L’università cattolica del MOZAMBICO

UN FIORE NATO SULLA PACE

«L’identità cattolica
comporta assai di più
della recita del breviario
ad un’ora precisa,
della “lectio divina”…»
(padre Filipe J. Couto, rettore
dell’università cattolica
del Mozambico).
«Ho preso possesso
in uno sgabuzzino della
Conferenza episcopale
mozambicana,
con una sedia,
un tavolino
e senza un centesimo…»
(padre Francesco Ponsi,
vicerettore e amministratore
dell’università cattolica).

Scena e retroscena di un grande evento
E non è mancato
un sorso di whisky

L’università cattolica del Mozambico è un evento, un grande evento.
Nasce per volontà dei vescovi come strumento di giustizia, pace e democrazia.
La realizzazione è affidata ad un missionario della Consolata.
Inaugurata nel 1996, il rettore e vicerettore «inventano» poi le facoltà
di medicina e agraria. Meglio: valorizzano un liceo malandato dello stato
e una caserma di guerra. I carri armati sono ancora là…
Oggi l’università conta oltre 2.300 studenti in sei facoltà (economia,
medicina, scienza dell’educazione, diritto, agraria, turismo-informatica)
a Beira, Nampula, Cuamba e Pemba.

FRA DUE LITIGANTI
La guerra in Mozambico impazziva
da anni. E il popolo, esasperato,
«impose» il cammino verso la pace…
Così i belligeranti si ritrovarono
a Roma, presso la Comunità di S.
Egidio, per concertare la fine delle
ostilità. Però le discussioni si protraevano
sterili, interminabili. L’uomo
della strada insorse ancora: «Finitela!
Da oltre un anno e mezzo
mangiate e bevete a sbaffo, mentre
i nostri figli si scannano con i vostri
bazooka».
Nel giugno 1992 le trattative tra i
contendenti Frelimo e Renamo (Fronte
di liberazione del Mozambico e
Resistenza nazionale mozambicana)
erano ad un punto morto. Nel disegno
di ricostruire il paese, la Renamo
rinfacciava al Frelimo l’«asimmetria
regionale», ossia una specie di
colonialismo interno del sud rispetto
al centro-nord.
È possibile firmare l’accordo di pace
anche subito – incalzava la Renamo
-; però le cose continueranno immutate.
Per esempio: i giovani del
nord resteranno esclusi dalla formazione
universitaria; per ottenerla dovrebbero
raggiungere Maputo, dove
esistono tutte le strutture specializzate,
ma dove i nostri giovani non
hanno appoggi familiari o conoscenti.
Per non parlare di strade e trasporti.
Restando così le cose, tutti gli
sforzi di recare democrazia e giustizia
al paese rimarranno frustrati.
In tale contesto, per superare lo
stallo, Jaime Pedro Gonçalves, arcivescovo
di Beira e mediatore fra i
contendenti, lanciò un messaggio:
la chiesa cattolica si sarebbe impegnata
a fondare una università nel
centro-nord del paese. La coraggiosa
proposta sgelò l’ambiente di diffidenza
e recriminazione.
Il 4 ottobre 1992 Frelimo e Renamo
firmarono gli accordi di pace dopo
16 anni di guerra civile, che aveva
prodotto un milione di morti, milioni
e milioni di profughi interni,
devastazioni incalcolabili e aveva seminato
2 milioni di mine. Il paese,
con un reddito annuo pro capite di
soli 63 dollari, era da bonificare e ricostruire
dall’«a» alla «z», materialmente
e socialmente.
Si cominciò anche dall’università
cattolica, proposta da dom Gonçalves a nome dei vescovi del Mozambico.
Il progetto aveva entusiasmato
il presidente della repubblica Joaquim
Chissano. Era piaciuto anche al
papa Giovanni Paolo II.
Ma chi avrebbe posto «mano all’aratro»?

MA LE VIE DEL SIGNORE…
«I vescovi del Mozambico hanno
chiesto a me di mettere mano all’aratro…
». È la schietta affermazione
di padre Francesco Ponsi (*), vicerettore
e amministratore dell’università
cattolica. Con il rettore, padre
Filipe J. Couto, ci accoglie a braccia
aperte nella loro abitazione di Beira,
non facendoci mancare neppure un
pacchetto di wafers e un bicchierino
di Ballantine.
«Però, questi poveri missionari con
il Ballantine in tavola!» abbiamo malignato
mentalmente. Poi, osservando
il loro modestissimo alloggio, ci
siamo subito ricreduti. Biscotti e whisky
erano solo l’espressione di una
ospitalità squisita.
«Per iniziare l’università – racconta
padre Ponsi, in T-shirt bianca e
ciabatte nere nell’afa della sua camera
seminterrata -, il presidente
della Conferenza episcopale mozambicana,
dom Paulo Mandlate, si è rivolto
a vari istituti missionari, che
tuttavia non se la sono sentita di assumere
l’iniziativa. Però padre Franco
Gioda, superiore dei missionari
della Consolata, ha risposto: “Noi,
forse, noi uno che può farcela l’abbiamo”…». Cioè Francesco Ponsi,
docente nel seminario maggiore di
Maputo.
Questi rievoca sorridendo: «Il 1°
luglio 1993, dopo gli esami dei seminaristi
a Maputo, ho assunto l’incarico
in uno sgabuzzino della Conferenza
episcopale… con una sedia,
un tavolino e senza un centesimo».
Sennonché le vie del Signore sono
infinite. Ed ecco che, attraverso padre
Beniamino Guidotti e i professori
Felice Rizzi e Stefania Gandolfi (in
Mozambico a nome della Conferenza
episcopale italiana – Cei), al missionario
furono assegnati 25 mila euro:
non un granché per iniziare una università
da zero. Ma furono un catalizzatore,
come… i cinque pani e due
pesci (di evangelica memoria) che,
miracolosamente, sfamarono oltre 5
mila persone (cfr. Mc 6, 35-42). Infatti,
poi, la Cei donò altri 250 mila
euro per le sedi universitarie di Beira
e Nampula, nonché 200 mila euro
per le case dei professori a Nampula.
Oggi la chiesa italiana garantisce,
ogni sei mesi, 250 mila euro.
Né si scordi il contributo dei vescovi
del Portogallo, pari a 550 mila
euro, da aggiungersi a quello della
società filantropica Gulbenkia (Lisbona)
e della banca tedesca Merkur,
che offrì un prestito senza interesse.
Né è mancato il prezioso «obolo
della vedova», ancora di evangelica
estrazione: si tratta di donazioni di
istituti missionari, diocesi, parrocchie,
solo «offerte-
Couto,
un prestito
banca del
Mozambico Standard Tota (restituiti
con interesse). E gli studenti pagano…
Soprattutto si sta operando con
intelligenza e coraggio per raggiungere
l’autonomia finanziaria. La facoltà
di economia l’ha già conseguita
e quella di diritto quasi.

SUPERATA L’ASIMMETRIA
Il 10 agosto 1996 l’università ha
aperto i battenti a Beira con la facoltà
di economia e con quella di diritto
a Nampula. Il superamento della
temuta «asimmetria» è apparso
subito evidente con le due sedi universitarie
decentrate rispetto alla capitale
Maputo.
Dal 1998 Nampula ospita anche la
facoltà di scienza dell’educazione,
mentre dal 2000 Beira si è arricchita
dell’impegnativa medicina. Di più:
a Cuamba (nella dimenticata provincia
del Niassa), dal 1999 opera la facoltà
di agraria e, dall’anno scorso,
nella pittoresca e nordica Pemba si
studia informatica e turismo.
Complessivamente 2.300 giovani
frequentano l’università: sono cattolici
e musulmani, induisti e protestanti,
agnostici e credenti; appartengono
a sei facoltà, dislocate
in quattro città su una linea di circa
1.500 chilometri. «Cinque nostri
diplomati, dopo la specializzazione
in Zimbabwe e Botswana, operano
già in alcune sedi: uno è cornordinatore
alla facoltà di turismo e sarà
presto affiancato da un altro; il terzo
è direttore aggiunto alla facoltà
di agraria; la quarta persona è una
signorina, che sarà l’amministratrice
della facoltà di medicina, e la
quinta entrerà pure nell’organo direttivo
della medesima facoltà…».
Il vicerettore manifesta legittima
soddisfazione.
Il tutto in soli sei anni, mentre il
paese è ancora sanguinante per le
ferite della guerra civile ed è sottoposto
a drammatiche emergenze,
come l’alluvione di tre anni fa. Ma la
pace opera prodigi. E l’università
cattolica lo è.
«Dopo lunghe e faticose trattative
– annota padre Ponsi – lo stato ha
restituito alla chiesa cattolica alcune
strutture educative nazionalizzate:
come il grande liceo dei missionari
maristi di Beira e quello Nossa
Senhora das Victorias (Madonna delle
vittorie) di Nampula». Durante il
colonialismo erano centri efficienti
di studio; ma alla riconsegna le «crepe
» non si contavano. Oggi quegli
edifici, ristrutturati, sono la sede decorosa
di alcune facoltà.
L’università cattolica è nata con la
«c» maiuscola, al servizio del bene
comune, della giustizia sociale, della
pace… oltre che al servizio di una
professione ad alto livello. Questo è
sancito pure dallo statuto, dopo numerosi
incontri con l’università cattolica
del Portogallo e quella (all’inizio
cattolica) di Durban, in Sudafrica;
per non contare gli estenuanti
negoziati con i ministeri dell’educazione e della giustizia del governo
mozambicano. L’idea che l’università
fosse «per la gente del centro-nord»
si è fatta strada faticosamente tra alcuni
politici del sud.
«Però ce l’abbiamo fatta. Abbiamo
superato l’asimmetria. La nostra università
è la prima organizzazione nazionale
fuori della capitale».
Sembra davvero soddisfatto padre
Francesco, che si concede una pausa
ed accende la pipa.

SPADE IN ARATRI?
La facoltà universitaria che ci sorprende
di più è quella di agraria a
Cuamba: primo, perché è la più povera
ed isolata; secondo, perché sorge
in un’ex caserma di guerra. Sul
fondo, dietro gli edifici, alte erbacce
coprono autoblindo e carri armati,
con uccelli che cinguettano rincorrendosi
e bimbi che giocano. Dalle
carcasse arrugginite sono stati
divelti dei rottami. Per fae zappe
e badili?
… Forgeranno le spade in vomeri
per arare e le lance in falci per
mietere il grano, e i popoli non si
eserciteranno più nell’arte immorale
della guerra: fu il grande sogno di
un poeta sommo, 2.300 anni fa (cfr.
Is 2, 4). La profezia sta avverandosi
nel cuore del Mozambico dalla facoltà
di agraria?
A prescindere dai sogni, la facoltà
avrà un futuro roseo se Cuamba diventerà
un nodo stradale per le province
di Niassa, Cabo Delgado, Tete,
Zambesia e Sofala, province che non
possono ignorare l’agricoltura: un’agricoltura
che deve crescere tecnologicamente
superando la soglia della
zappa. Una agricoltura che, perfezionandosi,
potrà occupare con successo
anche i giovani, arrestando l’esodo
verso le città, cariche di lusinghe
e menzogne.
Ragiona padre Ponsi: «Un figlio di
contadini, diplomato in agraria, se
lo chiudi in ufficio a Maputo, non si
sente realizzato; egli ha bisogno del
campo, di incontrare gli agricoltori,
di vedere le loro condizioni per aiutarli.
Preparare un dottore in agraria
con tali orientamenti è un servizio
all’intera nazione. Intanto, mentre
frequenta l’università, deve accedere
alla biblioteca, al computer… Speriamo
di ottenere presto anche l’accesso
ad internet. Ma non basta conoscere
i problemi; bisogna risolverli
positivamente secondo la cultura locale».
Per venire incontro a tale esigenza
fondamentale, ecco che la facoltà
di agraria ha accettato l’apporto del
Centro di cultura della missione di
Maua, specializzato nello studio dell’etnia
dei macua (cfr. Missioni Consolata,
gennaio 2003).

