Dopo 30 anni

A Missioni Consolata sono interessata per:
1°, perché mi è molto utile come strumento di informazione e documentazione per le attività di educazione allo sviluppo nella scuola, date le tematiche di carattere globale che affronto;
2°, perché ho conosciuto e apprezzato la rivista durante un’esperienza estiva fatta presso alcuni missionari della Consolata, in Tanzania, una trentina di anni fa.
Oggi ho provveduto a fare il versamento per il 2004. Sono impegnata pure come volontaria in una Ong sarda (Osvic).

E così ci ritroviamo… dopo 30 anni. Che bello

Giulia Polloni




KENYA – Abbondanza di mucche e di… parole

Alcuni fortunati europei hanno potuto assistere
a una cerimonia che da secoli
si ripete uguale tra i masai di Kenya e Tanzania,
per ottenere benedizione e salute.

L’ orologio che scandisce la vita pastorale dell’etnia masai (Kenya e Tanzania) ha un ritmo lento, ma perseverante. In questa nostra era, è davvero inimmaginabile imbattersi in cerimonie tribali, celebrate così raramente che, a volte, la memoria umana non riesce più a registrarle.
Il fotoreportage illustra una di queste cerimonie solenni: erano ormai più di trent’anni che non veniva celebrata!

Siamo nel profondo cuore della riserva masai del Kenya, verso i confini del Tanzania, dove vivono gruppi di masai che, salvo l’orologio al braccio o la radiolina a pile, potrebbero benissimo essere scambiati per pastori di secoli fa, guidati dal sole e dalla luna, dalle piogge e dalle immigrazioni degli animali della savana.
Alcune suore cattoliche e una dottoressa italiana, per gentile invito, hanno potuto partecipare a questa solenne cerimonia e immortalare, per la prima volta nella storia, alcuni momenti del rito della fertilità.
Nell’immenso spiazzo (boma) lasciato libero temporaneamente dai numerosi greggi di capre e mandrie di mucche, si è radunata tutta la comunità femminile della regione. È il più solenne e sacro raduno delle mamme masai dei dintorni. Siamo a El Kisongo, uno sperduto puntino nell’area geografica del Kenya, territorio non ancora intaccato dai furori della civiltà.
I soli uomini presenti sono i grandi dignitari, rappresentanti i vari clan che ruotano intorno alle zone di pascolo di El Kisongo. Spicca tra tutti ’loiboni o grande sacerdote. Ostenta una parrucca di peli di coda di mucca, una sgargiante coperta azzurra, orecchini nuovi e collane dal significato a noi sconosciuto. Regge una zucchetta contenente latte, che sarà usato durante la cerimonia.
Gli altri assistenti, avvolti nelle coperte rosse, i fianchi cinti da un perizoma, sono rasati di fresco (segno di purificazione). Tutti si sono portati appresso il famoso scranno treppiede (a volte anche quadripiede): grande segno di autorità.
Le donne – tutte mamme – in lunghe vesti coloratissime, fanno girotondo nell’ampio recinto. Quelle ancora giovanissime si sono portate dietro i pargoletti appesi alla schiena, ben protetti sia dal sole, come dal vento che spira (a volte pungente) dal vicino Kilimangiaro. Anche se la giornata è serena e il sole abbacina, il manto di cotone che tutti e tutte portano allacciato alla spalla, ripara e, nello stesso tempo, dona un colore di festa.

Il primo atto della cerimonia è il sacrificio di un bue, alla presenza del gran sacerdote e dignitari. Il luogo del sacrificio viene così considerato «santificato»: sarà il centro di tutte le cerimonie che via via verranno effettuate.
Davanti a un grande drappo nero appeso a due paletti, viene scavata una buca, che viene poi ricoperta di pelli e in cui si verserà del latte di vacca. Ogni donna e anche la sua bambina (non i maschietti) passeranno a lavarsi i piedi in quel latte, sotto il controllo di un anziano.
Accanto al drappo nero, garrisce al vento una fronda di palma. Questa ha un particolare significato e sarà uno dei temi della grande preghiera del ’loiboni durante la benedizione finale: la foglia di palma che si lacera al vento, formando così altrettante foglie, vuole indicare l’uomo e la donna che si ripetono in tanti figli, trasmettendo in essi la loro stessa vita.
La fila di donne passa davanti al gran sacerdote, che impone su ognuna una speciale collana e, come segno di benedizione di Enkai (Dio), colora la fronte di caolino bianco e latte. Anche gli anziani ripetono la cerimonia del gran sacerdote. Bere latte fresco di mucca e latte cagliato significa partecipazione comunitaria delle donne alla «preghiera della fertilità». Le bevute si susseguono… mentre passano le ore. Non sembra vi sia fretta alcuna, se gli strilli dei pargoli ogni tanto richiamano alla realtà di allattamenti soccorritori. Pluff!… con curiosa manovra la mamma fa saltare con destrezza il piccolo, che se ne sta dietro la schiena, e lo riceve delicatamente sul davanti… pronto alla pappa!
La preghiera comunitaria guidata dal ’loiboni invoca, ora, su tutta la gente ogni bene:
«Enkai, tu resterai fermo
al di sopra di tutte le cime dei monti
del monte splendente (Kilimangiaro).
Sii lacerato come le orecchie
della palma
lacerata dal vento…» (allusione alla frasca di palma, che sta davanti al panno nero, simbolo della divinità).
Le richieste a Dio di «beni» comprendono l’abbondanza di mucche (sempre prime nella scala dei valori), di piogge, di pascoli, di mamme e di prole. Si chiede a Dio protezione contro gli animali feroci e le malattie del bestiame e degli uomini. E siccome, invitati speciali di onore ci sono le suore e una dottoressa, si chiede anche per loro «che possano essere mamme di tanti figli e curare tutti i loro malanni».
La cerimonia finale, come segno di partecipazione alla grande festa, sarà l’imposizione di una strisciolina di panno nero, messo al braccio destro di ogni mamma (simbolo dell’accompagnamento di Dio). Infine, tra canti e danze a Enkai, la distribuzione di vari amuleti protettori.
Il sipario si chiude quando il sole traccia ombre lunghe sul boma. Già intorno ci sono le mucche e le capre, tornate dal pascolo, in attesa di entrare nel recinto per essere munte del poco latte (un bicchiere appena). E poi i guerrieri, con le loro lance, si metteranno in guardia tutt’intorno, per proteggere il loro tesoro contro le bestie feroci della notte.

Non lontano, le nevi splendenti del Kilimangiaro continueranno a riflettere la luce della luna, testimoni, da secoli, di vita e cerimonie di un popolo che non ama calendari e tanto meno il ruggire di motori e fermate di autobus; o arrembaggi di uffici alla ricerca di un segretario che abbia la pazienza di scrivere una carta d’identità dove, insieme a un nome, ci sia anche la compiacente definizione «over 18», con la quale si fa livello di tutte le età, dai diciotto anni ai cento.
Con buona pace di tutti quanti.

Giuseppe Quattrocchio e Francesca Lipeti




Fratelli “costruttori”

Missionari a tutti gli effetti che, nel silenzio,
offrono un esempio di laboriosità,
spirito di servizio e dedizione alla gente

Nella realizzazione dei vari progetti dei missionari della Consolata, i «fratelli», nonostante la loro modestia, diventano artigiani essenziali, veri «costruttori» del regno di Dio di cui bisogna riconoscere i meriti. Ecco ciò che abbiamo potuto constatare nel nostro viaggio in Tanzania.

Fr. Paolino Rota
All’inizio della nostra visita in Tanzania, ci siamo fermati qualche ora alla procura di Dar es Salaam, prima di intraprendere la strada per Morogoro, ultima destinazione del nostro itinerario. Poco prima della partenza, per caso, fratel Paolino ci viene incontro e ne approfitto per chiedergli qualche informazione.
«Da 41 anni mi sposto qui e là nel paese – mi risponde – per dirigere gli operai e i lavori di costruzione nelle missioni, quelle dei padri come quelle delle suore».
Un numero così alto di anni mi impressiona, ma il racconto delle opere realizzate da questo fratello ancora di più. Gioo dopo giorno, anno dopo anno, ha reso immensi servizi alla missione costruendo, con l’aiuto di muratori tanzaniani, una mateità, due dispensari, la residenza dei padri nella parrocchia di Kibiti, la clinica delle suore a Mbagala, l’ospedale di Ikonda (10 anni di intenso lavoro), il centro educativo «Stella del mattino» delle suore a Ilamba, il convento di Mafinga… La lista delle opere non finisce qui: ne ha costruite talmente tante, che certamente qualcuna è stata dimenticata.
È felice, ancora pieno di energia e sempre pronto a iniziare nuovi progetti.

