervenire per porre fine ai massacri del regime
di Damasco. Papa Francesco twitta: «Mai più la guerra!» (2 settembre). «Quando
si utilizzano le vittime per giustificare una guerra non lo si fa per amore
delle vittime ma per amore dei propri affari e dei propri interessi» (don
Renato Sacco). Come storia insegna.

Paolo Moiola

    Il Medio Oriente e la Siria secondo padre Paolo
Dall’Oglio                      

«Perché sono contro Assad»

In Siria i cristiani sono divisi in due schieramenti:
quelli che difendono il presidente Assad e quelli che stanno con i ribelli. In
questa lunghissima lettera pubblica – da noi ampiamente stralciata e riassunta
– padre Dall’Oglio spiega le sue posizioni sul Medio Oriente e perché si è
schierato con i ribelli anti-Assad. Considerazioni poi sviluppate in «Collera e
luce», il suo ultimo lavoro, dove tra l’altro scrive: «La mia coscienza
cristiana è chiaramente lacerata».

Cari amici
della Siria, si è molto
insistito sul fatto che avrei profittato per i miei comodi della situazione
siriana, del regime siriano, e che ora darei prova di poca gratitudine tradendo
innanzitutto i cristiani siriani, mi limiterò ad una serie di considerazioni in
ordine cronologico per render conto dell’evoluzione della mia posizione.

1973 Ho visitato la Siria degli Assad una prima volta nel 1973, appena
prima della Guerra di ottobre (il conflitto tra Israele e la coalizione
composta da Siria ed Egitto, ndr). Ne riportai l’impressione di un
popolo sottomesso ad una macchina di propaganda nazionalista possente
mobilitata al massimo in senso anti israeliano. I paesi arabi subivano
l’occupazione di vasti territori da parte di Israele, c’era la Guerra fredda.
Per tanti motivi ero solidale, come lo sono oggi, con le sofferenze del popolo
palestinese e degli arabi in generale. Ma quell’attitudine di manipolazione
totalitaria dell’informazione già mi ripugnava. Sapevo che si trattava di una
dittatura e non nutrivo illusioni sul rispetto dei diritti dell’uomo in quel
paese.

1978 Ero a Beirut durante il terribile assedio dei quartieri cristiani di
Achrafiye da parte dell’esercito siriano (la guerra civile libanese era
scoppiata nel 1975 e la Siria ne prese subito parte, ndr). Il regime
siriano si è comportato da padrone senza scrupoli sfruttando il Libano in tutti
i modi e nascondendosi dietro una serie di maschere ideologiche venute poi
meno, le une dopo le altre, di fronte all’eroica resistenza del popolo libanese
democratico.

1980/’81 Ero a Damasco per lo studio dell’arabo, delle Chiese orientali e
dell’Islam. Venni in contatto e a conoscenza dei metodi di sistematica tortura
repressiva utilizzati dal regime. Se volevo restare nel paese dovevo
assoggettarmi come tutti. Ma non ero obbligato ad assoggettarmi in coscienza.
Moltissimi cristiani già lasciavano allora il paese visto il perdurare della
situazione di incertezza nella società locale e nella regione. Alcuni erano pro
regime, altri contro, ma tutti cercavano di partire per il futuro dei loro figli.
Bisogna ricordare che allora la solidarietà del regime con il mondo sovietico
era evidente, anche riguardo alle libertà democratiche criticate come borghesi
e asservite alle logiche neo imperialiste. Io cercai sempre di avere buoni
rapporti con lo stato  – anche se
sottomesso al regime dittatoriale – in quanto proprietà dei cittadini. Ero per
la legittima lotta di liberazione contro l’occupante israeliano, ma evitavo
sistematicamente di cedere ai toni della propaganda di regime.

1982 In quell’anno ero studente di
teologia a Roma quando avvenne il terribile massacro della popolazione civile
di Hama (città della Siria centrale a grande maggioranza sunnita, ndr)
durante l’insurrezione dei Fratelli musulmani. Ne soffrii tanto da ammalarmi.
Non se ne poteva parlare pubblicamente altrimenti mi scordavo la possibilità di
rientrare in Siria dove mi sentivo chiamato a servire l’armonia
islamo-cristiana. Tuttavia ero perfettamente cosciente che un continuo,
silenzioso massacro avveniva nelle carceri, nei lagher, nei gulag siriani. Ne
avevo ricevuto in diverse occasioni delle testimonianze dirette e sapevo che
molti cristiani, anche tra le autorità ecclesiastiche, si erano abituati a
questo stato di cose come naturale e necessario rendendosene a volte
direttamente complici. Questo mi addolorava profondamente e vi vedevo un
rischio pesantissimo per il futuro della Chiesa in Siria. La stessa cosa
avveniva d’altronde in Iraq e in Egitto.

In questo
spirito, con questi sentimenti contrastanti, eppure con molta speranza ed
entusiasmo, ho vissuto nella Siria degli Assad per più di trent’anni. A causa
dell’ampio impatto internazionale del mio impegno di restauro, di accoglienza e
di dialogo al Monastero di Mar Musa, godetti indubbiamente di uno spazio di
parola e di una libertà di opinione incomparabilmente più largo dei normali
cittadini, obbligati a portare fin dalla più tenera infanzia il cervello
all’ammasso della manipolazione di regime. Fui presto oggetto di critiche aspre
e di accuse ingiuste proprio perché la mia libertà di parola sembrava
impossibile ai più, anche se era sempre limitatissima e molto auto controllata
se paragonata alla situazione, per esempio, europea. Era un gioco in fondo
leale: io offrivo un volto che illustrava inteazionalmente l’apertura e il
pluralismo almeno programmatico del potere siriano e loro accettavano ch’io mi
comportassi come se la democrazia, seppur non perfetta, fosse già almeno in
fieri
.

Ho lavorato continuativamente nella prospettiva del successo dei
negoziati di pace nella visione di un Medio Oriente riconciliato nella
giustizia. Ho sempre dichiarato che l’islamismo politico è una grande realtà
regionale e che non è immaginabile che si debba rinunciare alla democrazia, ai
diritti civili e all’autodeterminazione dei popoli per continuare a sopprimere
il programma islamista, sia esso salafita o dei Fratelli musulmani o di gruppi
più o meno moderati. Si tratta di un soggetto politico plurale non aggirabile
ma tuttavia esposto ad evoluzione, spesso rapida. Per questo ho sempre curato
la relazione coi leader naturali, scelti e seguiti dalla piazza e dal popolo
delle moschee dei musulmani siriani, rifiutandomi di appiattirmi sulle autorità
approvate e nominate dal regime.

1991 In quell’anno la Siria partecipò
alla coalizione contro l’Iraq di Saddam che aveva invaso il Kuwait. Trovai
giusto in quell’occasione che si salvassero i curdi dall’attacco di Saddam e
proteggendoli con una no fly zone. Rimasi poi scandalizzato
profondamente quando gli sciiti iracheni furono cinicamente abbandonati alla
repressione del dittatore di Baghdad, e così pure i libanesi abbandonati allo
strapotere siriano.

È evidente che la guerra è raramente una soluzione e comunque è una
soluzione cattiva e claudicante. Tuttavia, con l’insegnamento tradizionale
della Chiesa dichiaro, nonostante i rischi di equivoci stridenti e di ipocrisie
criminali, la legittimità della guerra giusta, il diritto alla difesa
armata, il dovere di proteggere i paesi e le popolazioni vittime di aggressioni
violente intee e o estee. Nonostante questo incoraggio e mi impegno per la
pratica e il successo delle azioni nonviolente. Penso alla non-violenza attiva,
politica, come ad una trascendenza dei conflitti. Non è essa sempre
un’alternativa praticabile di per sé, ma essa è sempre necessaria. Molto più di
un correttivo integrativo, prima durante e dopo i conflitti armati, la
non-violenza dialoga, testimonia, critica, assiste, apre vie di
riconciliazione. Va oltre!

2000 Quando il dottor Bashar el-Assad, figlio del presidente Hafez, prese il
potere, si riaccesero le speranze per un cambiamento democratico incruento che
potesse riconciliare la società siriana profondamente divisa e sofferente
dietro la facciata delle realizzazioni gloriose del regime. Anche la visita del
Papa nel 2001 aveva la valenza di un segno di speranza, benché l’anno
precedente la visita a Gerusalemme era stato l’ultimo momento di calma prima
dell’inizio della seconda tragica intifada palestinese. La breve Primavera di
Damasco fu soffocata da una repressione il più dolce possibile per evitare di
perdere quel credito che la società aveva accordato a Bashar, per non perdere
speranza nel futuro.

2003 In quell’anno mi opposi con un
digiuno pubblico all’invasione dell’Iraq da parte delle armate del presidente
Bush. D’altronde ero sempre stato fortemente critico delle crudeli e inutili
sanzioni economiche.

La crisi
irachena fu gestita dalla Siria come occasione di un gioco d’azzardo che
mostrava il desiderio di affermarsi come potenza regionale, in combutta con
l’Iran.

Da tutto il contesto, e da molte prove, era chiaro che lo stato
israeliano aveva già fatto la scelta di gestire il regime degli Assad come un
male minore, un’ipotesi tattica favorevole. In fondo per Israele la mancanza
d’unità dei suoi nemici restava la vera priorità, unita alle necessarie
operazioni chirurgiche per evitare l’acquisizione dell’arma nucleare con
operazioni puntuali e limitate, in Iraq e poi in Siria e forse presto in Iran.
Anche la concorrenza tra musulmani sciiti e sunniti nell’uso della retorica
anti israeliana più rozza consentiva a Israele di dichiarare l’intenzione
genocidaria degli arabi e dei musulmani giustificando così il muro,
l’espansione delle colonie e le pratiche di discriminazione sistematiche.

2005/’06/’09 Il 2005 è l’anno in cui molti nodi
vengono al pettine con l’assassinio del premier libanese Hariri. La Siria deve
fare la schiena d’asino per evitare l’intervento occidentale ed è costretta a
evacuare il Libano. Un’altra occasione d’oro per Bashar el-Assad di esautorare
la vecchia guardia e iniziare un cammino di riforme a marce forzate verso la
democrazia è persa miseramente e la speranza dei siriani si restringe. Certo
nel 2006, la guerra tra Israele e Hezbollah fa della coppia Bashar – Nasrallah
gli eroi della riscossa arabo- islamica. Molti musulmani sunniti optano per i
paladini anti-israeliani. Perfino i Fratelli musulmani sarebbero disposti a
riconciliarsi col regime che riuscirà addirittura nell’intento, lungo gli anni
successivi, di diventare un partner privilegiato della Turchia neo-islamica,
allontanandola dalla vecchia alleanza militare con Israele. Questa situazione
matura ulteriormente con la guerra di Gaza del 2009.

Lungo tutto
il decennio la mia azione si è giocata nel provare e riprovare a favorire la
riforma democratica cercando di salvare ciò che era salvabile della liceità
della posizione anti-imperialista della Siria di fronte alla grossolanità delle
attitudini dell’America di Bush e delle destre israeliane al potere. Io
insistevo sulla necessità di essere morali e coerenti: avanzare nella
prosecuzione del lavoro di inchiesta e giudizio sui crimini, specie in Libano,
nei quali il regime siriano era (è) coinvolto. Si è fatto invece il contrario:
si è rinunciato ad andare fino in fondo sul piano giudiziario, mentre si è
riammessa la Siria degli Assad nel cerchio della rispettabilità internazionale.
Così il regime si è convinto che la forza bruta è il vero motore della storia e
che la democrazia è una buffonata di facciata.