«MAASTRICHT»
FA LA DIFFERENZA

E le altre facoltà?
Economia raccoglie il numero più
alto di studenti: quasi 800. Il fine è
quello di creare piccoli imprenditori
nei villaggi, capaci di gestire in proprio
un’attività, produrre posti di lavoro:
quindi sviluppo. A tale scopo,
si richiedono minicrediti iniziali, ma
anche fantasia innovativa. Alla facoltà,
i futuri piccoli imprenditori si
sentono spesso ripetere: «Osservate
i venditori del mercato informale nel
centro di Beira. È, come ben sapete,
il Chunga moyo (fatti coraggio). Attingete
da quei venditori (assai meno
istruiti di voi!) idee e costanza».
Ma, ad un tiro di sasso dal mercato
informale, spicca il supermercato
Shoprite: appartiene ad una catena
del Sudafrica. Il nome «shoprite» (il
rito di acquistare) è già un messaggio,
molto equivoco però. Non lontano
s’impone anche «il monumento
alla globalizzazione»: è una gigantesca
bottiglia di Coca-Cola che, da un
basamento circolare in cemento, si
staglia solenne sotto il cielo… La facoltà
di economia è chiamata a remare
anche controcorrente.
Sempre a Beira, un tardo pomeriggio
visitiamo la facoltà di medicina,
con il sole che ne illumina gloriosamente
la facciata. Ci accompagna il
rettore Couto. Una guardia giurata,
in divisa grigio-verde, scatta sull’attenti
al passaggio del «capo»… facendoci sentire noi stessi un po’ importanti.
L’apertura di medicina è merito del
rettore, che ha saputo fronteggiare
resistenze serie. Il Mozambico – si
obiettava – più che di medici necessita
di infermieri; e poi non è equipaggiato
per formare cardiologi, chirurghi…
Ma Couto replicava: puntiamo
prima su medici e, se non ce la
faremo, avremo ugualmente ottimi
infermieri. Ha vinto la scommessa.
Il problema non è solo la preparazione
professionale di medici, bensì
disporre di esperti di sanità in sintonia
(ancora una volta!) con la cultura.
La stragrande maggioranza dei
medici mozambicani lavora a Maputo;
solo un’esigua minoranza accetta
di operare nei villaggi. Occorre invertire
la tendenza.
«Si tratta di creare un “nuovo” medico
di eccellente qualità – spiega padre
Ponsi -, ma disposto a servire i
poveri e dimenticati dalle strutture.
Non per forza deve essere un missionario,
ma con il suo spirito, sì. È necessario
un professionista che, dopo
la laurea, continui a leggere la realtà
in cui vive. Formare professionisti
con una mentalità di ricerca e aggioamento
permanente comporta
una struttura di sostegno, che non si
limita alla facoltà di medicina; implica
che l’università formi medici per
la società e continui ad accompagnarli
con libri, computers e incontri
fra loro via internet e congressi inteazionali…
Esiste pure una medicina
a distanza, che si estende a tutti
i centri di salute dove le comunità
devono essere seguite…».
«La nostra facoltà di medicina deve
essere non solo un luogo dove si
studia, ma anche una sede di scambio
di esperienze: una facoltà che
utilizzi, come metodo di studio, il
problem based leaing (apprendere
partendo da problemi concreti),
già sperimentato in Olanda da 20
anni all’università di Maastricht. Anche
noi l’abbiamo assunto…».
In facoltà incontriamo alcuni docenti,
fra cui padre Elias Arroyo, medico
missionario comboniano messicano,
e suor Donata Pacini, anch’essa
dottoressa comboniana. È poi la
missionaria ad accompagnarci nella
visita a medicina.
Ci soffermiamo davanti ad un murale
naif, che esprime bene l’animus
dello studio nella facoltà secondo il
problem based leaing: partito dal
villaggio, il dottore neolaureato vi
ritorna per servire la comunità secondo
le esigenze e lo stile di vita
locali. All’università studia in gruppo,
ricorre constantemente alla biblioteca
(è necessario quindi conoscere
l’inglese), fa pratica su manichini
anatomicamente perfetti, non
su cavie umane.
La novità del problem based leaing
non è solo di metodo, ma (e soprattutto)
di approccio tra professore
e studente, dove il primo non è il
soggetto protagonista e il secondo
oggetto. Tra i due si sviluppa un rapporto
alla pari, simile a quello della
«maieutica» di Socrate. Nel dialogo,
il grande maestro greco aiutava l’allievo
a cogliere la verità con domande
«curiose»: «Non ti pare che io fossi
nel giusto?… O tu avresti paura
che…?» (Platone, Fedone, passim).

STUDENTI CHE RECUPERANO
Purtruppo non incontriamo studenti,
perché sono in vacanza. Tuttavia
ne salutiamo alcuni in biblioteca.
«Sono in ritardo con il piano di
studi rispetto ai compagni di gruppo
– spiega la professoressa Karin,
austriaca, della facoltà di economia
-. Se non vogliono essere emarginati
dai loro stessi colleghi, devono recuperare».
Sugli studenti si sofferma anche
suor Dominique, delle orsoline italiana,
responsabile dell’immatricolazione
ad economia e impegnata a
Beira nella pastorale della donna. Il
mondo femminile esige soprattutto
rispetto e riconoscimento della propria
dignità. «Quanto alla lotta contro
l’Aids – aggiunge la missionaria –
si punta sulla prevenzione, secondo
il principio dell’amore responsabile.
Il preservativo è accettato come ultimo
mezzo di prevenzione».
Dominique non nasconde la propria
apprensione di fronte al comportamento
di alcune studentesse
universitarie, perché vi sono gravidanze
extramatrimoniali e aborti.
Le consorelle Damiana e Raffaella
insegnano etica, basata sulla dottrina
sociale della chiesa, una disciplina
che caratterizza la «cattolica».
Se condividono la preoccupazione di
suor Dominique, sottolineano anche
i fattori positivi.
«Noi privilegiamo gli studenti poveri
– ci confida suor Damiana -, ma
non escludiamo i ricchi, quasi tutti
appartenenti all’induismo e all’islam.
I musulmani tirano un sospiro di sollievo
quando affermiamo che la religione
non può essere imposta… che
la democrazia non è né comunismo,
né capitalismo, né teocrazia… che
occorre valorizzare la cultura tradizionale,
fondata pure sulla disciplina…
Uno studente della campagna,
mi ha detto: “Suor Damiana, ora non
mi vergogno più di essere figlio di
contadini…”. Io conosco universitari
che dormono in capanne e studiano
al lume di candela. Questi vanno
aiutati».

SOFFERENZE E GIOIE
Qual è il «peso» della chiesa nell’università
cattolica?
«È sufficiente dire che l’università
è della chiesa – risponde padre Ponsi
– : una chiesa esperta in umanità,
che lotta per la giustizia, la pace, il
dialogo e la riconciliazione fra le religioni,
le etnie, i partiti… La gerarchia
ecclesiale si è attirata anche critiche,
perché si assiste ad una certa
competizione tra seminaristi e universitari.
Fino a ieri si entrava in seminario
anche per studiare e poi, magari,
fare strada in politica. Oggi è un
po’ diverso: chi sogna una carriera civile
non entra in seminario. Questo è
positivo. Qualcuno dice che l’università,
proprio perché cattolica, è settaria,
fondamentalista. Non è vero. I
frutti lo dimostrano»…
Siamo sempre nell’afosa stanza seminterrata
di padre Francesco Ponsi,
dove l’abbiamo ascoltato a lungo, ora
in attesa anche della cena con il Ballantine
per aperitivo.
Nel frattempo poniamo al vicerettore-
amministratore dell’università
cattolica il seguente ed ultimo
quesito: «Che cosa ti ha maggiormente
rallegrato e rattristato nella
tua esperienza?».
«Mi ha rattristato lo scetticismo
di alcuni uomini di chiesa, che ci
hanno ritenuti dei matti ridendo alle
nostre spalle. Certo, ci sono stati
dei rischi, ma anche delle opportunità,
che mi hanno fatto toccare
con mano valori evangelici che prima
ignoravo. Come prete missionario,
mi sono trovato in un cammino
di crescita personale e spirituale. Mi
ha rallegrato il fatto che il cammino
sia avvenuto in compagnia di
Gesù Cristo: lo dico però “balbettando”.
Se avessi continuato a insegnare
in una situazione di sicurezza,
non avrei avuto questa esperienza
unica nella vita…».
«Basta con le chiacchiere! La minestra
si raffredda in tavola…». È il
rettore magnifico dell’università,
padre Filipe José Couto, che parla e
comanda.

(*) PADRE FRANCESCO PONSI,
cuneese di 61 anni, missionario
della Consolata, laureato in sociologia
statistica e demografia
a New York.
È docente per otto anni all’università
di Addis Abeba (Etiopia)
e per cinque è in Kenya come ricercatore
nella pastorale dei nomadi.
In Mozambico insegna nel
seminario di Maputo. «Fonda»
l’università cattolica, di cui oggi
è vicerettore e amministratore.

Università cattolica
PERSONAGGI, DATE, LUOGHI, NUMERI
Nel giugno del 1992 l’arcivescovo
di Beira, Jaime Pedro Gonçalves, durante
i colloqui di pace a Roma tra
Frelimo e Renamo, lancia l’idea di
una università cattolica. Dopo l’approvazione
dei vescovi mozambicani,
la realizzazione del progetto è affidata
a padre Francesco Ponsi.
Il 10 agosto 1996 l’università inizia
con due facoltà: economia-amministrazione
a Beira e diritto a Nampula.
Successivamente si aggiungono altre
quattro facoltà:
– scienza dell’educazione a Nampula
(1998)
– agraria a Cuamba (1999)
– medicina a Beira (2000)
– turismo-informatica a Pemba
(2002).
Gran cancelliere: Jaime Pedro
Gonçalves, arcivescovo di Beira.
Rettore magnifico: Filipe José Couto,
missionario della Consolata mozambicano.
Vicerettore e amministratore: Francesco
Ponsi, missionario della Consolata.
I docenti sono 230: i mozambicani
sono il 50%; poi portoghesi, italiani,
spagnoli, brasiliani, austriaci, russi,
messicani, ecc. (religiosi e laici).
Gli studenti sono 2.336 (di cui il
48% donne), così distribuiti per facoltà:
economia-amministrazione
750, medicina 180, diritto 580,
scienza dell’educazione 490, agraria
236, turismo-informatica 100.
Tasse annuali di iscrizione: 500, 750
e 1.000 euro, secondo le facoltà. Alcuni
studenti bisognosi usufruiscono
di borse di studio.
Dall’apertura dell’università, 252
studenti conseguono il bacellierato
(una sorta di laurea breve) nelle varie
facoltà (il 50% donne). Particolarmente
soddisfatti sono i primi cinque
bacellieri in agraria, la facoltà più
povera. L’avvenimento viene festeggiato
anche con una eucaristia, il 28
agosto 2002, presieduta dal vescovo
di Lichinga Luis Ferreira Gonçalves,
che consegna i diplomi.
PER INFORMAZIONI:
Missionarios da Consolata
Avenida Eduardo Modlane 715
CP 544 – Beira (Mozambico)
e-mail: imc.beira@teledata.mz