Fr. Liduino Lanzi
Incontro a Dar es Salaam anche fratel Liduino. Mi racconta che, dopo aver lavorato in Italia dal 1948 al 1956, è giunto in Tanzania dove è stato in dieci posti, tra il 1956 e il 1983 come falegname. A Ikonda, aggiunge con fierezza, ha pure partecipato al progetto della costruzione dell’ospedale.
Da 20 anni lavora alla procura di Dar es Salaam, rendendo ancora immensi servizi con una devozione e generosità, senza alcuna ostentazione. Oltre agli incarichi relativi al funzionamento della casa, è prezioso per missionari e visitatori che arrivano in Tanzania oppure che la lasciano: problemi di passaporti, biglietti aerei, permessi di soggiorno, viaggi per l’aeroporto… Liduino è diventato l’indispensabile punto di riferimento per tutti.
Non solo fa onore alla comunità, ma anche al suo paese: l’Italia. Per questo gli è stata attribuita una medaglia al merito del lavoro, piccolo segno di riconoscimento per tutti i servizi resi in questi 48 anni. E non pensa ancora di andare in pensione.

Fr. Nahashon Njuguna
È nel 1986 che fratel Nahashon Njuguna, di origine kenyana, scopre la sua vocazione. Influenzato dai missionari della Consolata della sua parrocchia, in particolare dal lavoro dei fratelli, esprime il desiderio profondo di diventare uno di loro. Termina le scuole superiori e si specializza in carpenteria.
Sempre in Kenya, studia filosofia prima di entrare in noviziato. Arriva, poi, in Italia dove ottiene il diploma di geometra e, con tutte queste conoscenze, pronuncia i voti perpetui nell’ottobre 1994.
Sempre in quell’anno viene inviato in Tanzania, dove comincia a realizzare i vari progetti che gli vengono assegnati. Ha già al suo attivo la costruzione di un salone parrocchiale, due chiese, alcuni locali amministrativi a Dar es Salaam, una scuola, un progetto di installazione d’acqua nella diocesi di Singida, un dispensario a Iringa. Lo abbiamo trovato intento alla costruzione di un dispensario-mateità a Ng’ingula.
Davanti agli immensi bisogni dei più poveri, il fratello sente il bisogno di costruire, e con spirito missionario, lavora con gioia nel suo servizio al popolo tanzaniano. Mi confessa di non aver mai desiderato diventare prete, ma di essere sempre stato felice come fratello. Ascoltandolo mentre parla, quando accoglie chi ha bisogno di lui o mentre lavora, è evidente che non ricerca nessuna gloria, ma compie il suo lavoro per amore di Dio e dei poveri della missione. «Mi piace essere utile alla gente» – è stata la sua conclusione al nostro incontro.
Fr. G. Franco Bonaudo
Arrivando a Ikonda, incontro fratel Gianfranco, anch’egli nella lista dei «costruttori» della missione, in Tanzania. Dopo quattro anni di volontariato in Italia, ha scelto di entrare tra i fratelli della Consolata. Inviato in Tanzania, ha già accumulato 10 anni di esperienza, lavorando a diversi progetti di costruzioni: Dar es Salaam, Kigamboni, Ubungo, Iringa e, ora, Ikonda.
I progetti di approvvigionamento d’acqua e di elettricità sono diventati la sua specialità e ne parla con entusiasmo, pensando soprattutto alla loro utilità nel servizio dei poveri della regione.

Fr. Boniface Mutisya
Tra i fratelli non ci sono soltanto falegnami o costruttori. A Mgongo ho incontrato fratel Boniface Mutisya Kyalo, di origine kenyana, che lavora attualmente come direttore del Centro di formazione professionale: una scuola dove si insegnano i mestieri di falegname, meccanico e calzolaio (non solo per riparare scarpe, ma anche fabbricarle).
Tocca a lui selezionare gli studenti, che devono aver concluso il settimo anno delle scuole elementari; saranno accolti se dimostrano desiderio e interesse per questi mestieri e sono disposti ad accettare il regolamento della scuola. Inoltre, fratel Boniface controlla che la scuola tecnica funzioni bene, occupandosi della disciplina e vegliando sull’impegno degli studenti. Dopo tre anni, gli studenti sono invitati a cercarsi un lavoro e il suo sogno sarebbe di fondare due cornoperative, per impiegare coloro che hanno terminato gli studi al Centro.

Concludendo, vorrei sottolineare il lavoro meraviglioso che i fratelli, troppo spesso dimenticati, compiono con generosità, devozione e impegno nei paesi di missione.
A tutti loro, che mettono i talenti al servizio dei più poveri, noi rendiamo omaggio, esprimendo la nostra gratitudine e ammirazione!

Ghisline Crete




Dossier – Pioggia di… solidarietà

Le catapecchie sono arrivate anche nella zona residenziale di Westlands, territorio della parrocchia-santuario della Consolata. Borghesi e commercianti le bruciano, perché non vogliono poveri tra i piedi. Padre Franco Cellana ha mobilitato parrocchiani e vari gruppi di amici italiani che, donando cuore e tempo, hanno reso possibile un’infinità di iniziative per il recupero materiale, sociale e spirituale di tanti sfortunati.

