Dacci oggi il nostro barile quotidiano

La maledizione dell’«oro nero»

Sul pianeta Terra stiamo consumando più petrolio di quanto riusciamo a produe. E la tendenza è in forte aumento, perché Cina e India crescono rapidamente. Tutti gli stati cercano di garantirsi «riserve strategiche» per il futuro. L’Africa è l’ultima frontiera. Le sue potenzialità su nuovi giacimenti sono ancora elevate. Ma perché l’oro nero ha portato solo corruzione, guerre civili, povertà? E mai migliori condizioni di vita dei popoli africani? Se si riuscisse a bloccare la fuga delle rendite petrolifere non occorrerebbe più l’aiuto allo sviluppo. E l’Africa ci guarderebbe da eguali.

«L’Africa è all’alba di un nuovo boom petrolifero: il golfo di Guinea è diventato il nuovo terreno di gioco delle compagnie del petrolio. Queste prevedono di investirci tra i 30 e i 40 miliardi di dollari in dieci anni». Così il giornalista francese Xavier Harel, esperto di questioni africane e di petrolio, descrive il processo in corso nel suo libro – inchiesta Afrique, pillage à huis clos (Africa, saccheggio a porte chiuse). Processo  in forte accelerazione a causa della vertiginosa crescita dei prezzi del greggio sul mercato mondiale.
Il continente detiene tra l’8 e il 10% delle riserve mondiali del prezioso olio, contando tra 80 e 100 miliardi di barili di riserve già verificate. Dati confermati  dalle statistiche della British Petroleum (gigante inglese dell’energia), che segnala 117 miliardi di barili.
La zona più ricca è il Golfo di Guinea, dove  Nigeria, Angola, Guinea Equatoriale, Congo Brazzaville, Gabon e Camerun (nell’ordine) sono i maggiori produttori del continente. Ad eccezione del Sudan, grande produttore in Africa dell’Est (vedi box).

Sempre più in basso

Con la «paura» energetica, il prezzo del greggio è passato dai 70 dollari al barile del 2007 ai 135 di metà 2008 (vedi box). È diventato redditizio fare investimenti per perlustrazioni petrolifere là dove un tempo non lo era, o ancora, sfruttare il petrolio «non convenzionale», carissimo da estrarre.
Anche il miglioramento delle tecnologie ha permesso la ricerca su fondali marini fino (e oltre) i 3.000 metri di profondità. Si è passati dall’offshore (dall’inglese «costiero»), definito fino a 500 metri di profondità, all’«offshore profondo» (500 – 1.500 metri). Mentre ora si va verso l’«offshore ultra profondo» (1.500 – 3.000 metri).  Allo stesso modo si sta cercando petrolio in profondità anche nel deserto in Mali, Niger (dove un giacimento è stato trovato) e in Kenya, paesi che non ne hanno mai prodotto. In effetti, rispetto a quanto succede in altre zone del mondo, le mappe petrolifere dell’Africa si stanno ancora disegnando e c’è molto spazio per la scoperta di nuovi giacimenti. Quindi grandi e piccole compagnie (le cosiddette majors), sono tutte a caccia di permessi di «prospezione», anche in paesi ancora vergini.
Per questo motivo Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e infine anche la Cina, considerano oggi «strategico» il continente africano, che fino a 5-10 anni fa era trascurato. Interessa in particolare il Golfo di Guinea, dove vi moltiplicano gli investimenti.
Gli Usa consumano, ogni giorno, un quarto della produzione mondiale di greggio, oggi stimata a 87 milioni di barili quotidiani. Dai 19,5 milioni di barili inghiottiti ogni giorno passeranno a 25,5 milioni nel 2020. Allo stesso tempo la produzione nazionale scenderà da 8,5 a 7 milioni di barili. Già a partire dalla prima amministrazione Bush (2001) il petrolio diventa una priorità strategica per gli Usa, essendo sinonimo di indipendenza energetica.
La Cina ha un’economia in crescita di quasi il 10% annuo. Dal 2005 è il secondo consumatore mondiale di petrolio e il suo bisogno arriverà al 20% di quello prodotto sul pianeta nel 2010. Con la sua popolazione di un miliardo e 400 milioni di abitanti, il cui tenore di vita è in aumento, ha sempre più bisogno di energia. La sicurezza di riserve di petrolio a medio e lungo termine è dunque fondamentale. Obbligatorio buttarsi a capofitto nella ricerca di nuovi giacimenti e nello sfruttamento di quelli conosciuti nel continente, trascurato dal punto energetico fino a pochi anni fa.
Uno dei problemi dell’Africa sub sahariana è che non possiede le tecnologie e le possibilità di investimenti necessari per sfruttare i propri giacimenti di petrolio. Questo impone agli stati africani l’avvalersi di compagnie europee e statunitensi (e ultimamente cinesi). Fin qui nulla di così grave. Il problema è che grazie a personaggi senza scrupoli di varia nazionalità, dirigenti della majors, banchieri, intermediari, politici occidentali, venditori di armi e, non ultimi, i capi di stato africani, scatta il meccanismo del saccheggio o «evaporazione» dei soldi «pubblici» del petrolio africano. Saccheggio che assume dimensioni impensabili.

Quanto pesa sulle economie africane

I giacimenti africani sono (o potrebbero essere) generatori di un’enorme ricchezza per i rispettivi paesi. Le cifre in gioco fanno impallidire quelle dell’aiuto versate ogni anno dai paesi occidentali allo scopo di «sviluppare» l’Africa. Una stima dell’Unione africana parla di 148 miliardi di dollari che annualmente «lasciano» illegalmente l’Africa, per essere depositati su banche europee o nei paradisi fiscali. Illegalmente, perché si tratta di fondi pubblici, che dovrebbero essere acquisiti dal Tesoro.
Questa cifra approssimata per difetto va confrontata con 25 miliardi di dollari ricevuti ogni anno come aiuti dai paesi africani. Le élite di questi paesi avrebbero su conti privati esteri tra i 700 e gli 800 miliardi di dollari di denaro pubblico. Conti spesso protetti e alimentati in modo non «tracciabile». Xavier Harel sostiene che: «La fuga di capitali è uno dei principali ostacoli al decollo dell’Africa».
In Nigeria le entrate dell’oro nero costituiscono il 98% di tutte le ricette in valuta e in Angola il 90%.
Facendo le proiezioni sulle produzioni dei giacimenti già sfruttati (escludendo quindi le future scoperte) di sette paesi dell’Africa dell’Ovest (Nigeria, Angola, Congo, Guinea Equatoriale, Gabon, Ciad e Camerun), il Pfc Energy, ufficio studi statunitense, ha valutato le somme generate dal petrolio tra il 2002 e il 2019 intorno ai 183 miliardi di dollari, che vanno dai 110 miliardi per la Nigeria ai 2 miliardi per il Ciad. Piccola precisazione: i conti sono fatti con un costo del barile a 22,50 dollari!

Povertà, guerre civili e instabilità politica

Ma cosa portano, nella realtà, le rendite petrolifere in Africa? A sud del Sahara il petrolio sembra fare rima con povertà, corruzione, instabilità politica e guerre civili.
Con una certa sorpresa scopriamo che i paesi africani produttori di petrolio sono agli ultimi posti della classifica rispetto all’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite. Nigeria e Angola, i maggiori produttori del continente, figurano addirittura tra gli ultimi della classe, nella zona definita a «basso sviluppo umano» (158.ma la prima e 162.ma la seconda). La Guinea Equatoriale occupa il 127° posto (grazie al basso peso demografico), il Congo il 139°, mentre il Camerun è 144° e il Sudan 147°, fino al Ciad al 170° posto su 177 paesi classificati. Nessuno si salva.
Un altro aspetto devastante è che questi paesi hanno tutti un enorme debito estero. Questo è dovuto al fatto che i vari capi di stato hanno chiesto sempre maggiori prestiti alle istituzioni inteazionali, garantendo con le riserve petrolifere dei loro paesi.
Non lascia ombra di dubbio il rapporto d’informazione della commissione Affari esteri del parlamento francese su «Il ruolo delle compagnie petrolifere nella politica internazionale e il suo impatto sociale e ambientale», citato da Harel nel suo libro. «In Africa, la manna petrolifera non ha aiutato lo sviluppo, i capi di stato l’hanno utilizzata per comprare armi in Angola e in Congo – Brazzaville, in Gabon, in Camerun, in Nigeria. Non si riesce a scoprire dove sia andata la rendita dovuta al petrolio, perché il debito aumenta, le popolazioni sono impoverite e le infrastrutture sono in uno stato deplorevole. Mantenere al potere delle dittature, corruzione, violenza larvata, attentati ai diritti umani e all’ambiente; questo è il bilancio, poco glorioso, dello sfruttamento petrolifero in tutta l’Africa».
L’Angola che – dicono gli esperti – avrebbe superato la Nigeria come produzione nel mese di aprile, è uno dei paesi più corrotti del mondo (secondo la classifica annuale dell’Ong Trasparency Inteational occupa il 147mo posto su 179), ha le infrastrutture ai minimi termini e le condizioni di vita dei suoi abitanti sono a livelli bassissimi (speranza di vita a 42 anni, mortalità infantile entro i 5 anni di 260 su 1.000 nati vivi, tre bambini su dieci sotto i 5 anni malnutriti, ecc.). Ma sempre l’Angola mostra negli ultimi anni una crescita economica record: 18,6% nel 2006, con proiezioni della Banca mondiale al 25%!
Racconta Harel a MC: «È un paese che ha il reddito petrolifero che è completamente esploso. Era a 1 milione di barili tre anni fa. In Angola c’è un boom economico non indifferente. Non che i soldi siano ben gestiti. Ce ne sono tantissimi, che potrebbe essere come un paese del Golfo (Persico, ndr), invece non esistono ricadute sulla popolazione. È un Brasile in peggio. Una piccola élite immensamente ricca e gli altri nelle bidonville a perdita d’occhio».
Senza contare che con i soldi del petrolio José Eduardo dos Santos e Jonas Savimbi, i due rivali della guerra civile, hanno pagato armi per tre decenni.
Molte altre sono le guerre civili alimentate dai soldi del petrolio: in Repubblica del Congo, Sudan, Ciad. E ancora l’instabilità politica generata in Nigeria, Guinea Equatoriale.

Corruzione? Sì grazie

«Le compagnie hanno bisogno di rinnovare le loro riserve, ovvero scoprire nuovi giacimenti e metterli in produzione. Per questo devono lavorare in un certo numero di stati, e ottenere i permessi. Normalmente ci sono delle aste, ma bisogna dire che spesso non funziona così, e che se si vuole essere “ben piazzati” occorre “accordarsi” con il regime del paese». Ci ricorda Xavier Harel. Da qui mazzette colossali, fondi occulti versati su conti svizzeri o nei paradisi fiscali, con triangolazioni tali da far perdere ogni traccia.
Ma non basta. La fuga di capitale pubblico si realizza anche dotandosi di compagnie di intermediazione. In Congo ad esempio Denis Gokana, un alto dirigente della Snpc (Società nazionale del petrolio del Congo, impresa di stato per la commercializzazione del petrolio), vendendo a prezzi ribassati a una società d’intermediazione (di cui è il principale azionista), la quale poi rivende il greggio a prezzi di mercato, riesce a incassare una commissione di 3,3 milioni di dollari per carico. Il meccanismo è stato ripetuto almeno per 45 carichi. E tutto con la benedizione del presidente Denis Sassou Nguessu, che di Gokana è padrino e creatore.
Senza contare i famosi «carichi fantasma» intere navi cisterna che lasciano il porto di Pointe Noire, sfuggendo a ogni contabilità ufficiale, per essere spartiti tra pochi eletti.

Di sangue e di petrolio

Un altro caso scuola sono i soldi rubati allo stato nigeriano dal dittatore Sani Abacha. Alla sua morte nel 1998 il nuovo governo indaga e tenta di recuperare il denaro pubblico. Il sanguinario Abacha ritirava i soldi in contanti dalla banca centrale della Nigeria, per poi versarli su altri conti nazionali o in società offshore (società basate nei paradisi fiscali, dove per legge, non è possibile risalire ai nomi degli azionisti).
In seguito i soldi transitavano verso conti in Svizzera, Gran Bretagna, Lussemburgo, Francia, Bahamas a nome di sua moglie, suo figlio o un suo consigliere della sicurezza. La stima è di 3 – 4 miliardi di dollari rubati tra il 1993 e il ’98 di cui 2,2 sono stati rintracciati e in parte restituiti allo stato nigeriano.  L’aspetto buffo è che i soldi recuperati non risultano generati da rendite petrolifere, per un paese dove il petrolio rappresenta il 98% delle esportazioni. «Il sistema messo in piedi dalle compagnie petrolifere è talmente ben rodato, che è diventato impossibile tracciare le mance o altre commissioni accordate dalle compagnie ai regimi indelicati» dichiara Enrico Monfrini, avvocato svizzero incaricato dalla Nigeria di recuperare il soldi presi da Abacha. E la Cina? «È il principio dello scambio: i cinesi costruiscono strade, dighe, aeroporti, contro concessioni di esplorazione e sfruttamento petrolifero – ricorda Xavier Harel -. Non sono più trasparenti che europei e nordamericani, usano le stesse pratiche.  Ancora più opache, perché quando si fa del baratto si possono ancora di più falsare i prezzi, valorizzando i barili di petrolio come si vuole. Costruisco una diga per 1 milione di barili. Se li valorizzano a 50 dollari al barile, poi ne versano 10 su un conto in Svizzera, nessuno riuscirà a verificarlo. Le manipolazioni sono ancora peggiori, perché le possibilità di controllo sono più deboli». 
I cinesi sono affamati di riserve energetiche e per questo pagano molto di più delle grandi compagnie come ExxonMobil e Total (MC, dicembre 2007).  E questa concorrenza favorisce i capi di stato e facilita la corruzione.