L’ESEMPIO DI CHISSANO
Don Matteo Zuppi, della comunità di S. Egidio, è stato uno dei mediatori
negli accordi di pace del 1992. Il sacerdote è tornato in
Mozambico nel giugno scorso e ha celebrato a Nampula il 10° anniversario
degli accordi, alla presenza di 2.800 giovani. Ad essi ha ricordato
che la pace non si conquista una volta per sempre, ma si costruisce
giorno per giorno dall’«interno». Dall’«esterno» si può dare una
mano. Ma saranno i mozambicani a dover ricostruire il loro paese.
Parole opportune per una nazione fragile culturalmente e ideologicamente.
Gli anni di indottrinamento marxista e il successivo periodo
hanno minato i valori della società tradizionale. Ora il paese si apre al
futuro senza molti punti di riferimento. I pericoli di prendere la strada
sbagliata sono molti. I politici sono tentati dal denaro facile, dall’arroganza,
dalla corruzione. Il popolo, sentendosi defraudato, può essere
tentato dalla violenza o dall’indifferenza, dalla corruzione a basso livello
e dal furto.
L’attuale presidente Joaquim Chissano ha deciso di non ripresentarsi
alle elezioni del 2004: una decisione lodevole, dato che sono pochissimi
i presidenti africani che lasciano il proprio posto volontariamente.
Il candidato alla successione è Armando Guebuza, storico del Frelimo,
che ha partecipato alla guerra per l’indipendenza al fianco di Samora
Machel. È stato anche il rappresentante del Frelimo durante i
colloqui di pace del 1992.
S iamo ottimisti sul futuro del Mozambico. I mali della nazione sono
una realtà; ma è altrettanto innegabile che questi ultimi anni hanno
rappresentato un importante passo
avanti: la pace è stata mantenuta;
anche se con ritardi, si stanno realizzando
diversi programmi di sviluppo;
i partiti politici stanno imparando la
ginnastica della democrazia; la corruzione,
specialmente se paragonata
a quella di altri paesi, è contenuta
entro limiti tollerabili.
Mozambico, buona fortuna!
JUAN GONZÁLEZ NUÑEZ

Francesco Beardi Lino Carpaneto




I grandi missionari: Giovanni Bonzanino MILLE E UN SOGNO

Giovanni Bonzanino

Missionario di frontiera, irresistibilmente attratto dal più difficile,
lontano e bisognoso, padre Giovanni Bonzanino moriva a Shashemane
(Etiopia) 20 anni fa, il 30 gennaio 1983. Amò la «sua Africa» con
passione contagiosa, fino a consumarsi a soli 56 anni.
«Non sono nato in Africa.
Questo mi dispiace un
poco. Avrei voluto essere
sfornato in questa verde, dolce, ubertosa
Africa, dove si viene al mondo
inguantati in un’ambra vellutata
e soave e la vita scorre smorzata come
un venticello che sfarfalla tra ramificazioni
di alberi giganteschi».
Così inizia una specie di diario in cui
padre Bonzanino racconta l’esperienza
dei suoi primi anni in Africa.

SOGNANDO L’AFRICA
«Invece sono nato a Biella» continua.
Era il 29 gennaio 1927. Prima
ancora che venisse al mondo, sua
madre lo aveva offerto alla Madonna,
conservando quel segreto per 30
anni, fino a quando visitò il figlio in
Kenya: padre Giovanni l’abbracciò,
sollevandola da terra e, in un impeto
di gioia, le disse: «Mamma, quel
giorno mi hai fatto il più bel regalo».
Alberta Maria era una donna che
«sapeva il fatto suo, dai battibecchi
con le vicine al far filare dritto i figli,
dallo speculare fino all’osso per sbarcare
il lunario a lavorare in fabbrica
e passare tra posti di blocco in bicicletta
con un carico di granoturco».
Papà Vittorio non era da meno.
«Tutto casa e lavoro, vecchio socialista,
dovette assoggettarsi a portare il
fez in testa per campare, rischiare la
galera per racimolare due chili di farina
al mercato nero, poiché il pane
della tessera finiva troppo in fretta».
Erano i tempi duri del fascismo e
della seconda grande guerra. Ciò
non impedì al piccolo Giovanni di
coltivare sogni e avventure, come un
ragazzo normalissimo. Nei tempi liberi
dalla scuola faceva qualche lavoretto
in fabbrica, per arrotondare
il bilancio familiare. In classe si appassionava
di storia e geografia, ma
era allergico alla matematica. «Non
fui mai uno sgobbone – confessa -. La
mia specialità era il pallone e il tifo
per la Juventus: primo amore che mi
portai in Africa come un soldato il
suo fucile».
A volte, con la banda del quartiere,
marinava la scuola per esplorare
la campagna o alleggerire la pianta di
fichi nell’orto del prevosto. «Un
giorno Tavio, il vecchio sacrestano,
mentre si riallacciava la cinghia dei
calzoni appena usata sui piccoli furfanti,
mi domandò cosa sarebbe stato di una canaglia come me da grande;
risposi innocentemente: “Mi farò
missionario”. Si sbellicò dalle risa.
Ma quando celebrai la prima messa,
mi diede una pacca sulle spalle e sorrise:
“L’ho sempre detto che ti saresti
fatto prete”».
Entrato nel seminario di Biella,
Giovannino sognava di essere torturato
dagli africani e finire martire. In
quinta ginnasio decise di farsi missionario
della Consolata. «Coi miei
17 anni, lieto, baldanzoso e impaziente
– racconta -, iniziai il liceo a Varallo.
Non all’algebra e trigonometria.
Avevo qualche ebbrezza poetica,
ma il mio ideale era l’Africa. In
noviziato, alla Certosa di Pesio, non
ho avuto sussulti mistici, né impennate
carismatiche. Tra i miei compagni
c’era un africano: fu il migliore
stimolo missionario».
Durante gli studi teologici continuò
a respirare aria di missione, più
dalle figure di missionari incontrate
nella casa madre di Torino che dalle
lezioni accademiche. Arrotondò il
suo curriculum con discipline utili
per l’Africa: diploma magistrale, fotografia,
dattilografia. Finché fu ordinato
prete nel 1953, a 26 anni. L’anno
seguente partì per il Kenya: «Fu il
giorno più bello della mia vita».

L’INAFFERRABILE JOHN
Destinato alla missione di Mujwa,
nel Meru, John cominciò subito a
studiare la lingua locale, familiarizzare
con usi e costumi della gente e
smontare qualche idee preconcette,
alla scuola della figura poliedrica e
briosa di padre Chiardo.
Appena riuscì a masticare qualche
parola in kemeru, prese a scorrazzare,
prima con una vecchia moto, poi
con una Land Rover scassata, per visitare
le comunità, portare uno all’ospedale,
un’altra alla mateità, un
terzo al brefotrofio. «Mai paura! Passo
per uno che pialla le curve e mangia
i freni» scriveva nel diario.
A giugno del 1954 era professore
d’inglese e storia nella scuola secondaria
di Nkubu. «Come è impartita
qui – scriveva -, la storia ha una piuma
bianca sul cappello scozzese: testi
in inglese di autori inglesi. È una
storia colonialista». Ma ci pensò lui a
metterci la penna nera dello struzzo
africano, evidenziando le scoperte archeologiche
fatte in Africa orientale,
sciorinando imprese coloniali e tratta
degli schiavi, «pagine che facevano
impazzire gli studenti».
Alla fine del 1956 fu nominato
parroco di Meru, capitale dell’omonimo
distretto, dove si stava costruendo
la cattedrale. «Sono uscito
dalla fase di amore avventuroso-romantico
per l’Africa e posso dire, parafrasando
san Paolo: sono cittadino
africano» scriveva nel diario.
E continuò a sognare e dare sfogo
alla creatività vulcanica con innumerevoli
iniziative di successo: pubblicazione
del Twi ba Meru, mensile
di 10 mila copie; compilazione, con
l’aiuto di un prete africano, di innumerevoli
fascicoli, libri, sussidi, catechismi
in lingua locale; uso di modei
strumenti di comunicazione
come radio e cinema, guadagnandosi
il nome di Patere Kameme (padre
radio); fondazione del Meru Sport
Club e organizzazione di popolarissime
competizioni sportive, corse ciclistiche
e toei di calcio, collezionando
un altro titolo onorifico: Thuranira,
l’organizzatore.
«La nostra squadra ha vinto la
coppa del distretto – scriveva nel
1960 -. I ragazzi sono in orbita; io ho
un ginocchio gonfio. Naturalmente
la maglia indossata dalla squadra era
quella della Juve».
John era uno specialista nel coinvolgere
la gente in progetti di chiese,
cappelle, scuole, asili o altre opere
sociali e si meritò un altro gallone:
Patere Lotari (padre lotteria). Quasi
tutte le costruzioni da lui promosse
nascondono nelle fondamenta, come
«pietra» angolare, una manciata
di due scellini, il prezzo del biglietto
della lotteria.
In una parrocchia di 5 mila cristiani
e 60 mila abitanti, padre John si
buttava a pesce nel lavoro missionario:
catecumenati e battesimi a bizzeffe.
«Vacci piano, mi dicono – scrive
nel quarto anniversario dell’arrivo
in Kenya -. Piano un corno. Non
sono io a cercare il numero; sono loro
che vengono a cercare Cristo».
Come se non bastasse, estendeva la
sua attività a tutta la diocesi: formazione
della gioventù; supervisione di
una quindicina di scuole cattoliche;
estenuanti trattative per fondae altre;
animazione dell’Azione cattolica;
visite ai campi di concentramento,
dove erano rinchiuse migliaia di persone
accusate o sospettate di appartenere
al movimento mau-mau.

LA PRIMA AFRICA
Padre John era arrivato in Kenya
quando la tensione tra guerriglia
mau-mau e repressione dell’amministrazione britannica era al culmine
e si trovò subito schierato dalla parte
degli africani.
«Nel mercato tra Mujwa e Nkubu
– scriveva il 23 agosto 1954 – hanno
disteso a terra, allineati, sette cadaveri
di mau-mau uccisi nella foresta.
C’erano lunghe file di persone a guardare.
Mi sono fermato anch’io. Ho
detto una preghiera e tracciato un segno
di croce sui morti. Ho sentito alle
spalle una risata: “Padre, neanche
i tuoi sortilegi possono più farli vivere”.
Era l’ispettore di polizia, che
continuò: “È comodo essere neutrali
per voi missionari, che benedite tutti.
Vorrei esserlo anch’io; invece mi
tocca fare questo maledetto lavoro e
ammazzare questi bastardi”. “Non
sono neutrale” gli ho risposto. Mi ha
guardato con faccia da carciofo, come
un macellaio che affonda la mannaia
per staccare una bistecca; ma
non ha più fiatato. Me ne sono andato
a fare la mia lezione di storia».
Nel suo diario, pubblicato una decina
d’anni dopo, insieme ad altri articoli,
col titolo di Le due Afriche, padre
John non fu solo testimone di
nove anni di convulsioni, ma anche
protagonista del passaggio dall’Africa
coloniale a quella indipendente.
Dall’intreccio socio-politico dei
suoi scritti emergono pure problemi,
riflessioni e intuizioni squisitamente
missionarie: inculturazione, ecumenismo,
chiesa locale, rispetto delle
culture, problemi tribali, divergenze
con altri evangelizzatori, impegno
scolastico e religioso per costruire la
nuova Africa.
Le sue riflessioni possono apparire
un po’ daltoniche: il «nero» è bello;
il «bianco» da cancellare. John
guardava l’africano con occhi di missionario
ciecamente innamorato,
sorvolando sulle pecche e dipingendolo,
o meglio «sognandolo», come
«dovrebbe essere». Ma non senza
apprensione. «Non ho paura di fame
o lebbra, leopardo o serpente,
freccia o fucilata – scriveva alla fine
del ’57 -. Forse ho paura di quello
che potrà accadere al Kenya».