2010/’11 Dal 2010 la decisione di regime è presa: l’attività di dialogo è
vietata, le conferenze sono impossibili, il turismo ipercontrollato. Alla fine
il mio permesso di residenza è ritirato. Resto in Siria senza documenti di
residenza e quindi non posso più viaggiare. Ma intanto la Primavera araba è
iniziata. Si spera ancora che Bashar, magari con l’aiuto della bella e
sensibile consorte, possa mettersi alla testa di una riforma radicale del suo
paese. Nulla da fare, da marzo 2011 è chiaro che la scelta della repressione
incondizionata è la scelta strategica. Tutto il resto, quanto a dialogo e
riforme cosmetiche, non è altro che prender tempo per evitare l’intervento
internazionale e fumo negli occhi dell’opinione pubblica. La versione ufficiale
è pronta: non c’è nessuna rivoluzione, ma solo l’azione dei terroristi
islamisti radicali finanziati dal grande complotto internazionale (Israele,
Usa, la Francia, vassalli europei, massoni, ebrei, sauditi, Qatar, al Qayda, i
Fratelli musulmani, tutti insieme appassionatamente) per distruggere il paese,
la Siria, avanguardia della resistenza anti imperialista e anti radicalismo
musulmano. Le autorità cristiane, le suore e i frati, sono mobilitati per dare
credibilità alla versione di regime e lo fanno con entusiasmo e con l’aiuto
attivo di centri di manipolazione mercenaria dell’informazione come il famoso Réseau
Voltaire
(il cui corrispondente italiano è: www.voltairenet.org, ndr).

2011 Per due volte scrivo ai massimi rappresentanti della Chiesa cattolica,
spiegando che la guerra civile è già iniziata sul territorio siriano e che
occorre attivare una iniziativa internazionale per uscire dalla
contrapposizione Russia versus Nato e Iran versus arabi sunniti e
turchi. Fino a oggi la Chiesa non si è pronunciata sul diritto dei siriani (di
tutti i siriani, anche gli esiliati lungo i terribili ultimi quarant’anni)
all’autodeterminazione e a una democrazia diversa da una pagliacciata di
regime; e paesi che la Chiesa può incoraggiare ad agire mostrano una
insensibilità impressionante!

2013 Posso assicurare che sono meno isolato tra i cristiani siriani di ciò
che si può immaginare. La mia voce però è una delle poche note che si siano
levate a dire che noi cristiani non possiamo rimanere col regime torturatore e
oppressore e neppure possiamo restare neutrali. La storia è a un punto di non
ritorno. Noi da che parte stiamo?

Paolo
Dall’Oglio

Daniele Biella




L’oro del Karamoja

Sfruttamento intensivo del Nordest Uganda
Tra le ferite ancora aperte delle violenze armate degli anni passati, il rischio dello sfratto dalle proprie terre, la siccità che sembra
aumentare di anno in anno facendo crescere l’insicurezza alimentare.
Sui pendii del monte Moroto, nell’angolo più remoto del Nord
Est dell’Uganda, alcuni membri della tribù Karamojong, inclusi i bambini,
ricercano l’oro nell’arida terra rossa.

Un tempo allevatori di bestiame, i Karamojong
sperano di migliorare la loro situazione economica vendendo piccole quantità
d’oro che grattano dalla terra arida del Karamoja, regione a Nord Est
dell’Uganda, al confine con il Kenya e il Sud Sudan, considerata la più
emarginata del paese e una delle più povere del mondo. Terra di pastori
seminomadi, il Karamoja è stato teatro di un lungo ciclo di conflitti tra i
diversi clan di guerrieri per l’accaparramento del bestiame, la sopravvivenza,
e in lotta contro l’interferenza del governo.

Dal 2001, per un decennio, migliaia di soldati ugandesi
hanno condotto una brutale campagna di disarmo in tutta la regione. Con il
disarmo e la relativa riduzione dell’uso della pastorizia come fonte di
sostentamento principale, i Karamojong sono oggi costretti a reinventarsi in un
nuovo stile di vita, e a cercare nuove opportunità di sostentamento. A causa
degli effetti sempre più visibili del riscaldamento climatico, tra cui
l’aumento dei periodi di siccità, la vita in questa pianura semiarida diventa
sempre più difficile e l’agricoltura non può rappresentare l’unica risorsa
sostenibile. La popolazione locale si ritrova quindi con poche alternative per
sopravvivere. «L’oro è diventato ora ciò che prima le mucche rappresentavano per
noi», dice un anziano. Nonostante l’economia in Uganda abbia un enorme
potenziale di crescita per l’inaspettata scoperta del petrolio, il Karamoja
rimane una regione dimenticata ed esclusa.

Scavando a
mani nude sulle colline di Rupa

Per Lomilo, che lavora nella miniera di Rupa, la ricerca
d’oro è un business di famiglia. Ogni mattina dall’alba si reca con
moglie e figli sulle colline minerarie di Rupa per il lavoro nelle gallerie.
Lomilo passa le sue giornate scavando a mani nude profondi cunicoli nel terreno,
nei quali si cala per cercare terra sempre nuova. Regolarmente riemerge e passa
alla moglie Naduk bacinelle di terra preziosa. Naduk setaccia il raccolto
insieme alla figlia più grande, mentre allatta il piccolo e si prende cura
degli altri quattro figli. La loro giornata trascorre monotona con viaggi di 8
km a piedi per arrivare al pozzo e raccogliere l’acqua necessaria per
l’operazione di setaccio. Lavorando con strumenti primitivi e in condizioni
molto difficili, la ricerca dell’oro è un lavoro pericoloso e sfinente. Nessun
pasto è previsto durante la giornata, ci si potrà rifocillare la sera
rientrando nel villaggio, se la ricerca d’oro avrà dato qualche buon risultato.
Seduta sul bordo dello scavo, la figlia di Naduk è responsabile del lavaggio: un
lungo processo per cercare di trasformare i mucchi di terra raccolti dal padre
in qualche frammento d’oro. «Amo il mio lavoro», dice mentre lava la terra, «voglio
avere qualcosa per sopravvivere con la mia famiglia». Tutti i figli di Lomilo
sono coinvolti nella ricerca dell’oro. Il sistema scolastico in Uganda è a
pagamento, un lusso che solo il 10% della popolazione in Karamoja può
permettersi (contro il 70% a livello nazionale). È difficile andare a scuola e
studiare a stomaco vuoto, per cui molti bambini preferiscono lavorare alla
miniera e ottenere qualche spicciolo a fine giornata.

Al di sotto
dei 18 anni

Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo),
i lavoratori nelle miniere d’oro in Africa sono per un 30-40% bambini al di
sotto dei 18 anni. A causa della fame e della povertà i genitori li
incoraggiano a lavorare nelle miniere per poter comprare cibo e vestiti. Spesso
i bambini sono i più abili a muoversi negli stretti cunicoli sotto terra.
Inoltre, in tutto il continente africano si registrano alti indici di abbandono
scolastico negli istituti d’istruzione che si trovano nei pressi di giacimenti
minerari.

In Kaabong, distretto del Karamoja che registra elevati
tassi di malnutrizione e dove buona parte della popolazione si sta sempre più dedicando
al lavoro nelle miniere, l’assenteismo a scuola è un problema crescente. Il
lavoro nella miniera di Rupa è rischioso. Molte vite sono perse ogni anno a
causa del crollo di qualche tunnel. Lomilo indica uno scavo dove qualche
settimana prima ha perso un amico.

0,3 Euro al
grammo

«È un lavoro rischioso, ma non ho altra scelta per il
momento», spiega Lomilo. Il suo grande sogno, come per tutti i ricercatori
d’oro, è quello di trovare un giorno un grande pezzo d’oro, così da potersi
finalmente sistemare con la sua famiglia, mandare i figli a scuola e dedicarsi
nuovamente all’allevamento del bestiame, anch’essa attività oggi molto
rischiosa per le continue razzie da parte dei clan vicini.

A fine giornata Lomilo si reca al mercato per vendere la
polvere d’oro. Con 9 grammi guadagna 9.000 Scellini ugandesi, equivalenti a 2,7
Euro circa per una giornata di lavoro di un’intera famiglia. Anche la famiglia
di Lomilo rientra nella tanto discutibile categoria di «povertà estrema»,
definita in base al guadagno inferiore a un dollaro procapite al giorno, «the
dollar a day poverty line
». Al mercato dell’oro sono presenti numerosi
commercianti, arrivati dal Kenya o dalla capitale Kampala. Comprano
illegalmente l’oro da questi gruppi informali per rivenderlo alle grandi
compagnie minerarie, spesso multinazionali con sede all’estero. Lo scavo di
Lomilo è uno dei migliaia che ricoprono la collina di Rupa. Secondo fonti
locali sono circa 10.000 le persone che riescono a sopravvivere grazie a questa
miniera a cielo aperto. In totale, il triplo di questo numero dipende dalle
miniere d’oro in Karamoja, e la cifra non tiene conto dei lavoratori delle
miniere di marmo, gemme e pietre calcaree. La regione del Karamoja con i suoi
enormi depositi d’oro, potrebbe diventare la nuova frontiera di sfruttamento
minerario dopo il petrolio nell’Ovest dell’Uganda. Le comunità e i leader
locali temono che nuovi conflitti possano derivare dalla lotta per
l’accaparramento di queste risorse. Recentemente si stanno diffondendo notizie
di trafficanti d’oro che lavorano per conto di qualche industriale o politico
di primo piano, per lo sviluppo di un’industria mineraria nella regione.
Sfruttando la lontananza dalla capitale e il generale disinteresse politico e
mediatico per la regione, alcuni uomini d’affari potrebbero assicurarsi le zone
minerarie del Karamoja, utilizzando a proprio vantaggio i conflitti tra i vari
clan.

Comunità
locali a rischio di sfratto

L’ufficio della Ricerca Geologica e Mineraria si occupa di
concedere le licenze agli operatori interessati. Tuttavia, nonostante il
governo locale neghi la presenza di attività illegali, diverse organizzazioni
locali sostengono che l’industria aurifera manchi di trasparenza e che molti
operatori agiscano nella regione senza una vera e propria licenza o con una
concessione scaduta da anni. Secondo il Mining Act del 2003, un’azienda può
ottenere una licenza per tre anni. Il proprietario del terreno, la provincia e
il distretto, dovrebbero ricevere le royalties. Tuttavia sembra che i dividendi
dell’oro rimangano per molto tempo in una zona grigia. Nel frattempo, le
comunità locali vivono nell’incertezza e nella paura che qualcuno possa
cacciarli dalle loro terre, rinnovando il conflitto nella regione. Alla fine si
torna a un punto dolente per tutto il continente africano, e non solo per esso:
la ricchezza di pochi (i proprietari delle miniere e chi «li controlla», quasi
sempre corporazioni multinazionali senza scrupoli) accumulata con lo
sfruttamento di molti.

In un’Uganda
in piena crescita e con sempre nuovi problemi

E pensare che l’Uganda negli ultimi anni ne ha fatta di
strada da quando la ventennale guerra civile tra governo e ribelli dell’Lra (Lord
resistance army
, guidati dal famigerato Joseph Kony, cfr. MC giugno 2012),
terminata con gli accordi del 2008, non ha più depredato gli abitanti della
loro terra e della possibilità di vivere in serenità. Le famiglie sono tornate
nelle loro case, i bambini soldato (se ne stimano almeno 300mila nel mondo, che
porteranno per decenni i traumi dei combattimenti e dei soprusi) si sono man
mano reinseriti nell’ambiente originario, l’economia ha ricominciato a girare,
lentamente, in tutto il paese, che oggi registra 36 milioni di abitanti e un
tasso di crescita annuale del 3,3%. Mentre si spera che la situazione intea
rimanga tranquilla – nonostante la «sporca» corsa ai minerali -, si presenta un
nuovo problema per il Nord del paese, e in parte anche per il Karamoja: sono le
decine di migliaia di sfollati che scappano dal Sud Sudan, il più giovane stato
del mondo, staccatosi nel 2011 con un referendum dal Sudan ma da alcuni mesi in
preda, a sua volta, a un conflitto armato scatenato dall’ex vicepresidente
ribelle nei confronti dell’attuale premier. Conflitto nel quale, per ora, le
forze inteazionali stanno a guardare, ma che sta generando fughe di massa in
altri paesi, benché questi non abbiano strutture e strumenti adatti per
accoglierli, come l’Uganda.