Deboli segnali di cambiamento

In Ciad la Banca mondiale (Bm) ha cercato di fare un esperimento interessante. Scoperto il petrolio occorreva costruire le infrastrutture e anche un oleodotto di 1.070 km che attraversasse tutto il Camerun fino al Golfo di Guinea. La Bm è stata chiamata in causa dalle compagnie petrolifere come garante (e finanziatore). Ha imposto al Ciad che l’85% dei redditi da petrolio fossero destinati a cinque settori prioritari per il paese: salute, educazione, sviluppo rurale, infrastrutture, acqua; il 5% fosse investito nella regione di estrazione (Doba, nel sud del paese) e il 10% depositato su un conto «per le generazioni future».  Un collegio di sorveglianza è incaricato di verificare la buona gestione di queste risorse. Ma la crisi intea (vedi MC aprile 2008) e i difficili rapporti con il Sudan, hanno spinto il presidente Idriss Deby a dirottare parte delle rendite petrolifere nell’acquisto di armi, allo scopo di «garantire la sicurezza dello stato». Non tutto è perduto, occorre tenere il meccanismo sotto controllo.
Un altro tentativo per ridurre il saccheggio è stata l’«Iniziativa per la trasparenza dell’industria estrattiva» (Eiti), un’idea lanciata da Tony Blair al G8 di Johannesburg nel 2002. Vorrebbe rendere trasparenti i pagamenti delle compagnie petrolifere ai paesi in cui esse estraggono, con l’obiettivo finale di ridurre il livello di corruzione. Molti stati vi antepongono la questione di «confidenzialità» sugli affari.
Il meccanismo consiste nell’avere un auditor indipendente che certifica tutti i versamenti delle compagnie al governo del paese di estrazione. Questi dati sarebbero pubblicati e confrontandoli con il bilancio dello stato, un qualunque cittadino potrebbe facilmente identificare i casi di appropriamento illecito.
Nel 2003 sette paesi aderirono all’Eiti, ma nessuno ha ancora pubblicato i dati.  Xavier Harel la definisce: «Una falsa buona idea che permette al G8 di affermare che si occupa del problema, mantenendo però lo status quo». «Non credo molto nell’iniziativa Eiti – ci racconta il giornalista –  perché funziona su base volontaria. In cinque anni non ha permesso di produrre statistiche affidabili sulle rendite petrolifere dei paesi produttori. Con l’eccezione dell’Azerbaigian».
I paesi aderiscono all’iniziativa, ma poi non pubblicano i dati, non c’è un avanzamento. A maggior ragione con l’impennata dei prezzi del barile, e quindi dei possibili guadagni, anche illeciti, nei prossimi anni.

Spunta la società civile

«L’importante è che c’è una pressione sempre maggiore della società civile, che inizia a portare qualche frutto». Xavier Harel si riferisce alla campagna internazionale «Pagate quello che pubblicate» lanciata da un centinaio di Ong, prima fra tutte la britannica Global Witness.
La campagna punta a obbligare le compagnie estrattive basate in Europa e Stati Uniti (petrolio e minerali) a pubblicare quanto versano agli stati produttori. Global Witness ha pubblicato interessanti e approfonditi rapporti sui legami tra petrolio, corruzione, povertà e conflitti in diversi paesi africani. 
Una piccola modifica giuridica nei paesi di origine delle majors, porterebbe enormi benefici alle popolazioni dei paesi esportatori. «C’è una recente proposta di legge al congresso americano (il parlamento Usa, ndr) che vorrebbe costringere tutte le compagnie estrattive, comprese quelle del petrolio, a rendere pubblici i dati sui soldi versati a paesi esteri superiori a 100.000 dollari. È il primo vero risultato del lobbing della società civile. Un primo passo enorme se si realizzasse».
Diventando legge negli Usa, le compagnie americane, per non essere svantaggiate rispetto alle colleghe europee, farebbero in modo che fosse integrata come convenzione all’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico).  È quanto è successo per la legge anticorruzione. In questo modo diventerebbe valida per tutte le compagnie occidentali.
Non è una proposta del governo ma del congresso. Il senatore che l’ha presentata dice che ci vorranno magari anni per farla passare.
«È comunque un fatto che la gente inizia a prendere coscienza del problema dell’opacità di queste transazioni e di tutte le conseguenze. La pressione della società civile e dei media fa poco a poco andare avanti le cose».
Secondo Joseph Stiglitz, economista premio Nobel, già alto funzionario della Banca mondiale: «I paesi industrializzati possono aiutare a garantire la trasparenza con una semplice misura: autorizzare le deduzioni fiscali solo per le royalities e gli altri pagamenti ai governi stranieri se la compagnia rivela totalmente quello che ha pagato e il volume delle risorse naturali estratte».
Stiglitz scrive nel suo ultimo libro La Globalizzazione che funziona: «Quello di cui questi paesi (ricchi in materie prime, ndr) hanno bisogno, non è un sostegno finanziario esterno maggiore, ma essere aiutati per ottenere il massimo valore dalle loro risorse e per spendere bene i soldi ricevuti».
Se il reddito delle materie prime che l’Africa esporta, delle quali il petrolio è in assoluto quella che rende di più, andasse sui conti degli stati e non su quelli senza nome nei paradisi fiscali, se questo denaro fosse reinvestito per sviluppare l’economia dei paesi produttori, migliorae le infrastrutture, la salute, l’educazione, i paesi africani avrebbero abbastanza risorse senza dover chiedere aiuti pubblici ai paesi industrializzati, che sono gli stessi a fare man bassa delle loro risorse naturali. 

Di Marco Bello


L’impennata del prezzo del petrolio

CARO BARILE, MA QUANTO MI COSTI

In pochi mesi il prezzo del barile di petrolio (unità di misura pari a 159 litri) è schizzato da 70 dollari a 135 (nel momento in cui scriviamo). E ce ne accorgiamo subito quando andiamo a fare il pieno di carburante. Ma l’aumento incide su tutti i trasporti e quindi sui generi trasportati. Il prezzo del barile trascina quindi con sé il costo di tutto quello che consumiamo nel quotidiano.
Ma si tratta del prezzo reale del greggio? Quali sono i meccanismi che hanno portato a questa crescita improvvisa? Ce lo spiega Xavier Harel, giornalista esperto in questioni petrolifere e africane.

«L’aumento del costo del petrolio è il risultato di una domanda che cresce molto rapidamente da parte dei paesi emergenti, soprattutto Cina e India, ma anche Medio Oriente e paesi del Golfo. Crescita combinata con una produzione che ha difficoltà a seguire. Questo crea una forte tensione tra la domanda e l’offerta su tutta la filiera petrolifera.
Ci sono 1,4 miliardi di cinesi con 16 automobili ogni 1.000 abitanti (quando negli Usa si parla di 812 e in Italia di 588). Ma il loro livello di vita è in aumento, si compreranno la macchina e inizieranno a consumare carburante. Quando si parla del 20% della popolazione mondiale, l’impatto sul consumo di petrolio è considerevole.
Alla fine degli anni ‘90 i paesi Opec (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) avevano una capacità di produzione non utilizzata dell’ordine di 10-12 milioni di barili al giorno. Questo vuol dire avere impianti pronti e funzionanti che aprendo un po’ di più il rubinetto potevano aggiungere sul mercato queste quantità. Oggi se gli stessi paesi decidono di aprire si aggiungono solo 2-3 milioni di barili al giorno. Si dice che il mercato è in “fuga”.

Secondo problema: le grandi compagnie petrolifere private producono solo il 15% del greggio e i paesi produttori non hanno necessariamente voglia di investire nella produzione.
Recentemente c’è stata una dichiarazione del re dell’Arabia Saudita Abdoullah il quale non vuole mettere in produzione nuovi giacimenti, perché li vuole conservare per le generazioni future.
La domanda mondiale è di circa 87 milioni di barili al giorno, e l’Arabia (che ha le più grandi riserve del mondo) ne produce 11 milioni e non vuole mettee di supplementari. Subito dopo viene la Russia, con quasi 9 milioni, ma la sua produzione sta diminuendo. Poi il Messico che è un grande esportatore, ma la sua produzione diminuisce molto rapidamente. In Venezuela la produzione stagna.
Per i più grossi produttori, i grandi giacimenti stanno andando verso l’esaurimento e la diminuzione di produzione è rapida. Questo crea un’inquietudine sul mercato, per i prossimi 2, 3, 5 anni.

Questione di riserve? Non è solo una questione di riserve, ma anche di estrazione. Si sta cercando del petrolio “non convenzionale”, come le sabbie bituminose (Canada) e petrolio extra pesante (Venezuela). L’estrazione è estremamente cara, ma oggi è diventata redditizia.
Se si considerano le riserve del petrolio extra pesante il maggior produttore al mondo diventa il Venezuela.
I giacimenti sono colossali. Ma la questione è metterli in produzione. E i paesi ricchi di petrolio non convenzionale decidono di gestire loro le proprie ricchezze. Ad esempio il Venezuela non investe massicciamente nell’estrazione ma preferisce tenere il petrolio per il futuro.

C’è anche della speculazione che è la punta dell’iceberg. Il petrolio viene venduto in anticipo. Gli industriali acquistano i diritti di avere petrolio a 5 anni (ma anche a tre mesi). Il padrone di una raffineria ha bisogno di essere sicuro che gli consegneranno petrolio in modo continuo, per poter produrre la benzina. Quindi acquista sul mercato un diritto che garantisce che in un mese gli daranno del petrolio a 130 dollari. Ma può anche acquistare un diritto a 5 anni. Oggi si sta vendendo il petrolio del 2016. In questo caso c’è speculazione nel senso che esistono fondi di investimento che fanno delle scom­messe, ma alla fine si arriva a un contratto d’acquisto di petrolio fisico.
La speculazione può funzionare un momento, può amplificare il prezzo. Ma se il petrolio è così caro oggi è perché c’è un vero problema».

(a cura di Marco Bello)

PAESI (SUB SAHARIANI) PRODUTTORI

Quattordici paesi produttori di cui 10 esportatori. Ecco i principali.

Nigeria – Capacità di produzione media 2,5-2,6 milioni di barili al giorno nel 2005, primo produttore africano sesto esportatore mondiale. È  sceso a 1,8 milioni di barili al giorno nel 2006 a causa delle violenze nel delta (vedi MC febbraio 2007). Il 98% delle sue entrate sono dovute al petrolio. Più della metà è prodotto da Shell. Il petrolio del delta del fiume Niger è di ottima
qualità.

Angola – Produzione media circa 2 milioni di barili al giorno. La metà è estratto dalla Cina. Sta vivendo un vero boom economico con crescite del Pil intorno al 20%. Ma i soldi vanno in infrastrutture e nelle tasche di pochissimi. La gente è sempre più povera.

Guinea Equatoriale – Produzione si avvicina ai 400.000 barili al giorno, in forte crescita negli ultimi anni. Sfruttamento totale da parte di compagnie statunitensi, ma ora stanno entrando i cinesi. La famiglia del presidente Teodoro Obiang Nguema gestisce tutta la ricchezza del petrolio.

Sudan – Verso i 500.000 barili al giorno. Primo fornitore della Cina.

Repubblica del Congo (Congo Brazzaville) – 260.000 barili al giorno. Nuovi giacimenti di petrolio «non convenzionale» del tipo sabbie bituminose scoperti da Eni (2008) che ne ottiene la concessione.

Gabon – Produzione di circa 250.000 barili al giorno. La produzione in decrescita per esaurimento riserve. Primo paese sfruttato in Africa dalla fine degli anni ’50.

Camerun – Produzione di circa 63.000 barili, in stallo e verso la diminuzione.

Costa d’Avorio – Produzione di 50.000 barili al giorno va verso i 100.000 e le rendite del petrolio hanno già superato quelle di cacao e caffè. Sfruttata da compagnie statunitensi, nell’assenza di trasparenza totale.

Ciad – Produzione di 160.000 barili al giorno.

Mauritania – Giacimenti in via di sfruttamento.

Sao Tomé e principe – Scoperti giacimenti, subito sopo il colpo di stato (2003). Non ancora sfruttati.

Senegal – Riserve provate.

Niger – Giacimento trovato nel 2005.

Uganda – Giacimento trovato.

Praticamente in tutti i paesi africani si stanno facendo ricerche di greggio.

Qualche dato su cui riflettere

Consumi

Domanda mondiale
di petrolio
87 milioni
di barili al giorno

Consumo medio
giornaliero Usa
(il più alto del mondo)
 20 milioni
di barili, in crescita

Consumo medio
giornaliero Cina 
circa 17 milioni,
è in forte crescita

Produttori

Arabia Saudita è il primo produttore mondiale
(petrolio convenzionale)
11 milioni
di barili pompati ogni giorno

La Russia è il secondo con
9 milioni
di barili

L’Africa produce oggi circa
9,9 milioni
di barili al giorno
 (di cui 4,7 in Africa Occidentale,
Elevabile a 6 milioni
al giorno con
investimenti adeguati)

Le riserve provate dell’Africa sono
da 80 a 100 miliardi
di barili
(10% delle riserve
mondiali),
ma molto resta da scoprire

Marco Bello




I diversi volti della malaria


Seconda classificata del «premio Carlo Urbani» racconta la sua esperienza in un ospedale di Brazzaville (Congo) e quella in Cina

 

Volevo scrivere una tesi di laurea che riguardasse la malaria. Ero già stata in Africa due volte, la prima come turista in Kenya e Tanzania, la seconda come studentessa di medicina in un dispensario «di brousse» della Repubblica Centroafricana. Ed ero sicura che ci sarei tornata. Per questo, tra tutti gli argomenti che il corso di laurea ci propone, io ero particolarmente affascinata dalla patologia tropicale. La prossima volta sarei tornata in Africa come medico, oltre che come amante di quella terra meravigliosa.
Era il 1998. L’Africa era per me una realtà appena sfiorata, un mondo pieno di fascino ancora tutto da scoprire; la malaria, una serie di nozioni apprese su libri e riviste. Ne avevo studiato l’epidemiologia, la patogenesi, le diverse forme cliniche, le terapie. Infine avevo raccolto la documentazione di tutti gli studi clinici di sperimentazione del vaccino SPf66 contro il Plasmodium falciparum, il più diffuso e pericoloso dei quattro plasmodi che causano la malaria; su queste esperienze cliniche avevo fatto uno studio di meta-analisi che era diventato la mia tesi.
A dire la verità non ne ero molto soddisfatta, forse perché era una cosa troppo astratta, troppo lontana dall’Africa che avevo conosciuto, o forse semplicemente perché la conclusione era che i risultati di questa sperimentazione erano molto deludenti. Dopo la laurea, durante un corso di Medicina tropicale in Belgio, ho imparato a riconoscere i plasmodi malarici al microscopio, su strisci di sangue periferico e su «goccia spessa», un metodo di concentrazione largamente utilizzato «sul campo» perché rende più veloce la diagnosi. I vetrini su cui studiavamo provenivano da diversi paesi dell’Africa, Asia e America Latina.
Dopo tanta teoria mi stavo progressivamente avvicinando al paziente, attraverso quei campioni di sangue in cui potevo osservare direttamente la presenza e le conseguenze dell’infezione malarica. Iniziata la scuola di specializzazione in Medicina tropicale in Italia, ho avuto l’occasione di assistere alcuni pazienti affetti da malaria, di ritorno da paesi endemici. Ma quando sono arrivata in Congo la malaria aveva tutta un’altra faccia.
L’occasione di un’esperienza lavorativa in un piccolo ospedale di Pointe Noire, sulla costa del Congo Brazzaville, mi si era presentata alla fine del terzo anno di specializzazione. Sono arrivata a Pointe Noire durante il caldo aprile congolese, alla fine della stagione delle piogge. Pointe Noire è una città petrolifera, eppure le uniche strade asfaltate sono quelle del centro, dove abitano i francesi e gli italiani che lavorano nelle società estrattive; tutte le altre strade della città sono sterrate e, in questa stagione, si trasformano in rivi d’acqua torbida dove giocano i bambini, dove passano e spesso rimangono impantanati i più svariati e sgangherati veicoli che attraversano la città.
È qui che la sera verso le sei e mezza, ora del crepuscolo equatoriale, si comincia a sentire il ronzio delle zanzare. Sono proprio le femmine delle zanzare anopheles i veicoli della malaria. Rapidamente popolano la notte e non è difficile per loro trovare un ospite, poiché la vita in Africa, si svolge prevalentemente all’aperto, anche di notte: le donne cucinano all’aperto, i bambini giocano all’aperto, gli anziani cantano e raccontano antiche storie all’aperto. Solo una piccola percentuale di famiglie possiede una zanzariera e un’ancor minore quota la impregna periodicamente d’insetticida al Cim (Centre d’imprégnation des moustiqueres) situato sull’Avenue du Général De Gaulle, la via principale della città. Così ogni notte il ciclo del parassita si perpetua. E sulle carte geografiche dell’Organizzazione mondiale della sanità, l’Africa si colora di un rosso sempre più scuro. Ricordo benissimo la prima volta che sono entrata nell’ospedale dove avrei lavorato i successivi due mesi; dando una rapida occhiata all’affollata sala d’attesa, ho capito in un attimo che avrei visto e imparato molte più cose di quelle scritte sui libri di medicina.
Uno dopo l’altro i pazienti si susseguivano nella spoglia stanzetta adibita ad ambulatorio, dove un vecchio ventilatore, nei fortunati giorni in cui c’era energia elettrica, muoveva un’aria pesante e umida. La maggior parte dei pazienti si presentava per febbre, diarrea, marcata astenia, cefalea: tutti sintomi che possono essere espressione d’infezione malarica, così come di un’infinità di altre patologie.