LA SECONDA AFRICA
«Mentre il paese marcia verso l’indipendenza,
anche la chiesa deve avere
una certa autonomia» scriveva
alla fine del 1960. John propose al vescovo
di nominare parroco della cattedrale
un prete africano. L’idea fu
approvata, ma passarono quasi due
anni prima che fosse messa in atto.
Nominato padre Salesio, John scese
al rango di viceparroco e accelerò
il ritmo delle attività. «Il mio lavoro
è un mosaico – scriveva nel 1963 -.
Arrivo alla sera che annaspo. Stampa,
Azione cattolica, cine, conferenze
e raduni in continuità. Ogni missione
vuole una settimana, con ritiri
e proiezioni alla sera. Sono piuttosto
stanco di fare il giradischi». Eppure
trovava tempo per partecipare a comizi
e adunate, incontrare leaders
politici e altri «pezzi grossi».
Le pagine del Twi ba Meru sprizzavano
politica, facendo arricciare il
naso ai missionari stagionati. Ma lui
imperterrito, con idee chiare e benedizione
del vescovo. «Ho preparato
gli schemi per gli incontri del
prossimo anno sul tema: libertà e cristianesimo
– scriveva a una settimana
dall’indipendenza -. Si tratta di far
scendere tutti i cristiani nell’arena e
aiutarli a non essere spettatori: il lavoro
è il padre della libertà; l’ozio è
il padre del colonialismo. Passerà la
febbre dell’indipendenza e occorrerà
rimboccarsi le maniche, soprattutto
i cristiani. È un lavoro eccitante
progettare l’Africa nuova».
Quei giorni John doveva avere una
febbre da cavallo. «Sale la pressione
dell’entusiasmo – scriveva -. Ho una
serie di pellicole sulla libertà di altri
stati africani e tutte le sere le proietto
in qualche parte del Meru. Massa
di gente anche in cattedrale: nella
predica padre Salesio ha detto che i
presenti sono stati battezzati da me
e che, con l’indipendenza, divento
più africano di prima».
Nella notte dell’11 dicembre 1963
toccò a padre John introdurre il Meru
all’indipendenza, intrattenendo la
folla con film, musica e discorsi, inno
nazionale a mezzanotte e trasmissione
radio della cerimonia di
Nairobi. Il giorno seguente fu un’apoteosi,
come racconta nell’ultima
pagina del diario (vedi riquadro).
Alla fine del 1963 padre John fu
nominato parroco di Nkabune e cominciò
a costruire la nuova Africa:
pozzi, chiesa, orfanotrofio, strutture
per le opere parrocchiali e sociali; soprattutto
formazione di comunità responsabili
del proprio futuro civile e
religioso.

DESERTO CHE FIORISCE
Metà della diocesi di Meru, grande
come mezza Italia, non aveva mai visto
la barba di un missionario. Per
sfondare occorreva un uomo di fegato,
fantasia e testa dura. John lesse nella
mente del vescovo e si offrì volontario:
fu subito nominato vicario episcopale
della North Easte Province
(Nep), così si chiama la regione.
In passato il governo l’aveva chiusa
ai missionari, per non scontentare
i musulmani; poi gli schifta (ribelli
somali) vi seminarono terrore e
morte (1963-67), producendo 4 mila
orfani. Siccità, fame e colera stavano
mettendo a rischio la sopravvivenza
di quasi 300 mila abitanti.
Nel 1968 padre John raggiunse
Garissa e, con fratel Mario Petrino,
distribuì aiuti umanitari e trasformò
una caserma diroccata in Boys’ Town
(città dei ragazzi) per accogliere gli
orfani del luogo. Tre anni dopo passò
a Wajir, 400 km più a nord, nel
cuore del deserto, per dare una mano
a padre Baldazzi: sfamati vecchi
e bambini, fondò la Girls’ Town per
un centinaio di bambine orfane. Nel
1972 era a Mandera, altri 400 km più
a nord, ai confini con Somalia ed Etiopia.
Anche qui fondò una Boys’
Town, affidata a Manlio e Lorenza,
due volontari italiani, e sostenuta
dall’adozione a distanza di un gruppo
di 500 famiglie italiane.
Spendere tante forze in un ambiente
totalmente musulmano, quando
altrove si mietevano conversioni a
tutto spiano, per qualcuno era uno
spreco. Ma John ribatteva: «In uno
scenario che è un’orgia di sole e sabbia,
la gente ha soprattutto fame e sete.
Corre voce che il papa abbia presentato
al nostro vescovo l’urgenza
della presenza cristiana in questa zona,
anche soltanto per offrire un bicchiere
d’acqua all’assetato».
Solo Dio sa quanti ne furono distribuiti:
dal fiume Tana, una pompa
foiva alla missione un milione
di litri d’acqua al giorno e la gente attingeva
liberamente.
I giornali parlavano di «miracolo a
Garissa». La missione contava 24 edifici,
chiesa, distributore di benzina
e piscina; accoglieva 225 orfani; impiegava
200 operai locali; ogni sabato
sfamava 300 fra vecchi e bambini;
30 ettari di terra producevano 12 tonnellate
di meloni al mese per il mercato
di Nairobi; poi mais, melanzane,
fagioli, cipolle, peperoni, angurie,
pomodori, arachidi e 5 mila piante di
banane, papaia, uva, datteri.
Identico prodigio, ma con enormi
sacrifici, si ripeté a Mandera, con
l’acqua stagionale del fiume Dawa:
città dei ragazzi, scuola secondaria,
cornoperativa agricola, artigianato, sviluppo
dell’habitat e commercio iniettarono
nella città di nomadi la
voglia di vivere più dignitosamente.
Questo fu il miracolo più vero nel
deserto: schiodare la gente dall’atavica
apatia e rassegnazione alla sopravvivenza:
gli operai impiegati nelle
costruzioni impararono a farsi case
più decenti; i braccianti arruolati
nei lavori agricoli si misero a produrre
in proprio; i pastori, abituati al
numero di bestie, cominciarono a
puntare sulla qualità. Perfino il governo
avviò progetti agricoli e incoraggiò
la gente a fare altrettanto.
Più difficile era fare attecchire il seme
del vangelo. Padre John non esitò
a studiare il Corano e insegnarlo
nella scuola, come ordinava la legge
del Kenya per quell’ambiente; ma
non senza accostare gli insegnamenti
morali di Maometto a quelli
di Gesù. E ci riusciva troppo bene;
tanto che gli fu ingiunto di non profanare,
lui infedele, il messaggio del
profeta.
John continuò a seminare la testimonianza
dell’amore verso i più
bisognosi; oggi se ne vedono i frutti:
la Nep costituisce la diocesi di
Garissa, con 10 missioni e una trentina
di succursali, dove lavorano i
cappuccini di Malta e vari missionari
laici.

VANGELO
NELLA RIVOLUZIONE

Nel 1974, a pochi mesi dal colpo
di stato di Menghistu, John fu destinato
all’Etiopia, dove una
decina di confratelli, da
pochi anni, lavoravano
nel sud del vicariato
di Harar, provincia
degli Arussi. Fu
subito chiamato
dal vescovo a salvare
la scuola secondaria
di Dire
Dawa, intossicata
dai fumi rivoluzionari.
Ascoltati
studenti e genitori,
con pazienza e
fermezza ristabilì
subito ordine e disciplina;
per tre anni
continuò a dirigere
la scuola con
grande discrezione e coraggio, specie
durante la guerra somala.
Non essendo il tipo da restare incollato
a una poltrona, si occupò di
una cornoperativa agricola fuori della
città; aprì una scuola in un quartiere
povero; fondò un pensionato per i
ciechi e insegnò loro un mestiere.
Nel 1978 John fu eletto superiore
del gruppo di confratelli. Quando la
provincia degli Arussi fu staccata da
Harar per formare la prefettura apostolica
di Meki (1980), ne diventò amministratore
apostolico, in attesa della
nomina del prefetto. Sarebbe stato
l’uomo ideale per tale carica, ma insistette
perché vi fosse posto un etiope,
accontentandosi di fare il vicario generale.
Al tempo stesso, John fu eletto
presidente della Conferenza dei religiosi
del sud Etiopia.
Calatosi con tutte le forze in tali responsabilità
e nella realtà socio-politica
del paese, padre John portò la rivoluzione
nel modo di fare missione,
per rispondere alle sfide antireligiose
del regime marxista.
Rivoluzione e missione, diceva, sono
legati da un filo di speranza: entrambe
vogliono sviluppo, giustizia
e liberare tutti dall’oppressione. «Ma
il punto debole della rivoluzione –
continuava – è che non s’interessa di
Dio. Per noi missionari, il nocciolo
della questione rimane questo: dimostrare
che non può esserci vera
giustizia e sviluppo senza Dio. La nostra
vocazione inequivocabile nella
rivoluzione è operare in modo che
uomini e donne della nuova Etiopia,
con tutto il progresso e sviluppo che
meritano, non siano tagliati fuori dal
loro Creatore e Redentore».
«La rivoluzione – spiegava – trascura
le lacune di miseria: non può rallentare
la marcia del progresso per
stare al ritmo degli storpi. Il vangelo,
invece, è buona notizia per tutti; l’evangelizzazione
porterà frutti, solo se
avremo con noi i ciechi e gli storpi».
Insieme agli altri missionari, padre
John si gettò a capo fitto nelle opere
sociali, consolidando quelle già esistenti
e creandone di nuove appena
ne intuiva la necessità.
L’ospedale rurale di Gambo, rimasto
a lungo senza medici, diventò il
centro di controllo e cura della lebbra
e, con 267 dispensari sparsi nella
provincia, assisteva oltre 4 mila colpiti
da tale infermità. Accanto all’ospedale
costruì un villaggio di 25 casette
per dare dignità a quelli già guariti.
Il centro di riabilitazione per handicappati
a Gighessa fu potenziato
con nuove strutture e attrezzature.
Una «casa-famiglia» per handicappati
e orfani fu costruita ad Asella; a
Shashemane nacque la scuola per
bambini e bambine non vedenti.
In ogni missione fu costruito il dispensario;
venne organizzata la distribuzione
di tonnellate di viveri ai
poveri, specie nei periodi di emergenza;
si moltiplicarono le scuole. In
un paese col 90% di analfabeti, l’istruzione
era una priorità e un’occasione
provvidenziale per l’evangelizzazione.
John viaggiava da una missione all’altra
per incoraggiare i confratelli,
sostenere e lanciare nuove iniziative;
ma senza mai perdere di vista l’evangelizzazione
diretta: visita alle scuole
dei villaggi, messa domenicale nelle
cappelle, formazione della gioventù
e aspiranti al sacerdozio, animazione
delle piccole comunità cristiane.
Le vacanze in patria si trasformavano
in estenuanti scorribande da un
capo all’altro della penisola, per
sconvolgere coscienze, snidare egoismi,
costruire solidarietà, coinvolgere
la gente nella sua avventura missionaria.
Talvolta si sobbarcava, fino
a 10-15 incontri al giorno in scuole,
circoli giovanili, chiese, convegni.
Nascevano gruppi di appoggio in Italia
e Nord America; professionisti
di ogni genere (medici, maestri, agronomi,
assistenti sociali…) lo seguirono
in Africa.