Insicurezza
alimentare

Nel frattempo in Karamoja, oltre a quella delle miniere,
tiene banco da qualche mese la questione della sicurezza alimentare, messa a
dura prova non solo dagli eventi bellici del recente passato ma anche dalla
siccità che ogni anno sembra aumentare (nel 2013 si è calcolata una diminuzione
fino al 50% dei raccolti in tutta la regione). Il governo centrale ha lanciato
un piano speciale piuttosto originale per migliorare la situazione agricola del
Karamoja: a tutti i cittadini viene chiesto di creare un proprio orto
coltivando due generi alimentari, patate e tapioca. Nient’altro, perché questi,
spiegano le autorità, sono i cibi che resistono di più alla scarsità d’acqua.
La notizia non è stata accolta con calore dalla popolazione. Anzi, molti
mettono in dubbio l’efficacia di un’azione del genere, lamentandosi del fatto
che bisognava invece puntare sul bestiame, più redditizio. In attesa di sapere
quale sarà l’efficacia del piano governativo, Irin, l’agenzia informativa
legata all’Onu, ha comunicato che il Pam, Programma alimentare mondiale, ha
pianificato di consegnare cibo ad almeno 155mila persone da febbraio 2014, di
rafforzare azioni che da qualche anno stanno migliorando altri aspetti della
società locale, come il programma food for work (cibo in cambio di
lavoro) che comprende 390mila beneficiari, di mettere in atto una forte
iniziativa scolastica per 100mila bambini a rischio dispersione e un programma
di salute e nutrizione per 38mila giovani madri e i propri piccoli, di
raccogliere più scorte di cibo per almeno 25mila bambini denutriti.

Anche in questo caso, però, ci sono dei problemi: il Pam
ha reso noto che non sa se nel 2014 avrà i fondi per sostenere tutti i
programmi, una sorta di pre allerta a non fare troppo affidamento su di essi.
Una notizia negativa, che potrebbe essere controbilanciata solo da una
rivoluzione culturale: dalle miniere del Karamoja ai campi dei sette distretti
regionali, la voce del popolo spesso è univoca nel sostenere che non basta
indicare cosa coltivare e cosa no. È tutto l’approccio che deve cambiare.
Ovvero, bisogna mettere in grado le persone di gestire non solo la coltivazione
diretta ma anche la lavorazione del cibo dalla materia prima, l’acqua potabile,
le strutture sanitarie e la protezione sociale. Così facendo, la regione, e non
solo essa, farebbe quel salto di qualità che oggi manca e che proietterebbe la
gente del luogo verso un futuro migliore, più legato all’autonomia,
all’imprenditorialità e meno all’assistenzialismo.

Anna Giolitto e
Daniele Biella


Anna Giolitto e Daniele Biella




Myanmar/Birmania: Cambiamento è anche progresso?

La rivoluzione democratica in Birmania
Un tempo Birmania, oggi Myanmar, la nazione divenuta sinonimo di
dittatura e isolamento, sta ora vivendo i primi passi di una nuova stagione di
libertà e rinnovamento a una velocità frenetica. I rischi sono molti, ma non si
può fermare il tempo. La speranza è che il cambiamento porti reale pace e armonia
in un popolo che deve reinventare la propria identità senza perderla.

Con maestria il pescatore affonda
la propria rete conica nelle acque basse del lago Inle e, manovrando la barca
con un solo remo avvinghiato alla gamba, estrae dalla nassa un paio di
guizzanti pesci argentei: anche stasera la cena per la famiglia è assicurata e
l’uomo guadagna la strada di casa remando nel modo tradizionale degli Intha, il
gruppo etnico tibeto-birmano che da secoli abita questo incredibile ecosistema
lacustre. Osservare i movimenti lenti e armoniosi dei pescatori Intha che
tornano alle proprie semplici palafitte, nell’atmosfera serena e avvolgente del
tramonto, rende difficile pensare che la Birmania stia attraversando uno dei
momenti più significativi di cambiamento della sua storia secolare.

La Birmania deriva il suo nome dal gruppo etnico di maggioranza, i
Bamar; assunse la denominazione Union of Burma dopo essersi smarcata
dall’impero anglo-indiano e aver raggiunto una fragile indipendenza nel 1948.
La disgregazione sociale e i contrasti tra le varie etnie insanguinarono il
paese per lunghi anni del secolo scorso, finché nel 1988 un colpo di stato da
parte della giunta militare guidata dal generale Saw Maung instaurò un nuovo
regime autoritario e repressivo. Fu nel 1989 che la giunta militare al potere
cancellò d’ufficio il nome Birmania, sostituendolo con Myanmar (secondo i
militari più rappresentativo delle diverse etnie presenti nel paese e
soprattutto completamente differente dal vecchio nome che richiamava il passato
coloniale) e spostando addirittura la capitale nel 2006 da Yangon a Naypyidaw,
luogo meno accessibile e quindi più irraggiungibile per le manifestazioni di
dissenso popolari.

Ma la voce di tale dissenso proruppe lo stesso, in particolare dalla
esile figura di Aung San Suu Kyi, figlia dell’eroe dell’indipendenza Bogyoke
Aung San e paladina della libertà. Divenuta leader della Lega Nazionale per la
Democrazia, venne posta agli arresti in occasione delle finte elezioni indette
nel 1989, il cui risultato, una schiacciante vittoria per il partito di San Suu
Kyi, non venne mai riconosciuto dai militari al potere. Durante gli anni della
prigionia la donna ricevette numerosi premi inteazionali, tra cui il Nobel
per la Pace nel 1991, e non abbandonò mai la propria paziente attività di
mediazione e contemporaneamente di lotta, grazie anche all’opera clandestina di
tanti sostenitori nel paese e al sostegno pubblico di importanti personalità
della scena internazionale, tra cui l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu.

Vent’anni duri

Durante questa paziente e tenace resistenza, riconosciute virtù
asiatiche, le condizioni di vita del popolo birmano conobbero un ventennio di
drastico peggioramento. La giunta militare si preoccupò principalmente di fare
affari con grandi potenze quali la Cina e la Russia, a cui praticamente regalò
parte delle immense ricchezze naturali del paese (materie prime, giacimenti
minerari, pietre preziose), e con una rete di baroni locali dediti al
contrabbando di droga e alla creazione di imperi personali. In questo scenario,
la popolazione urbana e quella rurale subirono le conseguenze peggiori: la
prima vide soffocato ogni tentativo di libertà d’espressione, di organizzazione
sindacale, di sciopero e manifestazione del dissenso, di stampa, di contatti
con l’estero; la seconda, distante dai giochi del potere politico ed economico,
fu costretta a occuparsi solo della propria mera sopravvivenza quotidiana,
priva di qualsiasi sostegno statale e pubblico, terrorizzata dal possibile intervento
militare in caso di protesta per le proprie misere condizioni. Le rivolte di
fine Novecento ebbero come protagonisti gli studenti delle grandi città e i
monaci, le uniche fasce di popolazione sufficientemente istruite per
intercettare e manifestare la protesta. Esse furono soffocate nel sangue grazie
anche al ripristino della legge marziale.

In questa fase, l’embargo attuato dagli Stati Uniti e dall’Europa
nacque con intenzioni forse condivisibili (tagliare i rifoimenti economici e
finanziari al regime per indurlo alla trattativa e alla apertura), ma all’atto
pratico intaccò solo superficialmente il potere militare ed ebbe gravi
conseguenze sulla vita della maggioranza dei birmani. L’isolamento
internazionale tagliò fuori il paese dai flussi economici, dallo scambio di
informazioni (la rete Inteet non funzionava, le e-mail erano soggette
a controlli e censura, i visti non erano rilasciati a giornalisti e operatori
dei mass media) e dal progresso sociale.

Tra passato e presente

Chi ha avuto l’opportunità di viaggiare come turista nella
Birmania dell’inizio del Ventunesimo secolo è stato facile testimone di una
realtà sospesa tra passato e presente, caratterizzata dalla mancanza di un
sistema educativo e scolastico obbligatori, dall’assenza di una rete sanitaria
a livello nazionale, dalla presenza di infrastrutture desuete risalenti per la
maggior parte all’epoca coloniale britannica. Visitare la Birmania in quegli
anni significava attraversare il tempo e ritrovarsi in un passato quasi del
tutto dimenticato in Occidente: i bambini al lavoro nei campi con i genitori,
gli anziani a fumare serenamente i propri cheerot (grossi sigari fatti a
mano) e ad attendere il tramonto, paesaggi rurali rigogliosi, ricchi di colori
e profumi, impreziositi da pagode e stupa secolari, giovani
monaci buddisti in meditazione o in fila per la ciotola di riso quotidiana:
nell’estrema povertà, i birmani mantenevano una grande dignità e una timidezza
curiosa, che inevitabilmente sfociava in un bel sorriso. La terra delle pagode e
dei sorrisi: sorrisi semplici, sinceri, genuini. Viaggiare in Birmania in
quegli anni consentì inoltre di aprire una minuscola crepa nel guscio in cui i
generali avevano rinchiuso il paese. Nell’indifferenza dei grandi poteri, le
spese dei visitatori mantennero in vita uno strato sociale di persone dedite al
turismo, tra cui guide, autisti, camerieri, addetti alle pulizie, facchini,
piccoli ristoratori, e lo alimentarono con idee, immagini, racconti di sistemi
politici e sociali differenti, ma anche con aiuti economici concreti. Ma il
dilemma morale del viaggiatore (non voler contribuire con tasse, permessi,
gabelle varie ad arricchire un regime sanguinario) restava per molti un nodo
irrisolto e un ostacolo etico.

Lo stato si ricordava dei suoi cittadini solo quando questi
alzavano coraggiosamente la testa e protestavano per le condizioni di vita
misere in cui si trovavano a sopravvivere. In quei momenti scattava la
rappresaglia, dura e silenziosa, contro studenti, monaci e gente comune di
Yangon e Mandalay.

La latitanza dell’istituzione centrale in tutti gli altri campi,
in particolare delle politiche sociali, economiche e culturali, venne in parte
colmata da alcune figure eccezionali per abnegazione e tenacia: i sostenitori
clandestini dell’opposizione democratica e i seguaci di San Suu Kyi non
cessarono mai di tramare alle spalle del regime, di tessere la rete dei
contatti e delle idee e di esprimere il dissenso anche in forme d’arte meno
palesi, ma altrettanto efficaci (come la musica degli Iron Cross, che nella
grande tradizione del rock sfidò le istituzioni repressive con il proprio motto
Rock the junta). I monaci buddisti giocarono un ruolo fondamentale nella
circolazione delle idee e della cultura, accogliendo nei propri monasteri molti
bambini e giovani e insegnando loro la lettura, la scrittura, le lingue e le
strutture del pensiero filosofico. Infine i sacerdoti missionari cristiani, non
rappresentarono in quegli anni solo figure di riferimento spirituale, ma anzi
tradussero il Vangelo in azioni concrete di pura solidarietà e amore per il
prossimo, aiutando i bisognosi in ogni campo, in ogni remoto angolo del paese.

Padre John

Un esempio su tutti è padre John Aye Kyaw,
un instancabile sacerdote cattolico che ha trascorso un po’ di tempo in
Vaticano e ha imparato qualche parola di italiano. Quando viene a conoscenza di
qualche gruppo di turisti di passaggio a Mandalay si sobbarca tuttora almeno
sette ore di viaggio lasciando il suo villaggio nella remota campagna birmana
per venire a incantare tutti con i suoi racconti di prete di frontiera. Le sue
parole pennellano una realtà drammatica fatta di povertà e miseria, che preti
come lui combattono istruendo i bambini del villaggio, dando loro rudimentali
nozioni scolastiche nella scuola che lui stesso ha costruito, confortando gli
ammalati, distribuendo vestiti ai bisognosi, impugnando gli aesi da lavoro e
contribuendo alla costruzione di una paratia contro le alluvioni monsoniche,
effettuando visite mediche e assegnando farmaci, addirittura aiutando giovani
donne a partorire. Padre John è l’esempio più emblematico dell’assenza dello stato in
Birmania. Solo la sua instancabile opera di coinvolgimento dei viaggiatori nei
suoi progetti ha consentito a molti abitanti del posto di ricevere aiuti
concreti dall’estero.