In un’area a così alta endemia il quadro clinico della malaria è estremamente aspecifico. Fortunatamente però la diagnosi microscopica è semplice e poco costosa: bastano pochi coloranti e un qualsiasi microscopio ottico. Quando manca la corrente si può usare una torcia a pile oppure, se manca anche quella, uno specchietto che sfrutti la luce solare. Altre indagini non sarebbero effettuabili e d’altronde non sono neanche necessarie. Perché il trofozoita, la forma ematica del plasmodio, si vede facilmente: sta all’interno dei globuli rossi dei quali provoca la lisi, le alterazioni di forma ed elasticità responsabili di tutta la sintomatologia sistemica. Così, data l’estrema diffusione dell’infezione e data la facilità diagnostica, a quasi tutti i pazienti che potevano permetterselo, veniva fatto un prelievo per la ricerca del plasmodio.
La percentuale di positività era impressionante: più del 90%. In tantissimi casi la carica parassitaria era molto elevata; in un campo microscopico era possibile vedere decine di trofozoiti, dando al vetrino l’aspetto che in gergo viene definito «a cielo stellato». E impressionante era il numero di bambini infetti: dai neonati avvolti in parei colorati, addormentati sulla schiena della madre, ai ragazzini più grandi, che venivano ad accompagnare uno sciame di fratelli e sorelle.
Ripensavo ai malati di malaria visti in Italia: turisti, uomini d’affari, missionari, navigatori, coppie di ritorno dal viaggio di nozze… erano figure ormai lontanissime nella mia mente. Adesso per me il volto della malaria era quello di un bambino o meglio di tanti bambini, dagli occhi scuri e sguardo serio e profondo, dai vestiti impolverati e la pelle madida di sudore per il caldo e la febbre. Non sempre erano sofferenti. Alcuni sembravano stare abbastanza bene, ma eseguito l’esame microscopico della goccia spessa, risultavano anch’essi parassitati, magari per la quarta/quinta volta in un anno.
Ricordo Espoir, una bambina di sei anni arrivata in ospedale con i suoi quattro fratelli; abitavano a Tché-Tché, un villaggio nella foresta proprio ai limiti della città. I fratelli avevano la febbre; uno, il più piccolo, non voleva più mangiare. Espoir invece stava bene ed era arrabbiata che l’avessero portata lì con gli altri, perché non voleva saltare la scuola e poi non voleva che le bucassero il dito per fare l’esame del sangue. Ma la loro madre voleva che tutti venissero controllati per il «palù», come chiamano loro la malaria. Delle cinque gocce spesse, quattro risultarono positive e quella di Espoir era quella con la carica più elevata: venticinque trofozoiti per campo microscopico. Il fratello minore, negativo per la malaria, risultò positivo alle indagini eseguite per la febbre tifoide.  
Altri invece arrivavano in condizioni gravi, privi di forze, alcuni in coma. Ricordo uno dei primi giorni di lavoro: ero rimasta sola, perché l’altro medico dell’ospedale era andato a lavorare due settimane sulla piattaforma dell’Agip, in mare al largo della costa di Pointe Noire. Una giovane madre in lacrime mi porta in braccio suo figlio, un bambino sui 10 anni, privo di conoscenza, con 40° di febbre, gravemente ipoteso, con le mucose congiuntivali bianche e vomito incoercibile. Non c’è tempo per alcun esame; bisogna metterlo subito sotto chinino e farmaci sintomatici, sperando che sia un attacco malarico.
Per la prima volta mi sono arrabbiata con gli infermieri, a causa della loro intrinseca flemma africana, che talvolta raggiunge livelli incredibili e che tanto contrasta con la nostra «frenesia bianca». Anche questo non è facile: trovarsi a lavorare con persone di altre culture, soprattutto così diverse, in un continuo confronto e scambio che, per quanto arricchente, in situazioni di stanchezza e di paura come quel giorno, può risultare davvero duro. Comunque alla fine riusciamo a stabilizzare Josh, il nostro piccolo paziente. La goccia spessa risulta positiva per più di 50 trofozoiti per campo; la glicemia non si può rilevare perché è finito il reattivo; l’emoglobina, calcolata con un metodo molto approssimativo, risulta di circa sei grammi/decilitro (in Italia noi trasfondiamo sotto gli otto grammi, qui trasfondono sotto quattro). La sera Josh è sveglio e io tiro un respiro di sollievo.

Per molti altri la malaria si sovrapponeva a uno stato di malnutrizione grave, infezioni gastrointestinali, anemie congenite come la drepanocitosi, sieropositività Hiv, andandone a peggiorare il quadro. Secondo la mia formazione «occidentale» non avrei avuto dubbi: tutti questi bambini avrebbero dovuto essere ricoverati, trattati, monitorati; si sarebbero dovute prevenire e curare le complicanze più pericolose quali anemia severa, ipoglicemia, insufficienza renale. Questo avevo studiato sui libri.
Ma qui la malaria è un’altra cosa. È proporre a un padre il ricovero del figlio e sentire il suo rifiuto per l’impossibilità di pagare. È ordinare una sacca di sangue e non vederla infondere perché costa troppo e poi si rischia l’Hiv e Hcv. È prescrivere un farmaco antimalarico e vedere comprare altri, al mercato, al banco vicino a quello della manioca, conservati a quaranta gradi e forse scaduti. È vedere un’infermiera che tra un tuo e l’altro si mette su, da sola, la sua flebo di chinino e, finita quella, riprende a lavorare: perdere un giorno di lavoro può voler dire perdere il lavoro.
Così l’altro volto della malaria, forse quello più vero, si mostra in tutta la sua durezza. E a me adesso non importa più niente del meccanismo d’azione dei farmaci, degli studi comparativi di efficacia e tollerabilità delle diverse terapie, del vaccino SPf66. Adesso vorrei solo poter pagare il ricovero di Michelle, le sacche di sangue di Josh, i farmaci di Emar, la giornata di lavoro di Augustine. Si perché adesso la malaria non è più un articolo di giornale né un vetrino brulicante di plasmodi, ma è una sala d’aspetto gremita di persone, ognuna con il suo nome e la sua storia, i suoi problemi ed esigenze. Ognuna con un immenso bisogno di essere ascoltata. Ognuna, almeno così credevo, con il diritto di essere curata. Fa parte della nostra cultura, nonostante tutti i suoi limiti: non possiamo accettare che una persona muoia perché non può pagare. Ma qui è così. È come se il costo di una malattia fosse un sintomo e in alcuni casi quel sintomo diventa il fattore prognostico determinante, diventa la complicanza più grave.

Così un giorno dopo l’altro trascorrono in un lampo i miei due mesi in Congo. Ormai è giugno e siamo nel pieno della stagione secca. Mentre preparo le valigie che, non si capisce perché, ma al ritorno non si riescono mai a chiudere, provo a riordinare dentro di me le immagini, le sensazioni, le esperienze di questo periodo. Ma è ancora troppo presto. Ci vorrà un po’ di tempo per assimilare tutto questo, per dare un ordine e un senso a ogni cosa vista e vissuta, probabilmente molto tempo. Per adesso mi rendo solo conto che porterò a casa molto più di due valigie.
Mi viene in mente la dedica che avevo scritto come introduzione alla mia tesi; era la citazione di una poesia di Montale e l’avevo scritta perché mi piaceva, ma senza darle un significato particolare: «… Sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello di mare se ne va; né sosta mai perché tutte le immagini portano scritto: “più in là”». È come se la capissi soltanto ora.
Tornata in Italia, nel reparto di Malattie infettive dove ho terminato la specializzazione, ho ritrovato i «miei» pazienti, la maggioranza dei quali sono Hiv positivi.
Ora più di prima non posso fare a meno di porre attenzione al prezzo dei farmaci antiretrovirali, ogni volta che ne consegno una scatola. E penso che in Africa questa sarebbe una complicanza mortale. Guardo questi malati e provo a immaginare quale volto avreb­bero gli stessi pazienti laggiù, nel piccolo ospedale di Pointe Noire. Ma questo è un altro capitolo.

di Chiara Montaldo
 

Chiara Montaldo

 



Quando gli elefanti lottano (è l’erba a essere calpestata)

C’era una volta … un paese ricco di gente povera

La locomotiva dell’Africa orientale è in ginocchio. Le elezioni (tranquille) del 27 dicembre 2007 hanno scatenato un conflitto fratricida. Politica, economia e tribalismo: tre ingredienti micidiali che hanno dato fuoco alle polveri. Tutta la regione sta facendo un balzo indietro. Mentre la comunità internazionale tenta una timida mediazione.

«Non è una lotta tribale. Si tratta di mancanza di giustizia e di vendette» ne è convinto padre Quattrocchio, missionario della Consolata, 44 anni di Kenya, conoscitore delle etnie. Eppure il «tribalismo» (meglio l’«etnicismo») è uno degli ingredienti della profonda crisi che sta attraversando il paese. Ma, come ricorda il sociologo Fabrizio Floris (autore di un saggio sulle baraccopoli di Nairobi), una legge della sociologia recita che a forza di parlare di qualcosa le conseguenze possono diventare reali. Cosa ha portato il gigante dell’economia dell’Africa orientale a crollare? Con un tasso di crescita del Pil superiore al 6% il Kenya è (o meglio era, perché oggi le previsioni sono al 3 – 4%) il motore economico della regione, nonché il principale porto per Uganda, Rwanda, Burundi, Nord Congo e Sud Sudan. Un paese politicamente stabile da molti anni, che consuma in poche settimane quasi 1.000 vite umane e produce 260.000 sfollati (secondo le stime del momento in cui si scrive). È la maggiore crisi della sua storia, dicono gli esperti.
«I segnali erano nell’aria» ricorda un altro missionario italiano «ma non abbiamo saputo leggerli. Abbiamo voluto essere ottimisti. Sembrava che la gente avesse raggiunto un certo grado di maturità democratica». E invece, tutto è precipitato dopo le elezioni del 27 dicembre scorso. Ordinate e con grande affluenza (80%), la gente faceva lunghe code alle ue. E poi la Commissione elettorale che farfuglia nel conteggio dei voti, dando vincente prima l’opposizione, poi un improbabile sorpasso e la vittoria di misura (230.000 voti su un elettorato di 4 milioni) del presidente uscente Mwai Kibaki. Questi si affretta, quasi di nascosto, a prestare giuramento e a costituire un governo con i suoi. Anche se in parlamento è l’opposizione di Raila Odinga a vincere, con 99 seggi su 210 (solo 43 al partito di Kibaki). E infatti è Kenneth Marende fedele a Odinga a essere eletto presidente dell’assemblea.

Blocchi contrapposti

Due blocchi che si arroccano sulle loro posizioni e mettono a ferro e fuoco il paese. Dalle baraccopoli di Nairobi alla città costiera (e importante porto) di Mombasa, alle città dell’Ovest: Kisumi, Eldoret, Nukuru. Case bruciate, gente cacciata dalla propria terra, ammazzata a colpi di machete o arsa viva.
Da un lato il presidente Kibaki e il suo partito Pnu (Partito di unità nazionale), assieme a un’élite economica di privilegiati che lo circonda. Raila Odinga e il suo Odm (Orange democratic muvement) dall’altro. Raila è anche figlio di Oginga Odinga, già primo vicepresidente della storia ai tempi di Kenyatta, poi oppositore durante il «regno», durato 24 anni, di Daniel Arap Moi.
Alleati nelle elezioni 2002, per cacciare Moi dal potere, Odinga e altri si dissociano dopo il referendum del 2004 e il fallimento della riforma costituzionale promessa da Kibaki. Riforma con la quale ci sarebbe stato un trasferimento di poteri dal presidente al primo ministro.
Due leader associati a due gruppi etnici. I kikuyu, a cui appartiene Kibaki, etnia maggioritaria delle oltre 50 (circa il 20%). Da sempre favoriti, fin dal tempo della colonia inglese (ad esempio nella distribuzione delle terre), e poi dal primo presidente e padre della patria Jomo Kenyatta (al potere dal ’64 al ’78). E i luo (circa 13%), a cui appartiene Odinga.

Pasticcio elettorale

«I brogli ci sono stati da entrambe le parti» assicura un testimone «voti sono stati rubati, oltre che comprati, naturalmente».
Già durante la campagna elettorale, non solo folle di giovani venivano pagate dai due campi per manifestare, ma un mercato del voto soprattutto a livello locale, era diffusissimo. «Molti si sono buttati a capofitto nella gara di spillare soldi ai candidati nazionali e locali, perché tutti erano nello spirito di dare. Alcuni hanno pensato che sarebbe stato da stupidi non approfittare» spiega un missionario italiano. «La miopia del volere tutto e subito senza una visione a lungo termine, senza preoccuparsi per il futuro. È impossibile per un politico onesto e senza soldi fare una campagna elettorale in Kenya».
Ma non basta. Una volta capito che Kibaki non arretrava davanti alle proteste sono cominciate le violenze. Luo (appoggiati da kalenjin) ad ammazzare kikuyu, a cacciarli e bruciare le loro case. E viceversa. La polizia a reprimere duramente. E così gli scontri sono diventati «etnici», prima per i mass media e poi per la gente. Esiste anche un macabro tariffario, denuncia padre Quattrocchio: «10-15 euro per bruciare una casa e 15-20 euro per uccidere un kikuyu».
«La questione etnica non è la ragione principale. Il tribalismo è usato, alimentato, fomentato, manipolato senza scrupoli come strumento politico. È vero, esistono antichissimi pregiudizi e diffidenze tra le varie tribù, soprattutto tra allevatori e agricoltori». Spiega Gigi Anataloni, missionario della Consolata e direttore della rivista «The Seed» a Nairobi.