Il primo incontro con padre Franco Cellana avvenne nel 1985, sotto il cielo africano di Iringa (Tanzania), assieme a memorabili missionari, come Giovanni Borra, Aldo Pellizzari, recentemente scomparso, Sergio Antonucci e tanti altri. Da allora non ci siamo più persi di vista. Il nostro è un legame profondo e prezioso, fatto di condivisione di valori e intenti, giornie, sofferenze e speranze.
Sono tre anni che non ci vediamo. Benché in questo triennio, mio marito Andrea, la figlia Alessia e io lo abbiamo seguito passo passo, non vediamo l’ora di sentire da lui i particolari della sua esperienza nella contrastante, cruenta, spasmodica Nairobi. Sarà cambiato?
Lo incontriamo al suo paese, in Trentino, dove è tornato per una breve vacanza. All’arrivo abbiamo immediata la risposta. È in forma smagliante. Intonse la carica vitale, l’energia, la luce degli occhi e del sorriso. In un abbraccio commosso si sciolgono tutti i nodi dei dubbi e nostalgie per la lunga lontananza. È subito casa, subito famiglia nella gioia di ritrovarci. Ed è subito dialogo e storia vissuta.
Luci e ombre a Nairobi…
«Sappiamo del tuo arrivo a Nairobi, dei primi passi in quell’ambiente così diverso e contrastante, delle tue attività e iniziative. Dopo tre anni e mezzo in quella città, hai qualcosa di speciale da comunicarci?».
La risposta è immediata, solida, fluidificante, come lo scorrere delle immagini in un film. «Intanto ti dico che dopo tre anni a Nairobi, nel santuario della Consolata, mi sento diverso, arricchito umanamente e spiritualmente. La pastorale urbana nelle metropoli africane è una sfida enorme. Catechesi, liturgia, servizio sacramentale, dimensione di giustizia e pace vanno rivedute e corrette.
All’inizio è stato un apprendistato di contatti e conoscenze, un girovagare fra grattacieli e supermercati, un circolare tra le potenti macchine Toyota, Mercedes e Pajero, fino a scoprire che la nostra comunità era composta da ricchi e benestanti, da professionisti e lavoratori, da una larga fetta di poverissimi, relegati nelle baraccopoli o sulle strade. A questi in particolare ho diretto la mia attenzione e cura, cercando di coinvolgere anche tutte le altre forze pastorali. “I poveri li avrete sempre con voi” ha detto il Signore.
Volete che vi conduca in uno slum? Ce ne sono ben 130 di questi insediamenti informali a Nairobi. Ebbene, immaginate un alveare di capanne di lamiera, fango o cartone e plastica. Qui manca tutto: luce, acqua, servizi igienici, strade. Al suo interno crudezza e degrado, emarginazione e miseria. Lo stato di denutrizione per molti è permanente, con una infinità di malattie, molte delle quali endemiche: tifo, malaria, colera, Aids, infezioni intestinali, scabbie ecc. Atmosfera infeale, odori indescrivibili di liquami nauseabondi. Là si nasce nella precarietà, si vive su limo infido, si muore senza formalità. La gente vive in uno stress fisico e psicologico, senza valori né vita familiare, nella paura e nella violenza. Lì ho trovato una umanità che soffriva senza alcun sollievo.
Poi ho scoperto i ragazzi di strada, una miriade. Piccoli e grandi, sporchi, stracciati, allucinati dalla colla-benzina, la loro droga povera. Cielo come tetto, erba o marciapiede come materasso. Vita improvvisata, alla giornata, senza futuro. Questo il mio inizio. Primo impatto, primo desiderio: intervenire per un recupero materiale, sociale, morale e spirituale di tutti loro».
Il miracolo della solidarietà
Ho bisogno di una spiegazione. «Come hai fatto a programmare, organizzare e portare avanti questi ideali di promozione umana, recupero delle coscienze e dignità?». La riflessione di padre Franco diventa tagliente, coinvolgente e chiara.
«Assieme alla comunità parrocchiale, sono partito con semplicità e con l’intento primario di essere segno di speranza e consolazione per tutti. L’imperativo? Non è lecito annunciare il vangelo senza metterlo in pratica. L’asso nella manica? Confidare nella provvidenza, dalla quale non sono mai stato deluso.
C’è stato subito bisogno di intervenire per ricostruire le baracche bruciate con petrolio, da qualcuno che non accetta questi insediamenti umani, o rifare quelle di cartone e sacchi di plastica. Occorreva qualche intervento rapido: acqua pulita per i tre villaggi, asilo per i bambini, toelette e docce, assistenza medica di prima necessità, un laboratorio per i giovani e donne senza lavoro, cibo e vestiti per i ragazzi di strada.
Ecco allora la provvidenza! Amici e conoscenti hanno aperto il loro cuore: alcuni hanno donato il proprio tempo, risparmi e frutto del loro lavoro e sacrificio. Sì, tutto questo si è potuto realizzare solo con la condivisione. La mia famiglia e gli amici delle valli trentine, il gruppo degli Amici di Tione di Trento (Africa Rafiki), quello di Roma (Africa Sì), amici di Torino e di altre parti di Italia, come voi del Mugello, tutti insieme siete stati una vera provvidenza.
Vorrei elencarli uno per uno questi uomini e donne, famiglie, alunni che, uscendo dal torpore del qualunquismo e in mezzo ai loro affanni ordinari, hanno trasformato l’indifferenza in attenzione e la passività in azione. Alcuni in particolare sono stati, straordinari; ma sottolineo l’importanza di ognuno di loro: qualcuno è una goccia, qualcun altro una brocca, ma insieme formano un mare di bene e di amore.
volontariato: risorsa umana
Mi viene spontanea una domanda, quasi una sfida: «Padre Franco, tu sai quanto noi crediamo nella grande risorsa del volontariato; riteniamo che, per cambiare le coscienze e il corso della storia del nostro tempo, occorra partire da una vita esperienziale e non di sole parole. Abbiamo bisogno di modelli, di testimoni. Avendolo sperimentato di persona, sappiamo quanto affonda nel cuore l’esperienza missionaria, il contatto diretto con una realtà religiosa, culturale e sociale diversa. Ritieni che sia importante uscire dallo stereotipo di “sostenitore economico” a favore di una più attiva collaborazione e condivisione dell’attività apostolica e missionaria?».
«È bella e attuale la domanda che mi fai. Tento di rispondere attraverso la mia stessa esperienza degli anni di missione. Fin dal 1986, per esempio, ho avuto modo di sperimentare in Tanzania la validità della presenza del gruppo missionario Alto Garda e Ledro. Da allora i suoi volontari, con efficienza, serietà professionale e spirito cristiano, non sono mai mancati per offrire validamente la loro opera di sostegno allo sviluppo e alla promozione umana nelle comunità più bisognose.
Il coinvolgimento e la solidarietà verso il mondo missionario sono una vera benedizione. È la nostra stessa vocazione cristiana che ce lo chiede, per questo hanno un’importanza vitale per l’attuazione del messaggio evangelico che ci fa essere tutti missionari gli uni verso gli altri. Io sono d’accordo in un maggior coinvolgimento attivo al nostro fianco e nel mezzo delle comunità locali. L’appoggio economico è il frutto di questa presenza. Prego che in ognuno sgorghi il coraggio della missione e io sono felice di poter essere uno strumento e un’opportunità perché ciò avvenga.
Chi è andato in Tanzania o è venuto negli slums di Nairobi ha potuto condividere con la gente disagi, fatiche e speranze. Queste persone hanno saputo dare tanto; hanno lasciato le loro famiglie e passatempi, si sono giocate le ferie senza nessun tornaconto, mossi soltanto dal desiderio di fare il bene. Non è missione questa? Non è missione la testimonianza che portano a casa, coinvolgendo altri? Così diventano protagonisti: gente che crede nell’uomo, nella giustizia, nella pace e s’impegna a tessere la storia di Dio in un modo diretto, facendosi trama del tessuto…».
Padre Franco si sofferma a ringraziare tutti a piene mani. Ringrazia per l’acqua pulita, per le toelette, per le casette rifatte, per l’asilo dei bambini, per l’aiuto alle famiglie e ai ragazzi di strada, per l’assistenza medica, per le adozioni dei bambini e degli alunni delle scuole, per i laboratori artigianali delle donne e dei giovani, per la pastorale sociale che si è sviluppata così abbondantemente nella sua parrocchia.
Sì, ringrazia; ma si sa che ognuno che ritorna da quel mondo così diverso ha il cuore pieno di gratitudine con un grande «asante sana» (grazie infinite) per ciò che ha ricevuto, che è infinitamente di più di ciò che ha dato.
Questo vale anche per me, che dal 1985 vivo ancora di rendita. La condivisione con i più diseredati ci riporta alla giusta dimensione sociale e ci fa riprendere coscienza della nostra umanità. È un dato di fatto che chi ha fatto questo tipo di esperienza è accomunato dalle stesse sensazioni: siamo come contagiati dallo stesso virus, abbiamo subito la stessa metamorfosi e vorremmo dirlo a tutto il mondo. Cominciamo a dirlo ai nostri figli, ai nostri amici, ai nostri vicini.
Sull’esempio e sulla scia di padre Franco e di altri missionari, diveniamo fiaccole accese di verità, braci che scatenano fuochi di solidarietà, pioggia sottile che fa rinverdire i deserti dell’abbandono, facendo terra di missione ogni persona, paese e luogo. Non è forse vedendo lui, là a Nairobi, stanziale e non di passaggio, nell’incognita e nel rischio, in mezzo a violenze e malattie, instancabile ma inevitabilmente stanco, tenace ma inevitabilmente scoraggiato, forte ma inevitabilmente provato che ci è venuta la voglia di imitarlo e aiutarlo? Uomini come lui, solari, universali, affascinano per la loro dedizione, per il loro coraggio e coerenza. Di questi uomini veri c’è bisogno, uomini con gli uomini, ma con la luce di Dio.
«Ma è stato fatto tantissimo!», concludo esterrefatta.
«Certo – risponde di rimando -. Grazie al gruppo di Africa Rafiki e Africa Sì e altri, che sono intervenuti a nome di tutti, sono state fatte cose molto significative e le comunità degli slums ne sono felici».
«Allora c’è speranza che anch’io e Andrea e la nostra Alessia di 14 anni troveremo qualcosa di cui occuparci e da condividere con la tua comunità?».
Padre Franco ci guarda sorridendo: «Vi aspetta un mare su cui navigare, venite e con voi invito tanti altri. La famiglia di Dio è vasta e manca di importanti valori da scoprire e da condividere».

A pieni polmoni mi gusto questa ossigenata trentina: profumo di pini e abeti, aria di malga fine e rarefatta, che inebria e rivitalizza le membra assopite dall’apatia della nostra società. Un bel respiro e… via! L’Africa ci attende! •

Antonella Bertaccini




L’olivo del gran capo

Nato a Campolongo (UD) nel 1912, morto a Tosamaganga (Tanzania) nel 2003,
65 anni di missione. È padre Rambaldo Olivo, ridotto all’osso.
Per lui il cognome valeva più del nome.
Si compiaceva di essere «un olivo verdeggiante».

Si spense a Tosamaganga
il 26 giugno 2003. Lui che spesso esprimeva il timore di essere solo al momento della morte, ebbe il dono della presenza di due confratelli e di una decina di suore, che con la preghiera lo accompagnarono durante la breve agonia. Aveva scritto: «Signore, prendimi quando vuoi, ma liberami dalla morte subitanea. Dammi il tempo per un’ultima spazzolata. Però, fiat ut vis…».
Il Signore lo ascoltò, anche troppo! Il suo fu uno spegnersi lento, un consumarsi senza alcuna malattia, se non l’anzianità. Negli ultimi due anni la totale inattività, la vecchiaia e il timore di essere di peso gli erano un tormento. Si lamentava che il Signore lo avesse dimenticato, chiamando prima di lui missionari più giovani e ancora in salute. Ogni volta che le campane suonavano a morto diceva: «La prossima volta sarà per me». Era in attesa continua.
Aveva pure scritto: «Non ho dolori fisici e neppure morali. Cerco di fare ciò che vuole il Gran Capo. Per me è stato tanto misericordioso. Sono pronto alla sua chiamata…».
Lo visitai la sera del 20 giugno, festa della Consolata, e lui non voleva assolutamente che me ne andassi. Numerose volte feci cenno di andarmene, ma lui, stringendomi la mano, mi obbligava a restare. Fino a quando, assopitosi, potei lasciarlo. Ebbi la netta percezione che sentisse vicina la sua «pasqua».
Ripassai a salutarlo il giorno 24, e stava meglio. Era l’ennesima «risurrezione» di Olivo? No, perché due giorni dopo spiccava il volo verso l’eternità. Sul petto aveva un crocifisso e un quadretto della Consolata. Il crocifisso: quello che gli fu consegnato 65 anni prima, alla partenza per le missioni.
Un giorno scrisse: «Quel crocifisso lo porto ancora oggi, anche se è piuttosto consumato. Mi auguro di presentarmi al Gran Capo con Lui». Sì, il crocifisso era consunto. Così il quadretto della Consolata. Crocifisso e Consolata erano sempre lì sulla sedia, accanto a lui. Li baciava. Erano il suo viatico.

