Radio Incontro

Storia di una radio per la riconciliazione

Nata come radio per la riconciliazione, ha oggi obiettivi precisi: sorvegliare l’azione di governo; lottare contro la povertà e aprirsi verso la regione. Ma anche cercare di dare alla popolazione gli strumenti per sapersi autogestire.

Radio Isanganiro è una radio associativa burundese. Ascoltata in tutto il paese e in parte nei vicini Congo (Rdc) e Rwanda, è stata creata nel 2002 da un gruppo di giornalisti formati da una Ong statunitense, Serach for common ground, attiva nell’ambito della risoluzione dei conflitti attraverso i media. «Eravamo in un contesto di guerra civile aperta, c’erano movimenti ribelli che combattevano il governo, ma anche sfollati interni e molti rifugiati fuori dal paese, soprattutto in Tanzania». Chi parla è Vincent Nkeshimana, giovane e dinamico direttore della radio. I giornalisti per riflesso, pensarono di poter essere più efficaci creando una radio per il dialogo. «Isanganiro, vuol dire incrocio in kirundi, la lingua di tutti i burundesi, punto d’incontro. Tutti i programmi erano orientati verso la creazione di spazi di scambio tra la diaspora e coloro che erano nel paese, tra i rifugiati e quelli che stavano all’interno. E c’erano anche degli scambi di produzioni con la Radio Kwizera in Tanzania, allo scopo di veicolare l’immagine di ricostruzione della nazione, ma anche di permettere alla gente di esprimersi sulla loro situazione» ricorda Vincent.
«Siamo andati oltre e abbiamo teso il microfono ai ribelli, cosa che era proibita. Ma questo ha causato minacce, chiusura della radio e l’arresto di alcuni giornalisti. Poi, il governo si rese conto che quello che era stato detto alla radio non era così negativo come pensava e avrebbe potuto aiutare ad avvicinare le posizioni dei belligeranti».

Media per la pace
Una radio per far incontrare la gente, per riconciliare e chiudere le ferite aperte dai massacri. Al contrario di quello che era stata Radio mille colline in Rwanda nel 1994 e altri media in Costa d’Avorio dopo l’inizio della crisi del 2002, che lavorarono per dividere la nazione.
Radio Isanganiro ha iniziato a trasmettere durante la guerra, una situazione in cui l’informazione è particolarmente sotto controllo. «Ora si può dire che siamo in un sistema democratico, i diritti umani sono relativamente rispettati, ma le sfide restano intere. A parte il fatto che non c’è guerra aperta, non ci sono grandi differenze con i primi anni: il problema della fame è sempre presente, il deficit di educazione e di accesso alla salute sono sempre attuali. Anche la libertà di espressione non è totalmente garantita. Tutti questi sono cantieri sui quali la radio deve continuare a lavorare e facciamo tutto per accompagnare l’azione di sviluppo del nostro paese».
Il Burundi sta affrontando un cammino difficile, dove l’incontro deve passare anche attraverso percorsi di giustizia. Radio Isanganiro vuole risvegliare la coscienza del cittadino e mettere chi gestisce davanti alle sue responsabilità, sorvegliare l’azione di governo e denunciando i malfunzionamenti: «Vogliamo appoggiare l’attuazione della giustizia, perché il Burundi ha conosciuto un passato drammatico, e forse la comunicazione su queste piaghe può fare emergere ancora violenza. Siamo per la Commissione verità e riconciliazione, ma occorre che i burundesi siano pronti a “consumare” queste verità».

Elezioni «difficili»
Ma se parliamo di politica, in particolare di elezioni (vedi box), il direttore si rivela molto diplomatico.
«Il processo elettorale è stato influenzato da una escalation verbale violenta e a volte da violenze vere, ma globalmente le elezioni si sono svolte bene. Il problema è che un gruppo di partiti politici si è ritirato, e oggi non riusciamo a valutare tutti gli aspetti negativi di questo fatto. Ci sono rischi di un “ritorno indietro”. Lo dico basandomi sui casi di assassinii che sono ormai regolari. Non c’è un giorno in cui non si parla di furti, uccisioni o attacchi da parte di gente che si dice affiliata ai movimenti che hanno disertato le elezioni. Dall’altra parte c’è un potere che ha vinto tutto con le elezioni e non vuole cedere di nulla, è legittimamente installato al potere per cinque anni. È una situazione di non dialogo, nella quale l’avvenire non è senza preoccupazioni».
Nel momento in cui scriviamo non ci sono  rivendicazioni chiare del movimento violento che si è creato e non si conoscono i legami di questo con i partiti politici che hanno boicottato le elezioni.
«Se ci deve essere dialogo, occorre ancora capire su cosa negoziare e perché».

Una lingua, più lingue
In Burundi la lingua kirundi è parlata da tutti e unisce tutti. Viene parlato anche il kiswahili, come lingua commerciale, ma non è originaria della zona.
La radio trasmette il 70% dei programmi in kirundi e altri in francese e in kiswahili. Ora si sta attrezzando anche per emissioni in inglese, in quanto il paese fa parte della Comunità degli stati dell’Africa dell’Est (East African Community, Eac), paesi anglofoni. Isanganiro trasmette anche in diretta sul web (www.isanganiro.org) e quindi può essere ascoltata dai numerosi burundesi della diaspora.

Libertà di stampa
Il direttore è positivo sulla libertà di espressione e di stampa nel suo paese. Lo dice in un momento in cui Jean-Claude Kavumbagu, direttore dell’agenzia NetPress, è in carcere da metà luglio per aver messo in dubbio le capacità delle forze di sicurezza del paese di difendere i cittadini da attacchi terroristi. Accusato di «tradimento», capo di accusa applicabile, secondo diritto burundese, solo durante lo stato di guerra, è considerato da Amnesty Inteational un detenuto d’opinione. Allo stesso tempo anche un giornalista della Radio pubblica africana è dietro le sbarre. «Ora abbiamo una relativa libertà di espressione, ma questo ci mette in difficoltà rispetto a certi agenti del potere. Loro, penso, hanno un’interpretazione diversa di quello che deve essere l’obiettivo del giornalismo». E fa un confronto con i paesi limitrofi: «Rispetto al Rwanda e alla Repubblica democratica del Congo, il Burundi è un paradiso in termini di libertà di espressione. Ma il problema è l’influenza che i nostri dirigenti subiscono: credono che i metodi dei vicini siano i migliori e quindi sono tentati di fare come loro».
La Radio Isanganiro collabora con le tre radio comunitarie presenti nel paese. Queste sono molto radicate con il loro territorio (sono una a Ngozi, Nord, una a Gitega, centro e la terza a Makamba, nel Sud). Sviluppano programmi comuni nei quali Isanganiro beneficia del giornalismo di prossimità, mentre le radio comunitarie ricevono formazione e competenze per la produzione e gestione dell’informazione.
Oggi le maggiori difficoltà sono economiche. «È dura mantenersi finanziariamente, perché i costi in Burundi sono elevati, e se non ci fossero stati aiuti estei di finanziatori, le radio private qui non sarebbero mai nate. Il mercato della pubblicità è molto ridotto: nel migliore dei casi, non copre il 20-25% del budget. Se non ci sono aiuti estei diventa impossibile mandare in giro le équipe».
Uno studio dell’istituto Panos di Parigi del 2008, confermato nel 2010, riporta la Radio Isanganiro come la seconda più ascoltata in Burundi, subito dopo la radio pubblica nazionale, che ha dalla sua tutte le infrastrutture nel paese.
«Noi ci siamo lanciati in una riflessione per un piano manageriale che ci permetta, progressivamente  una raccolta di fondi che possa coprire il funzionamento. Abbiamo un piano strategico e uno operativo».

Marco Bello

Per approfondimenti su Radio associative e comunitarie nel mondo si veda dossier MC settembre 2009.

Marco Bello




Pelle (s)fortunata


La loro condizione è estremamente allarmante: gli albini, donne e uomini, bambine e bambini, sequestrati e fatti a pezzi per fare amuleti con la loro pelle e altri organi; crimini causati da credenze tribali ed enormi interessi economici. Ma qualcosa sta cambiando: un albino è stato eletto membro del parlamento tanzaniano nel partito di opposizione.

1-appena-nato-avvolto-nella-kangha-mbagala (Romina Remigio)
1-appena-nato-avvolto-nella-kangha-mbagala (Romina Remigio)

Fatti a pezzi, ammazzati, mutilati, scuoiati… solo per fae dei portafortuna. Questo è quello che accade quotidianamente da anni agli albini in Tanzania.
Le foto del mio reportage «I AM ALBINO» (che ha vinto il terzo premio al 38° Portfolio Internazionale Ateum) mostrano la vita degli albini nella loro cruda realtà, dalla paura di essere ammazzati ai tumori che li colpiscono; ma sono anche un inno alla forza e al coraggio che essi hanno nell’affrontare la vita. Lavorano, amano, si sposano, fanno figli che curano amorevolmente. In Tanzania c’è addirittura una squadra di calcio formata da albini; hanno un’associazione nazionale che si occupa di sensibilizzare la popolazione sulle loro condizioni, ma soprattutto sul fatto che essi sono africani, tanzaniani e vogliono vivere la loro vita liberamente come tutti i loro fratelli.
Ma non fanno notizia
Mentre l’informazione nazionale, europea, internazionale è impegnata a sgomitare per proporci ogni giorno un nuovo scornop, in Tanzania degli esseri umani sono ammazzati brutalmente per riti magici. Come può l’informazione mondiale chiudere gli occhi davanti a situazioni del genere, e turarsi le orecchie di fronte a chi chiede aiuto e a quei giornalisti locali che denunciano tale mattanza? Come giornalista, non posso che provare vergogna quando i grandi direttori dei nostri giornali, davanti alla denuncia di una situazione aberrante e allo sforzo di sensibilizzare l’opinione pubblica su ciò che accade ancora nel 2011 in una parte del mondo, mi rispondono che il mio reportage è ben fatto fotograficamente, ma non fa notizia!
L’Africa, come da anni viene ribadito, non fa notizia. I massacri di albini, grandi e piccoli, la pelle dei quali e altre parti del corpo vengono utilizzate per realizzare amuleti, gli enormi introiti economici dietro tali delitti, per non parlare di casi limitati a riti magici-tribali, non fanno notizia!
Mi vergogno di svegliarmi in un paese dove il giornalismo sociale è ormai così marginale.
Non dimenticherò mai le parole di Enzo Biagi: qualche mese prima che morisse, ebbi la fortuna di incontrarlo per la mia tesi di laurea; prima ancora di rivolgergli una domanda, mi chiese cosa volessi fare da grande. Orgogliosa e decisa, risposi: «La foto-giornalista! Voglio raccontare cosa accade nel mondo dalla prospettiva di chi non ha voce». E lui, dopo aver osservato la mia convinzione, mi disse: «Sarà difficile. Sarà il mestiere più duro del mondo. Non potrai mai farlo per guadagnare, ma solo per passione! Deve essere una passione! Io ho sempre detto che questo lavoro lo farei anche gratis».

Il primo parlamentare albino del Tanzania: Salum Khalfan Barwany - AFP PHOTO/Yasuyoshi CHIBA
Il primo parlamentare albino del Tanzania: Salum Khalfan Barwany – AFP PHOTO/Yasuyoshi CHIBA

Primo albino in parlamento

Era il 2007 quando sentii parlare per la prima volta che due albini in un villaggio erano stati trovati ammazzati, dopo essere stati scuoiati vivi. Mi sembrava così assurdo. In Tanzania?!
Si tratta di un’antica credenza tribale ancora persistente, anzi in forte aumento. Negli ultimi due anni, albini uomini e donne, bambini e bambine sono stati sequestrati, massacrati, fatti a pezzi, scuoiati per fare amuleti con la loro pelle bianca e altre parti del corpo.
Il fenomeno è esploso nella parte più povera e arretrata del Tanzania, nelle regioni di Singida, Mwanza, Shinyanga, al confine con il lago Vittoria, dove vivono minatori e pescatori convinti dagli stregoni locali che avere un amuleto fatto di pelle o parti di albino porti fortuna nel lavoro e nella vita.
Di fronte ai continui servizi giornalistici e alle pressioni di attivisti dei diritti umani, nel 2008 il governo ha dichiarato illegali tutte le licenze degli stregoni del nord e vietato qualsiasi loro attività. «Sotto la nostra spinta il governo ha iniziato anche azioni di tutela degli albini» mi dice la presidente dell’Associazione albini del Tanzania, signora Shymaa Kway-Geer; per la sua determinazione nella lotta alle discriminazioni contro gli albini, il presidente Jakaya Kikwestern l’ha chiamata in Parlamento, primo membro albino in tale istituzione.
Non esiste una stima precisa, ma sembra che in Tanzania gli albini siano più di 300 mila. La malattia che li colpisce più frequentemente è il cancro alla pelle. Per essere curati devono recarsi a Dar es Salaam, presso l’Ocean Road, l’unico ospedale per la cura del cancro in tutto il Paese. Per chi vive al nord questo significa affrontare un viaggio di due, tre giorni.
«Noi siamo terrorizzati. Il governo ha predisposto schiere di poliziotti che scortano gli albini durante questi lunghi viaggi. Abbiamo paura di girare da soli, di essere aggrediti. Quando non vediamo tornare a casa i nostri bambini la preoccupazione aumenta. Io vivo con mio marito e i miei quattro figli. Di notte, se qualcuno bussa alla porta, io inizio già ad agitarmi; e i miei figli mi dicono: mamma, andiamo noi, tu non andare».
La presidente con il resto del consiglio direttivo e alcuni membri dell’Associazione mi ricevono nel loro ufficio: una stanza che l’Ocean Road ha messo a loro disposizione, anche per la massiccia presenza di albini in cura all’ospedale. Il mio sguardo fotografa articoli di giornali che arredano la stanza. Enormi raccoglitori traboccano di carte, documentazione e casi di aggressione ad albini.
Shymaa è seduta al tavolo di fronte a me, scrive il suo numero di telefono piegata e incollata su un foglio di carta. È molto miope, come la maggioranza degli albini. Vede pochissimo e, nonostante le grosse lenti montate sugli occhiali, ha bisogno di avvicinarsi al foglio quasi fino a toccarlo con il naso. Una delle tante conseguenze dell’albinismo, insieme ai tumori alla pelle, è proprio la miopia, che si sviluppa fin da bambini, causando loro enormi difficoltà a scuola: non tutti possono permettersi il lusso di un paio di occhiali.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

A casa di Victor

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Arrivo nella scuola del villaggio mentre il muezzin chiama alla preghiera. Victor è sulla porta della scuola, accecato dalla luce abbagliante di mezzogiorno. Ha gli occhi socchiusi, arriccia il naso e cerca di farsi ombra con la mano come per voler mettere a fuoco. Non mi conosce, ma sa di dover aspettare una mzungu (bianca) che vuole conoscere lui e la sua famiglia.
Mi avvicino e mi sorride solo quando sono a pochi centimetri da lui. Non sapendo cosa dire mi prende per mano. La sua mano è porosa, sembra di carta vetrata, mi graffia. È talmente ustionata dal sole da essere coperta da bolle indurite e fastidiose.
È un bel bambino. I lineamenti sono delicati; la pelle del viso e del collo è bianchissima, morbida, sembra curata o ancora troppo giovane.
Prendiamo una strada sterrata; si toglie le scarpe, ne lega i lacci tra loro e le appende al collo. I quadei e i libri li mette sulla testa e cammina spedito, ma si sente osservato. Timidamente inizia a farmi qualche domanda in inglese. Gli piace studiare. E mi dice che l’inglese è la sua materia preferita.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Passiamo in mezzo a bambini che giocano a pallone, accanto a donne che attizzano il fuoco per cucinare l’ugali (polenta). Tutti ci guardano e lui sorride e saluta, contento di essere importante agli occhi del villaggio perché ha con sé la mzungu.
Arriviamo finalmente a casa sua. La mamma è fuori che lava i panni e lui le si avvicina, gli sorride e subito si mette ad aiutarla. La casa di fango è immersa nel villaggio di Kibiti, accerchiata da alberi di mango che ne delimitano il perimetro.
Alla spicciolata arriva una squadra di ragazzine e bambini: sono i fratelli e le sorelle di Victor. La mamma mi dice di avere sette figli, due dei quali albini: Victor, che mi accompagna, e Oliver, il primo figlio, che lavora a Dar es Salaam.
Suo marito, molto malato, non è albino. «Lo era suo nonno – mi anticipa quasi a voler spiegare come due figli siano nati albini e gli altri cinque no -. Non ho mai pensato, nemmeno per un secondo, che Victor o Oliver potessero essere una disgrazia. Amo tutti i miei figli allo stesso modo. Mio marito e io li abbiamo allevati senza pregiudizi; anzi, gli altri cinque sono istintivamente diventati più protettivi nei confronti di Victor, soprattutto in questi anni. Se ne sentono tante. Meno male che noi viviamo in un piccolo villaggio e la gente vuole bene a Victor, lo aiuta e lo protegge. Non credono a queste superstizioni. Victor è un bimbo buono, generoso, molto dolce ed è ben voluto da tutti. Lui va a scuola con gli altri bimbi del villaggio, li aiuta a fare i compiti, gioca con loro, va al catechismo ed è stato anche scelto dal parroco come chierichetto. Gli piace studiare e dice che da grande vuol fare il medico per guarire tutti i bambini. Io sono orgogliosa di Victor e di Oliver come di ognuno dei miei sette figli. Quello che sta accadendo in Tanzania è vergognoso; ognuno di noi tanzaniani deve reagire e aiutare le famiglie dove ci sono albini, affinché finisca questa tragedia assurda. I nostri albini sono figli del Tanzania come gli altri. Sono africani bianchi e il governo deve impegnarsi nel far capire alla gente che sono esseri umani e che è assurdo pensare che possiamo vincere la nostra povertà con un amuleto fatto con le parti di una persona, un loro fratello per giunta».