Profonde disuguaglianze

«È un conflitto economico – sociale, mascherato da quello etnico» sostiene il sociologo Floris. Le sue radici stanno nelle profonde disuguaglianze che regnano in Kenya. Nella sola Nairobi, città modea dove si trova di tutto, due milioni di persone sono accatastate nelle baraccopoli, occupando solo il 5% della terra. «È facile assoldare giovani degli slum – continua Floris – per loro il futuro è una minaccia, non una prospettiva». Così sono migliaia i giovani pagati e armati per seminare disordini.
Della stessa idea è Gigi Anataloni: «Questi diseredati sono strumenti micidiali nelle mani di politici assetati di potere». E continua: «Alcune fonti parlano di 5.000 giovani pagati regolarmente ogni mese dal 2005 nella sola Kibera (la più grande baraccopoli di Nairobi, ndr). Le bande di vigilantes o di cosiddetti guerrieri, gli “eserciti privati”, armati e finanziati da pezzi grossi, che tante uccisioni fecero nel 1992 e più tardi, praticamente non sono mai state smantellate».
«Molti giovani degli slum volevano il cambiamento e subito», ricorda padre Bartolomeu, prete diocesano del Meru «e sono rimasti delusi. Da qui la rabbia e la violenza».

Difficili mediazioni

«La situazione si stabilizzerà perché ci sono troppi interessi economici estei – ricorda Floris – non faranno sprofondare il Kenya». Ma la mediazione internazionale ha mosso piccoli passi.
Luis Michel, commissario europeo alla cooperazione e il premio Nobel per la pace Desmond Tutu, sono stati tra i primi a intervenire, ma senza effetto. Così anche John Kufur, presidente del Ghana e presidente di tuo dell’Unione Africana. L’Ua ha quindi inviato l’ex segretario generale dell’Onu, Koffi Annan, che è riuscito a far incontrare per la prima volta i due contendenti, il 24 gennaio e a fare revocare le manifestazioni indette dall’Odm e proibite dal governo. Ma i disordini sono continuati, soprattutto nelle città dell’ovest Nakuru, Naivasha, Eldoret nella provincia Rift Valley, dove circa 140 civili sono stati vittime di massacri tra il 25 e il 27 gennaio. Alcune decine arse vive nelle proprie abitazioni. Annan denuncia «gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani».
«La polizia ha ricevuto ordini di sparare sui manifestanti» dichiara un testimone che chiede l’anonimato «chi brucia case, attacca persone o crea blocchi stradali può essere abbattuto».
La violenza è tale che il presidente della commissione dell’Ua, Alpha Oumar Konaré, all’apertura del summit di Addis Abeba (31 gennaio), parla di rischio genocidio e di «nuovo Rwanda». E chiama tutti i leader africani a intervenire per la pace.

Chi appoggia chi

Kibaki gode del sostegno dell’Uganda, infatti Yoweri Museveni è tra i pochi capi di stato a essersi complimentati con lui per la rielezione e subito a incontrarlo. Testimoni dalle province occidentali dichiarano che «soldati ugandesi attraversano il lago Vittoria di notte per venire in Kenya e dare man forte ai governativi» contro i dimostranti dell’opposizione.  Veicoli per il trasporto merci dal porto di Mombasa all’Uganda sono bloccati e distrutti dai giovani dell’Odm.
Kibaki è invece malvisto dalla Gran Bretagna per aver interrotto cospicui contratti di foiture di automezzi Land Rover all’esercito ed essersi orientato al Giappone. Peggio ancora, il presidente ha rifiutato agli Usa di installare una base militare a Mombasa, sull’Oceano Indiano, strategica per il Golfo Persico. Questo ha scatenato reazioni come sconsigliare ai cittadini statunitensi di recarsi in Kenya.
Oltre Usa e Gran Bretagna ad appoggiare Odinga ci sono anche molti keniani (influenti) della diaspora. Raila avrebbe promesso di istituire la doppia nazionalità (attualmente non prevista) che favorirebbe interessi economici degli emigrati che hanno fatto fortuna all’estero. Odinga avrebbe inoltre potuto contare sul sostegno dei musulmani del Kenya. Il National muslim leaders council avrebbe ricevuto promesse dal candidato dell’opposizione sull’istituzione di leggi che favoriscono l’Islam.

Quali prospettive?

Mentre scriviamo le posizioni dei due leader keniani sono molto ferme. L’Odm chiede l’annullamento delle elezioni e un nuovo scrutinio. Cosa piuttosto difficile, sia perché i brogli non sono stati riconosciuti ufficialmente, sia per lo stato di caos che regna e rende impossibile organizzare alcunché. Kibaki, dal canto suo non vuole sentire dire che non è lui il presidente legittimo.
Anche il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon arriva a Nairobi il 2 febbraio. Il lavoro della mediazione è estremamente delicato, ma anche urgente. Le violenze, che ormai hanno assunto una chiara connotazione etnica, rischiano di andare lontano. 

Di Marco Bello

Marco Bello




AFRICA, UNITA?

La lunga strada verso gli Stati Uniti d’Africa

Per primo ci pensò Kwame Nkrumah, poi nacque l’Organizzazione degli stati africani, che divenne l’Unione africana. Oggi i capi di stato discutono sui tempi e modi per la creazione degli Stati Uniti d’Africa. C’è chi accelera e chi frena. Ma oltre all’unione degli stati occorre fare quella dei popoli. E l’identità
degli africani è ancora più legata al proprio clan che al continente.

«Un solo dito non può ammazzare un pidocchio» recita un proverbio africano. Ci ricorda che comunione e unità sono alla base della società sul continente. Basta entrare in un villaggio e subito, dopo i saluti, si comincia a cercare se esiste qualche collegamento famigliare, di consanguineità o matrimoniale. Trovato, non ci si chiama più per nome ma secondo il legame che esiste tra noi. Così è la mentalità africana in genere: ogni uomo o donna è collegato in qualche modo con gli altri.
Questo forte senso di comunità era però limitato, solo rivolto all’interno delle diverse tribù e gruppi etnici e dunque gli altri erano considerati estranei.  Con la colonizzazione e globalizzazione, gli africani si sono accorti che i loro vicini non erano dei nemici ma collaboratori per un mondo più grande e sicuro.  Dopo l’indipendenza, i diversi capi fondatori degli stati post coloniali sentirono il bisogno di unità per affrontare le sfide dello sviluppo insieme. Così nacque l’idea delle cornoperazioni regionali tra stati vicini. Ad esempio, il Mercato comune dell’Africa orientale e australe (Comesa), e la Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest (Cedeao / Ecowas), e altre aggregazioni ancora. 
A livello continentale prima nella forma di Organizzazione dell’Unità Africana (Oua), che diviene nel 2001 l’Unione africana (Ua). Ora si parla di Stati Uniti d’Africa e c’è chi vorrebbe un unico governo per tutto il continente il più presto possibile, scatenando non poche discussioni. L’uomo che spinge di più su questo è il presidente di Libia, Muhammar Gheddafi. Si dichiara «soldato per l’Africa» e sogna una confederazione di tutti gli stati africani senza aspettare troppo. Secondo lui, più si aspetta, più danni si fanno al continente.

«Africa must unite!»

Gheddafi sostiene che l’Unione africana ha fallito e che non c’è un futuro per i «micro stati» nel mondo odierno. L’unica salvezza per l’Africa è l’unità in un unico governo. L’antico slogan del dopo indipendenza torna attuale: «L’Africa deve unirsi!».
Alpha Oumar Konaré presidente della Commissione dell’Unione africana, è convinto che gli Stati Uniti d’Africa aiuterebbero lo sviluppo dei paesi più piccoli e deboli. Sostiene che una tale confederazione non minaccerebbe l’autonomia nazionale dei paesi, ma sarebbe un’opportunità per confrontare i problemi reali per l’autonomia, individuati nelle multinazionali e nell’economia mondiale.  Alcuni gruppi umanitari del continente appoggiano una tale proposta e sostengono che le barriere economiche tra gli stati dovrebbero essere tolte e che una cittadinanza africana sia una priorità. 
È stato il sogno dei padri fondatori dell’Africa post indipendenza, quegli uomini che hanno lottato contro il colonialismo. Un esempio fra tutti Kwame Nkrumah, il primo presidente del Ghana. Sognava un unico governo per tutta l’Africa con una sola capitale. Suggeriva addirittura Bangui, nella Repubblica Centroafricana, o Kinshasa, nella Repubblica democratica del Congo. Poi un unico sistema economico, e un programma di sviluppo economico e industriale, una moneta unica, così come una sola politica estera, un esercito e una cittadinanza africana.
Julius Nyerere, l’allora presidente della Tanzania affermava: «Lavoriamo per l’unità, con la convinzione che senza di essa, non c’è futuro per l’Africa».

Capi di stato riuniti

Così nella conferenza di Accra (Ghana) dei capi di stato africani, del luglio scorso, la questione è stata a lungo dibattuta.
Nella dichiarazione finale i capi di stato si dicono convinti «che l’ultimo obiettivo dell’Unione africana è la nascita degli Stati Uniti d’Africa, come previsto dai padri fondatori dell’Organizzazione di unità africana». Ma, come afferma il ministro degli esteri del Kenya, Raphael Tuju: «Il diavolo sta nei contenuti», ovvero: tutti sono d’accordo che l’unità è indispensabile, ma le modalità e i tempi con cui arrivarci fanno discutere. Per molti leader africani resta valido quel proverbio swahili che dice: «La strada per concretizzare questo sogno è disseminata di grandi ostacoli, tanto estei che interni». 
 Il piccolo gruppo di Gheddafi e del presidente senegalese Abdoulaye Wade, che vogliono un processo rapido con un singolo atto dai leader, sognano una rivoluzione che muterebbe i 53 paesi del continente dal mattino alla sera, in un unico stato, con un solo presidente e parlamento, sul modello statunitense.
Quelli che invece sostengono un approccio graduale sono: Thabo Mbeki del Sud Africa e Yoweri Museveni dell’Uganda. Quest’ultimo è molto categorico: «Mentre appoggiamo l’integrazione economica, siamo disposti all’integrazione politica solo con persone che sono simili a noi o almeno compatibili». La presidente della Liberia Ellen Johnson Sirleaf si dichiara favorevole ma dice: «Ci vorrà tempo». Si fa sentire anche il capo del Mozambico, Armando Guebuza: «Prima si deve sapere dove andiamo e come arrivarci», ovvero si deve pensare con i piedi per terra.
La maggioranza dei leader africani dunque frenano e pur ritenendo di importanza capitale l’unità, pensano che la questione deve essere tema di confronto sereno.
Ecco i due punti fondamentali nella dichiarazione di Accra il 3 luglio 2007:
1. Accelerare l’integrazione economica e politica del continente, compresa la formazione di un governo unico e, come ultimo obiettivo, la creazione degli Stati Uniti d’Africa.
2. Razionalizzare e rinforzare le Comunità economiche regionali per armonizzare le loro attività…, in modo da condurre alla creazione di un mercato comune africano, con una tempistica rivista e più breve, per accordare l’economia con l’integrazione politica.
Si favorisce quindi l’integrazione delle strutture economiche regionali. L’idea di un passaporto unico africano non è inclusa nella dichiarazione finale.  

Con i piedi per terra

Prima si devono riconoscere le differenze enormi che esistono tra i paesi africani. Non solo politiche, economiche, ideologiche, ma anche sociologiche e culturali. Se c’è un filo comune nella maggioranza dei gruppi etnici africani, esiste anche un’enorme diversità.  La gente dovrebbe essere sensibilizzata a sentirsi più «africana», che membro di una specifica nazione o gruppo etnico o tribù. Si potrebbe fare un esempio del Marocco che prova a entrare nell’Unione europea pur appartenendo alla Lega Araba. Un punto importante sarebbe determinare cosa comporti l’«africanità» e che cosa unisce i popoli, prima di procedere ad un’unità politica senza alcun accordo tra la gente.
È vero che in questi ultimi anni sono diminuite le guerre civili, ma esiste ancora all’interno di molti stati una enorme polarizzazione e disuguaglianza tra gruppi etnici e tribali. Per esempio in Etiopia, Sudan, Zimbabwe, e altri ancora. Come potrà un paese diviso in se stesso fare parte di una più grande federazione? Forse hanno ragione quelli che spingono per un maggiore consolidamento all’interno degli stati stessi. 
La differenza è anche nel modo di concepire l’esercizio di potere. È anche vero che ci sono progressi di democrazia nei paesi africani e la libertà di espressione e diritti umani sono maggiormente rispettati, ma ci sono ancora forme di governo non democratiche come la stessa Libia e lo Zimbabwe. Ma allora quale stile di governo si vuole per gli Stati Uniti d’Africa? Un modello simile agli Usa? Si discute se questo tipo di approccio sarà appropriato per esercitare il potere sui popoli africani così diversi sul piano sociologico.
Quale sarà la sorte dei singoli stati federali e quale sistema per l’elezione del governo? Non è da sottovalutare l’attaccamento al potere dei capi di stato e politici attuali. Confederazione significherebbe la delega del loro potere a un livello superiore, e anche molte «poltrone» si perderebbero. Ma i problemi veri sono di tipo economico. L’Africa di oggi si presenta come un continente di miserie che dipende per sviluppo e sicurezza dai suoi «padroni coloniali» e dalle multinazionali. Questi non hanno interesse che la situazione migliori, anzi approfittano di debolezza e povertà per arricchirsi. Una dipendenza economica, finanziaria e dunque politica.

Ancora colonialismo?

Anche in Africa negli ultimi 20 anni le politiche inteazionali di aggiustamento strutturale hanno imposto la privatizzazione del settore pubblico.
Ma questa svendita ai privati delle imprese e servizi statali ha avuto come risultato il trasferimento dell’enorme patrimonio nazionale nelle mani degli stranieri, in particolare delle multinazionali. Insieme al debito estero, illegittimo e opprimente, questo fatto ha rinsaldato la dipendenza estea e ha aumentato il trasferimento di ricchezze del continente verso i paesi e le istituzioni multilaterali occidentali, come ha riconosciuto la «Commissione per l’Africa» nel 2005. Una commissione istituita da Tony Blair, allora premier britannico, nel 2004 e composta da 17 «saggi», di cui 9 africani, con il compito di elaborare un piano coerente e globale dei reali cambiamenti che avrebbero contribuito a realizzare un’azione energica e proficua per il continente africano.
Questa fuga di capitali, agevolata dalla liberalizzazione, ha raggiunto proporzioni allarmanti che ammontano a oltre la metà del debito estero, secondo i dati della stessa commissione. Secondo Christian Aid (grossa Ong britannica) la liberalizzazione commerciale da sola è costata alla regione più di 270 miliardi di dollari in un periodo di 20 anni.  Il vero problema, dunque, sta nel fatto che i leader africani dipendono dai paesi ex coloniali e dalle multinazionali.
Il peso economico e ideologico degli occidentali è ancora enorme.
Occorrono governanti che sappiano liberarsi da questi legami e possano, oltre a prendere decisioni rigorose, avere la determinazione di attuarle. La lentezza dell’integrazione e la mancanza di solidarietà, riflettono l’assenza di volontà, comune a molti leader africani, di mettere gli interessi fondamentali del continente davanti a quelli nazionali o personali, per avanzare in modo decisivo verso una vera unità. 
La partecipazione popolare alle decisioni e alle politiche pubbliche è importante per una reale unione. Questo significa che il successo degli Stati Uniti d’Africa dipende dagli africani stessi, ma allora il mandato deve venire dalle popolazioni.  Il documento pubblicato dall’Unione africana nel 2006 sembra aver compreso tale principio e dichiara che: «L’Unione deve essere degli africani e non soltanto degli stati e dei governi». Ma questo, per ora, sembra essere rimasto solo nella carta.