Missionarietà.
Che fosse a Madibira, Irole, Kibao, Igwachanya o Tosamaganga, lo stile missionario di padre Olivo era sempre lo stesso. Poche sue parole lo descrivono: «Visito tutte le famiglie di ogni villaggio, anche quelle pagane, anche quelle musulmane: nessuno mi ha mai messo alla porta… Sono sempre in giro a controllare le scuole, a vedere che i catechisti insegnino, a benedire le famiglie, a portare la parola di Vita».
Un giorno scrisse a lettere maiuscole: «Un grazie sincero al buon Dio, che mi ha sempre tenuto la sua mano santa sul capo in tutti i miei anni d’Africa. Anni dei quali non mi sono mai pentito».
La missione gli era nel cuore e gli sprizzava da ogni parte.

Gioia e facilità
di relazioni. Ecco una sua testimonianza da Madibira, la prima missione: «Non ebbi difficoltà di sorta né con il nuovo ambiente, né con i missionari». E, ricordando le possibili difficoltà della vita comunitaria, è bello leggere ciò che scrisse del periodo trascorso a Tosamaganga con padre Giovanni Berghi: «Siamo stati insieme 17 anni, e non è mai successo che io sia andato a letto con il muso per qualche torto ricevuto da lui o che io gli abbia fatto qualche affronto. Eravamo più che fratelli siamesi. Discutevamo e programmavamo: nulla si faceva senza dirci tutto».

Lunga la processione
quel giorno al cimitero di Tosamaganga, dove riposano tanti missionari e missionarie della Consolata. Meticolosa, come sempre, la deposizione della bara nella fossa, con i riti culturali da osservarsi, e la copertura con la terra scavata.
Ultime preghiere… E per un missionario di 91 anni (di cui 65 spesi in Tanzania) non poteva mancare una danza, al suono di tamburi, attorno alla sua tomba ricoperta di fiori. Non era un atto funebre. Era una danza di gioia, affetto e gratitudine cui hanno partecipato anche i padri e le suore.
Con padre Rambaldo Olivo scompare una generazione di missionari: quelli venuti in Tanzania prima della seconda guerra mondiale; quelli che hanno camminato e camminato spesso malati di malaria; quelli che hanno seminato nel pianto, ma che hanno pure goduto la gioia dei frutti successivi. Missionari innamorati della missione.
Affermava padre Olivo: «L’Africa mi piace sempre di più con il passare degli anni, i madibiresi soprattutto». Se c’è un ricordo che rimarrà indelebile in chi lo ha conosciuto è il suo zelo missionario: visitare, annunciare, catechizzare, celebrare. E anche la sensibilità nei confronti di chi era in necessità. Era generoso e riconoscente.
Sentiva molto la gratitudine. «Se ho fatto qualcosa di buono, lo devo all’aiuto ricevuto da tanti confratelli», dalle missionarie della Consolata, dalle suore Teresine, dai sacerdoti diocesani Tito e Rodrigo, dalle autorità locali e dalla popolazione (egli la considera tutta buona), dai benefattori in Italia.
Da tutti otteneva aiuto. E chi poteva rifiutarsi di fronte alla sua bonaria imperiosità? Il suo dito perennemente alzato ne era un simbolo.

Padre Olivo
hai camminato a piedi, hai percorso chilometri e chilometri in bicicletta e in moto. Hai guidato l’auto persino in modo spericolato, fino a due anni fa. Ora riposa in pace, con quel lieve sorriso che ti era abituale.
Noi ringraziamo il Signore per la tua lunga e operosa vita e per i molteplici doni che ti ha elargito perché facessi del bene a tutti. Ti ringraziamo per l’esempio di totale sacerdotalità, per sentirti ed essere missionario della Consolata nella bocca, nel cuore, nella vita. È il mantello di cui vogliamo essere ricoperti. Lascialo cadere su di noi. •

Giuseppe Inverardi




Un laboratorio per la vita


Incontro con la dottoressa Alessandra Carozzi, presidente della Fondazione De Caeri.

«Ci sono uomini che vanno ricordati. Non per nulla, quando mancano, nasce qualcosa di nuovo». Alessandra Carozzi De Caeri ha idee precise quando parla del marito e della Fondazione Ivo De Caeri, nata in sua memoria un anno dopo la scomparsa.
«Mio marito era un parassitologo esperto in malattie tropicali e infettive. Collaborava con l’Organizzazione mondiale della sanità, soprattutto nell’ambito dei piani di controllo delle parassitosi nei bambini in America Latina e in Africa». Per continuae l’opera con lo stesso entusiasmo, nel 1994 la famiglia ha fatto nascere la Fondazione in sua memoria, insieme con numerosi colleghi, perché «La parassitologia è una branca medica che porta a creare contatti. Non è una specializzazione da studio privato, bensì una medicina aperta al territorio e ai problemi sociali».
Sono passati 10 anni da allora, ma gli obiettivi non sono cambiati, e la calma e la determinazione nella voce di Alessandra De Caeri, presidente della Fondazione, laureata in medicina e biologia, sono espressione della volontà di proseguire lungo una strada che ha già portato diversi risultati. «La nostra missione è cornoperare e collaborare con i paesi in via di sviluppo seguendo i piani sanitari o le strategie del luogo. Un secondo obiettivo è legato alla formazione a sostegno della ricerca, con pubblicazioni scientifiche, corsi aperti a tutti gli operatori sanitari, italiani e stranieri, premi e borse di studio». Si colloca in quest’ambito, per esempio, l’impegno della Fondazione a mantenere aggiornato il testo di parassitologia generale e umana di Ivo De Caeri, strumento di contatto con i giovani universitari su una materia spesso trascurata. «Un compito della Fondazione è anche quello di cercare di far conoscere e capire l’importanza e la gravità di queste malattie nel mondo. Sono causa di milioni di morti ogni anno e questo le rende pari a un’altra guerra dimenticata, perché non ci si dedica tempo né soldi», afferma decisa Alessandra De Caeri.
I due filoni seguiti dalla Fondazione, didattico-formativo e pratico, trovano un punto di collegamento nell’adesione al «Premio giornalistico dottor Carlo Urbani», bandito da Missioni Consolata: ai vincitori verrà offerta la possibilità di uno stage di un mese nel Laboratorio di sanità pubblica «Ivo De Caeri» dell’isola di Pemba (Zanzibar), costruito dalla Fondazione. Ricorda il suo presidente: «Carlo Urbani aveva conosciuto mio marito a un corso organizzato dall’Istituto superiore di sanità in cui Ivo era docente. Carlo gli aveva chiesto qualche indirizzo per dedicarsi ancor di più alla parassitologia presso l’Organizzazione mondiale della sanità. In seguito ha fatto parte della Fondazione per due anni».

Pemba è un’isola che, con Zanzibar e altre minori, appartiene al governo autonomo di Zanzibar, che fa parte della repubblica unita di Tanzania.
Toa indietro con la memoria Alessandra De Caeri. «L’idea del laboratorio era già partita con mio marito, che sull’isola era stato diverse volte per corsi di formazione e come inviato dal ministero degli affari esteri per una revisione delle condizioni sanitarie. C’era la possibilità di avviare un centro unico che cornordinasse i piani sanitari e che facesse parte del sistema sanitario locale». Pemba era sia una zona colpita dalle malattie parassitarie sia un luogo dove c’erano già buoni contatti con le strutture locali, base fondamentale per far partire una collaborazione valida a lungo termine. «La costruzione del centro è terminata nel 1999 e nel 2000 sono iniziate le attività. È un’entità autonoma ha come branche principali la microbiologia, la parassitologia e la virologia. Ci sono poi gli uffici amministrativi e la sezione per la didattica. Entro quest’anno poi dovrebbe essere completato un ampliamento che prevede una piccola mensa, una sezione per la raccolta e l’analisi dei dati e un magazzino per i farmaci».
Il laboratorio svolge un ruolo di controllo di alcune malattie sul territorio: distribuzione dei farmaci e sorveglianza della loro attività e della comparsa di resistenze. Una seconda attività riguarda la formazione del personale, non solo della struttura e di Zanzibar, ma esteso anche a realtà a Sud del Sahara. Un ulteriore ambito d’azione comprende la ricerca scientifica rivolta alla malnutrizione (soprattutto infantile), all’Aids e alle malattie infettive in generale.