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Vita da fantasma

Too a Dar es Salaam e incontro il segretario generale dell’Associazione albini del Tanzania, Samuel Mugo, che mi mostra la bozza di una proposta di ricerca che l’associazione ha elaborato, per stabilire le cause che sono all’origine delle uccisioni e ha fatto appello al governo perché questo dichiari la situazione come emergenza nazionale. Stanno facendo pressione su leaders religiosi, giornalisti e attivisti dei diritti umani affinché facciano sentire la loro voce e convincano i membri del governo che la strage degli albini è socialmente e moralmente ingiustificata.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

«Inoltre un’altra sfida che gli albini devono affrontare – continua Samuel – è la discriminazione sul posto di lavoro, poiché sono disprezzate le loro qualifiche e competenze. Meno male che all’Ocean Road ci sono albini che lavorano come infermieri e negli uffici. Ma nei villaggi dell’interno i bambini albini non vengono mandati a scuola; sono emarginati e condannati a un futuro di lavori manuali spesso sotto il loro peggior nemico: il sole bollente che cuoce la loro pelle».
Gli domando come, secondo lui, si possano uccidere e scuoiare delle persone come fossero animali, per fae degli amuleti magici. «Forse per istinto o per nostra cultura: quando una persona si trova davanti a privazioni,  per prima cosa cerca spiegazioni e consigli dai guaritori tradizionali con la speranza di scoprire la causa dei problemi e delle sfortune e i relativi rimedi. Il più delle volte la soluzione consiste nel cercare scorciatornie che possano risolvere i mali, causando però maggiori problemi alla società. Di recente nel Paese sono venuti a galla 2 mila casi di commercio di organi umani. E in Africa, l’albinismo suscita da sempre pregiudizio. Un africano bianco è considerato e definito uno zeru zeru, fantasma o spettro. E si è trasmessa la convinzione che un albino sia dotato di poteri soprannaturali».
«Ero in giro per le strade di Dar es Salaam, mi hanno bloccato in tre e hanno provato a tagliarmi un dito del piede; per fortuna è arrivata una donna che si è messa a gridare» mi racconta Musa mentre mi mostra i segni dell’aggressione.
superstizioni e crudeltà
All’Ocean Road incontro Veronica mentre sta allattando il suo bellissimo Fredy, subito dopo il trattamento di chemioterapia: un tumore alla pelle la sta disintegrando fisicamente; ma Fredy, di cinque mesi, è bene in salute. Le dico che è pericoloso allattarlo a causa della sua chemioterapia. Mi risponde che tra il farlo morire di fame o per danni dovuti alla sua chemio, non sa cosa sia peggio. Come tante altre donne, è stata abbandonata dal marito quando aveva iniziato a stare male e l’unica eredità lasciatagli è questo bimbo che ama. Ma lei sta morendo. E non è la sola.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Le sue amiche vogliono fermamente essere fotografate per far vedere al mondo come è ridotto un albino aggredito dagli uomini o dal tumore alla pelle. Sono letteralmente sfigurate, eppure si mettono in posa con i loro bimbi in braccio. «Voi giornalisti dovete dirlo, dovete raccontarlo al mondo – mi grida Greta -. Ci sono antiche credenze ancora diffuse come quella che si possa guarire dall’aids avendo rapporti sessuali con ragazze albine, non facendo altro che aumentare gli stupri e il contagio. I bambini, che sono la maggioranza poiché la vita media di un albino è 40 anni, rischiano continuamente di essere uccisi e mutilati dei genitali, che i sicari rivendono a prezzi altissimi per riti tribali».
Di fronte alle loro storie, non posso fare a meno di domandarmi se sia giusto che questi sfortunati, che passano tutta la vita a difendersi dal sole, oltre alle sofferenze provocate da piaghe, scottature, tumori della pelle, dopo l’emarginazione e le difficoltà sempre maggiori, siano costretti a vivere la loro quotidianità nel terrore di essere mutilati e scuoiati vivi!
Greta, prima di finire il suo sermone, avvicina i suoi occhi ai miei, raccontandomi quanto devono soffrire soprattutto negli attimi prima di morire; leggenda vuole che le parti dei loro corpi utilizzate nei riti magici, siano tanto più efficaci quanto più forti siano state le urla durante la mattanza.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Affari e riscatto

Si calcola che in Africa ci sia un albino ogni 5 mila abitanti (in Europa uno ogni 60 mila). In alcuni paesi, come Congo, Uganda, Malawi, Kenya, Mozambico la percentuale degli albini è maggiore che in Tanzania e le credenze e pratiche magiche nei loro riguardi non sono meno drammatiche.
Dietro i crimini contro gli albini, non ci sono solo pregiudizi e superstizione. Sembra che gli introiti derivanti da tale mattanza siano troppo grandi per essere fermati. Secondo fonti della polizia tanzaniana un cadavere di albino può essere venduto per una somma che va dai 75 ai 400 mila dollari.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Proprio in Tanzania, nel mese di agosto 2010, un cittadino keniano è stato catturato e condannato per direttissima a 17 anni di carcere per aver cercato di sequestrare un giovane albino (subito messo sotto scorta) allo scopo di rivenderlo per 220 mila euro.
Una giornalista tanzaniana, Vicky Ntetema, corrispondente della Bbc, è costretta a vivere sotto scorta perché minacciata di morte per aver denunciato il coinvolgimento di stregoni e poliziotti nelle uccisioni di albini.
Le denunce sono giunte anche al Parlamento europeo che, con una risoluzione del 4 settembre 2008, ha sollecitato le autorità tanzaniane ad avviare un’indagine su tali crimini e ha invitato il governo a «tutelare i diritti degli albini tanzaniani attraverso politiche d’inclusione, parità di accesso a istruzione e assistenza medica di qualità, a offrire loro una protezione sociale e giuridica adeguata; promuovere una migliore formazione degli operatori sanitari e seminari per insegnanti e genitori per far capire come sia importante che i bambini albini siano protetti dal sole».

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Il presidente tanzaniano Kikwestern, come presidente anche dell’Unione africana e quindi maggiormente sollecitato dalle associazioni di diritti umani, è stato «costretto» ad adottare forti misure di sicurezza a favore degli albini.
Ma il riscatto maggiore per l’Associazione nazionale degli albini e di tutti gli albini del Tanzania è arrivato il 3 novembre 2010: per la prima volta nella storia, per volontà popolare, alle elezioni presidenziali è stato eletto in Parlamento un albino 52enne, Salum Khalfani Bar’wani, candidato del partito di opposizione Fronte civico unito (Cuf). Nonostante i tanti brogli elettorali denunciati, ha battuto alle ue l’avversario della maggioranza che da 15 anni ricopriva il seggio. «Questa è stata decisamente una vittoria rivoluzionaria per tutti gli albini di questo Paese» ha commentato Bar’wani.

Romina Remigio



Cari missionari

Moschee e reciprocità
Abbonato da tanti anni, apprezzo il respiro universale della rivista […]. Mi permetto però di dissentire dall’orientamento delll’editoriale del gennaio 2011. È inammissibile paragonare le stragi di cristiani effettuate a sangue freddo in vari Paesi islamici (e non) ad episodi di intolleranza che in Italia non hanno mai travalicato il dibattito politico. Nel nostro Paese stragi di islamici non se le sogna nessuno! è vero invece che, in nome di una malintesa apertura ad altre religioni (in particolare l’Islam) si passa sotto silenzio la necessità di rispettare reciprocamente diritti e doveri. Nel nostro caso l’ostilità all’apertura di moschee nella maggior parte dei casi è motivata dal giustificato timore che si possano costituire luoghi privi di controllo, dove col pretesto della pratica religiosa si possa dare attuazione a programmi politici eversivi, ispirati da collegamenti inteazionali.
Per chi vive a Milano questa situazione è purtroppo ampiamente documentata. L’esperienza ci insegna che l’Islam è anche terrorismo e che si avvale di notevoli strumenti finanziari per alimentare una penetrazione capillare nelle nostre città. Non bisogna trascurare che anche i cristiani hanno diritto di costruire chiese e semplicemente di testimoniare la loro fede in paesi che spesso nella loro legislazione negano il diritto elementare di libertà religiosa.
Sul piano dei diritti/doveri lo Stato e le istituzioni locali non possono prescindere da questi punti fermi riguardanti la reciprocità delle effettive libertà di credere e praticare la propria religione. Questi principi vanno calati nella realtà, chiedendo per esempio delle garanzie, che nel caso dell’Islam vuol dire per es. selezionare gli Imam con la creazione di albi, ovvero poter controllare i testi, che spesso non sono solo preghiere ma anche messaggi politici (come avviene in Germania); la trasparenza deve valere anche per loro! Creare delle regole servirà prima di tutto a garantire chi nell’Islam ha soltanto a cuore gli insegnamenti dell’unico Dio. Ne trarranno giovamento anche i cristiani che saranno aiutati a liberarsi da diffidenze non sempre ingiustificate e a stabilire un’effettiva collaborazione con tutti i credenti. Cordiali saluti.
Franco Bianchi
via email, 25.01.2010

Gent.mo  Direttore,
nulla da eccepire sul contenuto del suo editoriale del gennaio 2011, ma ritengo prematuro il concedere le moschee ai musulmani. Noti, non sono contrario, ma vorrei la reciprocità. Noi giustamente dovremmo concedere loro le moschee, ma loro non ci concedono chiese, ci perseguitano e ci ammazzano anche. Guai a parlare di proselitismo, mentre loro il proselitismo lo fanno e costringono anche alla conversione forzata. Da noi la conversione deve essere voluta, mai forzata. Da queste considerazioni mi pare che concedere loro le moschee sia uno spalancare le porte all’islamismo. […] Se spalanchiamo le porte all’Islam nessuno di noi avrà la forza di arginare l’invadenza e la violenza delle correnti estremiste. Cordiali saluti.
Graziano Grua
via email, 24.01.2010

Grazie del vostro contributo su questo tema scottante. Certamente gli avvenimenti passati e recenti, come i massacri di cristiani in Iraq, Egitto, Indonesia, Pakistan e in altre nazioni a maggioranza islamica non fanno che aumentare le legittime riserve e paure riguardo all’apertura di luoghi di culto e centri islamici nelle nostre città. Tuttavia credo sia necessario affrontare il problema nella giusta prospettiva, aprendo un dialogo tra le varie parti, ciascuno secondo le proprie competenze. A mio avviso ci sono due livelli da considerare: il livello politico-sociale e quello religioso. A livello politico-sociale mi pare sia accettato che lo scopo della legge non è solo quello di prevenire abusi e violazioni e stabilire doveri, ma anche quello di garantire e difendere i diritti fondamentali della persona e della comunità. È quindi giusto e doveroso che una nazione da una parte assicuri a tutti i cittadini l’esercizio dei diritti fondamentali (tra cui la libertà di culto) e dall’altra esiga l’osservanza delle leggi da parte di tutti richiedendo quindi ad ogni nuova «istituzione» una ragionevole garanzia «di conformità» affinché il bene comune sia salvaguardato. Per questo concordo pienamente con molte delle osservazioni del sig. Franco.
Ma porre come condizione essenziale la «reciprocità», mi pare vada oltre il dovuto, soprattutto quando questo si applica a livello locale. Una piccola comunità islamica (spesso di nazionalità eterogenee) che vuol costruire un luogo di preghiera, non ha più potere di influenza nello scacchiere della reciprocità di un singolo missionario in Cina, in Buthan o in Egitto alle prese con la burocrazia locale per il permesso di costruire una nuova chiesa. La reciprocità ha un suo ambito specifico, rafforzato da diritti e doveri codificati a livello internazionale, nelle relazioni tra stati e organizzazioni sovra-nazionali.
Dal punto di vista religioso, soprattutto della nostra religione, le cose vanno oltre la logica del diritto-dovere. È nel contesto religioso che ho osato chiamare traditori de «la loro religione e il loro Dio» i fondamentalisti sia islamici che cristiani, anche se oggettivamente l’ammazzare cristiani e l’opporsi alla costruzione di una moschea non sono certo la stessa cosa (come voi fate giustamente notare). Tuttavia, se l’azione finale è di una gravità ben diversa, l’atteggiamento di fondo può essere ugualmente sbagliato. E questo è importante per noi. Per un cristiano (= una persona che segue la via di Gesù Cristo e con lui si identifica) non conta tanto l’azione finale, ma l’atteggiamento di fondo, la mentalità, quello che uno sente nel cuore. Un cristiano ha come punto fondamentale di riferimento la «via di giustizia» insegnata da Gesù, non la logica della legge umana. Basta andare al capitolo 5 del vangelo di Matteo per sapere qual è la logica che ci deve guidare, anche se agli occhi del senso comune può sembrare «stoltezza». In quel capitolo Gesù non declina la parola reciprocità, ma gratuità, che è amore misurato sulla perfezione di Dio. «Vi è stato detto… ma io vi dico: porgi l’altra guancia, ama i nemici, a chi ti chiede la tunica dà anche il mantello… Se amate quelli che vi amano che merito ne avete? Siate perfetti come il Padre…».
Ideale? Certamente. Questi comandi, «legge» del cristiano da 2000 anni, non sono una norma stabilita dalla Chiesa (che, tra l’altro, ha tradito questa stessa legge troppe volte!), ma «Parola» di Gesù stesso. Gesù è il punto di verifica del vivere sociale e politico del cristiano, non la cosiddetta «cultura cristiana» di cui qualcuno si fa paladino. Questa legge di Cristo – per i cristiani – è l’anima della legge umana, pur nel rispetto della reciproca autonomia.

Congo belga
Egregio Direttore,
sono un occasionale lettore della vostra bella e interessante rivista che ho sempre apprezzato, e mi è capitato di leggere l’articolo di Giusy Baioni sulla R. D. Congo (MC 10/2010, pp. 47-50). Ne riporto un passaggio: «… un passato remoto segnato da una delle colonizzazioni più feroci, quella Belga, che ha dimezzato la popolazione di allora con una schiavitù inumana…» (p. 47).
Vorrei, molto brevemente, affermare quanto segue, e Le sarei molto grato se potesse pubblicarlo, per amore della verità. Premetto che ho vissuto venti anni, fino al 1966, in Congo, prima colonia belga, poi Repubblica del Congo/Zaire, e posso affermare nel modo più assoluto che non ho mai visto, conosciuto, né sentito raccontare la colonizzazione feroce di cui parla la dott.ssa Baioni. Mio nonno, con nonna e figli, nel secolo scorso ha attraversato tutto il Congo perché era un esploratore; mio padre vi ha vissuto tanti anni, e riposa nella regione del Kivu/Sud. I miei suoceri con la loro famiglia e fratelli hanno lavorato nel Katanga/Lubumbashi; le mie figlie sono nate a Bukavu, ed erano la terza generazione residente in Africa; amici hanno trascorso la loro vita nella zona del Virunga/Kivu Nord; ho conosciuto la famiglia, moglie, figli e nipoti di uno dei primi comandanti del battello di servizio sul fiume Congo e molti altri, nessuno di loro ha mai visto o conosciuto questa colonizzazione feroce. Avrei molto da dire sui lati positivi della colonizzazione belga, e sono obbligato a contestare nel modo più assoluto certe affermazioni penso basate sul «sentito dire». Cordialmente La saluto.
Saverio Giancarlo
Riva del Garda (TN)

Egregio Sig. Saverio,
grazie per la sua testimonianza che nasce dal vissuto. Vorrei farle però notare che le affermazioni della dott.ssa Baioni non si basano affatto sul «sentito dire». Tutta la documentazione storica è concorde nel provare che il primo periodo della colonizzazione belga (1876-1908, quando il Congo era considerato «proprietà privata» del re del Belgio Leopoldo II) è stato terribile, cinico e violento, con la soppressione spietata di qualsiasi forma di opposizione allo sfruttamento commerciale soprattutto del caucciù, che in quel tempo era molto richiesto. Perfino la nostra Enciclopedia Italiana Treccani nel 1929 scriveva: «Sembra che specialmente nello sfruttamento del caucciù alcune società concessionarie e senza dubbio anche agenti dello stato si fossero resi colpevoli di abuso in pregiudizio degl’indigeni. Questi fatti provocarono in alcuni paesi una violenta campagna di protesta, specialmente in Inghilterra, dove le critiche furono esagerate al punto da assumere spesso carattere di vere calunnie. Tutto ciò affrettò l’annessione del Congo allo stato belga: il 15 novembre 1908 una legge faceva dello Stato del Congo una colonia belga» (Treccani XI, 142/2).
Una delle vittime più note di queste violenze fu Isidore Bakanja (1885-1909), morto a seguito delle punizioni ricevute dal suo padrone e beatificato nel 1994 da papa Giovanni Paolo II.
Le parole, datate, della Treccani ammettono una realtà molto grave, tanto grave che il governo belga intervenne nel 1908 togliendo il Congo dalle mani del re e delle compagnie private.
P. Benedetto Bellesi, nostro redattore, scrisse su questa rivista (MC 10-11/2004, pag. 17): «La scoperta della vulcanizzazione della gomma e il suo impiego industriale fecero della colonia uno dei più grandi serbatorni mondiali di questo prodotto fondamentale per l’industrializzazione dell’Occidente. Ma occorreva mano d’opera per raccoglierlo e trasportarlo al mare. Il problema fu subito risolto: tutti gli africani (ironicamente chiamati «cittadini») furono obbligati a raccogliere il caucciù senza alcun compenso e ogni villaggio doveva consegnare agli emissari del re-proprietario una certa quota del prezioso prodotto vegetale. Chi si rifiutava, o consegnava quantità minori di quelle richieste, era punito duramente, fino alla mutilazione: a chi non produceva la quota di caucciù veniva tagliata una mano o un piede, alle donne le mammelle. Contro i ribelli si ricorreva all’assassinio, a spedizioni punitive, distruzioni di villaggi e presa in ostaggio delle donne.
A fare il lavoro sporco erano circa 2.000 agenti bianchi, disseminati nei punti più importanti del paese: molti di essi erano malfamati in patria e mal pagati in Congo. Ogni agente comandava un certo numero di nativi armati (capitani), presi da etnie diverse e dislocati nei singoli villaggi, per assicurare che la gente facesse il proprio dovere. Se la quota era inferiore a quella stabilita, anche i capitani subivano fustigazioni o mutilazioni. Era il metodo del terrore, tanto efficace quanto diabolico.
In 23 anni di esistenza, nel Libero stato del Congo morirono circa 10 milioni di persone, direttamente per la repressione o indirettamente per epidemie o fame, dovuta alla distruzione punitiva dei raccolti. Fu un vero genocidio, in cui perì quasi metà della popolazione congolese, stimata a circa 20-25 milioni di abitanti nel 1880.
A ciò si aggiunga la caduta del tasso di natalità: un missionario giunto in Congo nel 1910 fu stupito dall’assenza quasi totale di bambini tra i 7 e i 14 anni, nati cioè tra il 1896 e il 1903, periodo in cui la raccolta di caucciù raggiunse il suo apice».
Quanto scrisse p. Bellesi non sono calunnie, ma informazioni documentate raccolte da una commissione d’inchiesta mandata dal governo belga in Congo nel 1906.
Con una riserva: la cifra di 10 milioni pare molto esagerata e andrebbe valutata realisticamente contro i dati della popolazione presente prima dell’inizio della colonizzazione e il censimento del 1928, rapportati anche al numero di coloni bianchi coinvolti (poche migliaia). Questo però non toglie nulla all’estrema gravità di quello che p. Bellesi chiama «genocidio dimenticato»: fossero state anche solo 100 mila le vittime di questa violenza, non renderebbero la tragedia più accettabile.
Che lei e i suoi familiari non abbiate avuto sentore di questo dramma, non stupisce. Il re Leopoldo II prima di consegnare la sua proprietà privata al governo bruciò sistematicamente gran parte dei documenti incriminanti, mentre i coloni belgi avevano tutte le buone ragioni per passare il tutto sotto silenzio.