Cambiamento

Verso la fine del primo decennio del Duemila, l’acuirsi delle
sanzioni inteazionali indussero il regime ad allentare gradualmente la presa
autoritaria, con mosse spesso di facciata ma che sancirono l’inizio di
un’inevitabile fase di riforma in direzione democratica. Nel 2010 si tennero le
prime elezioni dopo 20 anni dalle ultime e vennero promulgate leggi sul lavoro,
sull’associazionismo sindacale, sui diritti civili e sull’apertura a
un’economia mista. Il cambiamento era in atto e le riforme aprirono una nuova
fase politica di riconciliazione nazionale, segnata dalla lieta liberazione di
San Suu Kyi nel novembre di quell’anno e dalla vittoria della sua Lega
Nazionale per la Democrazia alle elezioni generali del primo aprile 2012, in cui
però si distribuiva solo una piccola parte dei seggi in Parlamento, dato che la
maggioranza veniva sempre attribuita a ufficiali nominati dalla giunta
militare. Oggi, il processo nato come una timida democratizzazione sta
assumendo sempre più i contorni di un evento epocale: la recente visita del
presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama ha definitivamente fatto
puntare i riflettori dei media inteazionali sulla Birmania, dopo anni di
isolamento la procedura di ottenimento dei visti turistici è stata resa più
semplice e un flusso sempre più consistente di viaggiatori inteazionali e
soprattutto asiatici affolla gli alberghi e i siti turistici.

Con impressionante rapidità l’inflazione è cresciuta, i banchetti
di souvenir si sono coperti di magliette con il volto di San Suu Kyi, Inteet è
più veloce e le e-mail arrivano a destinazione in tempo reale. Persino i
telefoni cellulari cominciano a diffondersi, mentre le banche cambiano la
valuta straniera senza più necessità del mercato nero clandestino e gli
alberghi 5 stelle di Yangon sono costantemente affollati di businessmen
in cerca di affari.

Nuovo ottimismo

La gente è in fermento, ottimista, speranzosa: vuole godere
appieno dei nuovi, inediti spiragli di libertà. Fino a pochi mesi fa, la gente
comune viveva con la preoccupazione di essere controllata nelle proprie azioni
e nell’espressione del proprio pensiero. Il regime non aveva mai riempito le
strade e i luoghi pubblici di militari in divisa, ma aveva creato un clima di
paura e diffidenza, una sorta di cappa che gravava minacciosa su ciascun
cittadino. Ora il più significativo segno del cambiamento, al di là dei piccoli
seppur importanti progressi pratici quotidiani, è proprio il dissolvimento di
questa cappa di paura e oppressione. Prima era meglio tenere per sé le proprie
idee, magari quel signore all’angolo in attesa dell’autobus era un militare in
borghese che sarebbe potuto intervenire se insospettito da una qualche forma di
dissenso… ora invece il timore e il sospetto di essere controllati è svanito,
la libertà è soprattutto psicologica, è uno stato mentale.

Nuovi rischi

Chi ha visitato il paese anni fa e vi torna ora non riconosce più
la Birmania di un tempo, soprattutto nelle città: i ritmi tranquilli e gli
atteggiamenti sottomessi di un passato recente lasciano spazio a ingorghi
stradali e attività frenetiche. Molte persone che si trovano a sperimentare per
la prima volta una forma seppur acerba di libertà, confondono questo nuovo
status con la possibilità di fare ciò che pare a loro. Il passo indietro del
regime oppressivo è interpretato come assenza di autorità e molti ignorano le
regole perché tanto non c’è più chi le fa rispettare rigidamente. La gente
comincia a vedere i visitatori stranieri non più con occhio curioso e timido,
ma come una risorsa da cui trarre guadagno. E i sorrisi appaiono un pochino
meno genuini di una volta, anche il fascino delle pagode di Bagan sfuma
lentamente mentre grandi bus scaricano decine di turisti thailandesi, coreani e
cinesi. In un tempo molto breve si è passati da 300mila ingressi annuali in
Birmania per turismo a quasi un milione di visitatori nel 2012.

Ci si può chiedere se il cambiamento, soprattutto quando è così
repentino, sia sempre sinonimo di progresso: la giunta militare tuttora al
potere è in grado di traghettare il paese verso il futuro limitando gli
strappi, le ingiustizie e gli effetti negativi che tali eventi (che rimandano
al crollo dell’Unione Sovietica) portano sempre con sé? Non bisogna dimenticare
che il processo di apertura è stato voluto e guidato dall’alto, grazie agli
elementi più illuminati tra le fila dei dirigenti militari: questi hanno
captato i segnali di una crescente insofferenza intea e internazionale ai
metodi di governo autoritari e, dopo una severa fronda intea, hanno scelto la
strada delle concessioni e delle riforme graduali. Gli esempi dell’Iraq, della
Libia, dell’Egitto, della Tunisia, della Siria devono aver pesato sulla scelta
di gestire dall’alto il cambiamento anziché di combatterlo frontalmente. Il
rischio è che la giunta, una volta attivato il processo dirompente di
democratizzazione, cerchi quantomeno di accaparrarsi una bella fetta del potere
economico prima di lasciare le briciole ai birmani più svelti e intraprendenti.

La speranza è che il carattere mite e semplice di questo popolo ne
esca rafforzato, e non stravolto, nella propria identità. Sono interrogativi e
questioni a cui solo il tempo potrà rispondere. Intanto, il pescatore Intha
gira i suoi pesci sulla brace e scruta l’orizzonte, mentre gli ultimi raggi di
sole scintillano sulle acque placide del lago Inle.

Andrea Mapelli e Daniele Biella

Andrea Mapelli e Daniele Biella




Donne alla riscossa La società civile vuole cambiare un paese violento

Tassi di omicidio superiori a quelli di
paesi in situazioni di conflitto armato, fortissima disuguaglianza nella
distribuzione delle risorse, profondo machismo
culturale con relative violenze domestiche e femminicidi in costante
crescita, tratta di bambine e ragazze… L’Honduras è ritenuto il paese più
pericoloso al mondo, eppure qualcosa si sta muovendo, soprattutto a livello di
organizzazione femminile, per difendere i propri diritti e introdurre
importanti cambiamenti nella società.

In tutto l’Honduras risuona una sola parola
d’ordine che in questo momento interessa la popolazione: cambiamento. Sono
passati più di tre anni dal colpo di stato, e da allora tanto è stato fatto
dalla gente honduregna (anche se per l’Onu, almeno il 60% dei 7,3 milioni di
abitanti vive in situazione di povertà) per far valere i propri diritti di
scelta e creare un contrappeso ai giochi di potere dell’oligarchia delle
famiglie più influenti del paese. L’Honduras è il terzo paese in America
Latina, dopo Colombia e Haiti, ad avere maggiori disuguaglianze sociali.
Generalmente la gran parte dei governi passati avevano la tendenza a preservare
lo status quo, mantenendo il potere nelle mani di poche famiglie.



Resistenza nata dal golpe

Con il governo di Manuel Zelaya,
durato dal 2006 al 2009, destituito da un colpo di stato delle forze armate,
c’era stato un cambio di tendenza e si era visto un tentativo di introdurre
importanti cambiamenti per una maggiore giustizia sociale, tra cui l’aumento
del salario minimo e una bozza di riforma agraria. Ma queste novità non erano
ben viste da chi ha perpetrato il golpe del 28 giugno 2009. Il nuovo governo ha
raggiunto il potere successivamente con elezioni, considerate alquanto
discutibili anche dalla comunità internazionale, alle quali non sono stati
ammessi gli osservatori delle Nazioni Unite.

Ora è al potere il governo del
Partito Nazionale, un partito conservatore, il quale considera incostituzionali
alcune importanti riforme che erano state intraprese negli anni precedenti. Nel
frattempo peró una gran parte della società civile si è organizzata nel Frente
Nacional de resistencia Popular
(Fnrp) per esprimere il proprio dissenso
nei confronti di un governo che in realtà fa l’interesse di una parte piccola
della popolazione.

Il Fnrp, che dal colpo di stato ha
coinvolto nelle proprie rivendicazioni movimenti popolari e organizzazioni che
cercano una trasformazione sociale del paese, è vicino a rappresentanze di ogni
strato sociale: cittadini, contadini, operai, microimpresari, gruppi
ambientalisti e studenteschi, forze politiche progressiste e democratiche,
professionisti, donne, artisti, popolazioni indigene, comunità ecclesiali di
base, e altro ancora. Questo movimento ha un braccio politico, costituito dal Partido
Libre
(Partito Libero), la cui candidata alla presidenza è Xiomara Castro,
moglie di Manuel Zelaya, il quale è pure cornordinatore del partito e del
movimento.


Lotta per la terra

Come tutti gli esponenti politici
che si candideranno alle elezioni del 2013, la signora Xiomara avrà molte
questioni spinose da affrontare. «In primo luogo la proprietà della terra, che è
una delle ragioni principali di lotta all’interno del paese. La popolazione
dell’Honduras è prevalentemente agricola, ma la maggior parte delle terre è
paradossalmente proprietà di pochi: il 50% della superficie coltivabile è in
mano al 3,7% della popolazione», riporta Anna Schieppati, volontaria italiana
presente nel paese centroamericano da quattro anni e collaboratrice di diverse
ong locali. «Si coltiva una grande varietà di prodotti, grazie alle variazioni
climatiche del paese. Nelle zone più calde crescono anacardi, ananas, meloni;
in quelle più fredde patate, fragole, cavoli. In tutto il paese si coltivano
mais e fagioli, due elementi basilari dell’alimentazione locale». Un’ottima
varietà di prodotti, il cui ricavo però, come spesso accade, non viene
distribuito equamente tra la popolazione.

«I grandi latifondi esistenti,
invece – continua Schieppati – appartengono in maggioranza alle compagnie
bananiere e a quelle che producono olio di palma africana, pianta molto dannosa
per l’ambiente, perché rovina il suolo. Ma la gente qui non tace: le grandi
lotte di rivendicazione contadina sono iniziate proprio in Honduras negli anni
’90 con il governo di Calleja, in cui si implementò una politica a livello
regionale di carattere neoliberista (soprattutto con la Ley de modeización
y desarrollo agrícolo
), sponsorizzata dagli Stati Uniti, in cui l’accesso
alla terra non fu più amministrato dallo stato. Però, nonostante le battaglie
vinte, il modello capitalista continua a farla da padrone».

Due esempi possono dare un’idea
della situazione conflittuale nel paese. Il primo è la condizione delle
famiglie contadine del nord del paese, in un territorio chiamato Bajo Aguán, «in
cui i contadini rivendicano le terre possedute da René Morales, Reinaldo
Canales e Miguel Facussé, quest’ultimo una delle persone piú influenti del
paese, legato anche al narcotraffico», continua la volontaria italiana. Miguel
Facussé comprò le terre dallo stato proprio in seguito alla Ley de
modeización
. Peró le associazioni contadine locali affermano che le terre
in realtà furono vendute attraverso una procedura illegale e per sostenere la
loro causa nel 2001 si organizzarono nel Movimiento unido campesino del Aguán
(Muca).

La zona del Bajo Aguan è
considerata una zona di conflitto. Ciò risulta già evidente sulla strada per
arrivare in questo territorio: vi sono moltissimi blocchi stradali dei
militari, che fermano macchine, autobus, moto, camion e controllano i documenti
dei viaggiatori e il materiale che eventualmente viene trasportato. La lotta
dei dipendenti e guardie dei proprietari terrieri contro i contadini è una
lotta armata, che ha visto molti morti da entrambe le parti. Un importante
quotidiano nazionale afferma che ogni 16 giorni avviene una morte violenta.

«Esercito e polizia non sono
imparziali custodi dell’ordine; basta ascoltare cosa afferma il commissario
responsabile dello sgombero: “Sono inutili gli sforzi che fanno i contadini; è
un atteggiamento irrazionale. Abbiamo una forza normale; puó essere che ci
siano stati scontri da entrambe le parti, è uno sgombero, non è una festa. E la
loro presa di posizione è una stupidaggine, quindi noi la prossima volta non
cercheremo il dialogo come stiamo facendo adesso. Se loro si credono forti, non
hanno la minima idea di quanto siamo forti noi”» riporta Schieppati. Parole
forti, di minaccia, che fanno capire quanto sia ardua la situazione.

Un altro esempio del tutto
diverso, ma che riflette bene la realtà di un paese messo a disposizione di
tutti tranne che dei suoi cittadini, è il progetto delle ciudad modelo
(città modello). L’idea era di dare delle terre in concessione a un consorzio
nordamericano per la costruzione di città. Le ciudad modelo erano
pensate come urbanizzazioni che potevano avvalersi di una legislazione a parte,
indipendente da quella honduregna, essere esenti dalle tasse locali e avere una
polizia propria.