COMPLEANNO IN PARADISO
Durante le ultime vacanze in Italia
il dottore gli aveva detto di darsi una
calmata, se voleva arrivare a 70 anni.
«Se me ne restassero solo due, cosa
importa? Ciò che conta è come e cosa
si vive» rispose sorridendo.
Era un presentimento? Due anni
dopo, la sera del 28 gennaio 1983,
John toò a Shashemane dopo 10
giorni di incontri tenuti ad Addis Abeba:
confessò che quella fatica «lo
aveva ammazzato».
Il giorno seguente ricorreva il suo
compleanno. Per fargli una sorpresa,
suor Flaminia stava preparando una
torta, quando il padre la chiamò. Lo
trovò a letto con brividi e febbre alta;
gli somministrò medicine antimalariche,
ma la situazione si aggravò.
Accorsero i medici della zona; diagnosticarono
un blocco renale e tentarono
di salvarlo con flebo, antibiotici,
diuretici, cortisone. Inutilmente.
Per padre John i sogni si spensero
la sera del 30 gennaio, a 56 anni. Una
vita stroncata precocemente, ma vissuta
in pienezza fino all’ultimo respiro,
come si legge nell’ultima lettera
alla madre: «Oggi faccio 56 anni.
Certo che sono stati intensamente
vissuti. Non ho avuto tempo
di annoiarmi neppure
per un’ora».

JOHN SCRITTORE
Fin dal liceo Giovanni Bonzanino aveva
«una voracità innata di lettura;
non era mai sazio di libri. Lettura
non superficiale, ma riflessiva: fissava
idee, espressioni e parole che interiorizzava
» testimonia il suo professore
d’italiano. Passione che lo accompagnò
tutta la vita. Leggeva articoli e
saggi di storia, politica, teologia, tenendosi
aggiornato su tutto ciò che
capitava nel mondo e nella chiesa,
specie di quanto avveniva in Africa.
Nella frenetica attività che caratterizzò
la sua vita, trovò il tempo
per scrivere. E scrisse moltissimo: lettere,
poesie, articoli, saluti appelli, libri.
«È il mio relax» soleva dire, anche
se rubava il tempo al sonno necessario.
Il suo stile snello, agile, frizzante, volentieri
anche sferzante, faceva sgranare
gli occhi al lettore e lo coinvolgeva
nella sequenza di miseria e fame
del terzo mondo.
Ecco alcuni titoli dei libri più famosi:
Cittadini d’Africa (1974), ritratti di
missionari e missionarie.
Un uomo per l’Africa (1977), presentazione
della figura del beato Allamano.
Missionari nella rivoluzione (1978),
note di pastorale missionaria per i
paesi africani a regime socialista.
Queste mie verdi colline (1979), profilo
di padre Luigi Eandi.
Africa casa mia (1979), quadri di esperienza
missionaria.
Il primo figlio (1980) e Gli insabbiati
(1982), romanzi a sfondo missionario.
Quattro volumi pubblicati postumi:
Due Afriche e un po’ d’Italia, prima e
dopo l’indipendenza.
Momenti d’Africa, riflessioni sull’attività
missionaria in Africa.
Ritoo a casa, romanzo con protagonista
un lebbroso guarito.
Africa mia, raccolta di poesie.

Benedetto Bellesi




Lettere

Daniela e la nonna
Caro direttore,
nel torpore della stampa cattolica sui temi ecologici, resto positivamente stupita di Missioni Consolata. Ho letto infatti sul suo sito internet il diario del Vertice di Johannesburg Rio+10 su «lo sviluppo sostenibile».
Una considerazione: è stato un bluff. Il vostro inviato lo ha scoperto lentamente: all’inizio egli era sospettoso verso i rappresentanti del Controvertice, ritenuti «pacifisti»; poi ne ha riportato i lavori. I pacifisti sono stati gli unici a dire qualcosa di serio; e, se qualcuno sperava che arrivasse il black block a spaccare tutto (e coprire il disastro dei lavori ufficiali), è rimasto deluso.
Sono contenta che affrontiate il tema «ambiente» in modo esaustivo. La bibbia in questo è profetica e ha anticipato quanto sta succedendo oggi.
Sono una studentessa di biologia, credente, con gli occhi aperti sulla realtà. La cultura scientifica, unita alla fede, mi obbliga a riflettere su quanto sta accadendo. Siamo tutti figli di Dio: Egli ci dà la possibilità di dominare il creato, ma non di distruggerlo. Invece, stiamo rovinando il piano divino.
Leggo Missioni Consolata da mia nonna: le rubo la rivista, anche perché lei si rifiuta di leggerla e minaccia di disdire l’abbonamento. Ho notato un inasprirsi della vis polemica contro la vostra linea editoriale, che io condivido. Non mollate!
Il vero cristiano ha la misericordia in cuore, è aperto di spirito, ma necessita sempre di stimoli per cogliere la verità. Una promessa: se la nonna straccerà l’abbonamento, il mio ragazzo ed io prenderemo il suo posto!
Daniela (via e-mail)


Daniela, convinci la nonna a leggere la rivista e… «voi due» abbonatevi (bastano 22 euro). Missioni Consolata è «la rivista missionaria della famiglia»; ma è tale, se viene letta da nonni e nipoti, genitori e figli, pur con idee diverse. E guai se non ci fossero! Nel caso contrario, i lettori sarebbero «già tutti allineati». Allora, addio pluralismo! E la rivista sarebbe inutile.
Il diario del Vertice di Johannesburg è stato curato da padre Rocco Marra, missionario in Sudafrica, ed è apparso su www.missioniconsolata.it, il sito della rivista.

La Mole antonelliana «violentata»
Cari missionari,
i miei 72 anni non mi permettono di essere superficiale. Vi esprimo un grazie e tanta stima.
Poiché voi, missionari, siete anche uomini, potete accettare un consiglio: quando trattate i diritti umani, riflettete bene prima di scrivere. Ci vuole rispetto pure per il corpo (che è «tempio»), specie se si accenna al sesso femminile.
Ndr: l’autrice allude al tema «scabroso» dell’infibulazione (cfr. Missioni Consolata, maggio 2002).
Nessuno di noi si presenterebbe in Piazza Duomo in bichini o con il cappotto sulla spiaggia. Ogni cosa va fatta bene, secondo il tempo e il luogo.
Affronto pure il tema «discariche». È un problema grande e attuale, specie nelle grandi città. Ne sappiamo qualcosa mio marito ed io, che lavoriamo nei servizi ambientali. Tutti i giorni siamo sommersi dalle «monnezze» di Milano.

Ma, chissà perché, Missioni Consolata di settembre ha «violentato» la Mole antonelliana… con una massa di rifiuti. La colpa è dell’uomo… Io, al posto della Mole (sommersa da rifiuti), avrei messo un individuo nudo, con la barba lunga che lo copre e un pancione pieno di ogni ben di Dio (il ricco epulone del 2002); e gli avrei affiancato un piccolo individuo, magro come uno spaventapasseri, con in mano un bicchiere di plastica, che chiede l’elemosina…

Occorre un’educazione a monte delle persone: in famiglia, nelle scuole, negli ambienti civili e religiosi; se necessario, con cartelloni «non imbrattare», «non sputare», «non bestemmiare»… (come ai tempi del Duce).

In Germania, oltre 20 anni fa, mi colpirono le strade pulite: i tedeschi riciclavano (già allora) i rifiuti. Inoltre mi stupirono i quadei degli scolari, dove si leggeva pure: «Non compriamo la fettina di vitello, ma continuiamo a mangiare carne di maiale! I vitelli alleviamoli per gli italiani, abituati a spendere i loro pochi soldi in modo diverso da noi».

Altri consigli: a scuola sostituire le «merendine» con un frutto; non usare sacchetti di plastica per la spesa, ma di stoffa; esigere bottiglie di vetro per l’acqua minerale…

Coraggio, amici, e uniamoci in queste lotte! I vantaggi si vedranno domani. Se questa lettera, non è degna di pubblicazione, leggetela almeno a tavola. Forse servirà per un commento o una risata.
Cherubina Lorusso Milano


L’idea della Mole antonelliana, «violentata» da rifiuti, è della Provincia di Torino per stimolare, con un’immagine ad effetto, la riduzione delle discariche e incoraggiare la raccolta differenziata.
Compare anche la domanda: «Secondo voi, cosa manca a questa pubblicità per essere perfetta?». Forse mancano proprio «un epulone» e «tanti lazzaro» spaventapasseri.

Infibulazione e diritti umani
Spettabile redazione,
chiarisco quanto ho detto sull’infibulazione (Missioni Consolata, maggio 2002).
La rabbia ci porta a rispondere che «l’infibulazione è affare nostro», specie quando l’occidente si avvale del potere o diritto di togliere usi e costumi di altri popoli. È risaputo inoltre che il mondo occidentale, ricco e opulento, non ha fatto quasi niente per aiutare i popoli a risolvere i problemi più gravi: povertà, sanità, scuola…

L’occidente tira fuori in ogni occasione l’infibulazione, chiedendo la sua abolizione. Non sarà l’ennesimo pretesto per lavarsi la coscienza di fronte a quanto non ha fatto e continua a non fare al cospetto delle gravi condizioni economiche dei popoli?

Si può non condividere l’infibulazione, ma nessuno deve ritenere che sia un vero problema per i popoli interessati. L’eventuale decisione di abolirla spetta alle donne: esse decideranno solo dopo aver avuto la possibilità di accedere all’istruzione scolastica e sanitaria. In secondo luogo: bisogna educare gli uomini a frenare i loro impulsi bestiali.

Ma che dire dell’Italia (che si ritiene evoluta, emancipata e rispettosa delle leggi e dei diritti umani), quando mette in discussione la violenza sessuale subita dalla donna… solo perché la vittima indossa i jeans?

Alia Sharif Aghil Torino


Dal 1948 vige la «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo», oggi sottoscritta da tanti paesi sia occidentali che orientali. Se l’infibulazione ne è una violazione (come, ad esempio, hanno dichiarato la Convenzione dell’Onu sui diritti dei bambini nel 1989 e l’Unicef nel 1996), la pratica va abolita: certamente con il ruolo protagonista delle donne.

«Due terre, una missione»
Cari missionari,
ho conosciuto Luigi Santa, vescovo di Rimini, in occasione dello «spostamento» della chiesa parrocchiale, distrutta dalla seconda guerra mondiale, dal colle di San Patrignano alla borgata di Ospedaletto. Egli, nei primi anni ’50, si portò sul luogo, osservò con attenzione e, dopo una breve riflessione, disse: «Qui sorgerà la nuova chiesa». La decisione, a distanza di anni, si dimostrò lungimirante… Per me mons. Santa fu una figura patea straordinaria.
Grazie, pertanto, del graditissimo libro che ne illustra la vita prima come missionario della Consolata e poi come vescovo.

Dalla scrittura tremolante capite che devo essere molto vecchio: infatti ho 92 anni. E si vedono!

Don Martino Vari Ospedaletto (RN)


Il libro di cui parla don Martino è del giornalista Angelo Montanati; è intitolato Due terre, una missione, Emi, Bologna 2002. Le «due terre» sono l’Etiopia, dove Luigi Santa fu missionario e vescovo dal 1923 al 1943, e la diocesi di Rimini.
Il volume è acquistabile presso la libreria «Missioni Consolata»
(tel 011/447.66.95;
e-mail: libmisco@tin.it).

Una chiesa da 8 milioni di euro
Caro direttore,
che pensare di una nuova chiesa a Modena da 8 milioni di euro? È un’opera santa o un’offesa all’evangelica opzione per i poveri?

«Se il cibo prodotto nel mondo fosse diviso equamente, tutti potrebbero consumare 2.760 chilocalorie al giorno» ha dichiarato Jacques Diouf, direttore della FAO. La diseguaglianza distributiva fa sì che, pur avendo abbastanza cibo per sfamare tutti, 800 milioni di persone sono alla fame. Di fronte a tale realtà, in Italia c’è chi pensa ugualmente di avere diritto a strutture plurimiliardarie.