Suor Eugenia, grazie
Cari Missionari
e Missionarie,
desidero ringraziare ed esprimere tutta la mia stima e condivisione alla consorella che domenica scorsa 13.02 u.s., a Roma, in P.za del Popolo, è intervenuta a favore della dignità della donna. Per televisione si è visto e sentito solo uno stralcio del suo discorso, che, però, mi piacerebbe leggere per intero. Il suo intervento, la sua presenza, la sua partecipazione mi hanno dato speranza e fiducia nel sapere che anche nei nostri difficili tempi c’è chi segue, con la vita, in prima persona, la linea del Maestro Gesù. Penso che la stessa mia speranza e fiducia sia arrivata ad altre persone che credono nei valori della fede e della Verità. Provo tanta pena per i fatti che succedono in Italia, non solo ora, ma da anni e mi chiedo quando crollerà quell’immenso castello di sabbia costruito da un solo uomo, ricco oltre ogni misura e sostenuto da tanti servitori che lo difendono a spada tratta perché ricompensati abbondantemente da ogni grazia che un uomo può desiderare ed una donna sognare.
Nemmeno il Papa, del quale anche i non credenti sanno che è persona buona, dedita a servire Dio ed il prossimo, è stato così difeso, quando da molte parti era attaccato per lo scandalo della pedofilia. Evidentemente non paga così bene, non offre denaro a volontà, festini hard e neanche pregiata erbetta verde. Il Signore però gli ha dato forza, fede, salute e, sia pure con sofferenza, ha saputo affrontare le difficoltà e le problematiche che si sono presentate. Quando si lavora con il Signore e per il Signore, l’aiuto viene da Lui, altrimenti – e questo mi consola, come dice Samuele, nel 1° libro – «certo non prevarrà l’uomo malgrado la sua forza». Questa è la vera giustizia a cui nessuno sfugge. Affidiamo al Padre Beato Giuseppe Allamano, del quale oggi ricordiamo la festa, a 85 anni dalla morte, la nostra patria, chiedendo la sua intercessione per ognuno di noi perché riusciamo a fare sempre bene il bene. Grazie, cara sorella missionaria per la tua limpida testimonianza. Un abbraccio.
Bruna Dalbesio
Terzuolo, via email

Penso che moltissimi dei nostri lettori abbiano già visto quel video. Per chi lo volesse rivedere lo si trova in http://tv.repubblica.it/politica/suor-eugenia-bonetti-riprendiamoci-dignita/61991?video. Il testo si trova sul sito delle Suore Missionarie della Consolata http://www.consolazione.org/donna-nel-mondo/379-messaggio-di-suor-eugenia-bonetti.html e anche nel nuovo sito di Amico (http://amico.rivistamissioniconsolata.it) con link al video. Il mese scorso, in queste pagine, abbiamo pubblicato una sua «rifessione sulla dignità della donna» (MC 3/2011, pag. 5-6).

PLASTICA & MC
Leggo sul numero di gennaio, in questa rubrica, la vostra risposta alla lettera di Isa Monaca sulla richiesta di avvolgere la vostra rivista in una pellicola biodegradabile.  Contrariamente a quanto dite voi, di pellicole biodegradabili ce ne sono. Mi piacerebbe vederla usata anche da voi, visto che spesso trattate in maniera ammirevole temi ecologici. Cordialmente.
Andrea Paolini
via email, 29.01.2011

Dopo aver consultato la tipografia, che cura anche la spedizione della rivista, Le posso assicurare che la pellicola che usiamo è in polietilene totalmente riciclabile (naturalmente il totalmente si realizza solo grazie alla collaborazione di chi fa raccolta differenziata). La tipografia è stata certificata conforme alle norme inteazionali UNI EN ISO 9001:2008 e UNI EN ISO 14001:2004 (vedi il sito www.canale.it). Abbiamo inoltrato anche a loro la questione della pellicola biodegradile. La ricerca di una possibile soluzione è avviata. Grazie della pazienza.

Sì, in teoria (la pellica) è riciclabile, come tutta la plastica. Anche i sacchetti del supermercato erano in polietilene, eppure si è dovuto vietarli. Biodegradabile è molto meglio, come i nuovi sacchetti per la spesa. Cordialmente,
Andrea Paolini
via email, 12.02.2011
Speriamo un giorno di poterLe dare la buona notizia che la rivista è spedita in pellicola biodegradabile. Per ora contiamo sulla collaborazione dei lettori per la pratica di un riciclaggio responsabile.




Regala la vita

La salute matea e infantile, chiave di volta degli obiettivi del  millennio

La salute matea e infantile, quinto Obiettivo del Millennio, è di importanza cruciale per raggiungere anche gli altri obiettivi in ambito sanitario e socio – economico. Ma i risultati ottenuti finora sono ancora lontani dall’essere soddisfacenti.
Lo stato dell’arte della salute matea
«Fra gli obiettivi del Millennio, la salute matea è quello più lontano dall’essere raggiunto. Eppure, questo obiettivo è fondamentale per raggiungere tutti gli altri». Con queste parole il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, ha aperto la conferenza durante la quale è stata lanciata, lo scorso 22 settembre, la nuova Strategia globale per la salute matea e infantile dell’ONU. «Se in alcuni Paesi ci sono stati segni di miglioramento», ha proseguito il Segretario Generale, «le donne che muoiono per malattie legate alla gravidanza e al parto sono ancora centinaia di migliaia. Una disgrazia che non possiamo più tollerare», ha concluso Ban Ki Moon. Per questo, con la nuova strategia saranno stanziati quaranta miliardi di dollari per salvare la vita di sedici milioni di donne e bambini.
Secondo i dati ONU, delle oltre 350 mila donne che muoiono annualmente durante la gravidanza o il parto, il 99% vive nei Paesi in via di sviluppo. In Africa sub-sahariana una donna incinta su trenta perde la vita, a fronte di un rischio pari a uno su 5.600 nei Paesi sviluppati. Ogni anno, un milione di bambini resta senza madre; la loro probabilità di morire prematuramente è dieci volte più alta rispetto agli altri bambini. I dati sono indubbiamente allarmanti e lo diventano ancora di più se si considera che l’80% dei decessi di donne incinte sono causati da emorragie, infezioni, travaglio complicato, interruzioni di gravidanza praticate con metodi non sicuri e malattie ipertensive. Si tratta, cioè, di patologie che potrebbero essere contenute semplicemente mettendo a disposizione delle madri e dei loro bambini dei servizi sanitari adeguati, gestiti da personale qualificato e in strutture dotate dell’attrezzatura necessaria per intervenire tempestivamente. Nel caso della trasmissione del virus HIV da madre a figlio, inoltre, un’assistenza sanitaria adeguata è fondamentale per ridurre il rischio di contagio, che aumenta durante il travaglio,  il parto e con l’allattamento al seno.
Gli interventi che, nel corso di questi anni di impegno per il raggiungimento degli obiettivi del millennio, hanno dimostrato maggior efficacia sono quelli che hanno saputo tenere in considerazione le specificità delle singole realtà alle quali si applicavano. Nel caso della salute matea e infantile, infatti, ad avere maggiore successo non sono stati progetti mastodontici che prevedevano grandi investimenti e trasferimenti di tecnologie, bensì iniziative più limitate che però valorizzavano le risorse locali e superavano difficoltà apparentemente non collegate all’ambito sanitario, come quelle relative ai trasporti. Ad esempio, nelle zone rurali e isolate si sono rivelati decisivi la formazione di levatrici tradizionali, la creazione di comitati sanitari di villaggio a livello di comunità di base e la costruzione di reti di piccoli centri sanitari in grado di assistere le pazienti quando la situazione delle strade e delle vie di comunicazione rende difficoltosi gli spostamenti delle donne incinte all’ospedale di riferimento.

l’esempio di Neisu
«è proprio per innestare il servizio di salute matea nel contesto socio–culturale del Paese», conferma il personale dell’ospedale Nostra Signora della Consolata di Neisu, in Repubblica Democratica del Congo, «che abbiamo scelto di investire sulla formazione delle levatrici tradizionali, figure di importanza fondamentale in un contesto rurale isolato come quello di un villaggio della provincia prientale congolese».
La popolazione locale, infatti, si affida da tempo immemore ai servizi di queste donne quando si tratta di assistere una donna incinta nella gravidanza e nel parto. Le donne incinte e le loro famiglie ripongono completa fiducia nella figura della levatrice tradizionale, che conosce le tecniche, radicate nella cultura locale, per favorire il parto. Tuttavia, ci sono numerosi casi in cui l’assistenza delle levatrici, nonostante la loro competenza, non è sufficiente per evitare l’insorgere di complicazioni che possono mettere a rischio la vita di partorienti e neonati. Per questo, reclutare e formare queste donne perché possano arricchire le loro conoscenze tradizionali con nozioni tipiche della medicina modea ha significato dotarle, nel rispetto della cultura locale, degli strumenti necessari a riconoscere una situazione potenzialmente rischiosa e orientare in tempo le future mamme verso i servizi della rete sanitaria dell’ospedale di Neisu.
Questa rete, con il suo ospedale di riferimento e gli undici centri sanitari periferici, è in grado di fornire alle donne con gravidanze difficoltose l’assistenza e le terapie necessarie a limitare in modo decisivo i rischi di decesso della madre o del neonato.

Clinica di Modjo e
dispensario di Alendu
In occasione della campagna di Natale 2010 Regala la vita, Missioni Consolata Onlus ha deciso di concentrare i suoi sforzi su progetti che, come quelli finora coronati da successo, privilegiano strutture relativamente piccole e molto radicate nel tessuto socio-culturale locale. In particolare, quest’anno la campagna sarà incentrata sulla Catholic Clinic di Modjo, in Etiopia, e sul Saint Luke Dispensary di Alendu, in Kenya. Si tratta di due strutture sanitarie collocate in una posizione strategica che permette loro, nonostante le dimensioni limitate, di fare la differenza nelle zone di competenza poiché vanno a inserirsi in contesti nei quali i servizi sanitari di buona qualità sono praticamente assenti o non riescono a fare fronte a una richiesta di assistenza troppo elevata.
Modjo è una cittadina di circa quarantamila abitanti che si trova 75 chilometri a sud-est di Addis Abeba, la capitale etiope. È una realtà in rapida espansione poiché si trova al crocevia di diverse strade che collegano le regioni dell’Etiopia tra loro e con il Kenya. Questo rapido sviluppo comporta problemi di gestione tra i quali quello sanitario è uno dei principali: il passaggio di merci e persone, infatti, induce scompensi che creano, tra l’altro, malnutrizione, disoccupazione, carenza di abitazioni e di igiene, in un contesto dove le strutture sanitarie pubbliche sono per il momento inadeguate a far fronte alla richiesta di assistenza crescente legata all’espansione della città.
La Catholic Clinic, gestita dai missionari della Consolata in collaborazione con le Suore della Carità, cerca di raccogliere queste sfide in ambito sanitario e di rispondere alle esigenze della popolazione locale. Il progetto relativo alla salute matea, in particolare, mira a rendere pienamente operativa la mateità per permettere alle 1.300 donne che si rivolgono annualmente alla clinica di godere dell’assistenza sanitaria pre- e post-natale e ai neonati di ricevere fin da subito le cure necessarie per evitare malnutrizione e malattie che potrebbero pregiudicare seriamente la crescita dei bambini.
Alendu è un villaggio vicino a Kisumu, sulle rive del lago Vittoria. Nonostante le ingenti risorse ittiche del lago e la possibilità, almeno in alcune aree, di trovare terreno fertile, la zona di Kisumu non ha beneficiato finora di uno sviluppo sufficiente a migliorare significativamente la condizione dei suoi abitanti: mancano le infrastrutture, l’agricoltura è quasi solo di sussistenza, la carenza di acqua potabile e i regolari allagamenti durante le piogge favoriscono la diffusione di malattie conseguenti alla mancanza di strutture d’igiene adeguate (vedi MC gennaio 2010 pag. 55).
Il dispensario Saint Luke è stato aperto dai missionari della Consolata nel 2009 e sta ampliando le sue attività anche di conseguenza all’aumento delle richieste di assistenza ricevute dal vicino ospedale di Chiga, che ora fatica a soddisfare tutti i pazienti che si rivolgono annualmente alle sue strutture. In particolare, nell’ambito della salute matea, il dispensario di Saint Luke ha appena lanciato un progetto di assistenza alle madri affette da HIV e alle madri single, inserendole in un programma di prevenzione della trasmissione da madre a figlio. Alle donne coinvolte nel progetto verrà foita assistenza sanitaria, terapia anti-retrovirale ove necessario e formazione su come evitare il contagio.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Non di soli antiretrovirali

Lotta all’HIV/AIDS: a che punto siamo
I missionari della Consolata sono stati coinvolti nella lotta all’Hiv G fin dal primo manifestarsi della malattia, negli anni Ottanta. Sono numerose le testimonianze dei missionari che raccontano del loro sgomento al vedere «decine di persone morire come mosche» di un male misterioso contro il quale la comunità scientifica internazionale era allora completamente impotente. «Oggi condanniamo negli altri le paure e i pregiudizi legati all’Hiv e a chi lo ha contratto», racconta p. Valeriano Paitoni, che segue diversi centri di accoglienza per malati di Aids G in Brasile, «eppure anche noi, all’inizio, avevamo lo stesso atteggiamento: facevamo visita alle persone malate ma non avevamo il coraggio di accettare nemmeno una tazza di caffè, allora. Non ne sapevamo nulla e, anche oggi, molte delle false credenze sono dovute all’ignoranza, al pregiudizio».
Pregiudizio, stigma, ignoranza sono solo alcune delle cause per le quali la battaglia all’Aids non si è ancora chiusa, anzi, pare essere di fronte a nuove, inedite sfide a volte causate proprio da quanto è stato fatto per limitare il contagio: quasi trenta anni dopo la sua ufficiale scoperta, la malattia che all’inizio fu erroneamente considerata come tipica degli omosessuali, e che si è diffusa invece in tutto il mondo fra tutte le fasce sociali, fra uomini e donne, eterosessuali e omosessuali, ha provocato ad oggi venticinque milioni di morti, nonostante i massicci finanziamenti per controllarla e debellarla è ancora un’emergenza mondiale, una
pandemia G.
Dei trentatré milioni di sieropositivi, due terzi sono concentrati nel continente più povero del globo, l’Africa, dove la sanità non è un diritto gratuito, ma un privilegio per chi può permettersi i costi delle visite e dei farmaci, dove le infrastrutture sanitarie sono inadeguate, e dove in media ci sono solamente 2 medici e 11 infermieri per 10.000 abitanti (contro ad esempio i 37 medici e 72 infermieri ogni 10.000 abitanti dell’Italia). Degli oltre due milioni di bambini sieropositivi al mondo un milione e ottocentomila vivono in Africa e dei due milioni di decessi avvenuti nel corso del 2008 a causa dell’Hiv un milione e mezzo sono stati registrati nello stesso continente.
Se è vero che attualmente il numero di persone in cura e che ricevono i trattamenti antiretrovirali G (Arv G) è enormemente cresciuto fino ad arrivare agli odiei quattro milioni, è anche vero che, come riporta l’agenzia delle Nazioni Unite per la lotta all’Aids, l’Unaids, per ogni due persone che iniziano un trattamento Arv cinque contraggono il virus, che i servizi di prevenzione non riescono a raggiungere tutti coloro che ne hanno bisogno e che oltre la metà dei dieci milioni di sieropositivi che hanno urgente bisogno di cure non hanno accesso ai trattamenti Arv.
Sebbene le realtà africane presentino differenze non trascurabili tra di loro, in linea di massima le difficoltà che i missionari segnalano hanno una serie di tratti in comune. Tra questi:
– La resistenza dei pazienti a sottoporsi al test G per timore di scoprirsi sieropositivi e quindi venir esclusi dal contesto sociale nel quale vivono. La maggior parte delle persone che si sottopongono al test lo fanno perché sono già malate o perché i sintomi della malattia si sono già manifestati.
– La distanza dall’ospedale. Spesso per i malati che dovrebbero accedere alla terapia con Arv il costo del viaggio per recarsi fisicamente a ricevere il trattamento è troppo elevato oppure i pazienti sono in condizioni di debilitazione tali da impedire loro di muoversi.
– Ancora, l’effettiva disponibilità dei farmaci Arv non è sempre costante. Infatti, sebbene sulla carta in molti paesi – anche in Africa – le cure e i trattamenti siano gratuiti e foiti dalle autorità sanitarie pubbliche, le strutture sanitarie che li offrono spessissimo ne sono sprovvisti.
– Infine, nutrizione. L’apporto nutrizionale che deve combinarsi con la terapia Arv ha, per molti pazienti e le loro famiglie, costi proibitivi.
Questi fattori causano spesso una discontinuità di trattamento che rischia di creare resistenza ai farmaci di prima linea (cioè quelli più diffusi ed economici) nei pazienti. A quel punto la terapia richiede, per essere efficace, che si passi a farmaci di seconda linea, che sono molto più costosi. È stato stimato che il 5% di pazienti in trattamento di seconda linea sul totale dei pazienti in trattamento nei Paesi del sud del mondo potrebbe costare, da solo, ben un quarto dei fondi a disposizione per le cure.
Dal pregiudizio alla cura: l’impegno dei missionari della Consolata
Nel corso degli anni, i missionari della Consolata hanno seguito l’evolversi della pandemia, ne hanno appreso le dinamiche e si sono organizzati per venire in soccorso dei malati e prevenire il diffondersi dell’infezione.
In ambito strettamente sanitario, i progetti dei missionari della Consolata legati alla prevenzione e cura dell’Hiv sono numerosi in tutti i paesi del sud del mondo in cui operano. Le attività più strutturate si svolgono ovviamente nei grandi ospedali che i missionari gestiscono in Africa.
L’ospedale di Ikonda, in Tanzania, il cui amministratore è p. Sandro Nava, ha un ambulatorio specializzato su Hiv/Aids che fornisce servizi di vario tipo (test, assistenza psicologica e nutrizionale, terapie, eccetera) a una media di 14.000 persone l’anno. In particolare, 1.800 pazienti sieropositivi, tra i quali molti bambini, sono costantemente monitorati e, di questi, oltre 500 ricevono la terapia Arv. Delle oltre mille donne che ogni anno partoriscono a Ikonda, quelle sieropositive possono usufruire di un servizio di prevenzione della trasmissione da madre a figlio, mentre dei 2.000 pazienti che beneficiano di assistenza alimentare la maggioranza è composta da malati di Hiv. Nell’ospedale, sotto la direzione del professor Gerold Jaeger prestano la loro opera circa 15 tra medici, infermieri, laboratoristi e assistenti sociali.
L’ospedale Nostra Signora della Consolata di Neisu, nella Repubblica Democratica del Congo, al quale sono collegati 11 centri sanitari e dispensari anche questi gestiti dai missionari della Consolata, serve un bacino di utenza di oltre 50.000 persone, seguendo quasi 6.000 i pazienti affetti da Hiv e tubercolosi. È in corso un progetto di gemellaggio con l’Ospedale Salvini di Milano, cornordinato dalla dottoressa Barbara Terzi con la collaborazione dell’amministratore p. Richard Larose, per incrementare il numero di malati di Aids assistiti e per incominciare il servizio per la prevenzione della trasmissione del virus Hiv da madre a bambino. Infatti su 1.500 donne che ogni anno partoriscono all’ospedale o ai centri sanitari collegati, circa un centinaio sono sieropositive.
Ancora, a Wamba, in Kenya, il personale del Catholic Hospital, gestito dalla diocesi di Maralal con i missionari della Consolata, ha effettuato circa 3.500 test per Hiv nel periodo 2007-2008 riscontrando una prevalenza Hiv che sfiora quasi il 10% (i sieropositivi sono risultati 325, di cui 189 donne) e tra il 2003 e il 2008 l’ospedale di Wamba ha messo in terapia Arv 130 persone.
Infine, l’Ospedale di Gambo, in Etiopia, funge da «centro sentinella» nell’ambito di un programma nazionale di prevenzione dell’Hiv e ha 67 pazienti in terapia Arv. Dal 2007, sotto la direzione di Fratel Francisco Reyes e dei suoi collaboratori, ha iniziato un programma di screening ante e post natale sulle donne incinte.