 Ricchezza di valori
 
Ma è proprio perché esistono questi problemi e sfide che l’Africa in un modo o nell’altro si deve unire. Ha molto da guadagnare. Mettere insieme tutte le sue risorse culturali, umane, naturali ed economiche darà un grande impulso allo sviluppo.  Le culture sono ricche di valori umani. Un incontro e dialogo di tutte le diversità che si trovano sul continente porterebbe ad un enorme vantaggio per tutto il mondo. Ma sembra che questo aspetto venga trascurato mentre dovrebbe essere sfruttato per determinare, ad esempio, il sistema educativo dell’unione.
Hanno ragione quelli che dicono che i singoli paesi d’Africa, nell’attuale sistema economico mondiale non hanno posto. Un’unione, in qualsiasi forma fosse realizzata, aiuterebbe l’Africa nelle negoziazioni con gli altri blocchi economici sui mercati inteazionali. È solo così che i prodotti africani avrebbero il valore che meritano. Quelli che fanno affari lo hanno capito da tempo. Si dice che oggi l’Africa è il grande mercato dei telefonini. Infatti le compagnie di telecomunicazione cellulare coprono ormai intere regioni del continente. Anche le banche commerciali stanno aprendo filiali sulla base delle unioni economiche regionali.
Ci sono alcuni segnali positivi: le guerre tribali e civili all’interno degli stati africani sono diminuite e si va verso una stabilità politica, con governi più o meno democratici.  Ma occorre del tempo e l’integrazione regionale, come base di una più grande federazione, è la risposta dei dirigenti africani riuniti alla conferenza di Accra nel luglio scorso. Forse una risposta evasiva, visto che i raggruppamenti regionali degli stati africani non sempre funzionano così bene.  

Di Nicholas Nyamasyo Muthoka

Nicholas Muthoka




L’Africa «Feizhou» e l’impero di mezzo

Introduzione

Il più grande paese in via di sviluppo del mondo. Così la Cina – meglio i suoi dirigenti – definisce se stessa. La sesta economia del pianeta, scrivono gli economisti.  E ben presto sarà la quinta, grazie a un tasso di crescita che si avvicina al 10% annuo.  Ma è anche vero che il debito estero è intorno ai 228,6  miliardi di dollari e il paese occupa solo l’81simo posto della classifica delle Nazioni Unite sull’indice di sviluppo umano, classificato questo come «medio».

Quello che è certo è che il paese ha un grande bisogno di energia: dal 2005 è il secondo consumatore di petrolio, dopo gli Stati Uniti. Dal 10% della domanda a livello mondiale, passerà al 20% nel 2010.  Ma non basta. Se oggi in Cina ci sono 16 automobili per 1.000 abitanti, contro 588 dell’Italia e 812 degli Usa, si stima che grazie allo «sviluppo» il parco automobili esploderà, moltiplicandosi per 18 entro il 2030. Il gigante asiatico, pur avendo delle riserve, tra dieci annisarà costretto a importare il 60% del petrolio, contro il 30% di oggi.

Così, anche la Cina, come gli Usa è in corsa per accaparrarsi le riserve energetiche del pianeta. Non solo greggio, ma anche uranio, cromo, rame e legno … C’è un continente che ha tutto questo e lo vende (o lo svende) al miglior offerente: l’Africa.  O meglio Feizhou, come dicono loro e come sarebbe bene imparare. Dalla metà degli anni ‘90 i dirigenti cinesi varano una nuova politica per l’Africa, tuttora in piena applicazione. Cooperazione bilaterale (prestiti a basso interesse e senza condizioni), cancellazione del debito, doni, foiture militari. In cambio concessioni per lo sfruttamento di giacimenti o per l’esplorazione di nuovi. Così l’Angola diventa nel 2005 il primo fornitore di petrolio della Cina, il Congo foirà nei prossimi anni rame, ferro, oro, diamanti. In cambio alcuni miliardi di dollari che ricostruiranno i paesi distrutti da decenni di guerre (strade, porti, aeroporti, ferrovie, stadi, raffinerie, ecc.). O meglio multinazionali cinesi ricostruiranno l’Africa con soldi cinesi. E qualità cinese.

Piace l’approccio asiatico, soprattutto a molti capi di stato africani. Il principio base è «non ingerenza» nella politica intea degli stati. Questo può risultare utile al Sudan di Omar El Beshir e allo Zimbabwe di Mugabe, con i quali Pechino fa ottimi affari. Un’unica condizione: riconoscere l’unicità della Cina, ovvero non avere rapporti diplomatici con Taiwan.

Feizhou è anche un grande mercato di 850 milioni di persone per i prodotti cinesi. Beni a basso costo e infima qualità, ideali per le masse africane a basso reddito e tanta voglia di consumismo.
E gli altri? Francia, Gran Bretagna, Usa? I primi due si stanno ritirando lasciando ampi spazi di manovra. I secondi lanciano un nuovo assalto al continente. Di tipo militare, perché è l’unica cosa che sanno ancora fare. Così con la scusa della lotta al terrorismo nasce «Africom» il comando Usa in Africa: basi, aiuti militari, addestramento… presenza di marines.

Se Lucy, le cui spoglie riposano al museo di Addis Abeba, ci ricorda che tutti veniamo dall’Africa, lo slogan «made in China» ci mostra, ogni giorno, verso cosa stiamo andando.

Di Marco Bello

Marco Bello




L’invasione

Perché gli africani parleranno cinese

Grandi summit inteazionali senza economia di mezzi. Documenti di principio per una cooperazione «tra eguali». Ma alla Cina interessano le riserve petrolifere e minerali. Da dare in pasto a un’economia in forte crescita. E gli africani svendono e ricostruiscono. Così, presto anche le leggi saranno tradotte in mandarino.

Nel giro di pochi anni, alcune capitali dell’Africa dell’Ovest hanno visto un cambiamento radicale del traffico su due ruote. I motorini, mezzo principale di trasporto della popolazione cittadina a Ouagadougou come a Cotonou, si sono rapidamente moltiplicati. Gli indistruttibili Yamaha giapponesi, assemblati in Burkina Faso sono stati soppiantati dai Jailing, Sukinda, Yashua e tanti altri nomi di fantasia. Ma anche Yamaha contraffatti. Tutti «made in China». A un terzo del costo.
Chi non poteva permettersi l’ambito mezzo, ha finalmente potuto accedervi. Si accorgeva, però dopo pochi mesi che un pezzo del motore si svitava e altre parti iniziavano a cadere. Ma che importa: più lavoro per le centinaia di meccanici di strada la cui esperta manualità, condita con la proverbiale arte del riciclaggio africana, permette di far rivivere ogni cosa. O quasi.
Anche andando ai mercati di quartiere, gli oggetti che si trovano, dal tessile, agli attrezzi, dai giochi, all’elettricità, sono diventati tutti di fabbricazione cinese. Alcuni fornitori chiedono ancora se si desidera un prodotto non cinese, ma allora si moltiplica il prezzo per due, tre, quattro volte.
Intanto spuntano nelle vie centrali delle città «Africa – China import», «L’Orient», «Hong Kong bazar», negozi gestiti da immigrati cinesi, dove si può comprare  dallo spillo alla bicicletta, tutto di «rigorosa» produzione cinese.
In alcuni paesi, Niger e Angola per citae due, anche il panorama umano sta cambiando e si incontrano cinesi un po’ ovunque. Spesso è difficile, se non impossibile comunicare verbalmente con loro, anche se, di norma, sono molto gentili. Ma non sempre c’è un buon rapporto con le popolazioni locali.
Questi sono solo gli aspetti più evidenti di una «conquista» dell’Africa da parte della Cina, che ha visto uno slancio decisivo nell’ultimo decennio.

Primi passi

Senza andare alle esplorazioni cinesi durante la dinastia Ming (1368-1644), si può risalire alla conferenza di Bandung, nel 1955, dei paesi non allineati o «poveri», per trovare la Cina di Mao che cerca aperture inteazionali e pensa a una campagna africana. Iniziano i contatti, diplomatici prima, economici subito dopo con l’Egitto, all’epoca unico indipendente.
La Cina si pone subito come avente una storia simile, di lotta di liberazione dal colonialismo. Come paese povero che collabora con i suoi simili: una cooperazione «Sud-Sud», per contrapporsi a quella «Nord-Sud» e disfarsi del binomio colonizzatori – colonizzati. Va notato che questo approccio è tuttora in voga, con la Cina diventata la sesta potenza economica mondiale e presto entrerà tra le prime cinque spodestando Francia o Gran Bretagna.
Il gigante asiatico appoggia le lotte per l’indipendenza (Tunisia, Algeria, Marocco e in seguito Angola) e si affretta a riconoscere i nuovi stati, tra i primi l’Algeria e la Guinea Conakry. L’intervento è più sul piano politico – diplomatico, interessato a controbilanciare l’influenza di Mosca e dell’Occidente sul continente africano.

Politica ed economia

Ma la svolta nelle relazioni Cina – Africa si ha intorno alla metà del decennio scorso. È a partire dal 1995 che la Cina cerca di armonizzare la sua cooperazione economica con gli obiettivi politici.
E inizia a investire per la conquista del continente.
Organizza il «Forum di cooperazione Cina – Africa», il cui primo incontro si tiene a Pechino nel 2000, seguito da un secondo ad Addis Abeba nel 2003 e dal terzo, in grandissimo dispiego di mezzi ancora nella sua capitale, il 4 e 5 novembre dello scorso anno. Qui partecipano 41 delegazioni africane ai massimi livelli (capi di stato e di governo), per un totale di circa 3.500 delegati.
I Forum producono i documenti di principio su cui si basa la cooperazione Cina – Africa. Dalla prima «Dichiarazione di Beijing» e il «Programma Cina-Africa per la cooperazione economica e sociale» del primo Forum alla nuova «Dichiarazione di Beijing» e il «Piano d’azione 2007-2009» nell’ultimo incontro.
Sul piano pratico, il governo cinese vara misure di tipo commerciale e fiscale per migliorare gli scambi, quali l’armonizzazione delle politiche commerciali, la riduzione della tassazione dei prodotti, accordi di protezione degli investimenti e incoraggiamento di joint-ventures.

Documenti strategici

Nel gennaio 2006 il governo di Pechino rende noto il «Documento ufficiale sulla politica cinese in Africa». Da notare che ne esiste solo un altro sulle relazioni con l’Europa (2003).
Definendosi «il più grande paese in via di sviluppo del mondo» molto interessato alla pace e al progresso, la Cina assicura che i principi base nella cooperazione con l’Africa sono un’amicizia sincera, i muti vantaggi su una base d’uguaglianza, cornoperare nella solidarietà. Trattarsi da eguali, nel rispetto della libera scelta dei paesi africani per la loro via al progresso, ma con l’intenzione di aiutarli in questo loro sforzo.
Assicurare reciproci vantaggi per uno sviluppo condiviso e appoggiare i paesi africani attraverso una cooperazione economica, commerciale e sociale, per la costruzione nazionale. Ma anche: darsi mutuo sostegno e agire in stretta collaborazione negli ambiti inteazionali come le Nazioni Unite e gli altri organismi multilaterali. Intensificare gli scambi anche sui piani educativo, scientifico e culturale.
Sul piano economico si definisce che nello scambio tutti devono guadagnare. Sul piano culturale si spinge per un aumento degli scambi.

Una sola Cina

L’unica condizione politica della Cina Popolare, ribadita nei documenti ufficiali, è quella del riconoscimento dell’«unicità della Cina». Questo significa il non riconoscimento di Taiwan. In Africa tutti gli stati tranne cinque (Burkina Faso, Gambia, Sao Tomé, Malawi e Swaziland) hanno aderito e la tendenza è quella di rompere con la Cina nazionalista (in Europa solo il Vaticano ha ancora relazioni diplomatiche con Taiwan, gli Usa le hanno rotte nel 1979, mentre nel ’71 avevano permesso alla Cina Popolare di entrare nell’Onu, escludendo così Taipei).
Oltre ai principi di base il documento descrive una cooperazione Cina – Africa a 360 gradi: mutuo appoggio a livello politico – diplomatico, cooperazione tra collettività locali, cooperazione economica (verso accordi di libero scambio), finanziaria, agricola, nelle infrastrutture (mettendo l’accento su trasporti, telecomunicazioni, acqua ed elettricità). E ancora cooperazione turistica, nel settore dell’educazione, tecnico – scientifica e medica.
 Cooperazione tra i mass media e militare (scambio di tecnologie e formazione), giudiziaria e anche in materia di lotta al terrorismo.
Poche righe invece sono dedicate alle risorse naturali, che sono però il maggior interesse cinese sul continente, prima fra tutte il petrolio.

Un nuovo tipo di partenariato

Il presidente Hu Jintao, il primo ministro Wen Jiabao e il ministro degli Esteri Li Zhaoxing, hanno visitato quindici  paesi africani in diversi viaggi nel primo semestre 2006. L’interesse per il continente continua ad aumentare.
Con la «dichiarazione di Beijing» del terzo Forum Cina – Africa, i capi di stato e di governo di 41 paesi africani (sui 48 invitati) e della Repubblica popolare lanciano solennemente un partenariato strategico di nuovo tipo: «uguaglianza e fiducia sul piano politico, cooperazione vincente – vincente sul piano economico, scambi benefici sul piano culturale».
La dichiarazione congiunta ribadisce il principio che tutti gli stati del mondo, potenti o poveri, grandi o piccoli, devono trattarsi da «eguale a eguale». Spinge per il rinforzo della cooperazione «Sud-Sud» e del dialogo «Nord-Sud», richiama l’Omc che riprenda i negoziati di Doha. Chiede inoltre la riforma dell’Onu e delle altre organizzazioni inteazionali, con l’obiettivo di servire meglio tutti i membri della comunità internazionale, migliorando la rappresentazione e la partecipazione degli stati africani nel Consiglio di sicurezza. I capi di stato esortano le organizzazioni inteazionali a fornire maggiore assistenza tecnica e finanziaria ai paesi africani per ridurre la povertà, le calamità, la desertificazione e realizzare gli Obiettivi del millennio.
«Cina e Africa unite dagli stessi obiettivi in termini di sviluppo e interessi convergenti, hanno davanti a loro delle vaste prospettive di cooperazione … mutuamente vantaggiosa, per sviluppo condiviso e prosperità comune».