Valeria Confalonieri



Carissimo Mario

Lettera a padre MARIO BIANCHI viale dei teologi e missionari ciità di Dio

ti scrivo dopo la tua morte.

Stranamente ti dò del «tu», cosa che non ho mai fatto prima… Ecco alcune riflessioni sulla tua figura, basate su ricordi personali nell’arco dei tuoi ultimi 24 anni. I lettori valuteranno la validità o meno del mio scritto.

Nel 1969-1975,

quale superiore generale dell’Istituto Missioni Consolata (imc), numerosi giovani confratelli ti ritenevano un po’ conservatore, eletto per frenare le iniziative che uscivano dal solco tradizionale dell’Istituto. Pareva tu volessi comprimere le aperture iniziate o tollerate dal predecessore, padre Domenico Fiorina.

Non dico che tu non stimassi padre Fiorina: tutt’altro. Ma eri fermo nei tuoi principi, decidevi. Così hai accettato (sia pure a malincuore) l’uscita dall’Istituto di parecchi missionari, soprattutto in Brasile. La tua preoccupazione era quella di salvare l’imc, e pensavi di farlo basandoti sulla tradizione della Chiesa.

Come professore di teologia dogmatica, prendevi con serietà il Concilio ecumenico Vaticano II (1962-1965). Ma ragionavi: il Concilio non ha promulgato dogmi; la dottrina è la stessa. Quindi gli appelli del Concilio a cambiare e adattarsi al mondo d’oggi non erano vincolanti.

Volevi evitare pratiche rischiose, che potevano snaturare il fine dell’IMC; volevi scongiurare comportamenti secolarizzanti. Tuttavia accettavi la critica e il dialogo. Quando un missionario commentava per iscritto le tue circolari, non solo eri pronto ad ascoltare, ma eri anche riconoscente. Al termine ribadivi le posizioni che ritenevi giuste.
Delegavi responsabilità concrete al vicesuperiore generale, ai consiglieri e ai superiori delle circoscrizioni in Africa, nelle Americhe e in Europa. (Allora non eravamo ancora in Asia).

Rieletto superiore

per altri sei anni (1975-1981), la tua posizione è rimasta la stessa. Tuttavia hai avuto un vicegenerale che dialogava con i missionari fuori dei «parametri normali» dell’IMC. Il vice si è sforzato di trattare bene gli esclaustrati giustificati e non giustificati. Tu ne hai visitati alcuni nel loro posto di lavoro, informandoti sulle loro attività.

Volevi persone decise a lavorare «dentro» l’IMC. Altrimenti, dovevano decidere diversamente… Però, di fronte ad un missionario che ha lasciato l’Istituto per incardinarsi in una diocesi, hai scritto: «Il problema reale con lui (ma anche con altri) è forse un altro: quello di misurare il tempo necessario ad ogni individuo per maturare la decisione se restare o no nell’Istituto… In tale situazione può accadere che i superiori chiedano all’individuo di decidere prima che egli sia pronto a farlo. È un problema di discernimento non facile; e si può sbagliare, senza volerlo. Penso che, se si sbaglia, per l’individuo resta sempre aperta la porta per rientrare nell’Istituto. Tale porta è aperta anche per il padre…».

Come superiore generale
hai avuto contatti con altri omologhi di varie congregazioni. Hai parlato, per esempio, con i padri Pedro Arrupe e Theo Van Asten, superiori dei Gesuiti e Padri Bianchi. Con loro hai trattato il problema del Mozambico durante la lotta anticoloniale nei primi anni ’70. Tu non eri molto entusiasta dei missionari che, in blocco, abbandonavano il paese per protesta contro i vescovi portoghesi, che appoggiavano troppo il governo coloniale. Tuttavia hai rispettato la decisione dei missionari, esprimendo loro solidarietà.

Ai missionari della Consolata hai concesso piena libertà di lasciare o restare in Mozambico. Esortavi chi rimaneva ad essere difensore della causa dei nativi. Hai maturato questo atteggiamento dietro consiglio e informazione dell’allora superiore dei missionari nel paese.

Un missionario della Consolata, mozambicano, fuggì dal suo paese per raggiungere il Fronte di liberazione del Mozambico. E, anche se viveva con i ribelli, l’hai sempre considerato dell’IMC. Perché? Penso due motivi: primo, quella persona si trovava in una zona con la presenza di missionari della Consolata; secondo, il superiore dell’IMC in Tanzania aveva rapporti regolari con lui. Quindi, anche se era con i ribelli, manteneva contatti con l’Istituto.

Dopo 12 anni

al comando-servizio dell’IMC, hai operato a Roma presso le pontificie Opere missionarie (1987-1995).
Passando per la capitale mi piaceva ricordarti alcuni episodi, quando eri generale. Eri anche contento di discutere sulla tua tesi di laurea in teologia, sostenuta all’università Angelicum di Roma. Il tema elaborato fu «il sacerdozio dei fedeli nella teologia di san Tommaso di Aquino».

Una volta ti chiesi: «Quale esperto sul sacerdozio dei fedeli secondo san Tommaso, cosa pensi di quanto dice il Vaticano II al riguardo?». La risposta fu: «Poiché il Vaticano II non ha definito dogmi, il pensiero equilibrato di san Tommaso è anche discutibile».
Per questa posizione ti ritengo un pensatore lucido ed onesto. Ma ti era difficile accettare i cambiamenti nella traditio christiana con il sottofondo aristotelico-tomista. Oggi, nella Città di Dio, non so come vedi le cose… Intanto sta a noi risolvere i problemi fino alla nostra morte.

Nel 1997, sempre a Roma,

mi hai pregato di sostituirti nel celebrare la messa in una parrocchia dedicata alla Consolata. Tornato a casa, mi hai domandato:

– Cosa hai detto ai fedeli?

– In cinque minuti ho detto che sono mozambicano e che sono missionario della Consolata. Educato dai missionari della Consolata sin da bambino, sono felice di celebrare la messa in una parrocchia dedicata alla Consolata.

Ricorderò sempre il tuo sorriso e le parole: «Oggi sei più maturo, hai superato il “sessantotto”, ti sei convertito».

L’ultimo nostro incontro
avvenne nella casa-madre di Torino (novembre 2002). A pranzo e cena ti facevo ridere con i miei «spropositi». Ma tu capivi che scherzavo.

Una volta dissi: Giovanni XXIII, dopo la prima sessione del Concilio, ha saputo dai medici di avere una malattia che lo avrebbe presto portato alla morte, se non si fosse sottoposto a cure speciali. E ti domandai:
– Perché papa Giovanni ha risposto ai medici che preferiva la morte e dissolversi in Cristo?

– Papa Giovanni era un uomo di fede: credeva nella vita dopo la morte…

Subito ti incalzai:
– Tanti parlano di fede, ma hanno una grande paura di morire; ci tengono a questa vita e ai posti che occupano e si fanno prolungare la vita con numerosi farmaci.

– Sì, è vero…
– Allora significa che costoro non hanno fede?
Sorridesti… Padre Mario, perché non mi dicesti chiaramente: «Il tuo pensiero potrebbe offendere personaggi a cui si deve venerazione»?…

Perché questa lettera? Per farti conoscere, affinché molti si sentano motivati ad essere onesti e decisi nella vita. Tu sei stato così. E meriti rispetto, ammirazione.

Nato a Coriano (FO) il 30 luglio 1925, Mario Bianchi entrò nell’Istituto Missioni Consolata (IMC) nel 1947, proveniente dal seminario di Rimini. Sacerdote, si laureò in teologia all’Angelicum di Roma. Per 13 anni professore di dogmatica nel seminario teologico IMC di Torino, fu pure direttore della rivista Missioni Consolata.

Destinato al Kenya nel 1966, nel 1969 fu eletto superiore generale dell’Istituto. Rieletto per un secondo mandato, terminò il servizio nel 1981. Poi fu superiore della Delegazione centrale e, nel 1987-1995, segretario generale della Pontificia Unione Missionaria del clero (Roma). Trascorse gli ultimi anni della vita a Torino, nella casa-madre, impegnato nell’animazione missionaria. L’11 agosto 2003 fu chiamato alla casa del Padre a 78 anni, di cui 55 di sacerdozio.