Oltre gli ospedali
Al di là dei servizi foiti negli ospedali e nei numerosi centri sanitari e dispensari, che prevedono anche il trattamento di malattie opportunistiche (in particolare la tubercolosi), le strutture sanitarie della Consolata svolgono un intenso lavoro di sensibilizzazione e educazione sanitaria su come evitare il contagio da Hiv e, per i malati, su come ottenere assistenza medica. I quattro ospedali da soli eseguono visite ambulatoriali che sommano a circa 130 mila e il complessivo bacino d’utenza è pari ad almeno cinque volte tanto: questo significa che con attività di sensibilizzazione efficaci che prevedano una collaborazione fattiva della popolazione locale, è possibile raggiungere svariate decine di migliaia di persone, che aumentano ulteriormente se si aggiungono le attività di formazione realizzate nelle parrocchie.
Oltre agli interventi sanitari in senso stretto, i missionari della Consolata, spesso in collaborazione con le missionarie, gestiscono diverse attività che hanno a che fare con l’assistenza ai malati in termini di accoglienza, nutrizione, istruzione.
Un esempio sono certamente la Casa Siloé e Lar Suzanne, strutture aperte negli anni Novanta a San Paolo del Brasile per ospitare circa trenta bambini e una decina di adulti. Non si tratta di strutture ospedaliere, bensì di luoghi dove i pazienti risiedono e vengono seguiti in un’atmosfera simile a quella che si instaura in una vera e propria famiglia. Nei centri per i bambini lavorano dieci persone a tempo pieno, per dare continuità e sicurezza ai piccoli, e centoventi volontari che aiutano in lavanderia e nella pulizia dei locali, portano i bambini a scuola o all’ospedale, li intrattengono nel doposcuola e li fa giocare. Il trattamento medico avviene in stretta collaborazione con l’ospedale governativo, che prescrive e fornisce gratuitamente tutte le medicine da somministrare ogni giorno.
Altro esempio di iniziative come questa sono le attività di sensibilizzazione realizzate ad esempio a Neisu attraverso i Co.Sa., i comitati sanitari di villaggio. Grazie alla formazione che i membri dei comitati ricevono dal personale dell’ospedale di Neisu nel corso di varie sessioni di educazione sanitaria, i Co.Sa. possono fare da «moltiplicatore», diffondendo informazioni corrette sulla prevenzione dell’Hiv una volta rientrati ai loro villaggi.

Lotta all’Aids
e buona sanità di base
La rete di ospedali, centri sanitari e dispensari è fondamentale nel lavoro di lotta all’Aids, così come cruciali sono anche tutti quegli interventi con le comunità locali per fare informazione, educazione, prevenzione.
Oltre alle attività legate specificamente all’Hiv, determinante per garantire l’efficacia degli interventi è il fatto che ogni intervento di cura e trattamento per l’Aids viene innestato su una struttura sanitaria solida e funzionante. I missionari della Consolata, infatti, inseriscono i loro programmi di lotta alla diffusione dell’Hiv e di cura dell’Aids nell’ambito di complessi sanitari dove ad essere garantiti non sono solo i servizi relativi a Hiv/Aids ma anche l’assistenza sanitaria relativa ad altre patologie e, soprattutto, l’assistenza sanitaria di base.
Questo aspetto risulta tanto più rilevante se si traccia un bilancio degli interventi realizzati dalle grandi agenzie umanitarie inteazionali e dalle Ong: dopo anni di campagne e progetti di lotta all’Hiv, infatti, è emerso in modo abbastanza evidente che spesso uno degli elementi che mina alla radice l’efficacia degli interventi di lotta all’Hiv nei paesi del sud del mondo è proprio l’inadeguatezza delle strutture sanitarie di base. Un intervento di cura e trattamento Aids, se non inserito all’interno di una struttura operativa in grado di fornire servizi sanitari di base, rischia non solo di non portare ai risultati sperati, ma di compromettere il funzionamento della struttura stessa: si rischia, per fare un esempio, di fornire farmaci Arv senza essere in grado di curare una banale ferita infetta o un’infezione intestinale.
Difatti i finanziamenti per la lotta all’Hiv finiscono a volte per fagocitare la sanità di base: in molti paesi del sud del mondo il lancio di un progetto in grande stile concentrato su Hiv/Aids rischia di distogliere il già scarso numero di personale sanitario disponibile dalle sue normali funzioni per specializzarsi ed operare esclusivamente sull’Aids, trascurando quindi quello che è la routine sanitaria. Si forma così, di fatto, un vero e proprio sistema sanitario «parallelo», regolato da logiche non sempre in linea con le priorità definite dai governi nazionali, con finanziamenti comunque insufficienti, spesso poco equilibrati e eccessivamente concentrati su un unico ambito sanitario. Ci si trova, nel concreto, a vivere il paradosso di strutture dove il reparto Hiv/Aids è abbastanza ben strutturato, attrezzato e seguito da personale specializzato mentre gli altri reparti mancano perfino delle più elementari attrezzature e del minimo di personale che servirebbero a farli funzionare in maniera sufficiente. Si assiste quindi a una distorsione nell’erogazione del servizio sanitario e a una competizione tra interventi di lotta all’Hiv e sanità di base, mentre i due ambiti dovrebbero essere in cornordinamento e sostenersi l’un l’altro.

L’altra faccia della lotta all’Hiv
Date le considerazioni precedenti, è evidente che un programma efficace di lotta all’Hiv/Aids non può più prescindere dal miglioramento delle condizioni socio – economiche rispetto alle quali l’Hiv/Aids è solo la punta dell’iceberg. Non basta quindi ampliare l’accesso ai servizi per la distribuzione di medicinali; occorre innanzitutto rafforzare i sistemi sanitari di base in modo che siano efficienti, accessibili per tutti e gratuiti.
Sono poi necessari interventi sociali che mettano i malati nella condizione di superare le difficoltà che limitano il loro accesso alle cure, come i già menzionati costi per il cibo o i trasporti, ed evitino la discriminazione sociale.
Dovrebbe, inoltre, essere garantito anche un servizio domiciliare di cura, non solo per chi abita troppo lontano dai centri sanitari, ma anche per chi questi centri non li può raggiungere per motivi di salute. Purtroppo, in quasi tutti i paesi del sud del mondo, e in Africa in particolare, questi servizi di cura domiciliare sono previsti ma, per mancanza di fondi, non sono effettivamente disponibili e la maggior parte dei pazienti che non può recarsi nelle strutture sanitarie non riceve alcun trattamento. I costi per formare gli operatori domiciliari, decisivi specialmente nel trattamento delle infezioni opportunistiche, non sono così elevati e, comunque, inferiori a costi derivanti dal sottrarre personale medico alla sanità di base per destinarla ai progetti di lotta all’Hiv.
Infine è necessario costruire una rete di operatori che possa far sì che i messaggi sulla prevenzione raggiungano i destinatari e, soprattutto, che possa informare le persone sieropositive che esistono servizi presso i quali ricevere cure e trattamenti. Non solo. Oltre a informare, occorre anche invogliare i pazienti a far uso dei servizi offerti, mettendoli in condizione di superare i pregiudizi e il timore che la loro condizione di sieropositività, una volta dichiarata, possa finire per isolarli dalla loro comunità.
Le cliniche mobili, la costruzione di centri sanitari periferici, la formazione di responsabili sanitari comunitari e il lancio di progetti «paralleli» (microcredito, micro – progetti agricoli, formazione professionale e simili) sono alcuni dei mezzi attraverso i quali i missionari della Consolata cercano di ovviare alle difficoltà socio – economiche che impediscono a un paziente di fruire effettivamente dei servizi relativi all’Hiv/Aids a causa della propria condizione di indigenza.

Hiv, un’emergenza per tutte le stagioni
Elemento che desta preoccupazione quando si riflette sulle logiche che regolano gli interventi nel sud del mondo è la «riciclabilità» dell’Hiv/Aids come tema su cui si concentra la cooperazione internazionale in mancanza di emergenze più attuali: «L’Hiv non va più di moda, quest’anno: adesso che è finito lo tsunami è il cambio climatico il più gettonato», commentava qualche anno fa con amaro sarcasmo una funzionaria internazionale, constatando le fluttuazioni anche brusche dell’attenzione della comunità internazionale.
Così come «passa di moda» in fretta, altrettanto repentinamente l’Hiv/Aids torna alla ribalta, attraverso gli appuntamenti annuali come la giornata mondiale di lotta all’Hiv (1° dicembre) e anche per effetto di campagne estemporanee lanciate da istituzioni inteazionali e Ong. Ma il problema rimane, anche quando non sta sulle pagine delle riviste o nei documentari trasmessi alla televisione e il modo più efficace di affrontarlo spesso parte dalla lotta alla povertà e all’ingiustizia prima ancora che all’Hiv/Aids.

Chiara Giovetti e Marco Simonelli

Chiara Giovetti e Marco Simonelli




Risorgiamo dalla polvere

Fondazione Missioni Consolata Onlus

Inizia con questo numero una nuova rubrica: Cooperando…, spazio di riflessione, proposte  e progetti per pensare il mondo della cooperazione internazionale insieme a Missioni Consolata Onlus.

Il microcosmo delle baraccopoli

Peter posa distrattamente una mano su un mucchio di T-shirt impilate con cura sul suo banco del mercato. Ha sentito il fischio del treno in lontananza e sa che fra pochi secondi un convoglio ferroviario lambirà la sua merce passando sulle rotaie che attraversano Kibera, il più grande degli oltre duecento slum di Nairobi. Viene da sorridere pensando agli annunci nelle stazioni europee, dove voci meccaniche raccomandano ai viaggiatori di non oltrepassare la linea gialla di sicurezza ogni volta che un treno in transito scorre tra i binari. Peter compie quel gesto con estrema naturalezza, in modo quasi automatico: abita e lavora in una bidonville di trecentomila persone e ha imparato a convivere con la mobilità causata dai pochi lentissimi treni di passaggio, il fango della stagione delle piogge, i rivoli di liquami che scorrono negli scoli a cielo aperto, l’odore acre di pneumatici bruciati e il puzzo dei rifiuti urbani mai raccolti.
Secondo le stime di Un Habitat, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa degli insediamenti umani, un abitante del globo su sei vive in una baraccopoli, cioè in un agglomerato urbano spontaneo dove non sono garantite cinque condizioni essenziali: l’accesso all’acqua, i servizi igienici, lo spazio vitale sufficiente, la durata e qualità delle abitazioni e le garanzie giuridiche del possesso delle case. Sempre Un Habitat informa che attualmente metà della popolazione mondiale vive in città e questo, nel giro di un ventennio, aumenterà fino al sessanta per cento. Nei paesi in via di sviluppo, in particolare, questa crescita è decisamente sostenuta: ogni mese, cinque milioni di persone abbandonano le zone rurali e vanno a ingrossare le fila della popolazione urbana, inseguendo gli stessi sogni e speranze che portano migliaia di immigrati sulle coste italiane.
Al di là delle ovvie considerazioni sui drammi legati alla vita in uno slum, ciò che impressiona di questi quartieri è la presenza di dinamiche quotidiane del tutto simili a quelle vissute dalle persone appartenenti a contesti sociali più agiati. Ben oltre la soglia di degrado tollerabile per un cittadino occidentale si sviluppa infatti un «microcosmo», come lo ha definito padre Paolo, missionario comboniano attivo nello slum di Korogocho, «con le sue regole e la sua economia». In Kenya, un terzo degli abitanti degli slum è un finto povero che ha scelto di vivere in questi quartieri per evitare gli alti costi e doveri dei luoghi residenziali oppure per lucrare sulla disperazione altrui, affittando baracche di fango e lamiera a chi, invece, non ha scelta.
Non solo. La baraccopoli è ben lontana dall’essere un errore, un imprevisto storico e sociale; al contrario. «Gli slum sono vere e proprie riserve di manodopera giornaliera a buon mercato», commenta padre Franco, missionario della Consolata in Kenya. «E sono un ottimo centro smistamento di merci “sensibili”», gli fa eco dall’altra parte del mondo padre Jaime, missionario della Consolata a San Paolo del Brasile. «Dai quartieri ricchi, decine di automobili di lusso arrivano ogni sera a Héliopolis e nelle altre favelas pauliste per comprare marijuana, cocaina, sesso e qualunque cosa».
L’esistenza di realtà urbane degradate è certamente foriera di tensioni e violenza, dentro e fuori i confini tracciati dal marrone fulvo della ruggine delle lamiere. «Che ti aspetti?», chiede ironico Marco, consulente in psicologia sociale di Johannesburg. «Nelle metropoli del Sudafrica vedi ville immense con piscine da mille e una notte e, letteralmente girato l’angolo, trovi la township dove il piatto forte è la testa di capra arrosto. Ovvio che ogni tanto qualcuno compra un fucile e cerca di rubarti la macchina».
Viene spontaneo chiedersi perché questa marea umana non faccia valere la sua superiorità numerica e non si ribelli mettendo a ferro e fuoco le città e prendendo d’assalto le sedi del potere. «Non otterrebbero niente», spiega padre Franco, «se non una dura repressione da parte delle autorità. Si sentirebbero rispondere: “Ma chi vi ha chiesto di abbandonare le campagne e ammassarvi come bestie in città?”. No, non è questo che vogliono». Ciò che vogliono gli abitanti degli slum è piuttosto il riconoscimento graduale dei propri diritti, la riqualificazione delle aree dove vivono, il risanamento delle infrastrutture. Della quotidianità di una baraccopoli fanno parte anche i numerosi comitati di quartiere e associazioni che, anche con la collaborazione di istituzioni inteazionali, Ong e missionari, lottano ogni giorno per avere case di mattoni, scuole adeguate, allacciamenti idrici ed elettrici, strutture sanitarie.

Missioni Consolata Onlus
nelle periferie urbane
L’impegno nelle periferie urbane è uno degli ambiti prioritari del lavoro di evangelizzazione che i missionari della Consolata portano avanti attraverso la loro presenza decennale, in alcuni paesi anche centenaria, in Africa e America Latina. Sono stati perciò testimoni diretti dell’esodo dalle aree rurali o dalle zone di guerra da cui hanno avuto origine gli insediamenti urbani spontanei e la loro degenerazione in baraccopoli e, nel corso del tempo, hanno cercato di rispondere alle nuove emergenze.
Missioni Consolata Onlus (Mco) nasce proprio per valorizzare questa esperienza e accompagnare il lavoro di promozione umana attraverso lo strumento del progetto. Nella maggioranza dei casi, i progetti di Mco nelle periferie urbane, ideati e gestiti in stretta collaborazione con le comunità locali, intervengono sugli ambiti sanitario e scolastico e mirano a fornire a tutti l’accesso alle cure mediche, ai servizi igienici, a un’istruzione di qualità, senza dimenticare la formazione dei leader e il microcredito.
Tra le esperienze più significative promosse attraverso la campagna quaresimale «Risorgiamo dalla polvere» occorre ricordare il Kenya. Nella periferia di Nairobi, i missionari della Consolata operano negli slums di Kahawa West, Deep Sea, Suswa e Masaai con progetti relativi a istruzione, sanità e sanificazione. A Kahawa West è in corso la costruzione di un asilo mentre continua la collaborazione con Un Habitat e altre agenzie per la costruzione e manutenzione dei servizi igienici. A Deep Sea, Suswa e Masaai sono operativi un centro di artigianato e sartoria con annessa produzione, un dispensario e una scuola matea ed elementare, quest’ultima gestita in collaborazione con l’associazione italiana Afrikasì.
Altra realtà importante è quella della periferia di Boa Vista, capitale dello stato brasiliano di Roraima, dove i missionari della Consolata hanno avviato progetti sanitari e di microcredito per la popolazione indigena emigrata in città e i lavoratori urbani.
Nella periferia di Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo, si sta procedendo all’ampliamento di due strutture scolastiche ed è in programma l’apertura di un centro nutrizionale per far fronte agli alti tassi di malnutrizione rilevati tra i bambini del quartiere di Saint Hilaire.
In Mozambico, nei sobborghi della capitale Maputo, si fornisce appoggio didattico agli studenti universitari attraverso il programma di borse di studio, affiancato dai servizi offerti dal centro culturale e dalla biblioteca.
Infine, i missionari della Consolata sono presenti anche nelle periferie urbane di Caracolí (Colombia), Guayaquil (Ecuador) e Caracas (Venezuela), dove svolgono attività formative e gestiscono centri d’aggregazione.
Il dettaglio dei progetti di Missioni Consolata Onlus è disponibile su sito web all’indirizzo www.missioniconsolataonlus.it, dove è possibile consultare il dossier «Periferie urbane» e visitare la pagina della campagna «Risorgiamo dalla polvere».

Chiara Giovetti e Antonio Rovelli

Chiara Giovetti e Antonio Rovelli




«Una storia di negri»

Osvalde Lewat: donna, africana, regista

Africana, madre di famiglia. Gioalista, ma non le basta. Osvalde vuole approfondire. Ma vuole soprattutto risvegliare il senso civico e politico della gente. È convinta che le difficoltà quotidiane diminuiranno se si riesce a intervenire sulla società. Questo lo fa con i film documentari, per scuotere,
far riflettere, e far agire.

«Ho scelto di ritornare sulla storia drammatica del Comando operativo, che fu istituito dal capo di stato in Camerun tra il 2000 e il 2001, con l’obiettivo di combattere il grande banditismo. Ma rapidamente ci sono state derive, e dopo un anno ci si è resi conto che più di 1.000 persone erano scomparse, o erano state arrestate per essere interrogate e non sono mai più tornate».
Osvalde Lewat è nata nel 1976 in Camerun. È sposata ed è madre di due figli. Ha cominciato come giornalista della carta stampata lavorando per diversi anni nel suo paese, anche al quotidiano Camerun Tribune. «Ero frustrata perché ogni volta che facevo un articolo il giorno dopo era già superato». Lavorava molto sull’attualità, ma era attirata dagli approfondimenti sui temi trattati, sentiva di dover prendere del tempo per fare delle vere ricerche. «Volevo anche realizzare dei lavori che potessero restare, in un certo senso, essere rivisti».
Dopo aver frequentato l’Istituto nazionale dell’immagine e del suono di Montréal (Canada), realizza il suo primo documentario. Si interessa ai diritti degli innuit, le popolazioni indigene del Canada. Il taglio è sociale. Frequenta un corso anche alla prestigiosa Femis di Parigi (Scuola nazionale superiore dell’immagine e del suono) e realizza un documentario sulla vita di una religiosa.
Comincia a lavorare per la televisione, facendo dei programmi d’informazione. Arriva così al suo primo cortometraggio impegnato: Au-delà de la peine (Al di là della pena). È la storia vera di un carcerato in Camerun, che condannato a 4 anni, ne aveva passati 33 in prigione. Questo film riceverà diversi premi, tra cui il gran premio film televisivi in Portogallo e il premio diritti umani al festival Vues d’Afrique di Montréal.
Osvalde non si ferma, ha trovato il suo modo di essere e fare giornalismo. Unisce alla sua intelligenza e capacità tecniche una grande determinazione.
«Questo film mi ha dato voglia di andare avanti. Ho continuato quindi con i documentari quello che avevo iniziato con il giornalismo, una sorta di attrazione per i soggetti socio-politici».