Le zone scelte erano aree
strategiche in quanto a locazione e risorse: uno sbocco sul mare, terre ricche
di acqua e molto fertili, strade ben asfaltate. La promessa fatta alla gente
era quella di centinaia di nuovi posti di lavoro. Il Congresso ha cercato di
far approvare questo progetto, che però, grazie anche alla pressione di molte
associazioni e semplici cittadini, che ogni mercoledì si riunivano per
protestare contro questa proposta, alla fine è stato dichiarato
incostituzionale.

Violenza epidemica

Uno dei più
grandi problemi del paese, che è andato esasperandosi negli ultimi anni, è il
clima di violenza, dovuto al fatto che l’Honduras è diventato un’importante via
del traffico internazionale di droga, passaggio preferito dai narcotrafficanti
che vengono dal Sud America e sono diretti negli Stati Uniti e in Canadà.

Un dato su
tutti: il tasso di omicidi è di 86,5 ogni 100 mila abitanti, uno dei più alti
al mondo. Basti pensare che nel non lontano Costa Rica è di 10,3, in Italia di
1,1 e la media mondiale è di 8,8.

La violenza ha varie cause, che
possono essere identificate nella grande disuguaglianza all’interno della
società e nella grande diffusione di armi da fuoco, che possono essere reperite
con facilità. Non bisogna però dimenticare anche l’aspetto culturale della
violenza che, per esempio, si esprime all’interno della società con il machismo
o maschilismo: «La donna honduregna si alza alle quattro del mattino per
accendere il fuoco e preparare la colazione per la famiglia; molto spesso
lavora fuori, oltre che in casa, generalmente coltivando i campi, dedicandosi a
lavori informali, o partecipando a microimprese – spiega Schieppati -. Spesso,
purtroppo, le donne si trovano a doversi occupare da sole della sussistenza
della famiglia; sovente i figli vengono concepiti al di fuori dell’unione
matrimoniale e non è raro che un uomo abbia figli da diverse donne. A ciò
bisogna aggiungere che molti uomini non vogliono contribuire al mantenimento
dei figli e a volte si rifiutano di riconoscerli proprio per non avere
responsabilità nei loro confronti».

Donne alla riscossa

A livello istituzionale sono state
create nuove leggi e istituzioni per combattere il machismo e la
situazione di oppressione e violenza in cui sono costrette a vivere molte donne
honduregne; ma sono soprattutto le organizzazioni civili che hanno contribuito
a fare grossi passi in avanti, pretendendo dalle istituzioni governative di
mettere in pratica quello che generalmente rimaneva solo sulla carta.

«Varie associazioni di donne nel
corso degli anni hanno lottato per introdurre importanti cambiamenti a livello
sociale, culturale, legale. Esse sono presenti su quasi tutto il territorio con
nomi e scopi differenti: Visitación Padilla, Centro de estudios de la
mujer
, Centro de derechos de mujeres, Las Hormigas, Programa
Deborah
», continua la volontaria italiana, che collabora con alcune di esse
alla promozione della parità di genere.

«Nel dare maggior potere alle
donne, queste associazioni hanno avuto un ruolo fondamentale, mettendo in atto
con intelligenza varie strategie: hanno raccolto informazioni e pubblicato
studi di alto livello sulla condizione femminile per avere più visibilità; si
sono cornordinate con la cooperazione internazionale per ottenere fondi con cui
sostenere le varie attività; hanno esercitato una forte lobbying sulle
istituzioni governative, esigendo più sensibilità da parte loro». Uno dei loro
servizi più significativi ed efficaci è l’apertura di consultori legali
gratuiti, che informano circa le leggi del paese e, se necessario, offrono
assistenza legale alle donne che non possono permettersi un avvocato.

«Proprio questi consultori sono
stati importanti per ridare dignità alle cittadine e avvicinarle alle
istituzioni, il cui personale, negli altri luoghi pubblici, tende molto spesso
a trascurare, o peggio ancora, a mortificare le donne che vi accorrono per
sporgere denuncia, soprattutto se queste vengono da aree rurali e hanno uno
scarso livello scolastico», racconta ancora Schieppati.

Benvenuti a Casa Zulema

Un ulteriore flagello che la
società civile dell’Honduras sta tentando di combattere è l’Aids. Il paese
centroamericano presenta il tasso più alto di portatori del virus Hiv del
continente, con lo 0,8% della popolazione (in Italia è 0,006%). Nonostante il
fatto che molti ospedali possano distribuire i farmaci, l’attenzione integrale
ai pazienti è rara. La cura è gratuita, il problema è che questa non è
disponibile per tutti. Data la scarsità dei farmaci disponibili negli ospedali,
la cura viene iniziata solo con quelle persone che, per condizione familiare,
stile di vita, possono garantire continuità.

Il problema è che i tre quarti
degli infettati sono persone senza tetto, che vivono per la strada, e pertanto
la loro condizione è di totale abbandono. Molte persone inoltre, una volta
contagiate, vengono abbandonate dai familiari.

«Il virus è ancora visto come uno
stigma: molte persone affermano che “la malattia è un castigo del Signore per i
peccati della carne”; tanti non dicono di avere il virus e non si sottomettono
a cure, proprio per non dover confessare ai propri cari di essere stati contagiati»
sottolinea la volontaria italiana.

Tra le realtà che combattono la
stigmatizzazione, dando un accompagnamento integrale alle persone infette senza
condizioni economiche o familiari adeguate, c’è Casa Zulema, un centro di
accoglienza per malati di Hiv-Aids in un paese a breve distanza dalla capitale
Tegucigalpa. Qui le persone sono accudite e rispettate nella loro dignità e
ricevono un’alimentazione sana ed equilibrata.

Casa Zulema prende il nome da una
donna morta in ospedale abbandonata da familiari e amici. La accompagnò nei
suoi ultimi giorni di vita padre Ramon Martinez Perez, un sacerdote spagnolo
che alla morte della donna, nel 1997, decise di costruire una casa per casi
simili. All’inizio essa aveva lo scopo di offrire la possibilità di una morte
dignitosa alle persone che si trovavano abbandonate in ospedale.

Oggi, con i progressi della
ricerca medica, la casa è diventata principalmente un luogo di recupero, in cui
la gente apprende le nuove abitudini necessarie per portare avanti la cura con
successo, imparando ad accettare e convivere con la malattia per poi tentare di
reinserirsi all’interno della società.

A Casa Zulema vivono donne,
uomini e bambini senza limiti di età, religione o razza (il 90% della
popolazione honduregna è meticcia). «L’unico requisito necessario per
alloggiarvi è che il paziente non abbia atteggiamenti violenti o aggressivi,
che mettano in pericolo gli altri abitanti», spiega dogna Laura, la
responsabile della struttura. «La vita in Casa Zulema inizia alle 7 di mattina,
con la colazione nella sala da pranzo comune e la prima distribuzione dei
farmaci. Poi i bambini vanno nella scuola vicina, mentre gli adulti
contribuiscono, a seconda delle condizioni fisiche e psicologiche, alla pulizia
della casa e del giardino, alla preparazione del pranzo e della cena. Nel
pomeriggio c’è un momento di preghiera e di riflessione spirituale. La sera,
dopo la nuova tornata di farmaci, che sono molto forti, la gente sente presto
il bisogno di riposare. La domenica spesso si organizzano escursioni nei
dintorni».

Nella casa operano volontari e
persone che ricevono uno stipendio, anche se minimo, come la cuoca, la donna
delle pulizie e un’amministratrice tuttofare. Solo due sono le persone che
vivono 24 ore su 24 nella casa: dogna Laura e Claudia che accompagnano e
si prendono cura della vita di circa 20 persone tra adulti e bambini.

«La casa vive principalmente di
carità e sono molte le aziende, le parrocchie e semplici individui che offrono
ciò che è necessario: cibo, vestiario, biancheria, prodotti d’igiene personale,
quadei e giochi per i bambini, medicine; ma non gli antiretrovirali, che sono
dati dall’ospedale. Sono molte le persone e i gruppi che si ricordano della
casa per condividere quello che hanno» ribadisce la responsabile.

Esiste, quindi, tutta una parte
di Honduras che ha a cuore il prossimo e che sta alzando la propria voce. Il
futuro prossimo dirà se riuscirà a dare un volto nuovo, migliore, al proprio
paese.

Daniele Biella

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Daniele Biella




Un patrimonio da salvare

Premessa

«I pionieri di un mondo senza guerre sono i giovani che rifiutano il servizio militare». Chi è al corrente che una frase del genere è stata detta quasi 100 anni fa da un premio Nobel per la fisica? Stiamo parlando di Albert Einstein (1879-1955), che ai suoi celeberrimi studi ha affiancato, nel tempo, l’impegno per un pacifismo concreto, alternativo alle logiche del tempo. Come lui, altre migliaia di persone, nel mondo e anche in Italia, hanno fatto una precisa scelta di campo: quella dell’obiezione di coscienza (Odc), ovvero di voler difendere la propria Patria senza imbracciare un’arma.
In questo 2012 ricorrono 40 anni esatti dall’introduzione dell’obiezione nella legge italiana. Un anniversario da festeggiare, perché, dopo i primi pionieri che avevano dovuto pagare il proprio rifiuto con l’arresto e le vessazioni di chi li considerava nulla più che dei «senzapatria», l’Odc ha permesso a milioni di giovani di trovare la propria strada attraverso i significativi mesi (prima 20, poi 12, com’è ancora oggi) di Servizio civile presso enti di varia natura, dall’aiuto alle persone in difficoltà, alla salvaguardia del patrimonio ambientale e artistico, all’interposizione nonviolenta nei conflitti, in Italia come all’estero.
Nel 2001, altra pietra miliare nella storia della difesa alternativa della Patria: con la scomparsa della naia obbligatoria è nato – grazie all’impegno di molti, politici e non, nell’affrontare il lungo percorso istituzionale sfociato nella legge 64 – il Servizio civile nazionale volontario (Scn), aperto ai ragazzi e, per la prima volta, alle ragazze dai 18 ai 26 anni, poi innalzati a 28. È nato così un organo governativo apposito, per la prima volta indipendente dal ministero della Difesa, l’Ufficio nazionale servizio civile (Unsc), direttamente collegato alla Presidenza del Consiglio.
Da allora, 300 mila giovani sono partiti per l’anno di servizio, molti in Italia, ma qualche migliaio anche all’estero, attraverso uno dei progetti più virtuosi che il mondo invidia all’Italia: il corpo civile di pace dei Caschi bianchi, oggi diffuso in gran parte dei paesi in difficoltà a livello sociale, economico e di diritti umani e civili.
Una marea di persone ha fatto questa scelta di vita e di cittadinanza attiva. Per molte di esse non ha significato solo svolgere un anno di Scn, ma un impegno che è continuato, sotto varie forme (dal volontariato, alla ricerca di lavoro in ambiti affini, a varie altre strade), una volta ritornate alla propria vita pre-servizio, naturalmente cambiate da un’esperienza spesso coinvolgente a 360 gradi.

Dopo anni di crescita di domande e di posti a disposizione, dal 2008 la tendenza si è però rovesciata, non a causa del disinteresse dei giovani, bensì del taglio di fondi governativi. In questo 2012, addirittura, si è parlato per la prima volta di possibile interruzione del Servizio civile, finito sotto la scure dei tagli in nome della crisi. I volontari (chiamati così in modo un po’ inappropriato, perché la scelta è sì volontaria ma si viene rimborsati con un indennizzo mensile, lo stesso dato a chi presta il servizio militare) hanno iniziato a manifestare la propria preoccupazione, inviando anche lettere ai politici; gli enti che li fanno partire hanno aumentato la loro pressione sul governo Monti; giornali, donne e uomini di cultura, hanno lanciato l’idea di un Servizio civile universale, per tutti, seconde generazioni (figli di stranieri nati in Italia) comprese; politici di ogni schieramento che hanno a cuore il tema (pochi, purtroppo, anche se tra questi spicca il ministro per l’integrazione e la cooperazione Andrea Riccardi, fondatore della Comunità Sant’Egidio) fanno cartello chiedendo al Presidente del Consiglio di metterci una pezza. Vedremo: per ora si sa che nel 2013, chi partirà lo farà con i fondi residui dell’Unsc. È l’unica luce in fondo al tunnel, in attesa di nuove.
Nelle pagine seguenti viene illustrato, sotto ogni aspetto, il bene che l’Obiezione di coscienza prima, il servizio civile poi, ha fatto e sta facendo per il nostro paese. Il problema è che una parte dei cittadini di questo paese se ne rende conto, ma un’altra grossa fetta non ne ha capito la portata, nonostante sia palese, come rivelano le ultime ricerche sociali in merito, quanto sia virtuoso il «ritorno» verso la società civile dell’impegno dei ragazzi in Scn: ben quattro euro di capitale umano ogni euro investito dallo Stato per il loro servizio.
Alla luce dei numeri e dei fatti, il messaggio che viene diffuso è forte e chiaro, in primo luogo per la politica: è ora che tutti sappiano veramente cos’è il Servizio civile e cosa perderemmo se venisse sospeso. È ora di rilanciarlo, e per questo c’è bisogno dell’impegno di tutti noi.