Il suo testamento

Ringrazio il Signore di avermi chiamato ad essere sacerdote,
religioso e missionario nell’Istituto della Consolata.
Egli ha disposto che avessi la responsabilità della direzione
dell’Istituto in un periodo non facile della sua storia.
Chiedo perdono a Dio e ai confratelli per ciò che non ho fatto
o avessi fatto non bene nello svolgimento del mio servizio.
Prego il Signore di donarmi la perseveranza nella vocazione
missionaria, per la quale non Lo ringrazierò mai abbastanza;
e mi raccomando con fiducia e umiltà alla misericordia di Dio
e alle preghiere dei confratelli.
La Consolata, che mi volle nella famiglia dei suoi missionari,
mi ottenga dal Signore la corona dell’apostolato
per le preghiere del Padre Fondatore e di coloro
che, fedeli alla vocazione missionaria e religiosa,
hanno già terminato il servizio alla Chiesa
e si sono ricongiunti al padre della nostra famiglia.

p. Mario Bianchi (Roma, 12 luglio 1981)

D i fronte ad un mondo che si caratterizza per sfiducia, insoddisfazione e negatività, padre Mario Bianchi ha cercato di essere per tutti, ma soprattutto per i confratelli, un missionario che parlava della tenerezza di Dio padre, una tenerezza che conforta, che dà gioia e speranza.
Sentiva, in questo modo, di essere un vero missionario della Consolata.
p. Piero Trabucco

padre Felipe Couto




Se ti piace il filetto di pesce persico

Cari missionari, sono contenta che, nel bellissimo numero dedicato interamente al Kenya (Missioni Consolata, ottobre/novembre 2002), abbiate parlato anche dei problemi ambientali che affliggono il paese.
Bene ha fatto Paolo Moiola a elencare i parchi nazionali e a ricordare le cifre che documentano il declino di elefanti e rinoceronti. Questi animali, simbolo del Kenya, grazie anche alla loro maestosa dimensione e alla facilità con cui è possibile fotografarli, hanno attirato le attenzioni dei conservazionisti. Stimolante è pure l’immagine dei fenicotteri del Lago Nakuru.
Il Kenya, oltre che di grandi savane, è anche un paese con grandi laghi, e purtroppo le tragedie che si consumano SOTTO la superficie non sono da meno di quelle che si consumano SOPRA
.
Malgrado l’abnegazione di tanti rangers nei parchi, malgrado le campagne del WWF e i fondi raccolti, su elefanti, rinoceronti e giraffe incombe la minaccia dell’estinzione. E nei laghi un numero incredibile di specie (pesci, crostacei, molluschi) è già scomparso. La scomparsa ha avuto conseguenze catastrofiche sulla vita di tantissimi kenyani.
La catastrofe ha assunto i connotati più vergognosi nel Lago Vittoria, che i colonizzatori anglosassoni hanno piegato alla spietata logica imperialista, infischiandosene delle necessità dei pescatori kenyani, ugandesi e tanzaniani. Infatti anche Tanzania e Uganda sono bagnate da questo lago.
Consideriamo, ad esempio, i danni causati dall’introduzione del PESCE PERSICO del Nilo, decisa nel 1854 dall’amministrazione coloniale britannica, nonostante il parere sfavorevole degli esperti di allora. Il persico del Nilo (un predatore che raggiunge 2 metri di lunghezza e 200 chili di peso) ha conosciuto una espansione enorme, che ha favorito lo sviluppo di una fiorente industria ittica; ma, nello stesso tempo, ha provocato il crollo dei ciclidi (pesci di piccola taglia che, da sempre, costituivano la base alimentare degli indigeni).
Se è vero ciò che ha scritto la biologa Janet N. Abramovitz, nel 1996 il Lago Vittoria aveva perso già 200 tra specie e sottospecie endemiche di ciclidi e le rimanenti 150 erano in grave pericolo. Un altro biologo, Les Kaufman, ricercatore alla Boston University, ha descritto la perdita nel Lago Vittoria come «la prima estinzione di massa di vertebrati che gli scienziati hanno avuto l’opportunità di studiare».
Privata della possibilità di mangiare sia i pesci piccoli (perché spariti) sia i pesci grossi (non catturabili con piccole imbarcazioni), la gente del posto è da tempo costretta a ripiegare su altre soluzioni: ad esempio, comprare a prezzi tutt’altro che accessibili gli scarti della lavorazione del pesce persico fatta nelle industrie impiantate dagli inglesi.
Però queste industrie stanno attraversando un momento non felice, perché le popolazioni di pesce persico sono a loro volta in forte calo, e per effetto della diminuzione delle specie predabili, e per effetto dell’inquinamento, e per effetto della pesca eccessiva, condotta da vascelli troppo grandi che lavorano per conto di compagnie troppo ingorde.
Il Lago Vittoria NON è un piccolo lago; con i suoi 62 mila chilometri quadrati di superficie (però negli anni ‘50 erano 68 mila) è il terzo lago del mondo, preceduto solo dal Mar Caspio e dal Lago Superiore. NON è modesto per quanto riguarda il volume (in certi tratti raggiunge i 100 metri di profondità). Se, dunque, su un lago così grande l’impatto della «civiltà» è stato così devastante, che speranze possono esserci per i laghi minori?
Il 2003 è stato proclamato ANNO INTERNAZIONALE DELL’ACQUA. Se vogliamo che lo sia anche per il Kenya, cerchiamo di fare qualcosa per il Lago Vittoria (così lo chiamarono gli inglesi in onore della loro regina, ma le popolazioni locali lo avevano sempre chiamato «Nyanza» che significa «ACQUA»).
Ogni volta che ci viene voglia del filetto di pesce persico, cerchiamo di ricordare i danni incalcolabili procurati dall’introduzione di specie esotiche in habitat non in grado di sostenerle. E, soprattutto, cerchiamo di non lasciar sole persone come la professoressa Wangari Mathai, cofondatrice del Green Belt Movement (cfr. Missioni Consolata, ottobre/novembre 2002).
I guai di questa coraggiosa kikuyu con il corrotto regime di Nairobi iniziarono proprio sulle rive del Lago Vittoria: dopo appena un anno di attività, il Green Belt Movement era riuscito a mettere a dimora una quantità di alberi superiore a quella che il governo era riuscito a piantare nei 10 anni precedenti. Però il discorso non è solo quantitativo, ma anche qualitativo: troppe volte la riforestazione è intesa come AGROFORESTRY, come BUSINESS e come introduzione di specie esotiche, dotate di apparati giganteschi, che prelevano acqua a dismisura e creano i presupposti per altro degrado ecologico.
Se il Kenya vuole davvero uscire dalla crisi che lo attanaglia, dovrà restituire alle foreste naturali lo spazio loro sottratto dalle piantagioni di tabacco, cotone, caffè, canna da zucchero, ananas, e fare in modo che anche attorno ai laghi, come il Vittoria, sia ricreata la lussureggiante vegetazione presente fino ad alcuni decenni fa.
Speriamo che almeno i cattolici del Kenya prendano a cuore questi problemi, così come è sembrato di capire dall’intervista di Paolo Moiola ai quattro vescovi e, in particolare, dalle parole pronunciate da monsignor Virgilio Pante.
Aiutiamo il Vittoria a… vincere, ad essere un lago di vita e non di morte.

Ave Baldassarretti




AMBIENTE Acqua delle mie brame

ACQUA DELLE MIE BRAME

Il problema della scarsità d’acqua
si sta rapidamente aggravando,
come dimostrano le sempre
più frequenti guerre per
l’«oro blu» (in Medio Oriente,
regione nilotica,
subcontinente indiano).
Intanto, in Italia il consumo
giornaliero medio pro capite
è di 213 litri e negli Stati Uniti
raggiunge la stratosferica
cifra di 600 litri. È questo
lo «stile di vita»
che vogliamo difendere?

SPRECHI INACCETTABILI

Nel 2000, i paesi afflitti da problemi idrici o da scarsità d’acqua erano 31; secondo le previsioni, entro il 2025 la cifra salirà a 48, compresi India e Cina. Anche se il problema della scarsità d’acqua riguarda tutti i paesi del mondo, i più pregiudicati sono quelli del Sud.
È il Kuwait, con i suoi 10 metri cubi pro capite, il fanalino di coda della classifica sulla disponibilità d’acqua, inserita nel rapporto dell’Unesco. Lo seguono la Striscia di Gaza (52 metri cubi) e gli Emirati Arabi (58 metri cubi). I paesi più ricchi d’acqua sono invece la Guyana Francese con oltre 800 mila metri cubi e l’Islanda (circa 60.000 metri cubi). L’Italia non è esente da questi problemi: a causa della cattiva gestione delle acque, al Sud il 18% della popolazione soffre di carenza idrica.
Si parla di grave crisi idrica quando la disponibilità di acqua pro capite è inferiore a 1.000 metri cubi di acqua all’anno. Al di sotto di tale quantità sono fortemente ostacolati la salute e il benessere economico del paese, mentre sotto i 500 metri cubi è la sopravvivenza stessa ad essere compromessa.
Di fronte a queste cifre, risultano contrastanti i dati sul consumo di acqua nei paesi del Nord: molte famiglie dei paesi ricchi arrivano a consumare oltre 2 mila litri al giorno di acqua di buona qualità (secondo l’Oms la quantità ottimale sarebbe di 150 litri al giorno).
In Italia il consumo giornaliero medio pro capite è di 213 litri, negli Stati Uniti è di 600 litri. Nella seconda metà del secolo scorso la domanda di acqua si è triplicata rispetto all’inizio del secolo, e si stima che, d’ora in poi, raddoppierà ogni vent’anni.
Il contrasto diventa inaccettabile se si analizzano gli sprechi d’acqua, enormi in tutto il mondo:
– il 40% dell’acqua usata per l’irrigazione si perde per evaporazione
– le perdite negli acquedotti oscillano in media fra il 30 ed il 50% (anche nei paesi sviluppati)
– una lavatrice standard consuma mediamente 140 litri a ciclo; lo sciacquone 10-20 litri alla volta; una lavastoviglie 60 litri.
È facile prevedere che l’aumento della popolazione mondiale determinerà un’ulteriore crescita della domanda di acqua, ma intanto è necessario essere consapevoli di chi oggi ne consuma eccessivamente.