La chiesa è chiamata ad una riflessione critica: non elemosina, ma condivisione… «Spezza il tuo pane con l’affamato» (Is 58, 7). «Se un fratello o una sorella sono nudi e hanno bisogno del pane quotidiano e uno di voi dice “andate in pace, riscaldatevi e nutritevi” senza dar loro il necessario, a che giova?» (Gc 2, 15 ss)…

«Gesù prese i cinque pani e i due pesci e, alzati gli occhi al cielo, li benedisse, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e portarono via 12 ceste piene dei pezzi avanzati» (Mt 14, 19-20). Con questo testo si ricorda il miracolo della moltiplicazione dei pani. In realtà è il miracolo della «condivisione». Gesù rifiuta di congedare la folla, ne sente compassione e… spezza i pani, invita i discepoli a distribuirli a tutti: è la condivisione che opera il miracolo, cui siamo chiamati a credere.

Una volta superato l’egoismo (pensare a noi per primi), avviene il miracolo: non solo tutti mangiano, ma portano via anche 12 ceste di pane avanzato. Vangelo è pure questo: il superfluo non deve essere frutto dell’egoismo, ma della generosità di Dio.

«Modena Amica dei Bambini Onlus» Modena


La domanda iniziale, più che rivolta a noi (che, ignari della situazione locale, non possiamo rispondere), coinvolge i fedeli della diocesi di Modena (e non solo), che hanno il «polso» della scena e del retroscena.

Dante consiglia…
Caro direttore,
riferendomi ai giudizi avventati e ai consigli non richiesti, rivolti a lei e ai redattori della rivista, mi vengono in mente i versi di Dante: «Or tu che se’ che vuo’ sedere a scranna/
per giuducar di lungi mille miglia/
con la veduta corta
d’una spanna?»
(«Paradiso», XIX, 79).
Lettera firmata Torino


Ottima citazione. Però il consiglio, dono dello Spirito Santo, è sempre gradito.

«Multirazziale» o «multietnico»?
Caro direttore,
complimenti per Missioni Consolata, sempre più bella. Nel numero di settembre è stato interessantissimo il «Diario di un extracomunitario».
Però sono pignolo e faccio due piccole contestazioni linguistiche (il linguaggio tuttavia è importante, specialmente nei titoli). La prima: essendo Snezana Petrovic una donna, ritengo che il titolo della sua rubrica andrebbe modificato in «Diario di “un’extracomunitaria”».

La seconda contestazione è più profonda: scrivere «Italia multirazziale» fa pensare che nel nostro paese esistano tante razze; invece oggi nessuno scienziato serio lo sostiene, anche perché si rischia di cadere nel «razzismo».

Dunque: il termine «multirazziale» andrebbe sostituito con «multietnica». Non vi pare?

Daniele Barbieri Imola (BO)

Sì, ci pare. Infatti gli uomini e le donne del pianeta appartengono, sì, a «popoli diversi», ma costituiscono «un’unica razza»: quella umana.

Nonostante la caduta del muro
Egregio direttore,
la lettera del signor Francesco Rondina (Missioni Consolata, luglio/agosto 2002) lascia perplessi.

L’argomentare dello scrivente ignora la storia degli ultimi 15 anni. È caduto il muro di Berlino e il socialismo reale. Il comunismo è stato così disastroso per l’Europa dell’Est (e per i popoli sovietici) che la pressione popolare di quei paesi ha rovesciato i governi locali. In 45 anni, mentre il resto dell’Europa progrediva economicamente e democraticamente, il comunismo teneva i popoli dell’Est in miseria e sotto governi autoritari e feroci.

Il signor Rondina non ha letto bene Marx, strenuamente avverso alla religione, ritenuta «oppio dei popoli». Inoltre il lettore sembra ignorare che, quando un’utopia filosofica si rivela fonte di miseria, despotismo, massacri, il giudizio è drastico: il marxismo è tutto intrinsecamente errato.

Ma ciò che lascia più perplessi è l’argomentare confuso del signor Rondina, che sembra riecheggiare il terzomondismo, utopie sociali comunistiche e altro ancora. Non si possono affrontare argomenti seri (come gli attuali problemi economico-sociali) con vaghezza e frasi fatte. Perché giudizi così negativi sul riformismo? Nell’Europa dell’Ovest, durante gli ultimi 50 anni, si è rivelato fonte di progresso socio-economico?

O il signor Rondina nega che oggi, in Europa, si sta meglio (sotto tutti i punti di vista) di come si stava subito dopo la seconda guerra mondiale?

Silvia Novarese Torino


Il dottor Francesco Rondina non nutre alcuna simpatia verso un comunismo oppressore, materialista e ateo…

Buon natale
Leggo con interesse la corrispondenza con i lettori della rivista (prima non lo facevo) e ammiro il direttore che pubblica le lettere denigratorie. Missioni Consolata è straordinaria per contenuti e foto. Buon natale.

p. Luigi Duravia Colombia

Croci d’oro di vescovi e… Marylin Monroe
Ho riflettuto su «Crocifissi con diamanti» di Missioni Consolata di luglio/agosto 2002. La giusta conclusione è che tali crocifissi non sono secondo lo spirito del vangelo. E si porta l’esempio del cardinale Van Thuan, che aveva una croce pettorale di legno e ferro, che egli stesso si costruì durante la dura prigionia in Vietnam durante il comunismo.

Come cristiano (pur con difetti e contraddizioni), pongo una domanda: è coerente la chiesa quando offre a tutti i prelati, vescovi e cardinali, sontuosamente vestiti, croci d’oro e anelli con diamanti?… Parlai di tale sfarzo con un dottore della chiesa, che mi rispose: «Se lei fosse invitato dal suo principale, non si presenterebbe ben vestito?». Certo che sì!

Io però non pretendo che il clero vada stracciato; tuttavia una maggiore sobrietà non farebbe male. «I preti ci insegnano povertà e carità, e guarda loro come sono agghindati!»: è una critica che si sente.

Un’altra cosa: in chiesa non sopporto di trovare ceri da 50 centesimi e ceroni da… 5-10 euro! Dio farà forse la grazia più grande in proporzione alla misura delle candele? Queste lasciamole vendere alle baracche fuori! Ma in chiesa ognuno faccia l’elemosina che si sente e si può permettere. Mi pare, invece, che si mercanteggi un po’ troppo. Ora si sta persino arrivando al pagamento per entrare in certe chiese…

Gaetano Covezzi – Ferrara

«Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non trascurarlo quando è nudo. Non rendergli onore nel tempio con stoffe di seta per poi trascurarlo fuori, dove patisce freddo e nudità. A che serve che la tavola eucaristica sia carica di calici d’oro, quando lui muore di fame? Comincia a saziare lui affamato e poi, con quello che resta, potrai oare il suo altare…»: parole di san Giovanni Crisostomo (347-407).
Né si scordi Paolo VI che offre il triregno d’oro ai poveri. Lo stesso papa, al termine del Concilio ecumenico Vaticano II, dona a tutti i partecipanti «un anello semplicissimo». Ma non tutti hanno capito la lezione.

Oggi vescovi e cardinali hanno sostituito le croci d’oro e diamanti con altre più modeste. Ma dove sono finite quelle vecchie? Non tutte sono andate ai no global e non consumisti, ma sono ben custodite in robusti forzieri, insieme ai tesori della chiesa.
Certamente non pubblicherete questa nota.
Lettera anonima

Essendo anonima, potremmo non pubblicarla!… S. Ambrogio, morto nel 397, disse: «Se la chiesa ha oro, non è per custodirlo, ma per darlo a chi ne ha bisogno». E Giovanni Paolo II: «Potrebbe essere necessario alienare i beni (preziosi) per dare pane, bevanda, vestito e casa a chi ne è privo».

Ho letto «Crocifissi con diamanti» nei giorni in cui tivù e tantissimi giornali (anche «socialmente» impegnati) facevano a gara a chi dava più spazio al 40° della morte di Marylin Monroe, riconosciuta da tanti come «l’unico vero mito americano del XX secolo».
In un film Marylin canta: «I diamanti sono i veri amici delle ragazze»; e in tantissime foto diamanti e perle sono i protagonisti. Sono questi (non occorre essere esperti di comunicazione per capirlo) il vero obiettivo del comunicatore.
In altre parole: dopo essere stata da viva (spesso suo malgrado) al centro di intrighi, la Monroe continua ad essere usata anche da morta, alla faccia delle più elementari norme di buon gusto. Moltissime persone si sono lasciate persuadere che Marylin non era semplicemente una bella donna, ma «la» bellezza; non un’attrice di cinema, ma «il» cinema; non una persona elegante, ma «l»’eleganza.

Occorre ricordare a tutti che la costruzione di miti del genere ha costi elevatissimi, sia per chi li incarna sia per chi vive nelle terre che hanno fornito la materia prima per la realizzazione di collier, braccialetti, anelli o (come ha mostrato anche Missioni Consolata) di certi crocifissi.

l – Non è vero che «i diamanti sono i migliori amici». Il diamante (ma anche oro, platino, ferro, ecc.) appartiene al regno delle cose inanimate: a differenza di uomini, animali e piante, non ha alcuna capacità di relazione: men che meno di stabilire un’amicizia con chicchessia. Può far piacere vedere un diamante o riceverlo in dono, ma l’affetto eccessivo ad esso nuoce alla crescita dell’uomo e del cristiano di entrambi i sessi. Anche quando il diamante viene appiccicato a un crocifisso.

2 – La mania dei diamanti è tanto più intollerabile quanto più tragici sono i conflitti che, ad esempio, in alcuni paesi africani si scatenano tra le bande che si contendono il controllo delle regioni diamantifere. Chi ama, compra o accetta preziosi dovrebbe, innanzitutto, valutare l’impatto che il prelievo della loro materia prima ha avuto sul rapporto tra esseri umani e su quello uomo-natura in una montagna dell’Afghanistan, in una foresta del Congo o in uno sperduto angolo del bacino amazzonico.

3 – Per una «venere» europea o americana che diventa star del cinema ci sono centinaia di «veneri spezzate» (donne molto belle, che perdono occhi, gambe e braccia) a causa di mine e guerre, alimentate dal commercio internazionale dei diamanti: lo ricordava anni fa Carla Peruzzo di Medici senza frontiere. In Angola un immenso patrimonio di bellezza femminile se ne va, perché in Italia, Francia, Stati Uniti… donne già belle e imbottite di giornielli vogliono diventare ancora più attraenti e uomini già sposati si mettono in testa che, regalando perle e pellicce, possono «conquistare» altre donne belle.

4 – Bene ha fatto A. Piersanti a contrapporre i crocifissi di Jennifer Aniston e Naomi Campbell, tempestati di oro e platino, a quello umilissimo di mons. Van Thuan, uomo-simbolo della cristianità vietnamita, dilaniata dalla guerra e poi oppressa da un regime materialista, opportunista e ateo. Il Vietnam è uno dei paesi più indebitati del mondo; per pagare il debito, sta svendendo il suo patrimonio naturale, anche perché, nel Sudest asiatico, non si tiene in debito conto la «questione estetica».

Se continuerà a imperare l’idea che i giornielli di una diva sono belli e ricchi, mentre le foreste del Vietnam (con animali e piante fantastici che rischiano di estinguersi) sono brutte e possono essere rimpiazzate da piantagioni di caffè (per mantenere il Vietnam su elevati livelli di competitività, «stracciando» la concorrenza di altri paesi, altrettanto indebitati), significa che non abbiamo capito che cos’è la bellezza.