A caccia di risorse

La Cina è (dal 2005) il secondo consumatore di petrolio al mondo dopo gli Usa1 e ha un’economia in crescita vertiginosa (quasi il 10% l’anno, con un Pil che raddoppia ogni 8 anni). Ha bisogno di energia e materie prime per le sue industrie e per la popolazione, primo fra tutti il petrolio. Il suo consumo di greggio era nel 2000 il 10% della domanda mondiale e diventerà il 20% nel 2010. Si stima che nel 2020 sarà costretta a importare il 60% del petrolio che consuma. Così come gli Usa, la Cina ha una priorità: garantirsi le riserve di petrolio per il futuro.
L’Africa, grazie alla penetrazione degli ultimi anni, assicura oggi a Pechino oltre un quarto delle sue importazioni di greggio. Angola (primo in assoluto, ha superato l’Arabia Saudita), Sudan, Congo, Guinea Equatoriale e Nigeria sono i suoi fornitori principali.
E il pilastro della politica estera cinese resta: «Non ingerenza negli affari interni degli stati». Approccio altamente apprezzato dai regimi africani.
Anche questo ha permesso a Pechino di conquistare lo sfruttamento di giacimenti petroliferi sudanesi, che alcune compagnie occidentali hanno dovuto lasciare a causa delle pressioni politiche Usa. La China National Petroleum Company (Cnpc) detiene il 40% del consorzio Greater Nile Petroleum Operating Company che produce 350 mila barili al giorno. La Cnpc aveva costruito 1.506 chilometri di oleodotto per portare il greggio al mare.
La Cina che ha un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu ha più volte bloccato (minacciando il veto, ma senza usarlo) le risoluzioni che volevano mettere l’embargo al Sudan sull’esportazione del petrolio, se questi non si fosse impegnato a mettere fine ai massacri perpetrati nel Darfur.
I rapporti con il Sudan risalgono al 1997 e comprendono anche la vendita di svariate foiture di armamenti, sia ai tempi della guerra civile in Sud Sudan, sia ai giorni nostri.
Ma il petrolio non è tutto. Molte altre sono le materie prime necessarie al miracolo economico cinese. La Cina estrae o importa da 48 paesi africani oro, ferro, cromo, platino, manganese, fosfato, cobalto, bauxite, uranio. E ancora tabacco, legname, cotone. Questi ultimi sono lavorati in patria e ritornano poi sul continente come manufatti.

I contratti globali

In cambio alle concessioni per l’estrazione Pechino fornisce prestiti a tasso agevolato e senza condizioni e offre grandi opere infrastrutturali a basso costo. Sono i cosiddetti «contratti globali» che comprendono aiuto allo sviluppo, annullamento del debito, prestiti, investimenti, tutto in cambio all’accesso alle materie prime.
Con l’Angola il contratto più esorbitante: 4 miliardi di dollari di credito (in due fasi tra il 2004 e il 2006) in cambio di petrolio. Luanda si è impegnata a fornire alle imprese cinesi il 70% del suo greggio. Così Shell e Total hanno perso il rinnovo del permesso di sfruttamento di importanti giacimenti, a beneficio delle compagnie cinesi. Il credito è utilizzato per grandi opere pubbliche, realizzate ancora da imprese cinesi (costruzione di 10 ospedali, 53 scuole, riabilitazione di strade, ponti e di tre ferrovie, la costruzione di un aeroporto, oltre alla foitura di centinaia di camion e trattori).
Intanto i cinesi sono sempre più presenti, anche fisicamente. «Ho constatato che la quasi totalità dei bugigattoli che fanno fotocopie sono gestiti da cinesi (anche in provincia) e molti cantieri edili (ce ne sono tanti, il paese è in forte crescita) a Luanda hanno personale cinese. I più sono occupati nei cantieri di ricostruzione della rete stradale. Questo business è finito per la quasi totalità nelle mani dei cinesi». Racconta un cornoperante di recente rientrato dal paese. «Ci sono molti cinesi in Angola, anche donne. Sono ben visibili, mentre 10 anni fa non si notavano». In Angola i cinesi sono scherzosamente chiamati «cama quente», ovvero «letto caldo», perché dormirebbero in tre, a tuo, nello stesso letto: ovvero uno dorme e due lavorano.
Anche la Nigeria, con le sue riserve nel delta del Niger fa gola al gigante asiatico che ha firmato un contratto di 800 milioni di dollari per una foitura a PertroChina di 30 mila barili di greggio al giorno, l’acquisto di un blocco da parte della Cnooc e la ristrutturazione della raffineria di Kaduna. I miliardi di dollari promessi sono in tutto cinque. In cambio la Cina spinge sul piano diplomatico affinché la Nigeria abbia un posto permanente al Consiglio di sicurezza.
Con lo Zimbabwe, altro regime «scomodo» come il Sudan, la Cina ha firmato per oltre un miliardo di dollari: costruzione di centrali termiche in cambio di diritti di estrazione mineraria.
Ma secondo Howard W. French del New York Times3, Pechino sta recentemente prendendo le distanze da regimi del Sudan e dello Zimbabwe, giudicati a lungo termine controproducenti.

Le miniere del pianeta

Il più recente contratto globale è quello firmato con la Repubblica democratica del Congo e presentato al pubblico lo scorso 17 settembre. Cinque miliardi di dollari, di cui due subito, per il settore minerario. Con questi soldi in prestito la Cina finanzia una serie di cantieri (3.200 Km di ferrovia, 3.400 km di strada, 450 km di strade cittadine, 31 ospedali e 145 dispensari …) e la ristrutturazione e rimodeamento di alcune compagnie congolesi di estrazione mineraria, nonché la prospezione di nuovi siti. Ad esempio la Miba (impresa pubblica di Mbuji-Mayi), possiede giacimenti di diamanti, rame, ferro, nickel, oro e cromo. Se da un lato il presidente Kabila ha così ottenuto i mezzi per la ricostruzione del paese, dall’altra la Cina entra prepotentemente nel settore minerario di uno dei paesi più dotati, a livello mondiale, da questo punto di vista.
Il braccio operativo finanziario della Cina in Africa è la China Exim Bank. È lei che presta alle multinazionali (pubbliche) cinesi i soldi per gli investimenti in terra africana. Si stima che la Cina abbia 1.300 miliardi di dollari di riserva monetaria e per questo non ha problemi a pagare, oltre che a promettere. In effetti ha soppiantato la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale in materia di prestiti. Le condizioni poste sono talmente vantaggiose, da non essere redditizi per chi presta, se non a lungo termine.
«Alla televisione etiopica, quando viene presentata la firma di un contratto, c’è sempre un cinese di mezzo» racconta padre Rasera, missionario della Consolata che da 25 anni vive nel paese. I cinesi sono presenti a livello industriale e stanno rifacendo la strada Mechara – Golelchia. «Pochi sono i rapporti con la popolazione locale. Vivono in campi isolati e si vedono solo uomini» continua. «A livello popolare non sono molto accettati dalla popolazione, mentre hanno una grande protezione da parte del governo». Gli etiopici che lavorano per loro raccontano che nei cantieri, una volta passato il controllore, il cemento armato viene smantellato e il tondino di ferro sostituito con quello di diametro inferiore… Nella regione dell’Ogaden stanno cercando il petrolio. Qui sono stati recentemente uccisi otto cinesi.

Africa, enorme mercato

Il continente africano è anche un immenso mercato di 850 milioni di persone. Non solo per le grosse imprese (statali), ma anche per l’import – export e le piccole medie imprese. Si valutano tra 600 e 800 le aziende cinesi (delle quali un quarto private) installate in Africa, mentre sono circa 150.000 i cinesi che vivono sul continente (tre volte tanto quelli naturalizzati, soprattutto in Africa australe). 
Oltre ai grandi cantieri (strade, ferrovie, aeroporti, stadi, scuole, ecc.) in mano ai costruttori statali, che tengono i prezzi bassi grazie ai «contratti globali», i prodotti realizzati in Cina, senza alcun controllo di qualità, e di marchio (molti sono contraffatti) hanno invaso il continente. I prezzi ridotti di un terzo o un quarto delle stesse merci di fabbricazione locale o di importazione, hanno permesso alla massa di africani a basso reddito di accedere a beni fino a pochi anni fa a loro proibiti. Come il ciclomotore.
Questo fenomeno ha creato anche problemi legati al dumping, in particolare nell’industria tessile, dove oltre 75.000 lavoratori hanno perso il lavoro dal 2002 (Sud Africa, Marocco, Mauritius). Ma anche a quella dei motorini in Burkina.
D’altro lato molte multinazionali cinesi danno ormai lavoro anche agli africani. In Mozambico, ad esempio la più grossa impresa cinese di costruzioni, che realizza opere pubbliche, ha chiesto che il codice del lavoro sia tradotto in mandarino. Il ministro ha dichiarato che una traduzione ufficiale sarà presto disponibile. I cinesi dicono di voler avere una migliore comprensione della legge (attualmente tradotta solo in inglese) per migliorare i rapporti con i lavoratori locali ed evitare così i frequenti scioperi.
Gli scambi commerciali nei due sensi sono saliti da 40 miliardi di dollari nel 2005 a 55,46 nel 2006 (statistiche cinesi), mentre il primo ministro Wen Jiabao ha proposto di portarli a 100 entro il 2010. L’Africa fornisce l’11% delle importazioni della Cina.
Molti iniziano a vedere gli interessi del gigante asiatico nel continente come un’«invasione» o una «nuova colonizzazione». Altri pensano che l’Africa ha tutto da guadagnare. Certo è che Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna vedono con apprensione l’intensificarsi di questi rapporti «tra eguali».

Di Marco Bello

Gli Usa (non) stanno a guardare

Anche gli Usa capiscono l’importanza strategica  del continente e si apprestano a lanciare un’operazione sul piano a loro più consono: quello militare. Così Bush ha annunciato già a fine 2006 l’idea di «Africom», un comando militare statunitense per l’Africa. Si affianca agli altri cinque (Eucom, Northcom, Southcom, Centcom e Pacom) che si dividono il pianeta. Finora il continente africano era «coperto» da tre di questi.
Costruzione di nuove basi (attualmente gli Usa hanno solo una base ufficiale a Djibuti e una stazione radar a Sao Tomé per controllare il «petrolifero» Golfo di Guinea), addestramento truppe africane, cornordinamento attività anti-terrorismo.  Ma anche «condurre operazioni militari allo scopo di respingere aggressioni o di rispondere a crisi» si legge sulla memoria del vice segretario alla difesa,  Teresa Whelan. Ovviamente, «Africom» avrà una forte componente civile e umanitaria.

La scusa è contrastare più efficacemente la penetrazione dei terroristi islamici (Somalia, Sahara, Sahel). Il vero motivo è essere più vicini e proteggere le riserve energetiche degli Usa.  Circa il 20% delle importazioni di greggio degli Stati Uniti provengono infatti dal Golfo di Guinea, e la quota è prevista salire al 35%.

«Africom», che dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) diventare operativa per fine anno, ha già un capo: il generale afro – americano William Ward (58 anni), che si è occupato di addestramento truppe in Algeria, Mali e Mauritania. Non ha invece un paese di accoglienza per il suo quartier generale, che dovrebbe supportare una serie di altre basi sul continente.  Trattative sono in corso con diversi paesi (Nigeria, Etiopia, Kenya, Ghana, Senegal), ma nulla di fatto. Anzi. Il Sud Africa si oppone fermamente a un «comando su territorio africano», ed è seguito dagli altri 16 paesi dell’Africa australe, ma anche l’Algeria.  Solo la Liberia di Ellen Jonson-Sirleaf si è detta favorevole a ospitare «Africom».  A livello internazionale il progetto del Pentagono può creare tensioni.
La Cina potrebbe vederlo come una volontà di controbattere la propria penetrazione del continente.
Il mondo sta diventando troppo piccolo e le riserve dell’Africa allettanti e accessibili.

Ma.B.

Marco Bello




Il ritorno dell’ebola

Malattie dimenticate (13): ebola

La febbre emorragica di ebola è stata segnalata di nuovo nella Repubblica Democratica del Congo, con un’epidemia iniziata prima dell’estate.

Ancora una volta si è fatto vivo, e ha portato paura e morte. Paura, perché i virus che causano le febbri emorragiche, come Ebola e Marburg, portano con loro non solo la preoccupazione della morte, ma anche lo spavento per qualcosa di contagioso, che non si capisce; per la vista di uomini in tute bianche, completamente coperti, con guanti, stivali, maschere, che vengono in casa per vedere malati o per portare via i morti. Morti che non possono essere toccati dai parenti, che vengono seppelliti secondo precise norme per bloccare la diffusione della malattia.

Epidemia dimenticata
L’allarme è scattato in settembre nella Repubblica Democratica del Congo, dove l’epidemia di febbre emorragica da virus Ebola, a quanto sembra più contenuta di quella del simile virus di Marburg di qualche anno fa in Angola, ha seminato preoccupazione e morte. Ma se l’epidemia di Marburg in Angola aveva trovato un po’ di spazio nelle cronache italiane, davvero poca risonanza ha avuto questa nuova comparsa del virus Ebola, dimenticata e relegata al paese lontano.
Non sono noti i numeri precisi delle persone infettate e di quelle che hanno perso la vita a causa del virus, e quindi le dimensioni dell’epidemia attuale. Secondo gli ultimi conteggi di inizio ottobre, dall’inizio di maggio ci sarebbero stati oltre 380 casi sospetti, fra cui 176 morti.
L’aggettivo «sospetti» viene mantenuto, perché solo in una minima percentuale di casi è stato possibile avere la conferma di laboratorio. Il dato numerico è ulteriormente in sospeso perché in questo stesso periodo l’Ebola non è l’unica infezione che circola: è stato infatti trovato un altro germe, la Shigella, responsabile di un’infezione intestinale con dissenteria. Oltre alla Shigella, l’Ong Medici senza frontiere segnala come nella zona vi siano altre malattie con manifestazioni simili a quelle iniziali della febbre di Ebola, come malaria e febbre tifoide.
In ogni caso, all’inizio di ottobre i casi di Ebola confermati dagli esami di laboratorio erano 24 e l’ultima vittima del virus risalirebbe al 22 settembre: un paziente morto nel reparto di isolamento allestito da Medici senza frontiere a Kampungu, un villaggio nella zona più colpita del paese.

La febbre mortale
Il virus responsabile della febbre emorragica di Ebola viene trasmesso dal contatto con materiale infetto, come sangue, vomito, diarrea e così via. Possono dunque essere pericolose per la trasmissione della malattia anche le cerimonie funebri, per il contatto diretto dei parenti con la persona cara morta a causa dell’Ebola.
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) riporta come, dopo un periodo di incubazione che può variare da due giorni a tre settimane, l’infezione si manifesti con febbre, debolezza importante, dolori muscolari, mal di gola, spesso seguiti da vomito, diarrea, manifestazioni sulla pelle, disturbi alla funzione del rene e del fegato e, in alcuni casi, emorragie intee ed estee. Da qui il nome di febbre emorragica.
La malattia è mortale nel 50-90% dei casi. Non vi sono terapie specifiche, se non cure di supporto, per esempio, per la disidratazione; al momento non sono nemmeno disponibili vaccini. I casi in cui si sospetta l’infezione da virus Ebola vengono isolati, per impedire la diffusione del contagio. Nella Repubblica Democratica del Congo, per esempio, Medici senza frontiere ha allestito a Kampungu un centro di isolamento, che prevede tre diverse parti: una dove vi sono i casi da isolare, una dove il personale si veste con le tute che lo isolano e si sveste dopo il contatto con i malati, e una per la disinfestazione.