Per una nuova
coscienza cittadina

Se le si chiede da cosa scaturisce questo suo «impegno» risponde: «Non so se è un giornalismo impegnato. Forse. Voglio piuttosto che gli altri, tramite i lavori che faccio, si sentano impegnati, coinvolti. Che i film portino qualcosa alla gente, al mondo in cui vivo, all’Africa. Non so se riesco sempre a farlo, ma ci provo».
E così si trova a raccontare tragedie: «Mi dicono che i miei film fanno piangere. Io ho piuttosto voglia di scuotere la gente e farla muovere. Fare in modo che ci sia più coscienza cittadina in Africa, e quindi un risveglio politico maggiore. Che la gente comprenda che ha una responsabilità sul proprio destino, quindi non può dare le dimissioni di fronte a delle questioni che sono preoccupanti nella loro società».
In Africa è difficile vivere, occorre battersi: quotidianamente ci si domanda se si riuscirà a nutrire la propria famiglia. Così molti africani non si interessano più a quello che succede nel loro mondo: «Io invece penso che cercando di far muovere la società si può riuscire a migliorare anche il proprio quotidiano. È questa la mia visione ed è per questo che faccio i film».
Nel 2005 Osvalde Lewat torna sugli schermi con il soggetto delle donne violentate in Congo durante la guerra: Une amour pendant la guerre (Un amore durante la guerra). Un punto di vista di una africana su una tragedia di africane.
Nonostante la durezza dei temi trattati, Osvalde è molto femminile e non nasconde una certa tenerezza sotto la quale fermenta una grande grinta.
Donna e realizzatrice, si rischia di avere più difficoltà in questo mestiere. «Penso che noi donne abbiamo molti più ostacoli per fare una carriera professionale. Quando si è veramente impegnate è difficile conciliare una vita di famiglia con la carriera. E questo non solo per le donne cineasta. Per noi c’è la dimensione supplementare di dover andare ai festival, assentarsi settimane per le riprese e per la promozione del film».
Come donna, cineasta, africana è ancora più complicato, ricorda Osvalde, perché: «Il cinema è un universo molto chiuso, pieno di uomini. Talvolta quando si gira ci si ritrova come sola donna con quindici uomini. Non è mai molto semplice… Anche a livello internazionale è un ambiente machista e sessista». Nonostante questo il numero di donne africane che realizzano film in tv o per il cinema è in aumento.

Una storia di «negri»

Nel 2003 decide di dedicarsi a un progetto ambizioso: un documentario sul Commandement opérationnel (letteralmente: Comando operativo). Si tratta di un corpo militare d’élite, che il presidente camerunese Paul Biya (ancora in carica) creò, con decreto presidenziale, nel febbraio del 2001. Vi facevano parte reparti scelti di esercito, gendarmeria e vigili del fuoco. L’obiettivo era quello di combattere il «grande banditismo» che imperversava la zona di Douala, la capitale economica del paese, sulla costa.
Purtroppo il «Co» (come veniva chiamato) ha una deriva violenta e diventa incontrollabile. I giovani dei quartieri spariscono, sono torturati e, il più delle volte, uccisi. In altri casi sono chiusi in piccole celle dove sono lasciati consumare per fame e sete. Se non basta, sono avvelenati.
Tutto senza processo e spesso senza prove, ma dietro semplice delazione.
Le organizzazioni inteazionali di difesa dei diritti umani, come Amnesty Inteational, la Federazione internazionale delle leghe dei diritti dell’uomo (Fidh), l’Associazione contro la tortura (Apt) e quelle locali, come la Acat (Associazione cristiana contro la tortura) denunciano persecuzioni ed esecuzioni sommarie.
Già nel novembre dello stesso anno la commissione delle Nazioni Unite contro la tortura chiede al governo del Camerun di sciogliere il corpo. Si muoverà anche l’Alto commissariato per i diritti umani.
Dopo appena un anno di attività i desaparecidos africani sono oltre un migliaio.
«Quando decisi di girare Une affaire de nègres, tutti mi dicevano: “Tu non avrai la capacità e la forza di portare a termine un progetto così difficile”. Ma poi, quando incontravo dei personaggi, mi vedevano fragile e così mi davano fiducia più facilmente. I rapporti personali sono a volte più semplici, quando si è donna. Poi ci sono finanziamenti in favore della promozione delle donne realizzatrici, e cerchiamo di approfittae».

Le vittime non
si dimenticano

«Abitavo in Camerun quando il Commandement opérationnel è stato creato ed ero più o meno nello stesso torpore dei miei concittadini, non sapendo che cosa stava succedendo. Non ero cosciente. La città in cui è successo, Douala, è conosciuta per il suo lato eccessivo e soprattutto per la sua posizione all’opposizione rispetto al governo. Leggendo i giornali si prendeva distanza rispetto ai fatti e mi ci è voluto molto tempo per rendermi conto che vicino a me un tale dramma si era consumato».
Le motivazioni che la portano a questa vicenda sono ancora una volta interiori: «È un film forse egoista, un po’ catartico, nel quale tento di fare qualcosa che non ho fatto prima. Dovevo agire. Fare in modo che questa storia sia conosciuta, in quanto lo è molto poco, e che la gente si fermi a riflettere. Volevo che le famiglie delle vittime, i cui figli sono stati sepolti come dei malfattori, accusati di banditismo senza alcuna prova, avessero la possibilità di dire: no, non erano dei banditi».
Girare un film su un tema che il governo vuole si dimentichi, a pochi anni dall’accaduto, non è impresa esente da rischi.
«Ho fatto quattro anni di ricerche prima di iniziare le riprese. Chiesi a tutta l’équipe la totale discrezione su quello che stavamo facendo. Abbiamo girato le immagini con molta prudenza e con un po’ di fortuna non ci sono stati problemi.
Certo abbiamo avuto anche paura: ogni volta che iniziavamo a prendere delle immagini non sapevamo se avremmo terminato. Mi ricordo quando siamo partiti dal Camerun, all’aeroporto tremavo e mi dicevo “avranno saputo che stiamo facendo questo film”».
Il documentario è diffuso dalla televisione francese. Viene visto anche in Camerun, nella versione Tv, un cortometraggio, nel febbraio del 2008. Al ministero camerunese della comunicazione vanno in fibrillazione e vogliono preparare un contrattacco: un video che presenti il punto di vista governativo. Ma poi non si sa più nulla.
«Ci sono state reazioni aggressive da parte del governo del Camerun, ma solo di tipo verbale – racconta Osvalde -. Sono stati sorpresi che io sia ritornata su questa storia imbarazzante, che si vuole non risvegliare. Mi hanno telefonato, e non erano molto amichevoli».

Testimoni coraggiosi

Il film presenta molte testimonianze. Familiari delle vittime, il giornalista Séverin Tchounkeu (direttore di La Nouvelle Expression), politici di opposizione. Fondamentale è il coraggioso avvocato Jean de Dieu Momo, che cura la difesa  dei parenti delle vittime in tribunale.
Struggente il racconto di madame Etaha, la vedova di uno dei nove scomparsi del quartiere Bepanda (febbraio 2001), il caso che ha creato più scalpore e quindi reazioni nazionali e poi inteazionali. I nove furono arrestati, torturati e uccisi perché sospettati del furto di una bombola di gas.
Agghiacciante invece la descrizione delle operazioni da parte di un militare, ex membro del Commandement, Rigobert Kouyang.
I testimoni, tutti residenti in Camerun, non hanno avuto problemi dopo la diffusione.
«Non che io sappia – racconta Osvalde -. Hanno raccontato in tutta coscienza. Sono stata con loro tre anni prima di girare e ho chiesto loro se erano sicuri di fare questa testimonianza. Sapevamo tutti che avremmo preso dei rischi, pur non sapendo quali. Ognuno ha avuto tempo di misurare le conseguenze del proprio impegno in questo film».
Una pellicola molto coinvolgente per tutti. «Sono questioni ancora attuali. Eravamo preoccupati per la reazione del governo». Un film mostrato pure all’estero, che attira l’attenzione della comunità internazionale.
«Anche l’équipe tecnica era cosciente dei rischi, ma tutti hanno voluto andare fino in fondo».
Osvalde ha realizzato due versioni di Une affaire de nègres, una per la televisione e un’altra, più lunga, per il cinema. Ora sta lavorando per proiettare in Camerun la versione integrale, eventualmente in dvd oppure riaprendo per l’occasione un cinema (le ultime sale cinematografiche del Camerun sono state chiuse a Yaoundé nel 2008).
«In realtà il film ha già avuto un grande impatto nel paese, è stato anche piratato e diffuso sul mercato informale. È una pagina della nostra storia che è un po’ nera, ma siamo pronti…».

Difficile reperire i fondi

Una lavorazione che dura cinque anni è costosa e soprattutto il film non è redditizio economicamente.
Uno sforzo notevole è stato fatto per reperire i fondi.
«Avere i soldi per la realizzazione è stato complicato. Non volevo fare un film senza mezzi, volevo avere un potenziale cinematografico. Purtroppo i giovani cineasti non capiscono sempre che bisogna prendere molto tempo per fare bene le cose. Ho avuto la fortuna di presentare un piccolo testo a un fondo canadese per la cultura. Non hanno dato molto, ma hanno conferito credibilità al progetto. Da lì ho ottenuto altri finanziamenti: fondi d’autore, fondi francesi per cinema africano, ecc. Occorreva però avere un pre-acquirente, un canale televisivo che si impegnasse a diffonderlo, per accedere a quei finanziamenti. Non è stato facile, poi ci sono riuscita con France 5».

Una società addormentata

Il film si chiude con interviste lampo sul marciapiede. Alla domanda: «Vorrebbe di nuovo il Commandement opérationnel?», la maggior parte della gente risponde di sì, che c’è bisogno di maggiore sicurezza.
Possibile che la gente abbia già dimenticato?
«No, non hanno dimenticato. Ma siamo in un paese dove la coscienza cittadina è quasi inesistente, mentre la delinquenza è un vero problema. La questione che pone il mio film non è se combattere l’insicurezza, ma come combatterla. Occorre fare un’analisi per capire l’origine di questo stato di cose: la gente non è istruita, è povera, ma perché?».
 «Ho voluto mostrare queste risposte a freddo per spiegare che malgrado tutto quello che è successo la gente vuole sicurezza, la reclama». Nessuno pensa che possa succedere a lui di essere arrestato arbitrariamente, torturato e ucciso. 
«È anche il segno di una società che è addormentata. In molti paesi l’accento è stato messo sulla questione sicurezza: anche in Francia e Italia. Sono le grandi questioni di oggi, e le soluzioni sono di tipo populista. La gente è contenta se ha l’impressione che ci sono misure molto forti, dure, repressive, per portare la sicurezza. Ma non si rendono conto che quando si fa un’unità speciale per combattere il grande banditismo, alla fine, tutti noi abbiamo perso».
«La gente, nonostante abbia visto quello che è successo, non è neanche cosciente che la risposta non è il Co, non è la repressione».
Il Commandement opérationnel era una risposta puntuale per combattere il gran banditismo, un problema reale che si poneva. Quando cominciarono le derive, le prove di corruzione e di abusi, questa unità speciale è comunque rimasta operativa. C’è stata poi una pressione internazionale, affinché sia fatta giustizia. In realtà, il Co non sarà sciolto ufficialmente e diventerà il «Centro operativo della gendarmeria».

Un titolo che
non si dimentica

Une affaire de nègres, (letteralmente: una questione di negri) un titolo che colpisce: «Cercavo qualcosa di un po’ schoccante, in quanto ho la sensazione che poca gente conosca questa storia. Perché è successo in Africa, è un dramma in più, una deriva in più, la gente è stanca di queste piaghe. Il fatto di essere africana e nera mi ha permesso di usare un titolo così, se fossi stata bianca magari non avrei osato. Penso che ci sia gente che pensa: “Oh, ancora una storia di negri” ma non possono esprimerlo. Volevo attraverso questo titolo prendere in contropiede queste persone, dicendo: no, è un affare umano, un dramma universale, successo in Camerun, ma quando parliamo di delazione, corruzione, impunità, ovunque siamo sulla terra, in Europa, in Africa, sono questioni che ci riguardano tutti, che ci preoccupano tutti, non è solo una storia di negri». 

di Marco Bello

Marco Bello




«La chiesa siamo noi»

Mozambico: finalmente i laici protagonisti

La chiesa mozambicana ha fatto uno straordinario percorso dagli inizi degli anni ‘70 a oggi. Con la «Chiesa ministeriale» si è attuato un modello in cui
i laici sono veramente protagonisti. Secondo i principi del Concilio Vaticano II. E come le prime comunità cristiane. Un cammino oggi confrontato a nuove sfide. La maggiore è l’invasione della cultura occidentale.  Un esempio anche per la chiesa italiana.

«Sto facendo il corso per imparare, approfondire la vita spirituale, liturgia, catecumenato, bibbia… Per portare la buona novella agli altri fratelli, affinché anche loro intraprendano il cammino della luce».  È Matheus Andres Mal che parla e siamo a Guiúa (Inhassoro) nel sud del Mozambico. Con sua moglie e altre 13 famiglie, ha iniziato un anno fa il corso di formazione per catechisti, al Centro di promozione umana di Guiúa.
Matheus viene dalla parrocchia Santa Ana Maimelane, ed è animatore da alcuni anni della comunità Santa Maria Macopane. Il consiglio pastorale l’ha «inviato» per formarsi e diventare catechista.
«I laici sono i pilastri della chiesa, se vengono a mancare loro cosa succede? – si chiede Sandro Faedi, missionario della Consolata in Mozambico fino al 2008.  – Senza di loro non siamo niente, diventiamo solo il clericalismo esportato dall’Europa».
In Mozambico assistiamo, da quasi quarant’anni, a un particolare percorso che fa la chiesa, definito come «chiesa ministeriale» ovvero, come sottolinea Onorio Matti, missionario dehoniano e studioso del fenomeno, «chiesa famiglia, chiesa comunione».
Per le origini occorre risalire al Concilio Vaticano II, che spinge i laici ad avere un ruolo attivo nella chiesa, per una chiesa di comunione ispirata alla Trinità, non strutturata in modo piramidale ma, orizzontale, di popolo.

Le origini

Sono i primi anni ’70, il Mozambico è ancora colonia portoghese, ma infuria la guerra di liberazione. In quel periodo un gruppo di giovani missionari illuminati e formati al concilio inizia a riflettere su questo «Nuovo modello di chiesa». Anche il giovane vescovo di Nampula dom Manuel Vieira Pinto dà un notevole impulso alla riflessione. Il sistema di oppressione del periodo coloniale fa pensare al modello delle «Comunità ecclesiali di base» dell’America Latina, che si sviluppano in quegli anni nell’ambito della Teologia della liberazione. Il percorso sarà un adattamento al contesto africano e, più in particolare, alla cultura dei popoli del Mozambico.
Si considera che la nascita delle cosiddette «Piccole comunità cristiane ministeriali» (Pccm) avvenne in concomitanza con l’indipendenza del paese (1975), anche se, in realtà, si tratta di un processo che durò alcuni anni e quindi non è identificabile con una data precisa.
«Le comunità ecclesiali di base latinoamericane e le Pccm mozambicane coltivano e sviluppano in comune il valore della uguale dignità e delle differenti funzioni dei battezzati e quindi della responsabilità e corresponsabilità che si traducono in servizio. Affermano il dono dello Spirito che è dato a ciascuno per cui il popolo può accedere alla parola dal basso senza doverla sempre e solo ricevere dal presbitero» ricorda padre Onorio nella sua tesi: Storia e prospettive future delle piccole comunità cristiane ministeriali in Zambezia (2007).
Un’altra fonte per la riflessione di quegli anni fu la nuova teologia africana, nello specifico quella congolese elaborata alla facoltà teologica di Kinshasa (Repubblica democratica del Congo). I testi africani criticavano i missionari che all’epoca trattavano la gente come bambini e pretendevano di «svuotare la mente dell’africano per introdurvi idee cristiane», senza alcun adattamento del cristianesimo nelle culture locali. C’è in essi un superamento del vecchio modo di fare missione e le basi per quella che fu, più tardi, definita «inculturazione».
Nulla di così nuovo, in realtà nelle Pccm, perché i principi sono quelli delle prime comunità cristiane (dagli Atti degli Apostoli e lettere di S. Paolo): comunione, condivisione e corresponsabilità.
Nelle Pccm, infatti, ogni battezzato ha un ruolo attivo, di servizio gratuito alla comunità di appartenenza. Il modello si contrappone e sostituisce quello del missionario che ha al suo servizio un catechista principale, scelto da lui e retribuito per vari incarichi. Il passaggio prevede un cambio di mentalità, non solo della gente, ma anche della gerarchia ecclesiastica e per questo fu lento e non privo di problemi.
La Chiesa ministeriale mozambicana resta però originale nella sua realizzazione concreta, difficile trovarla altrove, se non nei paesi confinanti dove viene «esportato» dagli stessi esuli del Mozambico.

Appoggio ufficiale

Il lavoro preparatorio e la sperimentazione del nuovo modello di chiesa riceve approvazione ufficiale e appoggio del clero nella prima Assemblea nazionale pastorale, Anp (Beira, settembre 1977), che ha proprio il tema: «Cercare piste comuni di orientamento pastorale nelle
comunità cristiane e suoi ministeri a partire dalla  esperienza vissuta e condivisa, interpellati dalla forza dello Spirito e dai rapidi e profondi cambiamenti in corso nel nostro paese». Le Anp sono il momento più alto di riflessione della chiesa mozambicana tutta: durante una settimana tutti i delegati delle diocesi (vescovi, presbiteri e laici) si incontrano e scambiano idee su tematiche che sono state preparate, con incontri a livello diocesano, per alcuni anni.
Il tema sarà poi ripreso nella seconda Anp a Maputo (dicembre 1991): «Consolidare la Chiesa locale». Mentre la terza e ultima Anp (Matola, 2005), prevederà ampi spazi all’analisi e la valutazione del percorso fatto, ma anche alcune idee su come «rifondare» le Pccm negli anni postconflitto (la guerra civile finisce nel 1992 e questo cambia il contesto).
Le tre Anp sono quindi i pilastri stessi del cammino fatto dalla Chiesa ministeriale e sanciscono e confermano la scelta, anche ufficiale, in questo senso.
Matheus ha 34 anni ed  è commerciante di professione: vende galline e capre. Nella sua comunità è animatore: «Faccio la catechesi e ho anche altri incarichi». Dopo il corso di formazione di un anno a Guiúa «il servizio che svolgerò sarà quello di formatore degli altri membri della parrocchia, provenienti dalle diverse comunità, che vogliono impegnarsi. Questa è la mia vocazione, fare germogliare il frutto che c’è negli altri». Anche sua moglie Cecilia ha seguito il corso: «Animavo la liturgia della gioventù, non ero catechista, mentre ora lo sono diventata grazie al corso. Avrò il compito di animare le donne, sempre nella carità e condivisione». I padri sono a 22 chilometri dalla comunità Santa Ana. Ecco che i laici sono chiamati a svolgere ruoli essenziali: «Quest’anno sono anche diventato ministro dell’eucaristia, e potrò quindi distribuirla». E aggiunge: «Con l’aiuto di Dio, vorrei annunciare la parola nella mia comunità, affinché tutti quelli che sono lontani, riescano ad avvicinarsi a Gesù Cristo», ma ribadisce «desidero anche che tanti fratelli abbiano la possibilità di venire a Guiúa a seguire questo corso e imparare, perché ”la messe è tanto grande e i lavoratori sono pochi”».

I laici «davvero» protagonisti

Sul vasto territorio delle parrocchie nascono e si moltiplicano le comunità. In ognuna di queste i cristiani, corresponsabili, eleggono i propri incaricati dei diversi ministeri.
I ministri eletti da tutti mantengono questo ruolo di norma per un anno, in modo tale che il maggior numero di cristiani possano partecipare. Fanno eccezione gli incarichi per i quali occorre una formazione specifica e sono quindi più difficilmente rimpiazzabili. Si tratta del catechista, dell’animatore della comunità e del ministro della parola.
Altri ministeri per la liturgia sono: lettore, incaricato del commento delle letture, incaricato dell’eucaristia, animatore del canto, della musica della danza. In seguito si aggiungono il ministero della famiglia, dell’ecumenismo, dei giovani, degli ospiti, di giustizia e pace.
Scelto il ministro, con un procedimento democratico e partecipativo, tra le persone di particolare integrità riconosciuta dalla comunità, questi riceve il mandato dall’équipe missionaria durante la celebrazione domenicale. Alla festa di Pentecoste, i mandati sono rinnovati. Il ministero può anche essere revocato in caso di cattivo comportamento del ministro.
Un concetto, non sempre facile da applicare, è che il servizio è gratuito, in quanto «servizio alla comunità» e non permanente, affinché leadership non diventi esercizio di potere.