Un capo indigeno messicano, nel giubileo del 2000, ha detto che il suo paese è in credito con il colonialismo di 185 tonnellate d’oro e 16.000 d’argento, elevate alla potenza di 300 (cfr. Missioni Consolata, maggio 2001): e ha ragione. Ma è altrettanto vero che il debito estetico (che epuloni, spreconi e celebratori di giubilei hanno contratto con la moltitudine di giubilati e diseredati) è incalcolabile nel senso matematico del termine. Vi sono pubblicazioni e libri che lo provano: per esempio il rapporto Nunca mas, Emi, Bologna 1986.

Maria Weistroffer – Bordeaux (Francia)

Ci scusiamo con la signora Maria per aver sunteggiato la sua lettera, come pure quelle di altri lettori. Cari amici, poiché lo spazio è tiranno, aiutateci con interventi più concisi. Grazie.

AAVV




KENYA, AMORE NOSTRO

«Il 28 giugno 1902, ottava della
festa della Consolata, alle ore
4,30 ho la santa soddisfazione
di celebrare la prima messa che si sia
detta in questa parte del Kikuyu.
Consacro alla Consolata queste povere
anime, supplicandola che ci ottenga
dal suo Divin Figlio di poter presto
raccogliere frutti abbondanti di vita
eterna». Così scrisse padre Filippo
Perlo, da Tuthu, fra i KIKUYU. Con lui
c’erano padre Tommaso Gays e i fratelli
coadiutori Celeste Lusso e Luigi Falda.
Iniziava dunque, 100 ANNI FA,
l’evangelizzazione dei missionari
della Consolata in Kenya,
neo colonia britannica.
Un’«avventura» tutta in salita.
Perché?

«MA NOI NON SIAMO COME LORO»
Uno scozzese che rapava le donne, e non solo.
I bianchi che comandavano
e i neri che obbedivano, e non solo.
Mentre i missionari ne risentivano negativamente.

IL RICORDO NEFASTO
DI BOYES

Gli europei che, dal 1895 e con
vari intenti, misero piede nel Kenya
dei kikuyu lasciarono negli abitanti
un ricordo ostile. Lo confermò il
capo locale Karuri, che commentò
il primo incontro con il bianco: «Ne
ebbi paura. Credetti di vedere un
dio e, appena a casa, prima di entrare
nel villaggio, presi un montone
per fae un sacrificio a quel dio
bianco, affinché non mi seguisse in
casa mia» (cfr. «Fonti»).
La figura che, all’inizio e più di
ogni altra, riscosse una deplorevole
nomea, fu J. Boyes. Questo scozzese,
accompagnato da 60 askari senza
scrupoli, terrorizzò Tuthu e dintorni,
al punto che la gente emigrava
in massa nell’eventualità di un
suo insediamento nel villaggio.
Era un commerciante e predatore
di bestiame, che fece strage
di elefanti incamerando
enormi quantità di avorio.
Non risparmiò le donne; se
qualcuna non gli andava a
genio, la esponeva al pub-
blico scherno, dopo averla rapata a
zero, legata ad un albero e, magari,
fucilata. L’esperienza con quell’europeo
rese i kikuyu molto circospetti:
ogni bianco era un possibile
Boyes.
I missionari della Consolata subirono
in modo negativo l’accostamento
all’avventuriero. «In qualche
villaggio – scrissero – trovammo un
po’ di diffidenza, e la causa è questa:
circa un anno fa venne qui un
certo Boyes. L’arrivo dei bianchi in
questi luoghi fu da qualcuno creduto
un ritorno di Boyes e dei suoi
metodi».
A Nyeri, fino al 1907, gli anziani
si domandavano chi fosse il patri
(padre) e rispondevano: «È un indiano
che viene a vendere cotonate
o un forestiero che compra ragazze
». Bastava addentrarsi nei villaggi
per cogliere la diffidenza.

CAROVANE, TASSE, MACCHINE
I britannici «pacificarono» la colonia
del Kenya dal 1899 al 1902.
Per salvaguardare l’occupazione, le
truppe militari si spostavano da una
regione all’altra continuamente;
gli spostamenti
erano affiancati
da carovane di portatori, che assicuravano
viveri e munizioni. A tale
scopo furono ingaggiati, con la forza,
anche uomini e donne dei territori
sottomessi.
Nacque allora la frase «andare in
carovana», che alludeva ad un grave
pericolo di vita. Infatti numerosi
portatori, durante il tragitto, soccombevano
per mancanza di assistenza
sanitaria, eccessiva fatica ed
attacchi di guerriglia.
Anche il missionario, appena arrivato,
organizzò carovane. Fu questo
l’unico mezzo a disposizione per
aprire e dislocare i suoi centri di influenza.
Una strategia rischiosa, dato
l’esempio negativo del regime coloniale.
Il potere della Corona inglese divenne
effettivo, tra l’altro, con l’imposizione
della tassa sulle case. La
quota fu di due rupie, poi tre e, infine,
sei. Quando scattarono gli aumenti,
parecchi kikuyu, colti alla
sprovvista, si riversarono nella missione
cattolica in cerca di lavoro.
Spesso gli operai del patri furono costretti
a chiedergli un anticipo di stipendio,
altrimenti l’ufficiale del governo
avrebbe razziato loro il bestiame
o bruciato la capanna o
sequestrato le donne.
Il comportamento dell’amministrazione
coloniale fu osservato con
attenzione dal missionario, che temette
una ritorsione del malumore
generale anche nei suoi confronti.
Un detto significativo, che misurava
la diffidenza kikuyu verso lo
straniero, era: «Il bianco ci ha conciati
per le feste». Tali parole, oltre
che ricalcare avversione, erano pregne
pure di magico terrore.
I bianchi apparvero ai kikuyu fra
lo scoppiettio di fucili e il frastuono
di treni, dall’alto di ponti e carri o
comodamente seduti in case di pietra.
Per i nativi tutto ciò sconfinava
nell’incomprensibile, per non dire
diabolico. Un anziano riferì ad un
padre: «Voi bianchi siete padroni
dell’ngoma [spirito malvagio]. Non
c’è un ngoma in quelle cose che voi
chiamate macchine? Vedi, noi ci intendiamo
di ferro e facciamo molti
lavori con esso, ma non abbiamo
mai visto il ferro andare da sé, parlare
e poi uccidere da lontano, sputando
fuoco su chi vuole».
Anche il missionario fu coinvolto
in questo giudizio di timore. Egli sarebbe
stato «un figlio del sole».
Quando correva in bicicletta o metteva
mano all’aratro, tirato da buoi,
la gente esclamava: «Costui è Dio».
L’ultimo atto dell’occupazione, il
più odiato, fu l’espropriazione delle
terre. L’azione fu condotta in vista
delle fattorie da assegnarsi ai coloni,
che avrebbero consolidato la supremazia
bianca in Kenya.
Il missionario accettò il sistema,
ritenendolo un male necessario affinché
la popolazione approdasse al
progresso. Egli diede per scontato il
lavoro come via allo sviluppo.
Ma i kikuyu stentarono a capire:
a cogliere, per esempio, la diversità
di azione dei bianchi del governo rispetto a quelli della missione. Occorse
del tempo per comprendere
che i primi erano una cosa e i secondi
un’altra.

DISTINGUERSI
DAI COLONIALISTI

All’inizio i rapporti fra la missione
cattolica e l’amministrazione coloniale
furono improntati a vicendevole
simpatia.
Tuttavia il missionario non tardò
a comprendere che, battendo quella
via, avrebbe compromesso la sua
opera. Era dunque urgente mutare
rotta. Accorgendosi che il proprio
comportamento era attentamente
studiato dai kikuyu, colse la palla al
balzo per prendere le distanze dal
colonialista: evidenziò la sua identità
facendosi chiamare patri o mundu
wa Ngai (uomo di Dio).
Un altro elemento differenziatore
fu la scorta armata. Era quasi una
regola che il bianco circolasse per il
paese circondato da 30-40 askari. Il
missionario intuì che la presenza di
soldati alle calcagna lo avrebbe accomunato
ai conquistatori. E rifiutò
la scorta fra lo stupore generale.
Esisteva un’altra tentazione: costruire
le missioni, sfruttando la mano
d’opera gratuita degli africani.
Dopo «le spedizioni punitive», il
governo, per scoraggiare nuove ribellioni,
obbligava 100-200 uomini
di ogni tribù a lavorare gratis per le
sue strutture coloniali (strade, fortezze,
abitazioni di askari, ecc.). Il
potere avrebbe avallato il sistema
anche per il missionario cattolico,
che però declinò l’offerta.
Bisognava non dar adito ad alcuna
illazione di connivenza fra i due
poteri: «Tanto più – commentavano
i missionari – che ripetiamo sempre
che qualsiasi lavoro fatto per noi viene
ricompensato. Una tale idea di
giustizia fa molto effetto sugli indigeni,
assuefatti a vedere nei bianchi
soltanto degli usurpatori».
Questa citazione indica un aspetto
importante per diversificare il
missionario dal colonialista: il lavoro
retribuito. I kikuyu ben presto
acquistarono la certezza che, lavorando
con il patri, erano subito pagati
in contanti, e non a colpi di kiboko
(staffile), come accadeva nei
lavori forzati del governo.
La notizia di un «bianco diverso»,
che pagava gli operai, si divulgò rapidamente.
«Durante le carovane,
alla fine della giornata, i portatori
cantavano le lodi del padre: la canzone
diceva che essi volevano sempre
lavorare con lui, perché era buono.
Il genere di bontà era specificato
e consisteva nelle rupie con cui
avrebbe pagato il loro lavoro».

LA MEDICINA GRATUITA
Il missionario, per farsi conoscere
ed accettare, camminava ore e ore
per i villaggi kikuyu «senza neppure
chiedere una banana»: e intanto
curava i malati. Egli non lesinò fatiche
in questa attività. Ogni giorno,
per ben sette ore, visitava i villaggi
distribuendo medicine; oppure attendeva
a malati in missione, curando
anche 100 persone.
Così facendo, la fama di questo
uomo bianco speciale si spandeva
ovunque.
Padre Carlo Ciravegna, ricordando
quell’intenso apostolato, scrisse:
«Di uomini bianchi ne passavano
molti sulle strade carovaniere dei
grandi laghi equatoriali: ma questi
venivano a comprare avorio e a conquistare
il paese; si facevano accompagnare
da askari armati. Invece i
padri non facevano commercio, non
avevan fucili… ma passavano facendo
del bene, curando gratuitamente
i malati. Fare del bene a gente sconosciuta
era per questi poveri neri
un fatto inaudito: per la prima volta
essi vedevano spiegarsi davanti ai loro
occhi stupefatti i miracoli della
carità cristiana».
La strategia per rimuovere le remore,
che impedivano al missionario
l’accesso psicosociale ai kikuyu,
trovò una punta di diamante nell’amicizia
con i capi locali. Il piano fu
realizzato con gradualità.
Già esisteva una piattaforma: la
familiarità con la popolazione, specie
con le donne e i bambini. «Come
volentieri le madri cedono ora
alle braccia delle suore i bimbi, e
quanto sono felici quando esse li accarezzano!
Poco alla volta noi riusciamo
a farci kikuyu ed entriamo
ogni giorno di più nella loro vita».
Visitando Murang’a, il missionario
fu accolto con entusiasmo. Gli
andarono incontro un capo famiglia,
le donne e i bambini, offrendogli
i primi posti attorno al fuoco; e
quando il patri parlava, tutti pendevano
dalle sue labbra. Alla fine dell’incontro,
il pater familias si dichiarò
figlio e servo dell’ospite. La
familiarità raggiunta si concretizzò
in scambi di doni: da una parte un
po’ di tembo (bevanda alcornolica),
latte o un montone e, dall’altra, una
coperta colorata.
Un giorno il genitore di un operaio
del centro di Tuthu si recò dal
missionario, che raccontò: «Egli mi
parla all’orecchio: suo figlio d’ora in
poi è anche mio figlio, e come egli è
padre così lo sono anch’io. Se suo figlio
è cattivo con lui, egli lo batte; se
è cattivo con me, io lo devo battere».
Però il missionario mirava più in
alto, cioè al capo villaggio, sperando
che accattivandosi le simpatie e, soprattutto,
convertendolo al cristianesimo,
la popolazione ne avrebbe
seguito l’esempio.
Lo sforzo di perseguire la fiducia
dei capi provocò pure qualche curioso
inconveniente, come quello di
due capi di Metumi, che divennero
gelosi per il reciproco sospetto che
il padre favorisse uno più dell’altro.