Primi casi ad aprile
La conferma ufficiale dell’epidemia di febbre emorragica da Ebola nel paese africano è arrivata solo il 10 settembre ma, come riporta Medici senza frontiere, già dalla fine di aprile erano stati segnalati casi di una malattia sospetta. La conferma di laboratorio della presenza del virus Ebola è arrivata dai laboratori di Atlanta negli Stati Uniti e di Fancesville in Gabon.
Oltre all’identificazione dei casi sospetti e delle persone venute in contatto con possibili malati, alle misure di isolamento e all’utilizzo di pratiche sicure nel seppellire i morti, è stato portato avanti un lavoro di informazione sulla popolazione rispetto alla malattia, l’epidemia e come si diffonde il contagio, come riconoscere i primi sintomi e chi avvisare.
Gruppi di persone addette alla comunicazione, giornalisti, utilizzo di trasmissioni radio: grazie a queste ultime, l’Oms stima di avere raggiunto oltre il 60 per cento della popolazione locale. Sono stati svolti anche lavori di informazione con gruppi della società civile, non solo per mettere sull’avviso rispetto ai possibili rischi di trasmissione dell’infezione, ma anche per tranquillizzare, ridurre la paura e il panico nei confronti di questa malattia.

Cauto ottimismo
Con i primi di ottobre sia l’Oms sia Msf, che ha seguito l’epidemia sul posto, hanno riportato segnali positivi sull’andamento dell’epidemia, come una riduzione nel numero di persone nel centro di isolamento di Kampungu, dove nel mese di settembre vi erano stati 32 ricoveri.
Nonostante le prove quanto meno di un rallentamento dell’epidemia di Ebola, viene sottolineata l’importanza di mantenere alta l’attenzione, con l’identificazione e l’isolamento dei casi sospetti. In questo senso, Medici senza frontiere ha segnalato come ci siano nel paese villaggi isolati e difficili da raggiungere, con casi sospetti di questa febbre emorragica. E per dichiarare di avere sotto controllo l’epidemia devono passare 42 giorni dall’isolamento dell’ultimo paziente cui è stata confermata la diagnosi di Ebola, pari a due volte l’intervallo di tempo di possibile incubazione della malattia, prima della comparsa dei sintomi.

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




Conosciuto ma dimenticato

Malattie dimenticate: colera

Il colera continua a mietere vittime dove manca l’accesso all’acqua pulita e ai servizi igienici di base.

I l settimo Obiettivo di sviluppo del millennio, fra quelli stabiliti alle Nazioni Unite nel 2000 e da raggiungere entro il 2015, riguarda l’ambiente. Un obiettivo importante perché comprende problematiche quali l’accesso all’acqua pulita, la possibilità di avere servizi igienici adeguati e fognature, con separazione dell’acqua sporca da quella usata per bere e mangiare.
Ma secondo quanto riportato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e dal Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (Unicef) in un resoconto dello scorso anno, la strada è ancora lunga, vista la necessità di aumentare di un terzo gli sforzi per l’accesso all’acqua pulita e addirittura raddoppiarli sul versante servizi igienici e fognature. Ed è collegato all’acqua contaminata il colera, malattia dimenticata nel momento in cui vengono garantite le norme igieniche, ma che si ripresenta quando tali condizioni di sicurezza vengono a mancare. L’Oms riporta infatti il colera come uno degli indicatori chiave per quanto concee lo sviluppo sociale, una minaccia che svanisce nel momento in cui viene raggiunto un livello igienico minimo.
Nonostante questo, epidemie di colera, dimenticate, continuano a imperversare nei paesi poveri, non solo, sottolinea l’Oms, seminando sofferenza e morte, ma danneggiando anche la struttura economica e sociale delle comunità colpite e ostacolandone lo sviluppo.

Acqua da bere
e dA eliminare
Secondo quanto riportato dal resoconto di Oms e Unicef, supera il miliardo il numero di persone in aree urbane e rurali senza ancora un accesso ad acqua pulita e sarebbero oltre due miliardi e mezzo quelle senza servizi igienici e fognari adeguati.
A fare le spese di questa situazione sono soprattutto i bambini: nel solo 2005 ogni giorno 4.500 piccoli con meno di 5 anni sono morti per cause collegate all’acqua non sicura e a norme igieniche inadeguate, per un totale di 1,6 milioni. In particolare rappresentano una minaccia le malattie con diarrea e quelle parassitarie, con un rischio aumentato di epidemie di colera, tifo e dissenteria.
E proprio fra i bambini, nell’ambito di una situazione sanitaria sempre più precaria, sono stati segnalati a giugno i primi casi sospetti di colera in Iraq, dove veniva calcolato che meno di un piccolo su tre (il 30%) avesse l’accesso ad acqua sicura.

Il batterio e la tossina
Il responsabile del colera, malattia infettiva intestinale, è un batterio dal nome Vibrio cholerae, che arriva all’uomo attraverso l’acqua o il cibo contaminato. Solo raramente vi può essere una trasmissione diretta fra le persone.
Le epidemie di grandi dimensioni con inizio improvviso, tuttavia, sono in genere collegate all’utilizzo di acqua contaminata. La diarrea acquosa è causata da una tossina prodotta dal batterio e può portare a una perdita importante di liquidi dell’organismo, con disidratazione grave e morte se il malato non viene curato. Insieme con la diarrea vi può essere anche vomito.
Tuttavia, la maggior parte delle persone infettate non presenta la malattia, nonostante elimini con le feci il batterio, e lo diffonda quindi nell’ambiente, per una o due settimane. Inoltre, nel caso in cui vi sia la malattia, si ha il quadro clinico di colera con disidratazione moderata o grave in un paziente su dieci circa, mentre negli altri il quadro è meno importante e può essere sovrapponibile ad altri tipi di diarrea acuta.

rischio alto se impreparati
Il numero di morti causati dal Vibrio cholerae è molto differente a seconda degli interventi che vengono messi in atto e della loro tempestività. Si tratta infatti di una condizione che se si verifica in una zona pronta a rispondere in modo adeguato, con reidratazione del malato e se necessario con farmaci, i casi mortali sono meno di uno su 100; quando però l’infezione intestinale si diffonde in comunità non preparate e viene a mancare il trattamento o l’intervento rapido, il numero di morti sale, arrivando anche al 50% dei casi, uno su due.
Accanto poi ai provvedimenti nei confronti delle persone malate, vi sono le misure igienico-sanitarie, personali e della comunità, e di utilizzo di acqua e cibo sicuri per bloccare la diffusione del batterio e dell’infezione.

Decine di migliaia di casi
Il colera è diffuso e rappresenta un rischio costante di malattia, e morte, in diversi paesi. Vi sono anche epidemie isolate, favorite da tutte quelle condizioni che mettono a rischio l’accesso ad acqua e cibo sicuri e le condizioni igieniche di base, per esempio in zone con sovraffollamento o nei campi profughi. In queste situazioni il rischio di morte per colera è alto: l’Organizzazione mondiale della sanità riporta come nel 1994, nel campo rifugiati a Goma (Congo) durante la crisi rwandese, il Vibrio cholerae in un solo mese sia stato responsabile di 48 mila casi e 23.800 decessi.
Nonostante il suo possibile carico di morti evitabili, il colera viene dimenticato, confinato nelle periferie povere delle città, fra i profughi, nelle zone dove l’acqua pulita non è scontata. Alla fine di gennaio dello scorso anno, per esempio, sono stati segnalati i primi casi di colera nel Sud del Sudan: in meno di un mese le infezioni sarebbero state oltre 3.700, con decine di morti. Il numero complessivo di casi di diarrea acquosa nella prima metà del 2006 (fra il 28 gennaio e il 14 giugno) avrebbe superato i 16 mila, con 476 morti in otto su dieci stati del Sud Sudan.
Sempre in Africa, l’infezione avrebbe colpito in Angola oltre 40 mila persone, uccidendone migliaia. Comparso a Luanda a metà febbraio, anche qui come in Sud Sudan collegato a consumo di acqua non sicura, il colera si sarebbe poi diffuso a 14 delle 18 province, arrivando a una media di 25 morti ogni giorno. La popolazione si è trovata impreparata di fronte a una malattia per la quale da diversi anni non venivano segnalate epidemie nel paese. E quella del 2006 è stata definita da Richard Veerman, capo missione nel paese dell’organizzazione non governativa Medici senza frontiere, come «una delle peggiori mai viste in Angola».
Secondo quanto riportato dall’Organizzazione mondiale della sanità, il 21 giugno, quando la diffusione dell’epidemia era in calo (seppur con ancora 125 casi segnalati ogni giorno), il totale delle infezioni riportate era arrivato a 46.758 casi, con 1.893 morti.
Ma lo scorso anno il colera in Africa ha imperversato anche in altre zone del continente: nel Nord del Sudan (con oltre 6.200 casi di infezione e circa 200 morti in quattro mesi) e nel Darfur, o ancora in Liberia, con la segnalazione di Medici senza frontiere ad agosto, di un aumento improvviso di casi nella capitale, in un paese in cui la malattia si presenta regolarmente con epidemie nella stagione delle piogge.

Insegnare ai bambini
Nel caso dell’epidemia in Angola, secondo quanto riportato da Medici senza frontiere, la conoscenza da parte delle persone di quello che era possibile fare per proteggersi dall’infezione era limitata, come pure nel caso dell’epidemia nel Sud Sudan, dove il colera non è solitamente diffuso.
Accanto a sovraffollamento, condizioni igieniche precarie e così via, assumerebbe un ruolo anche la conoscenza delle popolazioni dell’infezione, di come si trasmette, di cosa fare per bloccarne la diffusione. Sulla mancata conoscenza delle norme igieniche più semplici e le possibili conseguenze sulla diffusione di malattie hanno pensato di lavorare, per esempio, due cooperanti dell’organizzazione non governativa Coopi, proponendo un percorso ludico e nello stesso tempo istruttivo. Con un progetto di educazione sanitaria, indirizzata ai bambini in un quartiere povero di Kampala, capitale dell’Uganda, hanno cercato di renderli consapevoli dell’importanza delle condizioni igieniche e sanitarie nella vita di tutti i giorni, insegnando per esempio a non buttare la spazzatura nei canali di drenaggio sotto casa. Un gioco con tanto di pedine, percorso che rappresenta la città, dado da tirare per muoversi, carte con domande su salute, igiene e ambiente, a cui rispondere e su cui discutere insieme, imparando mentre si divertono.

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




Cari missionari

Diamanti sporchi

Spett.le Redazione,
innanzitutto complimenti per l’ottima rivista, siete davvero un faro in mezzo alla tempesta! Leggervi mi fa sempre venire voglia di «combattere»!
Vorrei segnalarvi questo: su «Venti4uattro», rivista in allegato al Sole 24 Ore di sabato 14 aprile, era riportato un articolo nel quale una nota società, che opera nel commercio e nella lavorazione dei diamanti, veniva elogiata dai giornalisti in quanto, grazie al suo operato, la regione in cui sorge la miniera prospera, le donne trovano lavoro, vengono costruite scuole, gli animali sono protetti, ecc., ecc…
Onestamente la cosa mi suona un po’ come retorica propagandista, forse in contrapposizione ai recenti scandali che il trattato di Kimberley ha tentato di arginare. Vi allego pertanto copia dell’articolo suddetto, per sottoporlo alla vostra competenza che senz’altro è ben più meritoria della mia! Se lo riterrete opportuno, potreste inserire un piccolo dibattito nella rivista…!
Cordiali saluti e… continuate così!
Carlo Occhiena
Genova

La joint venture tra Botswana, dove si trova la miniera citata, e De Beers, la compagnia che vi sfrutta tre miniere diamantifere, viene presentata come modello di cooperazione per lo sviluppo del paese. Speriamo che sia così. Nel passato, però, la suddetta compagnia ha fatto affari con i «diamanti insanguinati», sfruttando e alimentando la guerra in vari paesi africani (Angola, Congo-Zaire, Sierra Leone…). Che «il Kimberley Process abbia azzerato la circolazione dei cosiddetti blood diamonds», come afferma il giornalista, è da dimostrare. Se ne può discutere.

Diamanti… veri

Gentile Direttore,
da quando ho capito che quello di cui ci chiederà conto il Signore sarà cosa avremo fatto per il prossimo sofferente, il mio impegno è rivolto soprattutto verso i missionari, vera punta di diamante della chiesa, che testimoniano il Signore con la parola e con l’esempio. Devo dire che il suo periodico è fra i migliori, se non il migliore, di quelli missionari per la ricchezza di argomenti, la chiarezza e indipendenza nella denuncia dei misfatti e ingiustizie contro i poveri nel mondo.
Mi sorprende molto il fatto che qualche volta ci siano lettori che, solo perché un articolo denuncia la sopraffazione dei potenti e dei ricchi sulla povera gente, tacciano l’autore come comunista, cattocomunista, prete compagno, ecc.
Mi chiedo: «Ma non sono i cristiani quelli che si devono occupare e combattere per primi per la giustizia sociale di aiutare i bisognosi?».
Caro direttore, vada avanti tranquillo, Missioni Consolata dà forza ai coraggiosi e scuote le coscienze degli indifferenti.
Buon lavoro. Con stima.
Dante Bersetti
Montemarciano (AN)

Grazie per la stima e incoraggiamenti! Andremo avanti come sempre, senza guardare né a «destra» né a «sinistra».

Legge sull’amianto

Gentile Redazione,
ho letto e apprezzato l’articolo del dott. Roberto Topino e della dott.sa Rosanna Novara nel numero di Maggio 2007 dal titolo: «Quelle infide fibre d’amianto». Nell’articolo, a proposito delle coperture in eternit, è scritto che,    «…. quando i danni del materiale sono evidenti, la legge prevede la bonifica e la sostituzione delle coperture…». Sapreste indicarmi nello specifico quale legge?
Colgo l’occasione per fare i miei complimenti a tutta la redazione e augurarvi un buon proseguimento di lavoro.
Giuseppe D’Amico
Via e-mail

Risponde il dott. Topino: «Si tratta del Decreto ministeriale 06/09/1994. Normative e metodologie tecniche di applicazione dell’art. 6, comma 3, e dell’art. 12, comma 2, della legge 27 marzo 1992, n. 257, relativa alla cessazione dell’impiego dell’amianto. La legge è molto dettagliata e precisa, purtroppo raramente viene applicata in modo corretto». L’intero testo del «Decreto ministeriale del 06/09/1994» è reperibile su internet.