Formazione: necessità primaria

Elias Mehama è di Mecanhelas, nella provincia Nord del Niassa. Ha 46 anni, in un paese dove l’aspettativa di vita è di 42. Ha viaggiato tre giorni con la moglie e tre figli per raggiungere Guiúa. Mentre ne ha lasciati altri cinque a casa, che saranno accuditi dai parenti. Al Centro di promozione umana, lui e la moglie Sabina, seguono il corso da catechisti.
 «Sto studiando diverse materie che mi aiuteranno nel mio servizio e che dovrò trasmettere agli altri fratelli della mia parrocchia» ci racconta. Al rientro sarà anche lui formatore di catechisti e animatori anche di altre comunità che fanno capo alla sua parrocchia.
«I laici hanno molte responsabilità nella nostra comunità. La parrocchia è molto grande, conta 130 comunità e un solo padre. Difficile visitarle tutte. Si fa un programma per andare in due comunità al giorno. Il sacerdote ha un lavoro enorme».
E continua: «Per le celebrazioni della domenica, quando non c’è il missionario, interviene l’animatore principale che fa “la celebrazione della parola”.  L’eucaristia la va a cercare (di solito a piedi ndr) il nostro ministro preposto e poi la distribuiamo».
Fin dalle origini delle Pccm si avverte come necessità quella della formazione. Nascono tre centri specifici: il Centro catechetico Paolo VI ad Anchilo (Nampula) per il Nord del paese, il Centro di formazione di Nazaré (Beira) per il centro e il Centro di promozione umana di Guiúa per il Sud.
Il nome del centro di Guiúa fondato nel 1972 dai missionari della Consolata (che ancora oggi lo gestiscono) si ispirava alla enciclica Populorum Progressio di Paolo VI, dove si legge: «È necessario promuovere un umanesimo totale», ricorda padre Francisco Lerma, responsabile del centro per diversi anni.
È costituito da una trentina di casette dove ogni famiglia può ricostituire il suo focolare, e diversi locali con aule per formazione, sale, cappella, biblioteca. Ma anche un centro sanitario, la residenza dei formatori. Intoo al centro ci sono campi utilizzati per alcune attività.
La giornata formativa è intensa. Alle sei del mattino le coppie si ritrovano nel fondo valle di fianco alla missione dove ogni famiglia ha un orto da coltivare.
Poi iniziano le ore in aula. Oltre a liturgia, Bibbia, pastorale, si impara storia del Mozambico, diritti umani, cittadinanza. E poi materie più pratiche: tecniche agricole, informatica, taglio e cucito. Alcune materie sono frequentate da donne e uomini insieme, per altre la frequenza è separata. Le donne, inoltre, accudiscono la casa e i figli, mentre gli uomini continuano la formazione.

Guerra e martirio

Ma il centro non ha sempre vissuto momenti facili. Il 13 settembre 1987, in piena guerra civile, i guerriglieri della Renamo (per la situazione politica si veda MC gennaio 2009) attaccarono la missione. Il catechista Manuel Peres fu assassinato e 36 altri laici furono fatti prigionieri. Di alcuni non si seppe mai più nulla.
Il centro fu quasi chiuso: annullati i corsi biennali per famiglie, vi si tenevano formazioni per aggioamento di una o tue settimane. Indirizzati a famiglie e non a individui.
La necessità di laici formati è evidente, così a fine 1991 si valuta, a livello diocesano, se riaprire il centro. Si decide per un’azione coraggiosa e nel marzo del 1992 quindici famiglie giungono a Guiúa per una formazione annuale. Ma ecco che il 21 marzo ancora la Renamo attacca il centro. Questa volta in ventiquattro furono brutalmente massacrati, alcuni dopo interrogatori e torture (vedi box). Altri furono deportati.
Nel 2002 padre Sandro Faedi solleva di nuovo la questione della mancanza di catechisti preparati:
«Quelli che avevano sostenuto la chiesa durante il tempo della persecuzione (dopo l’indipendenza, ndr), stavano diminuendo per età o decesso. I catechisti sono anche formatori di animatori, quindi tutta la struttura della parrocchia e delle comunità ne soffriva».
Padre Faedi ne parla con il vescovo dom Alberto Setele, dicendo che in nessuna parte del Mozambico si fanno più questi corsi.
Il vescovo acconsente a cercare una persona che possa riaprire il centro di Guiúa: un teologo con esperienza. Le persone contattate non si resero disponibili. Il vescovo allora insiste con Faedi: «Sarai tu a riaprire il centro catechetico».
«Arrivai a Guiúa dalla missione di Vilankulos. All’inizio consultai tutti coloro che avevano già fatto corsi in passato per avere consigli su come organizzarlo». Finalmente il corso inizia con quattordici famiglie nel 2003. Si decide per corsi residenziali di un anno.
 La scelta è quella di formare solo famiglie: «Vogliamo formare la famiglia cristiana: lui e lei, uno dei due catechisti, ma entrambi coinvolti nel cammino di fede e testimonianza. La condivisione di vita di queste famiglie cristiane a Guiúa, con le difficoltà, ma soprattutto la comunione di preghiere, lavoro, riflessione. Poi sono “seminati” nel loro villaggio».
I formatori sono missionari, e missionarie, ma anche laici, tra i quali catechisti che hanno già seguito il corso.
Parte della formazione è svolta in lingua, xitwha, mentre fondamentale è pure l’alfabetizzazione in portoghese.
«Ho avuto molte soddisfazioni da questa missione» ricorda Faedi «Uomini e donne che hanno lasciato tutto per un anno, per affrontare una vita diversa. Uomini rudi, abituati al lavoro nei campi che devono mettersi a studiare». E continua: «Quando li richiamavo per fare il corso agli altri, vedevo che erano cresciuti a livello intellettuale, teologico, di impegno cristiano, vita famigliare. Una crescita umana e religiosa». La comunità che li ha scelti e inviati ne accudisce la casa e il campo (talvolta i figli) durante la loro assenza.

CURA DELLA FAMIGLIA

«Nella mia comunità siamo più di 800 cristiani» ricorda Elias Mehama. «Abbiamo molti catechisti, animatori principali, animatori di carità, animatori di economia, laici delle famiglie. Ognuno ha un ruolo definito. Questi ultimi, ad esempio, aiutano le famiglie, quando ci sono problemi, affinché non divorzino e vivano in pace». Figura che sarebbe quanto mai utile anche nelle nostre comunità.
«L’animatore di economia, invece, controlla il denaro dell’offertorio, organizza la raccolta».
Nella celebrazione della parola «ci sono parti che spettano agli animatori e altre al sacerdote, che noi non tocchiamo. Occorre una formazione per sapere questo. Fino ad arrivare alla comunione ai propri colleghi. Io ho imparato anche questo al corso di Guiúa» conclude Elias.

Vero socialismo

Dopo l’indipendenza il Frelimo sceglie il marxismo-leninismo e avvia una campagna di nazionalizzazione. Missioni e opere (scuole, dispensari) sono tolti ai missionari, molti dei quali devono concentrarsi nelle città, altri lasciano il paese. Il fatto di avere un tessuto laico attivo e strutturato, le Pccm, salva la chiesa mozambicana. Molti missionari che tornano nei territori abbandonati in seguito a un ammorbidimento delle posizioni del governo, sono stupiti di trovare una chiesa vivace e le comunità che si sono moltiplicate. Non si assiste a divisioni di tipo famigliare o clanico, come è tendenza in Africa, ma il modello «democratico» di gestione della Pccm è sopravvissuto e si è sviluppato.
Con le Pccm «nasce veramente la chiesa locale con la coscienza di esserlo. La chiesa mozambicana fino all’Indipendenza era troppo caratterizzata e condizionata dalla cultura europea e coloniale. La gente era passiva, viveva sottomessa al missionario come ad una autorità civile, viveva nella paura dello stato di polizia vigente e soffriva un cronico complesso di inferiorità». Scrive Onorio Matti, e continua: «Nel loro ambito, le Pccm hanno dimostrato una esemplare capacità di autogestione, di corresponsabilità, di condivisione e di comunione, realizzando in piccolo, buona parte del modello di società socialista che non solo è fallita ma, purtroppo, ha prodotto il suo contrario, un basso livello di senso civile, di responsabilità  e partecipazione sociale con l’aggravante di un processo crescente e incontrollabile di corruzione a vari livelli».

Futuro incerto

Il Mozambico di oggi, e quindi anche la sua chiesa, si confronta con l’invasione culturale dei «non valori» occidentali. Quella che, padre Matti, definisce senza mezzi termini: «L’irruzione dell’Occidente attraverso i mass media in una società indifesa. Tutto questo chiede un rinnovamento del metodo e dei contenuti della pastorale e dei relativi testi che bisognerebbe saper riscrivere con la stessa fantasia e intelligenza, entusiasmo e forza, volontà e capacità di allora».
A fianco di un bisogno e domanda di spiritualità, si assiste a una pericolosa tendenza al ritorno al clericalismo, il che rappresenterebbe una involuzione.
Nelle parrocchie torna ad avere un’importanza predominante il parroco, che accentra e dirige: «Figura e autorità centrale da cui tutto e tutti devono dipendere». I laici rischiano di diventare meri esecutori dei suoi ordini e non attivi ministri eletti dalla comunità e che a essa devono rendere conto.
Ancora Onorio Matti propone un «antidoto» a queste derive: «Quello della formazione spirituale rimane un punto carente e da colmare nel cammino delle Pccm. Bisogna coltivare di più la formazione spirituale del catechista, dell’incaricato della parola e del responsabile della comunità. Solo la solidità spirituale nella fede permette di attraversare i tempi difficili». 

Di Marco Bello

MASSACRO IN MISSIONE

La Chiesa ministeriale del Mozambico conta i suoi martiri. Tra gli altri i 24 di Guiúa.  A livello diocesano si era fatta la scelta coraggiosa di riaprire il centro di formazione, dopo oltre quattro anni di chiusura. Era la notte del 22 marzo 1992 e mancavano poco più di sei mesi alla fine della guerra.  Suor Thérèse Balela, francescana missionaria di Maria, congolese, era arrivata a gennaio e faceva parte dell’équipe che avrebbe dovuto organizzare le formazioni.  Testimone diretta di quella tragedia racconta.

«Era la vigilia dell’inaugurazione del centro. I ribelli della Renamo sono arrivati sulla montagna e vi hanno fatto il loro accampamento. Preparavamo la cerimonia di apertura della formazione e pensavamo che fossero militari, giunti per assicurare la sicurezza.  Verso l’una di notte ho sentito un gran frastuono: battevano sulle porte e le finestre delle case dei catechisti. Dopo 20 minuti ecco i primi spari:  avevano ucciso Carlos un catechista, arrivato tra i primi.  Voleva scappare e gli hanno sparato alla schiena. La mia consorella mi ha detto di spegnere le luci. Ma i ribelli dicevano:  “abbiamo visto che siete qui, uccideremo tutte le suore e i padri”.
Ho chiuso tutte le consorelle nella mia camera e mi sono barricata in casa. Io pensavo che in quanto straniera, non mi avrebbero ammazzata.
I ribelli avevano preso tutti i catechisti ed erano scesi alla nostra casa. Erano sempre più furiosi perché non riuscivano a entrare. I padri Andrea Brevi, che era il direttore del centro, e John Njoroge, del Kenya erano a casa loro e dormivano.
Sono scesa in cappella, ho preso il santissimo dal tabeacolo e ho salito le scale: parlavo con il sacramento. I ribelli intanto dicevano: “sei là e ti uccideremo”».

«Facevano delle domande ai catechisti e questi rispondevano: “siamo appena arrivati, non sappiamo nulla”.
Nel frattempo si sono sentiti altri spari. Era l’esercito regolare che si avvicinava.  “Andiamo perché il Frelimo sta arrivando” dissero e partirono con i catechisti e i loro bambini. Sono andati a tre chilometri, nella foresta, dove li hanno massacrati.
Il mattino sono rimasta in casa, tutte le suore erano molto giù di morale e non parlavano. Io volevo andare dai padri. Le suore mi hanno detto che c’era pericolo di mine. Intanto un neonato di cui avevano ucciso la madre era stato gettato sulla nostra strada. Sono andata a recuperarlo e ho visto arrivare i missionari. Il padre ha preso la macchina ed è andato in città ad avvisare il vescovo. Intanto un bambino di 7 anni è arrivato piangendo e mi ha detto “hanno ucciso tutti i nostri genitori. Mi hanno inviato a dirvelo affinché andiate a recuperare i cadaveri”.
Abbiamo soccorso quel bimbo e più tardi, con una scorta militare mandataci dal governatore siamo andati sul posto.
Abbiamo visto tre cerchi: le mamme in un cerchio, i papà in un altro e i bambini in un terzo. Tutti uccisi alla baionetta. Ho trovato quattro piccoli che succhiavano i seni delle loro mamme. Erano gli unici superstiti. Erano feriti ma si salvarono: adesso sono grandi e sono ancora con noi. Hanno ucciso i bambini, e altri li hanno portati con loro per il trasporto di munizioni e viveri. Abbiamo recuperato almeno sette bambini di quelli deportati, quando siamo andati nelle basi per il programma di riconciliazione, alla fine della guerra.
Due famiglie di catechisti si salvarono. Un uomo con moglie e due figli si nascosero nella fossa della latrina, un’altra famiglia trovò riparo nel bagno in casa. Oggi prestano ancora il loro servizio».

a cura di Marco Bello

Sui martiri di Guiúa Mc aveva già pubblicato un servizio nel marzo 2002. Padre Francisco Lerma ha scritto «I martiri di Guiúa», 2001.

Marco Bello




Un biglietto in prima fila

Fespaco: 40 anni di cinema africano

L’Africa culla di civiltà e di cultura. L’Africa che crea e alimenta registi,
attori, scenografi del cinema … africano. A Nord e a Sud del Sahara.
Non solo genocidio, Darfur, Aids, fame e guerre «tribali». Ma cultura.
Non è facile saperlo perché nelle nostre sale si proiettano film statunitensi, italiani, qualche francese…
Ma al 65esimo Festival di Venezia Teza, film etiope, vince due premi.
Sul continente diversi sono i Festival della settima arte.
Il più importante si tiene a Ouagadougou (Burkina Faso) ogni due anni.
Nel 2009 festeggia i 40 anni dalla prima edizione. Quasi 400 i film proiettati, africani e non. Resoconto e nuove tendenze.

Ouagadougou. Fuochi d’artificio per concludere la grandiosa cerimonia di apertura del XXI Festival del cinema e della televisione di Ouagadougou (Fespaco). La biennale, il più importante appuntamento del suo genere sul continente compie così 40 anni. Nata nel 1969 dall’incontro informale di alcuni cineasti è stato poi ufficializzato nel 1972. Fu per anni una piccola rassegna con pochi titoli.
Oggi il Fespaco presenta 400 film di cui 124 in concorso, raggruppati in 18 categorie, delle quali sei in competizione per premi ufficiali (riservati a registi africani o della diaspora). Diciannove lungometraggi, 20 cortometraggi, 30 documentari, ecc. Ma non solo.

Omaggio al più grande

Oltre i suoi 40 anni il festival celebra il cineasta africano riconosciuto come più grande, il senegalese Ousmane Sembéne, scomparso all’età di 84 anni il 9 giugno del 2007. Regista e scrittore, tra i fondatori del festival, era ospite fisso tant’è che la stanza n. 1 dell’Hotel Indépendance (il centro nevralgico, dove si ritrovano registi, attori, produttori) era ormai sua di diritto. Oggi è diventata una stanza-museo, dove sono raccolti i suoi premi, e sulla scrivania, le inseparabili pipe.
Quest’anno non c’è Sembéne, ma i suoi film animano il festival. Una selezione delle sue opere è proiettata nella sezione «Omaggio a Sembéne Ousmane», e grandi poster con il suo ritratto sono appesi nelle sale più importanti. 
Tra le novità di questa edizione ci sono le sezioni dedicate ai film ibero-americani e quella degli afro brasiliani, che vede anche la partecipazione diretta di una simpatica delegazione, capitanata da Zozimo Bulbul, fondatore del «Centro Afrocarioca di cinema» a Rio de Janeiro.
Decine di conferenze si svolgono parallelamente alle proiezioni. Dal «colloquio» sul tema del festival: «Cinema africano, turismo e patrimonio culturale», all’incontro della Federazione panafricana dei cineasti (Fepaci) sul tema «Produrre film nel XXI secolo», all’assemblea della Federazione africana dei critici cinematografici. Molto attesa anche la conferenza stampa dell’Unione europea, uno dei principali finanziatori della cinematografia africana.

Intasamento di cinefili

Alcune migliaia di stranieri si sono riversati nella capitale del Burkina Faso la prima settimana di marzo, creando anche non pochi problemi di traffico. Molti vengono dalla Francia, ma anche da Spagna, Italia, Germania, Stati Uniti e altri paesi africani. Un indotto notevole per hotel, ristoranti, venditori di artigianato e instancabili taxi verdi (oltre che le onnipresenti compagnie dei telefoni cellulari).
La macchina organizzativa, per questa XXI edizione ha avuto però qualche problema. «Lunghe ore per avere l’accredito» lamentano i professionisti (attori, registi, giornalisti), «disorganizzazione diffusa» denunciano i festivaliers (così si chiamano i cinefili accorsi). Alcuni francesi frequentatori «storici» trovano questa edizione «la peggio organizzata degli ultimi 15 anni».
«Certo è che il Fespaco non è più un festival popolare, come ai tempi del presidente rivoluzionario Thomas Sankara (’83-’87, ndr.), ma neanche come le edizioni degli anni ’90» ci confida Rabankhi Zida, caporedattore del giornale governativo Sidwaya. «Oggi è un festival rivolto ai professionisti e agli stranieri».
Si riferisce soprattutto all’aumento del costo dell’abbonamento per l’accesso diretto a tutte le proiezioni, portato dall’equivalente di 15 euro delle passate edizioni a 38, fatto che ha tagliato fuori una grossa fetta di cittadini del paese ospite.
Michel Ouedraogo, delegato generale (Dg) del Fespaco, ovvero numero uno di tutta la struttura si difende: «Il target dell’abbonamento non sono i funzionari burkinabè, ma gente con più mezzi». E continua: «Non priviamo le popolazioni, perché possono avere accesso con biglietto che è rimasto allo stesso prezzo (1,50 euro per un ingresso). E, malgrado il costo, abbiamo avuto una richiesta molto forte di abbonamenti. La strategia è andare verso un auto-finanziamento del festival».
Le sale, in effetti, sono sempre gremite, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ma il pubblico è in prevalenza straniero. Fanno eccezione i film dei registi burkinabè, ai quali è difficile entrare perché presi d’assalto dalla popolazione.

Cinema africano?