POCA ACQUA, POCA SALUTE

La scarsità d’acqua si ripercuote direttamente sulla salute dei suoi abitanti: si stima che l’80% di tutte le malattie ed il 33% delle morti nei paesi del Sud del mondo siano legate alla mancanza d’acqua, alla sua cattiva qualità, all’assenza di impianti di depurazione.
Trentamila persone al giorno muoiono per:
– malattie trasmesse dall’acqua (tifo, colera, dissenteria, gastroenteriti, epatiti)
– infezioni della pelle e degli occhi
– parassitosi
– malattie dovute ad insetti vettori (ad es. mosche e zanzare)
– infezioni da mancanza di igiene.
Il paradosso tra Nord e Sud ritorna anche in tema sanitario: il convegno medico internazionale sulle malattie infiammatorie, tenutosi a Capri il 14 aprile 2003, mette in guardia contro i rischi di un’igiene e pulizia eccessiva (legata inevitabilmente a spreco di acqua potabile), responsabili della distruzione e dell’indebolimento di batteri che difendono l’intestino dalle infiammazioni.
Scarsità d’acqua significa inoltre diminuzione della produzione alimentare e quindi aumento della fame. In questa drammatica situazione, è evidente che troppi uomini si vedono negato il proprio diritto all’acqua, ossia alla vita stessa.

L’ACQUA,
DA DIRITTO A MERCE

Se la risorsa acqua è stata finora considerata un «diritto inalienabile» dell’umanità, al 2° Forum mondiale dell’acqua all’Aia ( 2000) il termine diritto è stato sostituito da «bisogno». Però, mentre «diritto» obbliga le istituzioni ad assicurare a tutti quel diritto fondamentale, «bisogno» attenua i toni e trasforma l’acqua in un bene economico, una merce come qualsiasi altra, sottoponibile a concorrenza, da quotare in borsa, da privatizzare.
Tre sono i principi fondatori della politica promossa dai fautori dell’economia di mercato applicata anche all’acqua: considerandola un bene economico, l’acqua può essere venduta, comprata, scambiata; essendo un bisogno, e non più diritto, gli uomini diventano consumatori/clienti di un bene/servizio da rendere accessibile secondo le logiche di mercato; deve essere trattata come una risorsa preziosa (l’oro blu), destinata ad essere sempre più rara e quindi anche strategicamente importante.
Da ciò conseguono la liberalizzazione, la deregolamentazione e la privatizzazione dei servizi idrici, e quindi la priorità all’investimento privato. Tuttavia, la privatizzazione dei servizi d’acqua non si è tradotta necessariamente e dappertutto in un miglioramento dei servizi o in una riduzione dei prezzi, né in una diminuzione della corruzione o nella creazione di un circolo virtuoso di investimenti.
Nella maggior parte dei casi e specialmente nei Paesi del Sud, i prezzi sono saliti alle stelle (basti pensare al caso di Cochabamba in Bolivia, di Manila nelle Filippine, di Santa Fé in Argentina…), la corruzione si è manifestata nelle concessioni ai privati, l’indebitamento dei paesi poveri è aumentato, il miglioramento dei servizi ha paradossalmente avvantaggiato i gruppi sociali più abbienti. La decisione in materia di gestione delle risorse idriche passa quindi dai soggetti pubblici ai privati: è la mercificazione della vita stessa (vedi Dichiarazione conclusiva del 1° Forum alternativo mondiale dell’acqua, Firenze 21-22 marzo 2003). Affinché l’acqua rimanga un bene comune dell’umanità, è nato un movimento internazionale d’opinione che opera per un «Contratto mondiale per l’acqua».
Uno dei prossimi boom economici sembra inoltre essere legato all’acqua in bottiglia: secondo uno studio preliminare commissionato dal Wwf, in tutto il mondo i consumatori pagano dalle 500 alle 1000 volte di più per una bottiglia d’acqua che, almeno nel 50% dei casi, ha le stesse caratteristiche dell’acqua di rubinetto, con solo un po’ di sali e minerali aggiunti. Intanto i fiumi, che dovrebbero rappresentare la fonte della maggior parte dell’acqua potabile, sono sempre più minacciati dall’inquinamento. Disinquinare le risorse di acqua pubblica, piuttosto che affidarsi ciecamente all’acqua imbottigliata, diminuirebbe invece l’entità di due problemi ambientali: il trasporto delle bottiglie e l’elevata produzione di rifiuti di plastica.

GUERRE E CATASTROFI

In alcuni paesi le tensioni politiche per l’accesso all’acqua potabile sono cresciute a livelli allarmanti. Secondo alcuni le «guerre per l’acqua» potrebbero essere alle porte, se non già sotto i nostri occhi; secondo altri rappresentano già la causa di oltre 50 conflitti nel mondo, tra i quali la stessa guerra contro l’Iraq.
La metà dei villaggi palestinesi non ha acqua corrente, mentre tutte le colonie israeliane ne sono provviste. In Brasile sono presenti l’11% delle risorse idriche dolci del pianeta, ma 45 milioni di brasiliani non hanno accesso all’acqua potabile. Entro il 2025 è previsto che le popolazioni delle 5 regioni considerate punti caldi del conflitto idrico (regione del Lago d’Aral, bacini del Gange, del Giordano, del Nilo, del Tigri-Eufrate) aumenteranno tra il 32% e il 71% (vedi box).
Secondo Vandana Shiva, le guerre dell’acqua non sono un’eventualità futura: ne siamo già circondati, anche se non sempre sono immediatamente riconoscibili come tali. Possono presentarsi come guerre tradizionali, oppure come conflitti fra culture, su come si percepisce e si vive l’esperienza dell’acqua. Conflitti tra la cultura della mercificazione e quella opposta del dare, ricevere acqua come dono gratuito. «Immaginate un miliardo di indiani che, abbandonata la pratica dell’offerta dell’acqua presso i piyao, ricorrono a quella in bottiglie di plastica per placare la sete. Quante montagne di rifiuti di plastica ne deriverebbero? Quanta acqua sarà distrutta dalla plastica buttata via?» (Vandana Shiva, Le guerre dell’acqua, 2003).
C’è ancora un ulteriore insospettabile aspetto legato al problema acqua. Come si è visto in MC marzo 2003, spesso catastrofi come alluvioni, cicloni o siccità sono tutt’altro che naturali. Al contrario, a causa dell’effetto serra ed al conseguente riscaldamento del pianeta, questi fenomeni estremi sono destinati ad aumentare.
La quantità totale dell’acqua rimane la stessa, ma i tempi impiegati a precipitare sottoforma di pioggia possono essere molto più rapidi che in passato, causando ad esempio fenomeni alluvionali devastanti. Ogni giorno, una quantità di acqua poco maggiore di quella contenuta nel Mar Caspio (il lago più grande del mondo) evapora dalla superficie del pianeta per ricadere sottoforma di pioggia, grandine e neve. Al contrario, fenomeni di siccità prolungata e di progressiva desertificazione potranno rendere sempre più critica la già grave situazione legata alla disponibilità di acqua.

E NOI, NEL NOSTRO PICCOLO?

Nonostante lo sforzo di distinguere le varie problematiche legate all’acqua nelle implicazioni ambientali, sociali ed economiche, è evidente come tutte le sfaccettature della questione siano strettamente legate fra loro e come non sia possibile cercare di risolvere un aspetto del problema tralasciandone gli altri.
Anche se a prima vista pare impensabile, anche in questo caso una parte importante della responsabilità ricade su tutti noi, singoli cittadini:
– dal punto di vista del nostro comportamento quotidiano
– come attenzione e senso critico che dovremmo manifestare nei confronti delle politiche perseguite dai governi e dagli organismi inteazionali
– dal punto di vista delle capacità e voglia di formarsi ed informare.
Capire allora che l’acqua può essere considerata rinnovabile soltanto:
– se il suo prelievo non è più veloce della formazione delle riserve d’acqua (ad esempio delle acque sotterranee) e
– se il livello di inquinamento dell’acqua restituita all’ambiente dopo il suo uso non ne pregiudichi il suo riutilizzo.
Noi beviamo la stessa acqua che bevevano gli antichi romani, i nostri pronipoti berranno la stessa acqua che beviamo noi. Come scrive Vandana Shiva: «Il ciclo dell’acqua ci connette tutti e dall’acqua possiamo imparare il cammino della pace e la via della libertà».