Uno solo è il maestro

Cari missionari,
anche se non ne hanno bisogno, desidero ugualmente esprimere al dott. Topino e alla dott.sa Novara il mio apprezzamento per il loro dossier «Tira proprio una brutta aria» (M.C. n.2/2007) e la mia solidarietà, dopo le aspre critiche, dall’avvocato di Palermo (cf. M.C. n.4/2007 p.7).
A mio modo di vedere, il chiamarsi Veronesi, Rossi, Bianchi o Topino non dice nulla sul valore di un professionista della sanità e sulla capacità di contribuire al miglioramento delle condizioni di vita di un individuo, di una città, di una nazione. A fare la differenza non sono i cognomi, numero di libri e articoli pubblicati e, men che meno, quello delle apparizioni televisive, ma le azioni sul campo, i comportamenti quotidiani, la fedeltà al codice deontologico e agli impegni che si sono presi davanti a Dio e alla collettività.
In particolare, chi è medico dovrebbe cercare di mantenersi il più possibile fedele al Giuramento di Ippocrate e, di conseguenza, anche a quel passo che dice: «A chiunque mi chiederà un veleno glielo rifiuterò, come pure mi guarderò dal consigliarglielo. Non darò a nessuna donna dei farmaci antifecondativi o abortivi».
Ora, se il Veronesi a cui fa riferimento l’avv. Cuccia è il professor Umberto Veronesi, luminare di fama internazionale, non mi pare che, almeno per ciò che riguarda aborto e contraccezione, la sua fedeltà al Giuramento di Ippocrate sia il non plus ultra. Al contrario, innumerevoli sono state le volte che è intervenuto per esprimere la sua posizione favorevole all’interruzione volontaria della gravidanza, all’uso delle pillole abortive (come la devastante RU 486, prodotta, guarda caso, da quella stessa Roussel Uclaf che, durante la II Guerra mondiale, metteva a disposizione dei nazisti le sostanze tossiche da impiegare nelle camere a gas, che causarono la morte di centinaia di migliaia di innocenti…), favorevole alla sperimentazione con cellule staminali ricavate da embrioni umani appositamente uccisi.
Ora, se c’è la libertà, per chi porta cognomi così altisonanti, di esprimere queste convinzioni, immagino ci sia anche quella di dire che per un cattolico che vuol restare fedele a Cristo, al vangelo, alla legge naturale e al magistero della chiesa, un uomo come il pur rispettabilissimo prof. Veronesi non può costituire un punto di riferimento affidabile.
Quindi, se il prof. Veronesi non possiamo considerarlo un buon maestro per ciò che riguarda la tutela della vita nascente, se non ci piacciono le sue posizioni in materia di eutanasia, perché dovremmo considerarlo infallibile quando si pronuncia su altri temi, quali le polveri sottili e i cambiamenti climatici?
Per me, Veronesi (potrei dire anche Zichichi, Dulbecco, Levi Montalcini, Rubbia) è una persona come tante altre, che ora dice cose giuste, ora meno giuste. È allo Spirito Santo che dobbiamo affidarci per esercitare la difficile, ma irrinunciabile, arte del discernimento. Solo lo Spirito Santo può condurci alla verità tutta intera.
Domenico Di Roberto Ancona

Diciamo NO … ai nuovi Claudio e nuovi Torlonia

Dopo aver letto le affermazioni dell’avvocato palermitano sugli anandroecologisti che, secondo lui, «se ci fossero stati al tempo dei romani non avremmo il Colosseo e l’acquedotto», desidero fare alcuni rilievi.
1° Gli ecologisti non hanno mai avuto nulla in contrario agli acquedotti; anzi, sono in prima linea nel denunciare le carenze delle reti idriche (abbiamo acquedotti che perdono fino al 70% dell’acqua) e nel chiedere che i fondi per le grandi opere pubbliche vengano innanzitutto impiegati per garantire un’efficiente distribuzione dell’acqua potabile.
2° Se è vero che gli acquedotti costruiti dai romani godono dell’ammirazione universale, è altrettanto vero che non tutte le opere idrauliche da essi realizzate furono cose buone e giuste. Mi riferisco ad esempio agli sciagurati interventi sul Fucino, le cui disgrazie, come ci racconta Tacito nei suoi Annales, iniziarono proprio sotto gli imperatori romani, in particolare sotto Claudio. Il disastro fu poi completato nella seconda metà del xix secolo dal banchiere Alessandro Torlonia.
Per molto tempo si è creduto che il prosciugamento del Fucino (per estensione era il terzo lago italiano) fosse una cosa oltremodo necessaria; ricordo benissimo gli anni in cui i testi scolastici tessevano le lodi del principe Torlonia e degli uomini che lavorarono per trasformare la grande conca in una zona agricola di pregio, dopo averla liberata dalle zanzare, dalla malaria, ecc… Poi, uno studio più attento degli scrittori classici e l’evoluzione di una coscienza civile, meno succube dei miti del passato, hanno aiutato a capire che gli interventi sul Fucino furono un gravissimo errore, perché costarono la perdita di un patrimonio idrico, biologico e naturalistico di incalcolabile valore. Tra l’altro, è falso che le acque del povero lago fossero sozze e malsane. Virgilio, per esempio, parla di «vitrea unda» (onda cristallina) del Fucino (Eneide vii,759) e i curatori del Dizionario enciclopedico italiano assicurano che, prima di essere strapazzato dagli uomini, il Fucino «non era affatto un lago malarico». Esondazioni, febbri e altri problemi legati alla presenza del Lago Fucino erano solo conseguenza degli abusi patiti dal territorio nel corso dei secoli.
3° Il Colosseo non è solo una grande opera architettonica di indiscutibile originalità. È anche il luogo dove migliaia di persone venivano barbaramente uccise o fatte uccidere dalle belve (che a loro volta morivano tra atroci sofferenze per soddisfare gli insaziabili capricci dei potenti di Roma), perché si rifiutavano di tributare agli imperatori quell’adorazione che credevano di dover riservare solo al Dio di Gesù Cristo. Se il loro martirio ci ha insegnato qualcosa, cerchiamo anche noi di dare sempre a Dio quel che è di Dio, negando ai modei Cesari quel che non è e non potrà mai essere dei Cesari. E, quando vediamo l’immagine del Colosseo impressa sul retro della monetina da 0.05 euro, ricordiamoci che si tratta pur sempre di opere di uomo e che Dio sa fare di meglio, di molto meglio.

Pensiamo a tutte le stragi inutili di uomini e animali che provochiamo in nome delle grandi opere pubbliche, dello sviluppo, della ricerca scientifica, ma anche in nome della sicurezza, lotta al terrorismo e difesa della nostra civiltà.
Ristabiliamo rapporti corretti con il mondo naturale e con i nostri simili, vicini e lontani. Diciamo NO ai nuovi Claudio e nuovi Torlonia, che pretendono di trattare laghi, fiumi, montagne, foreste, abissi oceanici, spazi aerei… come se fossero loro proprietà privata.
Francesco Rondina
Fano (PU)




Piccoli uomini, grandi inquietudini

Pigmei: la difficile via dell’integrazione

I pigmei sono stati tenuti per secoli in stato di emarginazione e servaggio dalle popolazioni bantu. Negli ultimi decenni è cominciato il loro inserimento nella società congolese, grazie anche a organizzazioni non governative (ong) locali. Un processo lento, che richiede il riconoscimento della cultura e maggiore rispetto dei diritti umani di più abitanti delle foreste equatoriali africane.

Goma, estremo est della Repubblica Democratica del Congo, al confine con il Rwanda. Il nome della città evoca disastri, dalle ondate di profughi in fuga dal genocidio rwandese alla terribile eruzione del vulcano Niyragongo, che nel 2002 rase al suolo il centro abitato. I suoi segni sono tutt’ora visibili nello spesso strato di lava nera che ricopre tutto e su cui la gente ha ricostruito le proprie povere abitazioni.
Difficile fare un elenco delle priorità, in questo angolo di Congo: le numerose ong si occupano di povertà, istruzione, sanità, recupero delle vittime di guerra. Passa così in secondo piano un’altra realtà, di cui pochi si interessano: la situazione delle popolazioni pigmee, poveri tra i poveri e spesso discriminati dalle popolazioni bantu.
Esistono tuttavia alcune piccole ong locali che tentano interventi in favore dei più antichi abitanti di questa parte d’Africa: attività gestite da congolesi bantu che cercano di contrastare la mentalità dominante che emargina i pigmei. Certo, mancano i mezzi, ma soprattutto a volte manca una reale conoscenza della cultura pigmea. Con il rischio di fare danni, pur con le migliori intenzioni.
la Uefa
I ncontriamo l’associazione Union pour l’Emancipation de la Femme Autoctone (Uefa) nella propria sede, una piccolissima stanza in un edificio sull’unica strada asfaltata di Goma. Il personale si mostra un po’ titubante, ma qualcuno accetta di raccontarci delle loro attività.
Le parole della segretaria (che non vuole darci il nome) sono molto significative e rivelano il loro tipo di approccio: «Lavoriamo in sei luoghi nei dintorni di Goma. Il nostro obiettivo principale è l’integrazione: quella pigmea è una popolazione miserabile, che vive di elemosina. Non vogliono più fare la vita nomade, quindi insegniamo loro l’agricoltura e spieghiamo come lavorare con i non pigmei. Abbiamo assistenti sociali sul terreno e ci adoperiamo anche per le donne vittime di violenza, che accompagniamo al centro più vicino di salute».
La Uefa sopravvive con finanziamenti dal Pnud (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo) per i progetti sull’agricoltura e dall’Irc (Italian Resuscitation Council) per la parte medica. Con questi fondi, foiscono alle donne violate anche un aiuto economico, comprando loro maiali e vacche, in modo che possano avviare un’attività. La sede principale dell’ong è nella città di Bukavu, più a sud. A Goma le loro attività sono iniziate tre anni fa, dopo l’eruzione.
Tanta buona volontà e spesso anche con buoni esiti, ma la mentalità di fondo non si discosta troppo dalla cultura generale. Prosegue infatti la donna: «Non è facile lavorare con i pigmei, sono primitivi. Ora che vivono coi non pigmei, cominciano a integrarsi, ma non vogliono studiare. Grazie al lavoro di alcuni educatori popolari che si occupano di alfabetizzazione degli adulti, cerchiamo di far loro capire che l’istruzione è importante».
E conclude notando che i pigmei cominciano a perdere la loro cultura tradizionale, perché non possono più mantenere il loro stile di vita, basato sulla caccia e la raccolta dei frutti. Ad esempio non possono più entrare nel parco nazionale del Virunga: troppo alti i rischi legati all’insicurezza, come dimostrano i pigmei sfollati presso il Lago Verde. «Lo stato ha da tempo deciso che non possono più vivere come animali: sono persone e devono vivere come gli altri» conclude la donna.
Il Cidopy
Sulla strada che attraversa Goma da nord a sud sorge la sede del Centre d’information et de documentation pygmees (Cidopy), un’altra ong locale. Qui l’atteggiamento è diverso. Ci spiega Achille Biffumbu, il responsabile: «Collaboriamo con una fondazione olandese, che dal 1989 lavora coi pigmei della regione settentrionale dell’Ituri: con la guerra loro sono stati obbligati a sospendere le loro attività dirette e hanno preso contatti con noi. Qui a Goma lavoriamo dal 2005. Statistiche sui pigmei non ce ne sono; esistono delle stime che parlano di 15 mila pigmei qui nel Kivu e 60 mila in Ituri. Abbiamo cominciato il nostro lavoro dalla salute, dalla scolarizzazione dei bambini e da attività agricole; ma incontravamo molte difficoltà. È così che siamo arrivati a comprendere che la cultura pigmea si sta perdendo non per il contatto con i bantu, ma per il modo che si ha di lavorare con loro».
Gli esempi non mancano: più a nord un missionario ha costruito piccole case in tolla per loro; ma, dietro la casa, i pigmei costruiscono ugualmente le loro capanne. O ancora: i pigmei sfollati presso il Lago Verde hanno chiesto legno per costruire delle case, ma poi l’hanno venduto.
«È difficile capire – prosegue Achille -. Per questo preferiamo lavorare con loro, adattandoci alla loro cultura e facendo un’analisi antropologica dei loro bisogni».
Lo stesso vale anche per il lavoro coi bambini, che hanno un modo diverso di studiare: quando è il periodo della caccia o della raccolta del miele, vanno in foresta con la famiglia. Allora, bisogna adattare il calendario scolastico ai loro bisogni.
In questo il Cidopy si è avvalso di un programma di scambio con altre ong che lavorano coi pigmei in Camerun e l’anno scorso hanno organizzato una sessione di aggioamento per gli insegnanti delle scuole in cui ci sono bimbi pigmei. Nel Kivu la composizione delle classi è mista: il 25% dei bambini sono bantu e molti non sono facilmente distinguibili, segno di una commistione tra bantu e pigmei.
«Il problema fondamentale di cui ci siamo resi conto – prosegue Achille – è che molta gente lavora con loro senza conoscee la cultura. Prendiamo il settore sanitario: i pigmei hanno difficoltà a frequentare i centri di salute, per vari motivi: se non li capiamo, pensiamo che siano refrattari. Se dite a un pigmeo di andare all’ospedale, ci andrà tutto il villaggio. Un pigmeo non passa la notte in un letto. Allora, noi costruiamo una casa in tolla o in foglie di fianco all’ospedale, dove possono trascorrere la notte facendo il fuoco. Abbiamo pensato di creare piccole équipes mobili per la sensibilizzazione sanitaria e da alcuni mesi è in funzione una clinica mobile».
Attualmente non esistono direttive politiche; ma durante la dittatura Mobutu ne aveva deciso l’integrazione forzata: tutti i pigmei dovevano lasciare le foreste e vivere ai margini della strada. Dunque, la mentalità che ancora esiste nelle popolazioni bantu che vedono i pigmei come «primitivi» da «normalizzare» è un’eredità di Mobutu.
Oggi che la situazione politica del paese è cambiata e si sono finalmente avute le prime elezioni multipartitiche dal 1960, qualcosa è mutato anche per i pigmei. In occasione della giornata mondiale delle popolazioni autoctone, è stata resa pubblica una loro dichiarazione nei confronti del governo: sono senza terra e non protetti dalla legge; vengono cacciati perché nessuno se ne occupa.
In un paese come il Congo, con tante emergenze, non vengono considerati una priorità. Così il Cidopy, grazie a un finanziamento olandese, ha steso un progetto per ottenere il riconoscimento formale delle terre dei pigmei e ha approntato l’accompagnamento giuridico necessario.
Quanto alla politica, Achille spiega: «Esistono rappresentanti pigmei, ma c’è un problema di leadership tra di loro. In Rwanda i pigmei sono ben organizzati; in Burundi una di loro, Liberate Nichayenzi, è diventata deputata e si sta dimostrando in gamba. Qui invece ci sono molti opportunisti, sia bantu che pigmei, che cercano di trarre profitto personale da una posizione di leadership. Resta aperta la questione di come trovare rappresentanti validi: non abbiamo ancora una risposta, ma ci stiamo lavorando, perché sappiamo quanto sia importante dar loro voce nelle istituzioni democratiche che stanno nascendo». 

Di Giusy Baioni

Giusy Baioni