Il festival è costato circa due milioni di euro finanziati in larga parte dall’Ue, ma anche dall’Organizzazione internazionale della francofonia (Oif), dal ministero degli Esteri francese, da radio e televisioni francesi (Rfi, Cfi, Tv5). Non dimentichiamoci che è un appuntamento francofono, anche se partecipano molti titoli anglofoni e alcuni lusofoni.
Secondo Michel Ouedraogo: «Occorre aprirci al settore privato, per avere finanziamenti, permettendo a grandi multinazionali di promuovere la loro immagine. È meglio trovare partner a livello africano, affinché gli africani possano finanziare il proprio festival. Però non siamo chiusi sull’Africa, ma aperti al mondo. Stiamo iniziando partenariati con Svezia, Spagna e paesi ibero-americani». Un concetto un po’ particolare di auto-finanziamento.
Altra novità: per i 40 anni del festival alle sale climatizzate in centro città si aggiungono quelle di quartiere, cinema popolari all’aperto, da sempre uno dei vettori principali, che hanno fatto il Burkina Faso la capitale del cinema africano e il suo popolo gran consumatore di film.
«C’è richiesta di immagini – continua il Dg – il Fespaco vuole diffondere tutti i tipi di film e occuparsi di tutti gli strati sociali. In sette giorni (durata del festival, ndr.) non si permette a tutti di vedere e riflettere.
Ad esempio il mestiere della donna cineasta è qualcosa su cui discutere. L’uso dei bambini nel cinema, le questioni sulla libertà.  Vogliamo toccare tutti i settori e i temi possibili. Stiamo pensando a un’edizione intermedia alla biennale, una rassegna sulle donne e un’altra sui diritti e le libertà».

Chi c’è e chi non c’è

Nei 19 titoli della competizione principale (i lungometraggi fiction) sono rappresentati 13 paesi. Si osserva quest’anno un ritorno in forza del cinema nord africano, in particolare con tre film del Marocco, due dell’Algeria e uno per Tunisia ed Egitto. Anche il Sudafrica continua con una presenza: tre film più lo zimbabweano Triomf girato interamente a Johannesburg.
Grande assente la Nigeria, nelle diverse categorie. Paese che vinse l’edizione 2007 e patria del fenomeno emergente di cinema popolare, chiamato Nollywood, che si sta diffondendo in vari paesi africani.
Poi un grande ritorno: l’Etiopia, con la pellicola Teza di Haile Gérima, che si aggiudica il premio più importante, l’Etalon d’oro di Yennenga (vedi box). Il nome di Gérima (peraltro non presente alla manifestazione in quanto non va in Burkina dall’assassinio di Sankara, nell’ottobre dell’87) circola già prima della premiazione.
È un film che ha già fatto incetta di premi nel 2008. Premiato a Venezia con il premio speciale della giuria e l’Osella per la miglior sceneggiatura, ha poi ottenuto i cinque maggiori premi al Festival di Cartagine, altro importante appuntamento africano, e il gran premio del Festival internazionale di Amiens (Francia). Da fine marzo è proiettato per il grande pubblico anche in Italia.

Senza grandi sorprese

Il Sudafrica arriva secondo con Nothing but the truth di John Kani e il terzo posto se lo aggiudica l’algerino Mascarades di Lyes Salem. Algerini anche il primo e il secondo posto dei corto metraggi, selezione che ha visto ben 14 film nordafricani sui 20 in concorso, a indicare non solo la maggiore produzione di quest’area geografica e culturale ma anche l’origine di molti dei nuovi talenti del cinema africano.
«Noi cineasti africani dobbiamo creare dei film destinati al pubblico africano, nei quali questo pubblico si riconosce, che non sia un prodotto culturale venuto dall’estero, da molto lontano da loro» ci dice Mwézé Ngangura, regista congolese.  Vincitore del Fespaco 1999 con Piéces d’identités (Documenti d’identità), è uno dei pilastri di questo cinema, con una carriera di oltre 30 anni sulle spalle.
Molto sentito al festival il tema della pirateria che vede il diffondersi ogni anno di milioni di copie di dvd e video cd (vcd) contraffatti sul continente (e non solo), mentre le sale cinematografiche stanno chiudendo quasi ovunque.
«Occorre che il cineasta africano si allinei sulla nuova distribuzione. Sono convinto che il miglior modo di apprezzare un film sia in una sala, ma se queste non esistono più, come in Congo (Rdc), bisogna guardare avanti. C’è una rete di distribuzione importante come il dvd, utilizzata da molta gente della diaspora, che è un grosso mercato perché ha nostalgia del paese e il bisogno di vedere immagini.
Non dobbiamo fare un combattimento di retroguardia. C’è poi la distribuzione informale dei vcd. Come strutturarla?».
Il noto documentarista Jean-Marie Teno ha realizzato una pellicola proprio su questo tema: Lieux saints (luoghi santi).

Finanziamenti e
nuovi modelli

«Il terzo polo sono i finanziamenti – sottolinea Ngangura – che devono essere sempre più africani. E il più possibile privati. Lo stato deve aiutare riducendo tasse, diritti di ripresa, ecc. Deve facilitare a livello legislativo tutto quello che è produzione e distribuzione. Ma è difficile per i nostri stati finanziare anche il cinema».
La tecnologia digitale, che – a detta di  molti – è nociva sul piano della distribuzione perché rende molto facile la pirateria, ha aperto nuove frontiere ai giovani che si orientano verso questo mestiere.
«Siamo in un momento di transizione: è un periodo che sta morendo per lasciare spazio a un altro»  sostiene Cheick Fantamady Camara, regista guineano che nel 2007 vinse il premio del pubblico con il suo Il va  pleuvoir sur Conakry (Pioverà su Conakry).
«È tempo che i giovani africani prendano in mano il loro cinema e penso che con l’avvento del video digitale questa rivoluzione stia diventando realtà. Avviene attraverso il cinema popolare prodotto a basso costo in grande quantità; e da questa scaturirà la qualità. Penso alla Nigeria e anche al Burkina con Boubakar Diallo (vedi box).
 Gente che non è nel sistema che abbiamo adottato noi, quello dei finanziamenti dall’estero.
Loro si finanziano i propri film e hanno il pubblico dalla loro parte. Quando proiettano fanno il tutto esaurito. In un continente dove non c’è una reale politica per il cinema, è questo il sistema che si deve adottare, e ora questo è possibile grazie al digitale».
E sulla questione della chiusura dei cinema sul continente: «Anche le sale si chiudono perché c’è un passaggio a un altro sistema. Sono state fatte durante le colonie, poi per un certo tempo sono sopravvissute.
Ora quel sistema è morto. Altre sale si apriranno con proiettori digitali. In maniera privata, professionale e industriale. Oggi il cinema africano è sovvenzionato, non è professionalizzato. Ma non è con gli aiuti che potremo andare avanti. Occorre creare una piccola industria che poi crescerà».
Su questa linea il comune di Torino, in collaborazione con il segretariato sociale Rai assegna il Premio speciale Torino città del cinema, a una nuova leva del cinema popolare. Il giovane burkinabè Serge Armel Sawadogo per il suo Timpoko, cortometraggio nella competizione ufficiale.

Immagini «impegnate»

C’è anche chi, al Fespaco, porta temi sociali e politici non troppo graditi al proprio paese. È il caso della giovane congolese Batou Nadege, che con il suo documentario Ku Nkelo à la recherche de l’eau (Alla ricerca dell’acqua), denuncia le difficoltà  di accesso all’acqua a Brazzaville, capitale del suo paese. «Viviamo un contrasto: siamo in mezzo a grandi fiumi (il Congo), abbiamo piogge tutto il tempo, ma i rubinetti di Brazzaville sono a secco! Nel documentario mostro come un gruppo di bambini, pur essendo nella capitale, devono percorrere due chilometri per andare a cercare l’acqua necessaria».
Il film è stato diffuso dalla televisione congolese e subito le autorità hanno proibito che fosse ritrasmesso. «È la realtà di Brazzaville. Io denuncio questa politica, per cui acqua ed elettricità, che dovrebbero essere i servizi disponibili, ci sono rifiutate e la popolazione beve acqua insalubre, si ammala, muore. Ma le bollette arrivano e bisogna pagare! Voglio far comprendere alla politica che oggi la popolazione accetta, assume, sta zitta. Ma domani continuerà a stare in silenzio?». 
Di Marco Bello

MAROCCO
EBREI IN FUGA,
VERSO LA TERRA PROMESSA

Il film ci porta nel 1960 in Marocco. Qui la comunità ebrea è ancora numerosa e non ci sono particolari problemi di convivenza. Ma un «agente d’immigrazione» inviato da Israele lavora per convincere le famiglie ebree a partire per popolare il neonato stato sionista. Si intrecciano storie di amicizia e di amore, di condivisione tra arabi ed ebrei, che le nuove vicende interrompono bruscamente. Il viaggio avviene in clandestinità perché all’epoca era proibito ai paesi della Lega araba dare il passaporto agli ebrei.  Alcuni viaggi finiscono in tragedia.
«Sono gli anni neri dell’immigrazione» ci racconta il regista Mohammed Ismail, capelli lunghi, Panama e occhiali scuri. «Gli ebrei vivevano in Marocco ancora prima che gli arabi arrivassero. Erano circa il 10% della popolazione.  Adesso sono rarissimi».
L’idea del film arriva nel 2001, ma il tema è delicato, tocca la storia dei rapporti arabo – israeliani. Nonostante il regista non voglia evocare problemi politici, ma fare un film neutro basato sulle relazioni umane, la coabitazione e i rapporti «ma non di forza».
«L’avevo scritto con una sceneggiatrice marocchina di confessione ebrea, che io conosco da oltre 25 anni. Le nostre famiglie erano molto unite. Come una delle vicende del film».

«È una pellicola molto realista – continua il regista -. Sono storie di persone che ho ripresentato come fiction. Le coppie arabe e quelle ebree, la storia d’amore tra i giovani di confessione diversa esistevano e più o meno è stata una parte della mia vita.
L’incaricato dell’immigrazione fa il ruolo del cattivo. Me lo hanno spesso rinfacciato. Ma è un personaggio essenziale. Senza di lui gli ebrei marocchini non sarebbero partiti. Non stavano poi così male e questo tizio vuole convincerli del contrario».
Un film struggente e tragico. Che coinvolge lo spettatore. Racconta anche del naufragio di un battello di fuggiaschi, nel quale perirono 44 persone. Evento realmente accaduto, che mise la pressione internazionale sul Marocco. Il re Hassan II decide allora di lasciare gli ebrei liberi di partire, anche se c’era la proibizione dei paesi arabi.

«Il film è stato visto in Marocco con posizioni molto positive, buona critica. Ha fatto un percorso interessante a livello internazionale, partecipando a molti festival. Molti negli Usa, il che è raro. Ha rappresentato il Marocco per gli Oscar quest’anno».
Particolari anche le proiezioni al senato francese e a quello belga. Ha partecipato in Vaticano al festival Religion today dove è stato premiato. È il solo film marocchino proiettato in Israele, a tre festival. L’ultima guerra di Gaza ha poi bloccato il programma.
«È un messaggio di pace e di frateità» lo definisce l’autore.
«Ho fatto proiezioni in centri ebrei, come il centro sionista Ben Gurion, in Belgio. Hanno accettato il film e poi c’è stato un dibattito, che è stato una testimonianza tra le lacrime. Era la loro storia e i vecchi trasmettevano ai giovani presenti, anche dei musulmani. È stata una festa».                             
Di Marco Bello

BURKINA FASO
IL NUOVO CINEMA POPOLARE
AFRO-AFRICANO

Boubakar Diallo, burkinabè, giornalista, ma soprattutto sperimentatore. Fa parte di quei «giovani cineasti» che hanno inventato un nuovo tipo di cinema. Producono film amati dal loro pubblico e lo fanno a costi bassissimi, tutto in tecnologia digitale.
Diallo è il direttore del celebre giornale satirico Joual du Jeudi, (www.joualdujeudi.com) molto seguito anche all’estero e si è inventato l’immagine del «dromedario» per etichettare i suoi lavori. Così la sua società di produzione è la Film du dromadaire.
Coeur de lion (Cuore di leone) è costato appena 250.000 euro, contro i 3-4 milioni di un film europeo e i 500.000 euro di un film africano in 35 mm. Eppure ci hanno lavorato circa 80 persone.
«Scrivevo sceneggiature per registi, ma nessuno me le prendeva. Così mi sono messo a realizzare io stesso» racconta Diallo.
La prima domanda che si pone è: perché non cercare altre strade di finanziamento che non siano i soldi del Nord? E se un giorno quelli decidessero di chiudere il rubinetto?
«Dal 2004 ho cercato di produrre film con budget locale, partner istituzionali e società commerciali africane, dando loro in cambio visibilità». E il successo è grande: Diallo realizza otto lungometraggi negli ultimi quattro anni, quando, nei casi migliori, a sud del Sahara si produce un film ogni 4-5 anni.

«Il pubblico chiede storie – continua – ma a sua immagine e somiglianza. Così esce di casa e paga il biglietto. È grazie alla gente che Film du dromadaire sta realizzando così tanto».
Sulla stessa scia anche per Le fauteuil (La poltrona) del collega burkinabè Missa Hébiè, che dipinge, in maniera realistica e ironica, la vita, il lavoro e la corruzione quotidiana dei funzionari nella capitale.
Piccolo di statura, occhi vispissimi e spirito commerciale. Una delle idee vincenti di Diallo è il partenariato con la Televisione nazionale. Questa trasmette gratuitamente la pubblicità del film prima e durante la sua uscita nelle sale. Poi, esaurito il circuito classico, in cambio acquisisce i diritti per mandare in onda il film.
Altro ingrediente: per toccare il più grande numero di persone i suoi film sono in francese e non nelle lingue africane, come fanno molti dei suoi colleghi per rispettare il contesto, ma poi sono obbligati a sottotitolare.  Anche se «I saluti nel film sono nelle diverse lingue, per dare il tono».

Cuore di leone è ambientato in un villaggio burkinabè di 200 anni fa, dove le differenti etnie e i loro ruoli erano precisi e rispettati: allevatori, cacciatori, pescatori. Ma un leone terrorizza le vacche di un allevatore, che quindi decide di cacciarlo. Intanto si sviluppa una lotta per il potere, e l’eroe cattivo utilizza la tratta degli schiavi per diventare il capo villaggio. «Occorre guardare indietro, i giovani hanno bisogno di riferimenti. Nel passato c’erano comunità integrate. Ho voluto mostrare come cercavano di risolvere i problemi. È un approccio afro-africano» ama dire Diallo. Ovvero guardare le problematiche africane da un punto di vista africano. E forse è proprio questo che piace al pubblico, che si identifica con attori e storia.
Cinema popolare sì, ma non spazzatura, dunque. Portatore di messaggi e di riflessione. Rivolto a tutti e in particolare ai giovani.
In questo caso un messaggio di integrazione: «Le etnie sapevano essere complementari. È un invito a guardare come le nostre società erano strutturate e a prendere quello di buono che c’è nelle nostre culture».
Ottimista anche sulla pirateria dei dvd: «Complicato prendere provvedimenti contro i pirati. D’altro lato è questo circuito che ha contribuito di più a far circolare i film del dromedario. Per togliere loro il mercato occorrerebbe occupare subito il terreno con dvd e vcd a basso costo».                 
di Marco Bello

MALI-USA-SUDAFRICA
UNA STORIA MISSIONARIA, INEDITA

Cheick Cherif Keita è maliano, ma dal 1977 vive nel Minnesota (Usa), dove insegna letteratura francofona. Ma la sua passione lo porta su una storia dimenticata e diventa regista di documentari.
«Gli antenati possono ispirare un maliano a cercare la storia nascosta di due famiglie lontane, ma che sono state legate da un passato remoto» racconta. Si parla di una famiglia nordamericana e una sudafricana di inizio secolo: «John Dube era uno Zulu. Fondò l’African national congress (Anc) prima della nascita di Mandela, diventandone il primo presidente dal 1912 al 1917». Il regista scopre che John Dube aveva avuto una grande fortuna: una coppia di missionari protestanti,  William e Aida Wilcox lo avevano accolto e fatto studiare negli Usa nel 1887, all’età di 16 anni. «Poi è diventato un pioniere della rivoluzione intellettuale e politica del suo paese». 

«Una storia umana, una storia dimenticata» che coinvolge totalmente il professore-regista. Keita realizza il primo film nel 2005 sulla vita di Dube. Poi nel 2008 fa un passo indietro con un film sugli stessi  Wilcox, i missionari. «È diventata la mia ricerca personale, la mia implicazione in una storia di famiglie molto lontane da me, prima di tutto, e poi tra di loro. Dal 1926 non c’erano più stati incontri. Grazie a me nel 2007 i discendenti dei due rami si sono incontrati. Non sapevano neanche dell’esistenza gli uni degli altri».
Cheick Keita è convinto che sono gli antenati ad avergli affidato questa missione: «Più tardi scoprii che i genitori di Aida Wilcox erano seppelliti a cento metri da casa mia, negli Usa!».
«Questo mostra che abbiamo tutti un dovere comune, come essere umani, di testimonianza. Quando una persona fa del bene per aiutare l’umanità, qualsiasi sia la sua religione o la sua nazionalità, dobbiamo raccontare la sua storia».
Ma.B.

FESPACO 2009
I PREMI

Film lungometraggi
– Etalon d’oro di Yennenga: Teza, Etiopia, di Haile Gérima
– Etalon d’argento: Nothing but the truth, Sudafrica, di John Kani
– Etalon di bronzo: Mascarades, Algeria, di Lyes Salem
– Premio Oumarou Ganda: Le fauteuil, Burkina Faso, Missa Hébié
– Premio dell’Unione europea: Cœur de lion, Burkina Faso, Boubakar Diallo
– Premio del pubblico: Le fauteuil, Burkina Faso, Missa Hébié
– Migliore interpretazione femminile: Sana Mousiane in Les jardins de Samira, Marocco
– Migliore interpretazione maschile: Ropulana Seiphmo in Jerusalema, Sudafrica
– Migliore sceneggiatura: L’absance, Guinea, di Mama Keita
– Migliore immagine: Nic Hofmeyer, in Jerusalema, Sudafrica
– Miglior suono: Mohamed Hassib in Les demons du Caire, Egitto
– Miglior colonna sonora: Kamal Kamal, in Adieu Mères (Wadaan Oummahat), Marocco
– Miglior scenario:  Abdel Karim Akauach, in Adieu Mères, Marocco
– Miglior montaggio: David Helfand in Jerusalema, Sudafrica
– Miglior locandina: Les feux de Mansaré, Mansour Sora Wade, Senegal

Film cortometraggi
– Puledro d’oro: Sektou,  Algeria, di Khaled Beanissa
– Puledro d’argento: C’est dimanche,  Algeria, Samir Guesmi
– Puledro di bronzo: Waramutseho, Camerun, Beard A. K. Yanghu

Film della diaspora
– Premio Paul Robson: Jacques Roumain, la passion d’un pays, Haiti,  Aold Antonin

Film documentari
– Primo premio: Nos lieux interdits, Marocco, Leila Kilani.


Marco Bello




Basta mosche …suglio occhi

Dove gli aiuti… aiutano davvero

INTRODUZIONE

Un giornalista non è solo un rigoroso traduttore di informazioni, ma anche un cantastorie. La voce di chi non ha voce. Gli occhi di chi non può o non vuole vedere. Ha la possibilità e la capacità di potersi fermare. Fermarsi a riflettere, osservare, parlare, ascoltare e ascoltare. E questo ho scelto di fare per sei mesi di vita in Tanzania.
Il mio rapporto con il Tanzania è stato da subito viscerale. Il 15 dicembre 2007 la prima sensazione è stata di soffocamento. Un vento caldo, umido mi ha bloccato le narici e i polmoni, ma il cuore era tornato a casa.
«Inside Tanzania» non è solo un reportage. Ma un esperimento di sei mesi di vita a Mbagala, periferia di Dar Es Salaam, e in altri slum musulmano-integralisti, vivendo la quotidianità e gli effetti della cura antiretrovirale su malati di Aids/Hiv. Insieme. Come loro e con loro. Questo era il mio obiettivo.