Daniele Biella

Daniele Biella




Operazioni caschi bianchi

Servizio civile all’estero

Da quando è stata riconosciuta l’obiezione di coscienza al servizio militare ed è stato istituito il servizio civile nazionale, oltre 300 mila giovani hanno scelto di difendere la patria spendendo un anno di lavoro in un paese estero, in missione di pace non-armata e nonviolenta. Chi ha sperimentato tale servizio ne resta segnato per tutta la vita, continuando a impegnarsi in attività di promozione umana, a difesa della pace e dei diritti dei più deboli.

Li incontri quando proprio non te l’aspetti: negli slums, le baraccopoli africane, come nelle favelas brasiliane. A difendere i diritti delle donne in America Latina e delle minoranze etniche nell’Est Europa. Ma anche a tutelare foreste, avviare progetti di cooperazione allo sviluppo, o semplicemente condividere la dura quotidianità di bambini e adulti di strada, famiglie indigenti o vittime di guerre o violenze strutturali, senza colpe se non quella di trovarsi nel posto sbagliato. Sono i giovani italiani che decidono di partire per l’anno di Servizio civile volontario all’estero: 400 in questo 2012, almeno 5 mila da quando, nel 2001, è nato in via ufficiale il Scn, Servizio civile nazionale, che nonostante la dicitura «nazionale» prevede anche l’invio di ragazze e ragazzi fuori dall’Italia.

Da obiettori a caschi bianchi
Nessun controsenso: la difesa della patria si può promuovere anche così. «Oramai siamo in una nuova fase dell’idea di “difesa”: si tutelano gli interessi nazionali, non i confini. Lo fanno in primis gli stessi militari, con le cosiddette “missioni di pace” nei territori caldi come Afghanistan, Balcani, e fino a qualche tempo fa Iraq – sottolinea Nicola Lapenta, 41 anni, responsabile per il Servizio civile dell’associazione Comunità Papa Giovanni xxiii -. Quindi ancor più il discorso vale per un’azione non armata e nonviolenta come quella portata avanti dai giovani ex obiettori di coscienza, oggi volontari in servizio civile».
La differenza del tipo di impegno, rispetto a quello militare, è evidente; «non si difendono interessi legati a pozzi di petrolio o altre questioni geopolitiche; piuttosto, chi sceglie il servizio civile all’estero promuove il rispetto dei diritti umani e la trasformazione positiva dei conflitti di ogni genere» afferma Lapenta, padre di tre bambini, ma soprattutto uno dei primi obiettori di coscienza alla naia obbligatoria ad aver «superato il confine»: nel 1995, durante l’anno di servizio civile (che ha svolto in una casa famiglia della Comunità in Piemonte), partecipò, alla marcia pacifista indetta dai Beati costruttori di pace nella Sarajevo sotto assedio, capitale dell’attuale Bosnia, allora parte della ex Jugoslavia.
«Recarsi all’estero a quel tempo non era permesso agli obiettori, così io e altri ci siamo autodenunciati e siamo partiti: ci sembrava giusto dare il nostro contributo alla risoluzione nonviolenta del conflitto nei Balcani, attraverso l’interposizione diretta», spiega il responsabile servizio civile della Comunità Papa Giovanni xxiii.
Dalla presenza degli obiettori nella ex Jugoslavia, la storia dell’impegno civile dei giovani italiani ha scritto pagine sempre più colme di testimonianze e coraggio, fino ad arrivare alla legge 230 del 1998, che nel riformare l’obiezione di coscienza introduceva la possibilità di partire per l’estero, e «sanava» la situazione del centinaio di persone che, come Lapenta, si erano recati all’estero senza permesso durante il loro anno di servizio.
Nel frattempo, a questi giovani pionieri è stato dato anche un nome: Caschi bianchi. Una risoluzione dell’Onu del 1994 chiama così un possibile corpo civile di aiuto umanitario da inserire nei conflitti. Da allora in Italia il nome è stato dato in via informale ai giovani obiettori all’estero. «Fino al 2001 quando, con l’istituzione del Scn, un progetto promosso dagli enti Caritas italiana, Comunità Papa Giovanni xxiii, Focsiv-Volontari nel mondo e Gavci si è chiamato proprio “Caschi bianchi”, puntando sulla creazione di un vero e proprio corpo civile di pace» (per quest’ultimo aspetto vedi la pagina 48, dedicata al «Servizio civile nel mondo», ndr).

Progetti per costruire la pace 
Quel progetto c’è ancora oggi e riguarda la maggior parte dei volontari all’estero del servizio civile, circa due terzi del totale. Nel 2012 i Caschi (chiamati “bianchi” per distinguerli dai “blu” delle stesse Nazioni Unite, che hanno compiti simili ma impugnano un’arma da usare a seconda del bisogno) sono sparsi in quasi tutti i continenti: «Paesi dell’ex Jugoslavia, Gibuti, Guinea, Sierra Leone, Argentina, Guatemala, Thailandia, Sri Lanka: ecco alcuni dei Paesi in cui sono presenti oggi con i nostri progetti – elenca Diego Cipriani, capo dell’Ufficio servizio civile di Caritas italiana -. Si occupano, dando man forte alle presenze locali del nostro ente, di ragazzi di strada, promozione dei diritti umani, riconciliazione delle parti in conflitto. La loro presenza è fondamentale, sono un punto di riferimento per la popolazione locale».
Il cornordinamento fra le quattro organizzazioni promotrici dei Caschi bianchi fa sì che il progetto sia ben strutturato: «A ben vedere rappresenta l’essenza dello stesso servizio civile: si tratta di una presenza preziosa nel prevenire e trasformare i conflitti, ovvero nel costruire la vera pace, attraverso la nonviolenza» aggiunge Primo Di Blasio, referente per la Focsiv (Federazione organismi cristiani servizio internazionale volontariato). Le sue parole trovano conferma nelle recenti dichiarazioni del ministro per la Cooperazione e l’integrazione Andrea Riccardi: «Perché così pochi posti per l’estero? Ne servirebbero molti di più, la mediazione è una componente fondamentale della società, che vede una crescita dei conflitti sociali».
Discorsi e intenzioni a parte, la concretezza parla da sé anche nel caso della Focsiv: 1.250 giovani partiti dal 2001 a oggi, 200 in servizio quest’anno in nazioni, tanto per citae alcune, come Cina, India, Albania, Mali, Congo, Rwanda, Colombia, Venezuela, tutti a sostegno di progetti di organizzazioni non governative italiane o locali; in Benin l’ente si è appoggiato finora alla presenza dei missionari cappuccini.
«Gli ambiti di intervento sono il socio-sanitario, la tutela ambientale, la difesa dei diritti, lo sviluppo sociale, ad esempio, promuovendo il turismo comunitario e le associazioni di artigiani locali» illustra Di Blasio. Come se non bastasse, i Caschi bianchi svolgono anche attività giornalistica dal basso, scrivendo articoli per il portale antennedipace.org. «Sono come delle antenne, pronte a diffondere quello che vedono verso tutti» aggiunge Lapenta, la cui Comunità Papa Giovanni xxiii (presente in ampie zone del mondo, dai Territori palestinesi allo Zambia, dal Tanzania alla Russia, dal Brasile al Bangladesh), si occupa anche, dall’Italia, di raccogliere i contributi dei giovani in servizio e inserirli sul portale telematico.
Inoltre, nonostante che per il servizio civile in generale sia un periodo molto arduo, data la paventata chiusura dei progetti nel 2013 se il governo non riuscirà a reperire altri fondi, dal 2011 è partito un nuovo progetto sperimentale in Albania, promosso dal Comitato Dcnan, Difesa civile non armata e non violenta, di cui fan parte gli enti promotori del servizio civile all’estero: si chiama “Oltre le vendette” e vuole aiutare la ricomposizione pacifica dei violenti conflitti famigliari che flagellano il Paese balcanico. Non solo Caschi bianchi, comunque; il servizio civile all’estero si compone anche di altre realtà altrettanto valide: dai progetti di Ipsia, ong delle Acli, a quelli di enti locali, su tutti il Comune di Torino; il bacino di scelte al quale una ragazza o un ragazzo possono attingere è ampio.

Andata…
Ma come funziona il loro «reclutamento»? Un ragazzo dai 18 ai 28 anni può fare domanda per il servizio civile, estero compreso, almeno una volta all’anno, in occasione del bando dell’Unsc (Ufficio nazionale servizio civile). La procedura è semplice: entra in contatto con l’ente referente del progetto e invia la propria candidatura. Il colloquio è garantito, il posto ovviamente no, soprattutto se il numero delle domande dei candidati è molto superiore alle richieste pervenute dai vari enti.
Dal 2001 al 2005 questo rischio non c’è stato, e a grandi linee quasi tutti potevano partire. Poi con il passaparola e soprattutto i racconti dei primi Caschi bianchi, si è arrivati a un boom di richieste che continua ancora oggi, quando viene selezionata circa una persona su tre, ovvero, su una media di 500 posti, arrivano agli enti 1.500 domande. «Io sono stato ripescato per Santiago del Cile, dove sono arrivato nel dicembre 2006: era la prima volta che lasciavo l’Italia per così tanto tempo – spiega Federico Pinnisi, oggi 31enne e ritornato nella sua città d’origine, Novara -. Dopo la selezione, abbiamo avuto una formazione di quasi due mesi, per prepararci a quello che avremmo trovato all’estero».
È questa la differenza con un’esperienza di volontariato canonica: chi parte per il Servizio civile ha un bagaglio formativo alle spalle che gli consente di reggere l’urto iniziale dell’arrivo in un luogo diverso dalla quotidianità di casa propria e, nello stesso tempo, gli permette da subito di agire dando concretezza al proprio mandato. Nei 45-60 giorni di formazione normale, si alternano incontri con esperti, laboratori, esperienze di condivisione diretta in ambienti e con persone con disagio. Nel caso di Pinnisi, partito come Casco bianco per la Comunità Papa Giovanni xxiii, ha significato alcune settimane in una casa famiglia. «La formazione previa alla partenza garantisce ai giovani quelle competenze di base utili a gestire un conflitto, imparando a interporsi fra le parti in causa – riprende Lapenta -, si tratta di avere la giusta “equivicinanza”, parola che si distingue da “equidistanza”, perché significa porsi vicino a tutte le parti, cogliendone le difficoltà, e facilitare il dialogo senza schierarsi per favorire nessuno».
Una volta formato, il giovane ha il giusto tempo per salutare parenti e amici, prima di lasciare l’Italia per almeno dieci mesi. La coscienza che sia una scelta temporanea, molto diversa, ad esempio, dall’impegno missionario, è ben presente, ma il distacco è sempre un momento forte, soprattutto a quell’età. «Ho faticato a staccarmi da famiglia e amici, a capire la lingua una volta là, pur avendo studiato prima un po’ di spagnolo, a passare da una città di 100 mila abitanti a una metropoli di 7 milioni di persone… – continua Pinnisi -. Poi in poco tempo sono diventato autonomo, e in qualche modo cercavo di mimetizzarmi con i cileni, calandomi nella loro realtà».
La sua storia è comune a quasi tutti i ragazzi in servizio all’estero. In particolare, lui ha vissuto a stretto contatto con i bambini di strada, lavorando anche in un doposcuola di Santiago (la parola “lavorando” è giusta, il servizio civile prevede un’indennità di circa 850 euro al mese per l’estero, il doppio del nazionale: è per questo che si parla di lavoro volontario, non di puro volontariato) e promuovendo l’obiezione di coscienza tra i giovani cileni, nel cui paese il servizio militare è ancora obbligatorio.
«All’estero ti senti completamente immerso nella realtà in cui vivi, a 360 gradi, perché vivi in condivisione diretta con chi ha bisogno: è un’esperienza che lascia il segno» riporta Sara Rovati, appena tornata, dicembre 2011, da una comunità per minori dello Zambia. «Fare il Casco bianco significa, da una parte, spogliarsi di tutto: dalle abitudini ai beni materiali, al cibo, alle amicizie, e ripartire da zero in un contesto differente; dall’altra, si entra in luoghi di violenza e si deve cercare di dare una mano a risolvere i conflitti quotidiani: ci si sente parte di un ingranaggio più grande che diffonde una cultura di pace, partendo dalla condivisione, dal rispetto, dalla multiculturalità», osserva Marco Bianchi, casco bianco in Bolivia nel 2005. Le sue parole colgono in pieno lo spirito di questa particolare forma di servizio civile, che con umiltà cerca di entrare in un ambiente nuovo ben sapendo di essere di passaggio.
«Noi poi torniamo a casa, ma le persone con cui abbiamo a che fare restano lì: i protagonisti del cambiamento non siamo noi ma loro, e noi con loro – specifica Pinnisi, approfondendo ulteriormente il ragionamento -; vivere il servizio civile all’estero ha voluto dire confrontarmi con le mie paure, i pregiudizi, chiedermi il senso delle cose, ammettere il senstimento di impotenza a cui noi occidentali siamo poco abituati, presi dalla nostra idea di onnipotenza risolutrice».