L’AFA, IL GOVERNO, I CITTADINI:
BENESSERE PRIVATO, MALESSERE PUBBLICO

Ma i consumi non dovevano «far girare l’economia»? Siamo stati tormentati per mesi con l’ormai (purtroppo) nota pubblicità televisiva che ci ricordava come i consumi facciano bene all’economia… e oggi, 26 giugno 2003, il ministro per le attività produttive Antonio Marzano in persona, alle 13.30 sul Tg1, ci implora di consumare meno energia, di risparmiare, di usare meno possibile i condizionatori, addirittura di spegnere anche la lucina rossa del televisore… Se il ministro ci parla in questo modo in prima notizia, se la notizia dura ben 9 minuti, se tutti i Tg la ripropongono, allora c’è da preoccuparsi: la situazione dev’essere proprio grave.
Ma andiamo con ordine. Nella puntata precedente abbiamo sottolineato come i consumi facciano girare non solo l’economia, ma facciano anche impazzire il clima. Nessuno scienziato negherà l’eccezionalità del mese di giugno 2003, dominato da un caldo rovente fuori da qualsiasi media stagionale: avvisaglie dell’effetto serra? Scatta comunque la corsa all’acquisto non solo di ventilatori, ma dei famigerati condizionatori d’aria: 400-1.000 euro in cambio del tanto desiderato fresco. Peccato che i condizionatori consumino molta energia elettrica, troppa… Chi si azzarda a criticarne l’uso smodato per motivi ambientali viene tacciato di petulanza, di «terrorismo» ambientale e via dicendo.
Le autorità dell’energia decidono di programmare, in tutto il territorio nazionale, dei blackout a macchia di leopardo, perché non c’è energia elettrica sufficiente per soddisfare tutte le richieste. E, quasi come una beffa, scatta il «caloroso» invito a diminuire i consumi: «Non prendete l’ascensore, non aprite il freezer, il traffico può andare in tilt…». Ma allora è vero che c’è un limite ai consumi, che i limiti sono imposti dalla natura e non dall’economia? Come si sentiranno i milioni di cittadini che pensavano di risolvere tutto con i soldi, e che invece si ritrovano un condizionatore nuovo di zecca senza (teoricamente) poterlo usare?
Il fatto tragico non è comunque questo: al contrario, la «necessità» di energia elettrica sarà il pretesto per la costruzione di nuove centrali elettriche, nuove dighe, nuove strutture che impatteranno il nostro già ferito territorio, che incentiveranno nuovamente i consumi, che di conseguenza incrementeranno il fenomeno dei cambiamenti climatici… in un circolo vizioso senza fine. Forse toerà la «necessità» di costruire le famigerate centrali atomiche: con il loro sfrenato consumismo, gli italiani rischiano di far tornare in auge il problema del nucleare che essi stessi avevano allontanato con il referendum del 1987. In questi casi, il paradosso è una costante: in caso di costruzione di nuove centrali, non mancheranno le manifestazioni di protesta della popolazione locale (che le centrali non le vuole sul proprio territorio) o quelle di soddisfazione di coloro che vogliono più energia per utilizzare i condizionatori (che «fanno girare l’economia»…). La stessa giornalista del Tg1 ci presenta l’invito a risparmiare energia, vestita in giacca nera, mentre fuori ci sono 38 gradi…
Come se non bastasse, un altro «invito» ci viene rivolto in questi giorni: risparmiare acqua. In molti comuni, non dell’Africa ma del ricco ed industrializzato Nord Italia, l’acqua viene razionalizzata e distribuita in container di plastica, a causa della siccità. Così, mentre la AEM di Torino propone con entusiasmo al cittadino «proiettato nel futuro» di cambiare il contratto di casa da 3KW
a 4,5 o addirittura a 6KW, in modo che possa utilizzare tutti gli elettrodomestici che desidera (in particolare il condizionatore), molti gestori di centrali elettriche sono costretti a chiudere gli impianti per mancanza di acqua.
Che cosa sta succedendo? Forse dovremmo fermarci un momento, sederci, iniziare a pensare, con calma, su cosa stiamo combinando.

Si.Ba.

Le guerre per l’«oro blu»

ISRAELE-GIORDANIA: Israele dipende, per i 2/3 dell’acqua che consuma, dai paesi confinanti con cui condivide il fiume Giordano (Giordania, Palestina, Siria). Nel 1994 è stato firmato un accordo tra Israele e Giordania, ma l’equilibrio è precario, essendo non lontana la penuria d’acqua.

ISRAELE-PALESTINA: durante il Forum Alteativo dell’acqua tenutosi a Firenze nel marzo 2003, un membro della delegazione palestinese in Italia, Belal Mustafa, ha denunciato che l’80% delle risorse idriche palestinesi viene usato da Israele, che ha un controllo pressoché totale delle acque del Giordano. «Per scavare nuovi pozzi c’è bisogno dell’autorizzazione dell’esercito israeliano… la maggior parte degli insediamenti dei coloni sono stati realizzati proprio in base alla presenza di falde acquifere nella zona… gli israeliani hanno a disposizione 260 litri di acqua al giorno pro-capite, mentre i palestinesi solo 70, meno degli 80 litri considerati dal processo di pace di Oslo il loro fabbisogno minimo» (da Rocca, 1 maggio 2003). Problema sottolineato anche da Jonathan Laronne, docente israeliano dell’università Ben Gurion di Tel Aviv, secondo il quale sarebbe necessaria ed indispensabile una gestione comune e pubblica della risorsa idrica per entrambi gli stati.

TURCHIA-SIRIA-IRAQ: le tensioni riguardano la Turchia da un lato e Siria e Iraq dall’altro. Sia il Tigri che l’Eufrate nascono in Turchia, attraversano per un breve tratto la Siria, per poi entrare in Iraq. Questi paesi, dato il clima molto arido, confidano sulle acque dei due fiumi, minacciati però dalla costruzione di 222 dighe, la cui conseguenza è la diminuzione del 35% dell’acqua entrante in Iraq. La Turchia sta inoltre provocando la distruzione di storia e cultura del popolo curdo, a causa delle evacuazioni e deportazioni per la creazione dei nuovi bacini.

IL FIUME NILO: questo fiume è fonte di tensioni per tutti i paesi che attraversa: Uganda e Tanzania, Sudan, Etiopia, Egitto. Questo paese è l’ultimo ad essee attraversato in ordine spaziale: il suo approvvigionamento idrico dipende, quindi, dagli stati a monte. Le tensioni più gravi sono tra Egitto ed Etiopia e tra Sudan e Uganda. Punto strategico è la città di Damazin, sede della diga che fornisce l’80% dell’acqua consumata dalla capitale del Sudan, contesa tra gli eserciti nemici.

IL FIUME GANGE: il Gange, uno dei più grandi fiumi del mondo, attraversa India, Nepal, Bangladesh. Nel 1975 l’India ha costruito una diga nei pressi di Farrakka, riducendo drasticamente l’apporto d’acqua al Bangladesh, e innescando una disputa non ancora risolta.

Si.Ba.

(rielaborato da: Civiltà dell’Acqua, www.provincia.venezia.it/cica; Rocca, rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi, 1 maggio 2003)

Silvia Battaglia




Il maestro è sempre… maestro

Carissimi missionari,
sono un ex allievo dell’Istituto
Missioni Consolata.
I miei compagni di studio,
a Favria e Varallo Sesia,
sono stati i padri
Graziano Ventura, Alessandro
Di Martino, Emilio
Canova, il martire Luigi
Graiff e altri.
Pochi giorni or sono il
professor Carlo Tomassini,
mio ex allievo (sono
stato insegnante elementare),
mi ha invitato in
classe per un colloquio
con i suoi studenti delle
medie. I ragazzi hanno
voluto sapere in che cosa
consiste il lavoro del missionario.
Avevano letto su
Famiglia Cristiana che in
Tanzania e nel resto del
mondo i missionari della
Consolata non si limitano
solo alla predicazione, ma
svolgono anche lavoro di
promozione umana.
Insieme hanno raccolto
50 euro per i bambini poveri.

Non saremmo mai abbastanza
grati ai nostri ex
allievi per il loro affettuoso
e contagioso impegno.
In questo il signor Osvaldo
è sempre «maestro».

Osvaldo Valori