Un progetto di reportage nato nel luglio 2007 con la mia collega Alessandra Sinibaldi per indagare come mai nonostante la mole mondiale di fondi stanziati da qualsiasi tipo di associazione, ente o struttura grande e piccola per progetti in Africa, questa terra continuasse a morire inesorabilmente. Un’inchiesta sulla cooperazione internazionale decentrata e non, laica e religiosa.
Avevamo passato un mese a girare fotografando e lavorando senza freni. Interviste, riprese, traduzioni, visite, libri, incontri nei villaggi con musulmani, cristiani, protestanti, malati, dottori e scatti e scatti.

Pur disponendo di enormi risorse le organizzazioni inteazionali non riescono a raggiungere risultati soddisfacenti sia nel campo dello sviluppo che nella lotta all’Aids in Africa. Missionari e missionarie, invece, con scarsissimi aiuti e senza la ribalta mediatica, riescono a fare autentici miracoli a favore della popolazione. Lo evidenzia una giovane giornalista nel suo documentario «Inside Tanzania», elaborato
in sei mesi di vita africana.

S ono tornata in Tanzania il 15 dicembre 2007, stavolta sola. Alessandra ha dovuto subire un intervento al ginocchio.
Il soggetto del reportage era lo stesso: indagare come vengono investiti e impiegati i fondi inteazionali per la cura dell’Aids. Ma per fare ciò dovevo prima di tutto rendere «protagonisti», nel reportage e nella mia vita, la gente dei villaggi. Dovevo diventare una di loro. Rassicurarli e farmi conoscere.
Sono stanchi di essere fotografati da jeep cariche di bianchi, che scattano per riportare a casa la foto del poverissimo africano. Ormai è un rito per molti volontari di onlus o associazioni fare il cosiddetto «giro turistico» per i villaggi, mascherato anche dal termine «eco-turismo» ora estremamente di moda, ma pochi sono gli esempi di eco-turismo nel senso etimologico.
I masai sanno dai loro fratelli impiegati nei villaggi turistici e davanti a resort, rigorosamente vestiti con gli indumenti tradizionali e costretti a scimmiottare la loro cultura per affascinare il turista, che molti bianchi realizzano foto che poi vendono a riviste, quindi vogliono essere pagati.
Per sei mesi con la gente
La maggior umiliazione per un fotoreporter è pagare il suo soggetto. È la via più semplice e veloce per non instaurare nessun tipo di contatto o fiducia, ma dalle foto questa sensazione salta agli occhi.
Ho vissuto nella periferia più degradata, colpita da quella piaga che sta «fucilando» l’Africa da decenni. Senza acqua, senza luce, in «case» con lastre di lamiera infuocate, dove solo delle coraggiosissime missionarie operano la loro evangelizzazione. Nei campi, nelle moschee e madrase, davanti a un piatto di polenta e fagioli e davanti a un piatto vuoto, su stuoie, negli ospedali e nei dispensari.
Ho vissuto sei mesi della mia vita seguendo famiglie che mi hanno accettato come figlia, sorella e amica, nella loro speranza di guerra all’Aids, scoraggiandomi e entusiasmandomi con e per loro. Vivere sei mesi, nella stagione più calda dell’anno, nella zona più calda, e satura di persone non è stato facile! Ma la voglia di raccontare attraverso la mia macchina e la mia stessa pelle questo spaccato di vita vera era più forte di qualsiasi malaria, malattia o paura.
Incontri con realtà… speciali
La curiosità, l’interesse giornalistico e, prima ancora, la voglia di capire e raccontare mi hanno fatto girare gran parte del Tanzania, indagando e scoprendo le realtà molteplici di cooperazione. Ho conosciuto realtà di fede profonda, di ritmi di vita scanditi dalla parola di Dio.
Da un Dio che scuote il corpo e la mente sostenendoti in lavori massacranti di aiuto gratuito.
E ho visto realtà di egoismo e superficialità che sembrano giocare con la vita delle persone e con i soldi dei fondi mondiali. Ho conosciuto anche grandi associazioni come il «Cuamm», «Medici con l’Africa», il cui personale medico è attivo anche in strutture governative.
Uno di questi medici è Mario Battocletti, medico chirurgo, presso l’ospedale governativo di Iringa, a cui fa capo più di un milione di persone. Mario vive a Iringa con sua moglie e i suoi tre bambini. Quando sono andata a casa sua, ho scoperto un grandissimo professionista con il sogno di lavorare in Africa e salvare vite. Ed è quello che fa da mattina a sera, scontrandosi con la realtà confusa e purtroppo corrotta della società e dell’ospedale. Ma non si arrende.
Poi ci sono i laici missionari e singoli volontari che fanno tanto e lo fanno senza rumore, ma con creatività, ingegno e impegno. Più osservavo, giravo, conoscevo, e più sentivo che questo reportage stava diventando una missione. Una missione di informazione non solo sul Tanzania, stato sconosciuto se non per la bellezza dei suoi parchi e delle sue spiagge, ma sul mondo dei missionari che operano in un continente a noi ancora sconosciuto seppure ne siamo assuefatti.
Assuefatti all’idea che i media ci hanno sempre proposto e continuano a propinarci, alla convinzione che come l’Iraq, l’Afghanistan, sono realtà irrisolvibili ma per quali fattori? Perché? Conosciamo solo il bimbo con la mosca nell’occhio e la pancia gonfia, la guerra in Somalia, i bambini soldati, le violenze in Congo, Ruanda, Darfur e le meravigliose spiagge di Zanzibar, Pemba, Sharm e Marsa Alam!
Tra stereotipi e disinformazione
Chi conosce l’Africa (non me ne vogliano i grandi esperti di geopolitica, cultura e tradizioni) è chi legge i giornali missionari che attraverso le voci, le testimonianze di missionarie, missionari, volontari e operatori di pace, che vivono trenta, quaranta, settanta anni la realtà, hanno la voglia e la pazienza di fermarsi ad ascoltare, aiutare e poi raccontare.
Chi vive la quotidianità dei giornali, degli special televisivi ha imparato attraverso esponenti del mondo dello spettacolo, i noti «ambasciatori» a donare un euro attraverso l’sms all’Africa che non va mai avanti… a quell’Africa che muore di fame sempre e comunque. All’Africa fatta di uomini e padri che schiavizzano le mogli e i figli pur di non lavorare, a un popolo che muore di Aids perché superficiale e poligamo.
E poi veniamo a scoprire che tutto il denaro mandato tramite sms, per il Darfur o per le famiglie colpite dallo tsunami non è mai arrivato a destinazione. È bloccato in una banca belga o svizzera, ma è solo questione di tempo, recita la smentita sui giornali, ma come non c’era un’emergenza?
A me verrebbe da dire «tanto ci sono i missionari che, attraverso amici, parenti, benefattori e l’animazione, sono in grado di aiutare la gente, anche senza milioni di dollari!».
Allora due sono le cose o i missionari, avendo la corsia preferenziale di dialogo con Lui, riescono a moltiplicare i soldi, come Qualcuno moltiplicava i pesci, o sono angeli straordinari prestati a noi comuni mortali per insegnarci a vivere.
E l’interrogativo dominante: «Ma come mai, sono decenni che mandiamo, mandiamo e rimandiamo soldi attraverso queste grandi associazioni e la situazione è degenerata in un’emorragia acuta? Il dato certo è che se ne sono sentite tante. E la gente non si fida più o, se si fida, è perché la comunicazione di quella associazione è stata fatta seguendo le teorie e le tecniche migliori della comunicazione di massa.
Una comunicazione che ha screditato e criticato in maniera velata ma fin troppo efficace, per anni, la cooperazione religiosa di congregazioni presenti da decenni che dopo sessanta, settanta, cento anni ora sembrano non essere più in grado di insegnare, curare e aiutare. Io da conoscitrice del mondo giornalistico la spiegherei attraverso due fattori.
Primo fattore: sono religiosi. E in Italia sappiamo che qualsiasi persona sia religiosa o legata alla chiesa, da sempre sinonimo di sfarzo e di eccesso, non va più di moda. Pensateci!
È vero che ci sono tanti laici che hanno una fede profonda, ma se siamo arrivati alla società attuale, sarà colpa dell’economia che non va, dei nostri governanti che non sanno fare il loro lavoro, dei media che attraverso la pubblicità presentano modelli sbagliati…, ma sarà anche colpa nostra, che abbiamo perso di vista i valori fondamentali di dignità, onestà e serietà e li abbiamo sostituiti con la corsa frenetica al raggiungimento del denaro.
Una carissima amica missionaria, di una saggezza stravolgente, mi disse un giorno: «Voi andate avanti seguendo la regola delle tre S: sesso, successo e soldi». Noi giovani, usciti da poco dalle università, non possiamo che confermare che il fine delle lauree è guadagnare, guadagnare per permettersi tutto.
Il secondo fattore per cui attualmente i missionari non hanno più il successo di una volta è che non sono dottori. Sono poche le vocazioni. Poche le missionarie dottoresse e i missionari dottori laureati. In un dispensario in capo al mondo, in una zona dove non c’è luce, acqua, ma solo povertà e malattia ci sono suore missionarie settantenni, solo infermiere, che lavorano 15-18 ore al giorno, insegnando e formando praticamente Clinical Officer, capaci di sostituirle un domani, ma per i nostri dottorini e dottori delle Ong, non vanno più bene. «Non sono preparate. Sono superficiali» mi sono sentita ripetere.
Dove finiscono gli aiuti?
Potrei fare un elenco delle strutture inteazionali e associazioni che operano in Tanzania con metodologie e scopi diversi dai missionari. Ma non è il mio obiettivo.
Con il mio reportage non ho affatto intenzione di osannare solo le missionarie della Consolata, poiché ho incontrato tante congregazioni cattoliche; mi ha molto colpito, per esempio, la realtà delle missionarie della Carità, le suore di Madre Teresa, che accolgono orfani anche con gravi handicap e anziani. Anche i protestanti anglicani e luterani, le associazioni di laici missionari o volontari fanno tanto e bene.
Mi ha lasciato molto perplessa invece, il fatto che in uno stato dove il 10% della popolazione nasce con handicap fisici e mentali, nonostante la massiccia presenza delle Ong e associazioni di aiuto, non ci sia in tutto il Tanzania una struttura di ricovero per bambini, ragazzi e adulti che abbiano forti handicap mentali e fisici, una sorta di Cottolengo.
Anzi le suore del Cottolengo ci sono in Tanzania, ma anziché mantenere il carisma che hanno in Italia, con il lavoro straordinario che portano avanti, in Tanzania si occupano della pastorale… forse anche il carisma oltre oceano subisce un cambiamento climatico, fisico!
Ma non posso, inoltre, non sottolineare la diffidenza motivata delle persone quando si parla di offerte, donazioni e aiuti economici a istituti religiosi che magari sembrano sconosciuti o inaccessibili materialmente, perché talmente impegnati sul campo che sono fuori dalla comunicazione on-line, telefonica satellitare e per principi propri, fuori dalla pubblicità capillare.
Mai nessun missionario della Consolata manderà cartoline, foto di bambini tristi e malati, a tutti gli italiani, augurando loro buon natale, buona pasqua, buona festa della mamma e del papà… per colpire il cuore e le menti degli italiani, popolo statisticamente tra i più sentimentali e sensibili al mondo in materia di aiuto, nonostante il materialismo dominante, direbbe qualcuno! 
Non sarò certo la prima a fare scornop o a dichiarare che istituzioni mondiali come l’Unicef, spendono l’85% delle loro entrate tra pubblicità e stipendi, lo stesso vale per la Croce Rossa e una miriade di associazioni, grandi e piccole, che ci mandano bollettini, cartoline, e-mail… chiedendo offerte.
Con ciò non voglio dire che queste grandi realtà non abbiano fatto nulla di concreto negli anni, anzi! Il punto è però un altro: se si hanno a disposizione dieci, venti, cento milioni di dollari e l’85% viene investito non nell’istruzione, nella lotta all’Aids e alla malaria (che, non dimentichiamo, in Africa provoca la morte di un bambino ogni 5 minuti, ma piuttosto in stipendi, pubblicità, trasporti e tutto ciò che riguarda la gestione dell’istituzione, è evidente che non riusciremo a fermare un bel niente, a cambiare nulla.
Ci saranno solo progetti che partiranno e avranno un iter di due anni, cinque anni, fino al momento in cui ci saranno i soldi decisi e stanziati. Il progetto non sarà rifinanziato e il dottore di tuo a capo, andrà via e tutto toerà come prima. Secondo lo stesso Mario Battocletti: «Il problema è la non cooperazione tra le realtà private in primo luogo tra loro, e poi con quelle statali. Non c’è una programmazione di governo, ma è pur vero che sempre più spesso ogni Ong tende a fare autonomamente e quindi c’è una dispersione di aiuti».
Un approccio diverso
Altra cosa che mi ha fatto riflettere e decidere di farmi portavoce dei missionari e in particolare delle missionarie della Consolata, attraverso un reportage che fosse una missione di sensibilizzazione e informazione sulla realtà troppo scomoda delle grandi strutture di cooperazione, è la vita stessa e le strutture dei missionari rispetto alle altre. A livello igienico, sanitario, lavorativo ho visto e fotografato dispensari e centri gestiti da missionari, in villaggi senza acqua e luce, che non hanno nessuna carenza rispetto alle strutture delle Ong. Certo minor personale, ben pagato, logicamente non come quello delle «grandi», ma di gran lunga superiore alla paga stabilita dal governo.
I ritmi sono diversi. In un dispensario non c’è orario. A Mbagala, periferia di Dar Es Salaam, il dispensario delle missionarie della Consolata visita quotidianamente dalle 500 alle 600 persone. Non ho mai visto suor Franca Lidia Cochis, la suora che lo gestisce, mandar via qualcuno. Ho sentito invece dalle due di notte, passi silenziosi di mamme che si mettevano in fila, dopo aver percorso 20-30 km per far vedere i loro bambini alla sister, perché l’umanità è diversa. L’approccio e la cura sono diversi. Lo staff professionalmente competente visita, prescrive, fa iniezioni e dà le stesse medicine a prezzi inferiori.
Suor Franca Lidia, con un immaginabile sforzo, gira tutta Dar Es Salaam per comprare le medicine a prezzi inferiori dai Medical Store. Perché lo fa? Non ha uno stipendio. Non è più giovanissima. È guidata solo dalla fede e dalla scelta che ha fatto cinquant’anni fa, quando ha deciso di diventare una suora missionaria della Consolata.
Cambiare: si può e si deve
Non ho visto uffici e centri delle Ong nei villaggi di periferia delle grandi città, degradati e difficili per motivi di ordine non solo sociale e sanitario ma anche religioso, fatta eccezione per la zona di Iringa, realtà in cui c’è una maggiore concentrazione di strutture di cooperazione e sviluppo. Una consistente presenza di tali uffici l’ho vista, invece, nella parte ricca di Dar Es Salaam, davanti all’Oceano Indiano, dove la vita è altissima rispetto alla media della popolazione e il mare è un incanto. Ma questa scelta sarà stata solo una coincidenza!
In una delle proiezioni del documentario con il quale sto girando l’Italia, con lo stesso scopo di sensibilizzare sulla realtà anche difficile e traumatica nella quale operano i missionari, perché è giusto non far vedere sempre e solo il bambino con la mosca negli occhi, ma in troppi pensano che la vita del missionario sia affascinante, in posti bellissimi, con ritmi di vita molto più tranquilli dei nostri, con meno preoccupazioni; allora il mio obiettivo è anche scuotere la gente, dicevo che mi ha colpito un commento di un padre. «Siamo tutti missionari. Dal momento del battesimo, siamo tutti missionari».
Io non pretendo e non posso dare risposte e soluzioni ai problemi riguardanti il bisogno di fondi economici per la cura antiretrovirale o per le strutture dei missionari, ma mi chiedo e vi chiedo: nel momento in cui scegliamo di lavorare nell’ambito della cooperazione è perché abbiamo interesse e obiettivi a realizzare qualcosa che sia di aiuto a quello stato e alla sua gente perché in difficoltà.
Quindi possiamo anche declinare l’invito a lavorare seguendo le norme e gli standard mondiali di marketing e pubblicità. Proviamo a fare i missionari! Abbiamo famiglie, figli da mantenere, non possiamo lavorare gratuitamente perché la vita è altissima, è chiaro e noto a tutti. Non dico di fare solo i volontari, ma anziché andare in una parte del mondo per fare carriera o ridurre gli anni che ci avvicinano alla pensione o per guadagnare quattromila, settemila euro al mese, con progetti destinati a salvare la vita di esseri umani, grandi e piccoli, fermiamoci a un guadagno di mille, mille e cinquecento euro e il resto investiamolo nella totalità del progetto.
Per molti sarà un’utopia. La certezza è che continuando così non aiuteremo nessuno ma continueremo solo a riempirci la bocca di Africa, aids, malaria e morte, alimentando il binomio Africa=morte e a disperdere i fondi.
Un esempio…
Ho conosciuto una coppia di italiani a Dar Es Salaam che mi ha colpito particolarmente: un medico italiano, fisioterapista, Augusto Zambaldo, che dirige il reparto di riabilitazione dell’ospedale Ccbrt (Comprehensive Comunity Based Rehabilitation, Centro riabilitativo su base comunitaria del Tanzania) che lavora nell’ospedale specializzato per problemi alle ossa (Ccbrt, Comprehensive Community Based Rehabilitation Tanzania), costruito da una Ong tedesca, ottimo dal profilo medico, e sua moglie Laura, una graziosissima insegnante.
Augusto Zambaldo vive da più di 20 anni in Tanzania con la sua famiglia. Ha lavorato per anni prima in Kenya e poi in Tanzania in strutture ospedaliere anche di missionari, preferendo vivere con uno stipendio molto più basso rispetto alla media dei suoi colleghi, con ritmi di vita altrettanto massacranti, animato solo dalla voglia di aiutare e sapeva di essee in grado.
Le figlie sono nate in Kenya, hanno studiato in Tanzania e ora una frequenta l’università in Italia. Augusto e Laura hanno scelto la strada più difficile. Non sono diventati mai ricchi, materialmente, ma credo che le emozioni che hanno vissuto in questi decenni sono state un’immensa ricchezza. Le difficoltà non sono state e non sono poche soprattutto per l’equilibrio familiare.
Mi raccontavano che una delle figlie voleva tornare in Italia, perché la scelta di vivere in Tanzania aiutando gli altri, non era la sua, ma la loro, gli ripeteva. È normale che una ragazza giovanissima, nata e cresciuta in Africa, una volta arrivata in Italia, dove tutto sembra possibile e realizzabile con minor sforzo, voglia vivere nel bel paese!
Augusto e Laura erano in crisi perché significava separarsi, dopo una vita vissuta sempre l’uno al fianco dell’altro. Augusto non concepiva l’idea di lasciare tutto e tornare, ma non poteva nemmeno dire di no a sua figlia. Il lavoro di un medico in quei posti è una missione. E per Augusto lo è.
Laura aveva deciso di tornare in Italia per stare vicina alla figlia, ma Augusto sapeva che un figlio ha bisogno di entrambi i genitori. Non so cosa ha poi deciso Augusto, ma qualsiasi sia stata la sua scelta credo proprio che non sia stato semplice.

Di Romina Remigio

Romina Remigio