… e ritorno
Peccato che, più velocemente di quel che ci si aspetti, i 12 mesi del servizio finiscano; giusto il tempo di abituarsi alla nuova vita, ed è già ora di passare il testimone al casco bianco che verrà dopo di te: si è utili, ma non indispensabili.
A un certo punto, quindi, si devono fare i conti con il ritorno in Italia. E qui inizia il bello: «A volte è più dura della partenza, sei cambiato, devi rifarti una vita», aggiunge ancora Pinnisi. Lui, dopo alcuni ritorni in Cile («perché le amicizie rimangono, ma vanno coltivate») ha oggi trovato impiego nel sindacato della Cgil, oltre a dedicarsi al volontariato in parrocchia e per Cascina G, progetto di un prete novarese per la promozione dell’impegno giovanile. Bianchi, invece, si occupa di progettazione per Banca Etica. Sono due esempi delle molteplici strade che prendono gli ex volontari di Scn all’estero, una volta superato lo spaesamento iniziale del rientro. C’è chi, fra gli altri, è diventato giornalista anche per quotidiani nazionali, chi è entrato a pieno titolo nello staff di Amnesty Inteational; parecchie decine hanno scelto la cooperazione internazionale e sono ripartiti per altri paesi.
Ancora, ci sono coloro che hanno deciso di tornare al lavoro esercitato prima della partenza, oppure sono ancora alla ricerca, soprattutto chi è tornato da poco. «All’estero mi sono innamorato della patria, mi ha rivelato un ragazzo appena tornato in Italia: questa è finora la frase più bella che abbia mai sentito», ammette il responsabile servizio civile della Focsiv. C’è infatti un filo rosso che unisce le migliaia di esperienze, ed è sottolineato da tutti i responsabili degli enti: la passione per il sociale in tutte le sue forme e il continuare a essere casco bianco in ogni situazione, nonostante sia terminata l’esperienza propriamente detta. «Con i vicini di casa, con i propri figli, i parenti, gli amici, sul lavoro o nell’associazione per cui fai volontariato: ovunque puoi portare avanti la tua missione», argomenta Chiara Perego, che nel 2004 è stata anche lei a Santiago del Cile e oggi è tornata nella sua Brianza, dove si occupa sia di economia solidale che di musicoterapia. Prima con i Caschi bianchi del suo scaglione, poi con altre persone che si sono man mano unite negli anni, essa ha fondato nel 2006 l’associazione Paciamoci onlus, per promuovere la risoluzione nonviolenta dei conflitti interpersonali, a scuola come in altri ambiti quotidiani. «Abbiamo scoperto che anche in Italia c’è molto bisogno di mediare fra le parti in conflitto, a volte da un semplice torto subito si generano catene di violenza che durano anni e possono non venire mai superate», aggiunge Perego.
C’è di più: dal 2011, almeno un centinaio di Caschi bianchi partiti con la Papa Giovanni xxiii ha deciso di tornare a fare gruppo, creando il movimento della «Ricostituente»: ogni 2 giugno, in occasione della Festa della Repubblica, si trovano per un momento di formazione, confronto e azione diretta nonviolenta, e nel resto dell’anno cercano di agire in gruppi locali. «Il presupposto è che si rimane caschi bianchi a vita – conclude Bianchi -; di certo i ritmi frenetici della nostra vita in Italia non aiutano, ma paradossalmente la vera sfida è di portare avanti gli ideali con cui operavi all’estero proprio qui in Italia».

Daniele Biella

Daniele Biella




La meglio gioventù

Servizio civile in Italia

Sono 3.581 gli enti di servizio civile oggi accreditati presso l’Unsc (Ufficio nazionale per il servizio civile). I tagli imposti a causa dell’attuale crisi economica hanno diminuito di molto le risorse economiche, rischiando di azzerare una delle esperienze più significative ed esemplari degli ultimi 40 anni di politica giovanile.

Prendete un’esperienza che funziona: i 300 mila ragazze e ragazzi che negli ultimi 11 anni (grazie alla legge n. 64 del 2001) hanno svolto 12 mesi di Servizio civile nazionale e volontario (Scn), ovvero quella che è ritenuta dalla gran parte di sociologi ed educatori la migliore politica giovanile dello Stato italiano, sicuramente l’unica che funzioni davvero. Ebbene, se provate a tagliare, poco alla volta ma in modo inesorabile, i fondi che la tengono in piedi, tale esperienza arriva a un possibile azzeramento da qui a pochi mesi.
Follia? No. Oggi sta accadendo anche questo, nel nostro paese, sconvolto da una crisi economica che rischia di trasformarsi, se non lo è già, anche in una crisi di tipo morale. Il welfare, lo stato sociale, sta soffrendo non poco, e non ci sono parole che spieghino quello che sta avvenendo sotto gli occhi di tutti: in pochi mesi si sta dilapidando una storia lunga almeno 40 anni, da quando, nel 1972, venne promulgata la legge Marcora (n. 772) sull’Obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio. A dirla tutta, per trovare testimonianza del primo renitente alla leva si risale fino al II sec. d.C.: san Massimiliano, che rifiutò di arruolarsi nell’esercito romano e che oggi è il santo protettore degli obiettori.
«Che la lunga notte del servizio civile sia l’esemplificazione di un paese che non vuole avere un futuro?». A chiederselo è Licio Palazzini, obiettore nel 1982 con l’associazione Arci, ma soprattutto oggi doppiamente in prima fila nel mondo del Servizio civile nazionale: è presidente di Arci servizio civile, la realtà che più di tutti ha fatto partire giovani dal 2001 in poi («almeno 15 mila, una media di 1.300 volontari all’anno»), e presiede anche la Consulta nazionale per il servizio civile, organo che dal 1999 fa sedere attorno a un tavolo tutti i protagonisti del mondo del Scn: i rappresentanti della Conferenza Stato-regioni, l’Unsc (Ufficio nazionale del servizio civile, governato dalla presidenza del Consiglio dei ministri), gli enti e i rappresentanti dei volontari. «Siamo di fronte a un corto circuito: questi ragazzi sono un capitale umano indispensabile, come si può pensare di fae a meno?» prosegue Palazzini.
A lui fa eco un’altra storica figura del settore, Diego Cipriani, 49 anni, oggi responsabile servizio civile della Caritas italiana, ma dal 2006 al 2008 direttore proprio dell’Unsc, quindi profondo conoscitore dei meccanismi di finanziamento del servizio civile. «È chiaro che noi, enti, sopravvivremmo lo stesso senza i volontari in servizio. Ma sarebbe davvero un grave errore chiuderlo, perché i fatti dimostrano che la funzione educativa per i giovani stessi e il ricavo che la comunità trae dal loro impegno è fondamentale», ragiona Cipriani, che ai 15 mesi dell’allora leva obbligatoria aveva preferito, nel 1987, i 20 mesi di servizio civile alternativo, aiutando i volontari della Caritas di Bari.
Come dar loro torto? Per capire che tipo di esperienza abbiamo di fronte basta sentire solo alcune delle voci delle migliaia di volontari che partono ogni anno da e per ogni regione d’Italia. Dai 178 del primo anno si è passati ai 7.865 del 2002, al record di 45.890 nel 2006, fino alla caduta libera degli ultimi anni, con il 2012 che vedrà un massimo di 19 mila invii, con partenze scaglionate mese per mese, proprio per problemi economici nel reperire tutti i fondi per farli partire assieme, come è avvenuto fino al 2011 (vedi tabelle a pag. 46-47). In queste cifre si nota una marcata prevalenza di ragazze (67%), con un recupero delle presenze maschili negli ultimi anni, e un’età media sui 24 anni.
Le testimonianze sono una diversa dall’altra, ma in comune hanno tutte il fatto che, comunque sia andata, l’anno di servizio civile non lo si dimentica affatto. Né lo dimenticano i beneficiari. «È un’esperienza che rimarrà per sempre. Io alla fine del servizio ho anche continuato al progetto come volontaria», spiega Charlotte Cesareo, 27 anni, che ha svolto il Scn nel 2010 per Arci servizio civile come «braccio destro dell’avvocato che aiuta gratuitamente nelle pratiche chi è in attesa del permesso umanitario». Lei, tramite il progetto «L’officina dei diritti», accompagnava i rifugiati in questura, ospedale e altri luoghi «per loro spesso fonte di preoccupazione». Aggiunge ancora la ragazza: «All’inizio è stata dura, poi capisci il tuo ruolo e diventa un’esperienza unica».
La scelta di Angelo Sgandurria, leccese, che oggi ha 28 anni, è peculiare: «Ho iniziato il servizio civile per l’Associazione italiana sclerosi multipla (Aism), nel dicembre 2009. Poche settimane prima ero un militare della capitaneria di porto, sempre in ferma volontaria – racconta – ma ho deciso di cambiare, senza alcuna aspettativa: era la prima volta che incontravo la disabilità». L’anno di Scn è stato utile sia alle persone che accudiva sia a se stesso, e aggiunge: «Non si può nemmeno paragonare il beneficio del servizio civile rispetto al militare; è un’ottima palestra per crescere: prima non ero sensibile verso i problemi degli altri, ora sono all’opposto. Avrei firmato per un altro anno di servizio, ma visto che non si può fare, ora cerco comunque di lavorare nel sociale».
Non per tutti, comunque, i 12 mesi rappresentano un’esperienza solo positiva. Per vari motivi, può essere difficile e faticoso portare avanti il proprio compito. «Menomale che è finita – ammette Emanuele Pizzo, padovano di 32 anni -. L’ho fatto nel 2008, ero in una casa di riposo per anziani, all’inizio pensavo che avrei potuto valorizzare al meglio la mia giovinezza. Ma le aspettative ti fregano: la realtà quotidiana era pesante, molte persone non erano molto in sé e noi dovevamo limitarci ad assisterli in toto». Non per questo, però, Pizzo, che durante quell’anno è stato anche eletto rappresentante nazionale dei volontari, giudica l’esperienza negativa: «Al contrario, ho trovato un team di colleghi affiatato, che rendeva comunque stimolante il lavoro. Oggi too ancora nella struttura come volontario».

Assistenza, ambiente, promozione culturale, protezione civile: sono questi gli ambiti in cui rientrano tutti i progetti dei 3.581 enti di servizio civile oggi accreditati presso l’Ufficio nazionale (vedi www.serviziocivile.gov.it). Tra le proposte, si può salire sull’ambulanza dell’Anpas, Croce Rossa o delle Misericordie, oppure promuovere la donazione del sangue con Avis, Fratres o Fidas. «Andavo nelle scuole di ogni grado a parlare dell’importanza di donare, portando racconti di altri donatori, gli strumenti che si utilizzano, infine accompagnando i ragazzi nelle sale di donazione: sono molto interessati», illustra Elisa Montagni, 27 anni, ex volontaria in Scn per Avis.
Viviana Ciufo è partita invece nel 2005 con il Wwf, lavorando nell’ufficio comunicazione «per provare un’esperienza concreta prima di finire gli studi in scienze geologiche». Alla fine dell’anno, è rimasta per due anni come collaboratrice, così come capita a migliaia di giovani: spesso, se fortuna e capacità vanno a braccetto, l’impegno volontario si può tramutare in un posto di lavoro. «Nel 2008 il Csv (Centro servizi per il volontariato), Sardegna solidale, dove avevo appena finito l’anno di Scn, mi ha tenuto come referente per i volontari servizio civile degli enti associati», spiega la 33enne sarda Ilaria Scioni.
«Ma vi immaginate cosa potrebbe accadere se non ci fossero più giovani ad assistere gli utenti dell’Aism, per esempio, o dei tanti altri enti che contano sul servizio civile con la doppia valenza dell’aiuto per il proprio lavoro e la crescita educativa dei ragazzi?». A porre la questione è Raffaele De Cicco, attuale cornordinatore dell’Unsc, dal 1994 nello staff governativo che gestisce il Scn. «L’utilità del servizio civile è sotto gli occhi di tutti. Mi auguro che si trovino i finanziamenti e venga rilanciato: ne va dei rapporti tra cittadini e istituzione», sentenzia De Cicco.

Alla fine si torna sempre lì, alla questione dei fondi: dai 121 milioni di euro del 2002 si è raggiunta quota 296 milioni nel 2007, ma si è poi sprofondati agli attuali 68 milioni. Per il 2013 l’Ufficio nazionale esaurirà gli 80 milioni che ha ancora in cassa (utili per 15 mila partenze). Ma poi?
Il ministro Andrea Riccardi ha detto pubblicamente che si sta impegnando presso il presidente del Consiglio Mario Monti e il suo governo a reperire i finanziamenti; molti politici e volti noti della società civile e dello spettacolo sono scesi in campo appoggiando anche l’idea di Servizio civile universale, lanciata dalla testata del non profit Vita (tra gli altri Romano Prodi, don Antonio Mazzi, i comici Giovanni e Giacomo); ex volontari e rappresentanti hanno lanciato appelli (vedi riquadro su F-35).
Si cercano nuove soluzioni, ad esempio potenziando il Servizio civile regionale, attivo dal 2004 in molte regioni, in cornordinamento con quello nazionale. Sono in discussione in Parlamento varie proposte di riforma del Scn, una delle quali in merito all’apertura dell’anno di servizio pure a stranieri e seconde generazioni. A inizio 2012 tutte le partenze erano state bloccate, perché un tribunale aveva dato ragione a un ragazzo pachistano che era stato rifiutato, ritenendo tale rifiuto un atto discriminatorio. Poi è arrivato lo sblocco, ma solo con l’impegno della politica per allargare al più presto le maglie della legge.
Insomma, siamo di fronte a un cantiere pieno di belle speranze, a ben vedere. «Ma siamo molto preoccupati; speriamo in un orizzonte più sereno di qui a poco, evitando così la paralisi», auspica Primo Di Blasio, che oltre a essere referente della Focsiv copre il ruolo di presidente della Conferenza nazionale degli enti di servizio civile (Cnesc), rete che da 20 anni racchiude tutti i più grandi enti di servizio civile.
Per capire cosa perderebbe la società basta citare qualche dato degli studi che periodicamente compie l’Irs, Istituto per la ricerca sociale: i 1.116 giovani di Arci servizio civile, in servizio nel 2009, sono costati allo Stato 6,7 milioni di euro (433 euro al giorno più contributi), ma il ritorno sulla collettività, calcolato equiparando gli stipendi di categorie lavorative con mansioni affini, è stato di 22,9 milioni, ovvero quasi quattro volte tanto e un risparmio per l’erario di 16,2 milioni. Un capitale sociale enorme, senza eguali nell’Italia di oggi. Anche perché, dicono gli esperti dell’Irs, «chi ha svolto il servizio, una volta conclusa l’esperienza, ha molta più propensione al volontariato, alla vita associativa e ad azioni di cittadinanza attiva». La speranza è che il governo dei tecnici lo tenga ben presente.

Daniele Biella

Daniele Biella




F35 e servizio civile

«Un solo cacciabombardiere F35 in meno significa almeno 20 mila giovani che possono prestare servizio civile per un anno». È questa la provocazione, o forse meglio, il suggerimento lanciato da Licio Palazzini, presidente della Consulta nazionale per il Scn (Servizio civile nazionale) e di Arci servizio civile, per aumentare l’attenzione della politica e dei media sul rischio concreto che il Scn chiuda i battenti per mancanza di fondi.
La questione dell’acquisto di F35 da parte del Goveo italiano, all’interno di un programma internazionale con altri otto paesi (capofila gli Usa), con l’impegno economico per l’Italia per una spesa di 15 miliardi di euro da qui al 2025, ha acceso roventi polemiche, soprattutto considerato il tempo di crisi sferzante. Polemiche che hanno sortito un cambiamento parziale: l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, attuale ministro della Difesa, ha annunciato la riduzione del numero dei velivoli da acquistare da 131 a 90, cioè 41 in meno. All’apparenza è un primo buon segno, che però le associazioni pacifiste hanno criticato perché, secondo loro, in particolare gli studiosi della Rete italiana per il disarmo (www.retedisarmo.org, promotori della petizione «Taglia le ali alle armi»), è l’intero programma di acquisto che va bloccato, dato che i costi continueranno a salire e la costruzione dei velivoli, che avverrà a Cameri, provincia di Novara, non porterà molti nuovi posti di lavoro: si parla di meno di un migliaio, contro i 10 mila sbandierati dal ministro.
Nel frattempo, un ragionamento immediato si può fare, come accennava Palazzini: destinando il costo di un velivolo in meno al Servizio civile, si garantirebbe un anno di esperienza ad almeno 20 mila giovani. L’idea sta piacendo a molti, volontari in primis, ma anche altri enti storici del sociale italiano, come le Acli o il movimento di Pax Christi. «Seguiamo l’esempio degli altri partner del programma F35, che stanno ridimensionando il loro impegno – chiedono le Acli ai rappresentanti del Goveo italiano -; oggi la difesa del paese è la difesa delle fasce sociali più deboli e la messa in sicurezza del nostro territorio». Pax Christi, inoltre, elenca una serie di «acquisti alternativi» a un caccia da guerra F35 (e quindi alle spese militari), cominciando proprio dai 20 mila posti di servizio civile, per poi proseguire con «32 mila borse di studio universitarie, o 250 scuole italiane messe in sicurezza, o 20 nuovi treni per pendolari, o l’indennità di disoccupazione per 17 mila persone senza lavoro».

Daniele Biella

Daniele Biella




Altri ci copiano

Forme di servizio civile nel mondo

Verrebbe da non crederci, ma è proprio così: una volta tanto, l’Italia è un esempio virtuoso per tutto il mondo, perché il suo servizio civile volontario è probabilmente l’esperienza più all’avanguardia a livello internazionale. O almeno, lo era fino a poco tempo fa, quando i pesanti tagli e il conseguente spauracchio della chiusura non facevano ancora notizia. «Quando siamo andati a presentarlo a Bruxelles, qualche anno fa, tutti si sono complimentati con noi e parecchi ci hanno detto: studieremo il vostro modello per replicarlo da noi».
A scandire queste parole è Raffaele De Cicco, attuale cornordinatore dell’Unsc, Ufficio nazionale servizio civile, ma componente del ministero della Difesa già dal 1994. Grande esperto della storia dell’Obiezione di coscienza (Odc), ha anche una visione completa di quello che accade negli altri paesi in termini di esperienze di difesa della patria, alternativa a quella militare. Di recente ha pubblicato il libro-saggio Le vie del servizio civile (Gangemi editore), in cui il tema centrale è proprio l’analisi generale delle «virtù civiche giovanili» tra l’Europa e il mondo globalizzato. «Il servizio civile, in tutte le sue forme, tiene in piedi i legami della democrazia, anche perché incide su aree difficili, su problematiche in cui gli stati a volte fanno fatica a intervenire in modo completo», spiega De Cicco.
Oltre al modello italiano, a livello europeo le esperienze più radicate sono quelle della Francia e della Germania. «Per i francesi l’Odc è realtà fin dal 1963. Dal 1997, inoltre esiste il Servizio nazionale universale, poi diventato Service civique nel 2010, che dura dai 6 ai 24 mesi e sta riscuotendo un buon successo: nel 2011 sono partiti 25 mila giovani tra i 16 e i 25 anni», illustra il cornordinatore dell’Unsc.
In Germania, l’anno scorso, i volontari sono stati addirittura 35 mila, proprio nel primo anno di sperimentazione del Servizio civile volontario, «introdotto dal Goveo tedesco a fine 2010, quando è stata sospesa la leva obbligatoria – continua De Cicco -; prima esisteva il servizio civile obbligatorio, 9 mesi in patria oppure 11 all’estero, per chiunque rifiutava l’uso delle armi». Dal 1961 al 2009 sono stati ben 3,2 milioni i giovani obiettori tedeschi.
Le altre esperienze di Servizio civile volontario in Europa si trovano in Danimarca, Repubblica Ceca e Svezia (solo per le donne). Comunque, l’Odc è realtà in tutte le nazioni del vecchio continente.

A livello generale di Unione Europea, invece, si stanno compiendo i primi passi per la nascita di un Servizio civile comunitario. «È la vera partita da giocare, per rendere effettivo il sentirsi parte di una cittadinanza estesa: dovrebbe nascere un servizio che promuove diritti politici, sociali e culturali», chiosa De Cicco nel suo libro. È un’interessante prospettiva, però ancora molto sulla carta, così come lo sono i corpi civili di pace europei: una sorta di evoluzione della pratica di servizio civile, composta sia da volontari che da specialisti (quindi membri permanenti, pagati dal singolo Stato o dall’Ue) che possono incidere in prima persona in un conflitto armato, interponendosi tra le parti, come è avvenuto per i primi obiettori italiani che si sono recati a Sarajevo a inizio anni ’90, durante l’assedio della città.  
Nel resto del mondo, la diffusione del Servizio civile alternativo al militare è a macchia di leopardo, e soprattutto nelle Americhe, come riporta il Centro interuniversitario di studi sul servizio civile dell’Università di Pisa (Cissc), mentre quelle di servizio volontario sono davvero poche.
Il caso più virtuoso è senza dubbio quello degli Stati Uniti d’America, dove dal 1990 esiste Americorps, un programma di volontariato ad ampio raggio a cui partecipano ogni anno almeno 70 mila ragazze e ragazzi. Al suo interno esiste il National civilian community corps, che dura 10 mesi, è aperto ai giovani dai 18 ai 25 anni e ha caratteristiche simili al Servizio civile volontario italiano. Inoltre, il Goveo federale statunitense sta per approvare quest’anno il Voluntary national service act, che serve ad arruolare nuovi volontari per «missioni» delicate, come il contrasto alla piaga della dispersione scolastica, il sostegno alle famiglie povere e l’assistenza sanitaria per i più deboli.
Un’altra dimensione significativa di servizio civile nei paesi esteri è quella brasiliana, dove però il Servizio civile volontario, attivo dal 2000 e lungo 6 mesi, è disegnato per chi è esente dagli obblighi di leva. Mentre in Argentina si sta dibattendo dal 2010 una proposta di Servicio civil voluntario che però è arenata in Parlamento.
C’è da segnalare il servizio civile nato da qualche anno in Israele, aperto ai renitenti alla leva per motivi religiosi e alla popolazione arabo-israeliana (quindi non a tutti gli altri, che devono svolgere il servizio militare obbligatorio), ma criticato dalle associazioni locali perché gestito di fatto dall’apparato di sicurezza israeliano e quindi privo di quell’autonomia dal mondo militare che compete a un’esperienza di servizio civile propriamente detta.

Daniele Biella

Daniele Biella