SPERANZE DI CONVERSIONE
Il mutato rapporto con la popolazione
fu portato alla ribalta dai missionari
con soddisfazione.
Un anziano pregava Ngai, con le
mani protese verso il cielo, affinché
elargisse al padre «tanta ricchezza e
una casa alta come il Monte Kenya,
che fosse potente come il capo Karuri
e che lo spirito del male non lo
danneggiasse mai».
Al missionario sembrava che tutto
si mettesse per il meglio.

IN AZIONE CON TRE «PUNTE»
Come coniugare in missione
il verbo «convertire»?
«Prova e vedrai! Escluso
il condizionale,
in ogni altro modo
è difficile».
Se ne discute
a Murang’a.

NON MANCAVA L’IRONIA
Il sub-commissioner nella colonia
del Kenya, L.S. Hinde, disse ai missionari
della Consolata: «Gli indigeni
vi conoscono in un modo differente
da quello con cui conoscono
il governo. Voi, viaggiando anche
in zone inesplorate, già siete per fama
conosciuti e chiamati per nome
come amici». Era una lusinga.
Il missionario non tardò ad accorgersi
che i suoi ragionamenti interessavano
poco la gente.
Padre Francesco Cagliero, durante
un catechismo ai suoi operai, chiese
perché egli fosse venuto fra loro e
quanti dèi ci fossero. Un tale rispose:
«Non so perché tu sia venuto nel
mio paese; né so quanto tu vai chiedendo,
ma mi sembra che tu oggi abbia
bevuto molto vino per venir fuori
con queste interrogazioni».
Non fu solo l’ironia ad ostacolare
l’evangelizzazione, bensì la difficoltà
intrinseca dell’argomento affrontato.
Per quanto si ripetesse che Dio
non è come l’uomo, composto di anima
e corpo, ma puro spirito, immancabilmente
l’uditorio ripiegava
su temi più abbordabili, quali: se Dio
avesse la barba, se fosse bianco o nero,
se indossasse sempre tanti vestiti,
se mangiasse ogni giorno carne.

IL BATTESIMO CAUSA MORTE?
I missionari non furono dei battezzatori
frettolosi. Infatti i primi
battesimi risalgono al 1909-1911: e
a Tuthu, la prima sede fra i kikuyu,
addirittura al 1916. Fino a tale data
si battezzò quasi esclusivamente in
punto di morte. Furono di regola
battesimi di anziani, avvicinati dal
missionario nel suo apostolato itinerante.
Divenuti amici della missione,
ne accettarono pure l’insegnamento
religioso e, data l’età avanzata, furono
battezzati di comune accordo
prima che la morte li cogliesse. Lo
stesso dicasi per i bambini moribondi.
Poiché il missionario battezzava
persone che poco dopo sarebbero
morte, i kikuyu dissero che l’acqua
versata in testa, fosse «avvelenata
dagli stranieri» e causasse la morte.
Fu un’insospettata difficoltà per l’evangelizzazione.
Si contestò la diceria discutendola
pubblicamente. Il battesimo fa veramente
morire? Il patri e la mware
sono battezzati: e sono forse morti?
«Anzi, il Signore li ha fatti ricchi e
sapienti, li tiene come suoi figli e li
difende dallo spirito del male, il quale
ha grande paura del battesimo».
Però la diceria doveva essere sfatata
con gesti visibili. Ecco allora che il
missionario, curando gli ammalati,
praticava a tutti abbondanti lavaggi
in fronte.
Non mancò, poi, l’accusa di malocchio.
Se ne avvide, a proprie spese,
suor Faconda. La missionaria voleva
prendersi cura di una bambina,
che deperiva di giorno in giorno. Incontrò
la madre al mercato, con la
bimba sulla schiena. La kikuyu, vedendola,
non esitò a lanciarle l’mbu
(grido di allarme nel pericolo), mettendo
a soqquadro l’ambiente…
Molti kikuyu parteciparono alla
prima guerra mondiale come portatori.
L’esperienza fu deleteria. Religiosamente
parlando, i pochi superstiti
ritornarono a casa scandalizzati
dal comportamento distruttivo ed
omicida dei bianchi (inglesi e tedeschi),
che pure si dicevano cristiani.
Né riportò esempi stimolanti per
abbracciare il cristianesimo chi lavorava
nelle fattorie dei coloni inglesi.
A Gatanga due cristiani furono apostrofati
dal padrone: «Siete asini, sapete
solo credere a ciò che dicono i
preti e le suore». Poi il farmista sputò
per terra con disprezzo.
E che dire della poliginia, l’eterno
scoglio per l’evangelizzazione?

LA FORZA DELLA TRADIZIONE
Tutte le obiezioni dei kikuyu di
fronte al cristianesimo sono riconducibili
ad un unico denominatore
comune: l’attaccamento rigoroso alla
tradizione.
«I kikuyu non distinguono fra vita
sociale, politica, sessuale e individuale,
ma tutte queste vite (per così
dire) formano un unico complesso,
che non si può sezionare e che ha la
sua ragione d’essere nella tradizione
». Chi la ignora automaticamente
si autoespelle dalla comunità e diventa
straniero.
La tradizione è l’anima del popolo:
rafforza il vincolo di parentela,
lo spirito di corpo e la reciproca accoglienza,
senza la quale ci si trova
disorientati. Infrangere o staccarsi
dalla tradizione significa misconoscere
il proprio paese, rinnegare la
religione degli antenati, attirarsi la
vendetta degli spiriti, esporsi all’ostracismo
degli anziani e contaminarsi
del thahu più orribile (impurità
rituale).
Quando si sentenzia «è tradizione
dei kikuyu», si enuncia un dogma,
che è pericoloso abbandonare o
dal quale deflettere. Furono visti figli
di capi, ritornati dall’Inghilterra
con tanto di laurea, riassumere le abitudini
dei genitori, per nulla scalfiti
dall’Europa.
L’attività missionaria cozzò sempre
contro il corpus integrato degli
usi e dei riti della tradizione, ai quali
i kikuyu erano legati con «una gelosia
e testardaggine da montanari».
«Dopo 37 anni di convivenza con
questa gente – scrisse padre Costanzo
Cagnolo -, pur usando la loro lingua
e seguendo da vicino tutte le loro
manifestazioni sociali, familiari e
individuali, più di una volta mi trovo
perplesso sull’esatta comprensione
della loro mentalità» (1).
Padre Giacomo Cavallo annotò:
«Trovo uno spirito eminentemente
conservatore, di cui è imbevuto il
kikuyu, che gli fa rigettare le cose solo
perché sono nuove». Ogni volta
che si prospetta qualcosa di diverso,
arriva puntuale il leitmotiv: «Però i
nostri vecchi non hanno detto, non
hanno fatto così». Le conversioni al
vangelo segnavano il passo.

GRAVE DISAPPUNTO
Convertire è un verbo all’infinito.
Come coniugarlo? «Prova e vedrai!
Escluso il condizionale, in altro modo
è difficile». La citazione, nel suo
problematico umorismo, ritrae bene
lo stato d’incertezza del missionario.
Egli non si trastullava in chimeriche
illusioni. Tuttavia, di tanto
in tanto, non riusciva a celare il proprio
disappunto di fronte agli scacchi
patiti.
Il fatto dovette impressionare abbastanza,
se un vecchio di Limuru
sentì il bisogno di accostare alcune
suore melanconiche per consolarle.
«I giovanetti, i bambini e le ragazze
vi ascoltano e vi capiscono; le donne,
invece, vanno a lavorare e a raccogliere
patate, e non si intendono
di tali cose: chi mai per il passato le
insegnò ad esse? Aspettate, abbiate
pazienza…».
Attendere e pazientare. Il missionario
era una persona di fede e di
questa si caricava per fronteggiare i
momenti di stanchezza e dubbio.

IN DIECI A MURANG’A
Gli storici delle missioni della
Consolata fra i kikuyu ravvisano
nell’1-3 marzo 1904 una data significativa
per l’evangelizzazione dell’etnia.
A Murang’a si ritrovarono
10 missionari per discutere e approvare
un metodo di apostolato.
Nell’incontro, dopo aver preso atto
dei successi ed insuccessi, si prospettò
una strategia d’azione, praticabile
secondo tre direttive.
? Formazione di catechisti: prevedeva
la scelta di alcuni kikuyu intelligenti
e retti, per istruirli e impegnarli
nell’evangelizzazione. Il sistema
fu giudicato buono, ma avrebbe
procrastinato troppo le conversioni.
?¡ Azione sanitaria e scolastica: una
linea che suggeriva di costruire
collegi e ospedali, nella speranza che
i giovani e i malati abbracciassero la
nuova religione. La proposta non riscosse
molte adesioni. Si obiettava
che i genitori dei ragazzi, non ancora
persuasi della necessità dell’istruzione,
avrebbero boicottato la frequenza
scolastica dei figli. Gli ospedali,
poi, esigevano molto denaro,
irreperibile per il missionario.
?¡ Predicazione itinerante, ossia
passare da un villaggio all’altro annunciando
la parola di Dio. Così facendo,
il cardinale Guglielmo Massaia
conseguì buoni risultati fra gli
oromo d’Etiopia (2). Tuttavia il successo
era garantito solo «nei paesi civili
o con una semiciviltà, come l’Abissinia;
ma fra popoli selvaggi e per
indole incostanti e volubili come i
kikuyu, il buon seme inaridirebbe
appena germogliato».
I partecipanti all’incontro di Murang’a
valutarono i pro e i contro di
ogni possibilità. Alla fine optarono
per combinazione delle tre linee d’azione.
Il «metodo misto» fu approvato.

EVANGELIZZAZIONE
GRADUALE

A Murang’a i missionari confrontarono
le loro prime esperienze. Riconosciuto
il pertinace attaccamento
dei kikuyu alla tradizione, convennero
che la missione avrebbe
dovuto procedere con gradualità:
pretendere immediate conversioni
sarebbe stato come «voler far fissare
il pieno sole meridiano a chi fino
allora è stato chiuso in un buio sotterraneo
». Conveniva avanzare con
piedi di piombo e, intanto, spargere
le prime idee evangeliche.
L’evangelizzazione graduale si estrinsecò
nella tolleranza e prudenza
di fronte alla consuetudo locale. A
differenza di varie denominazioni
protestanti (Church Mission Society,
Church of Scotland, Salvation Army,
African Inland Mission, ecc.), si accettò,
per esempio, l’iniziazione.
In un’epoca successiva padre Cagnolo
stigmatizzò la mancanza di
duttilità mentale, scrivendo: «Certi
educatori, che vorrebbero abolire il
corpo delle tradizioni, si creano amare
sorprese, come quando si tenta
di abolire la circoncisione ed altri
usi per sé indifferenti al progresso…
Diamo tempo al tempo». Né si indirono
crociate contro la poliginia.
In conformità alla metodologia esposta,
i primi missionari non si lasciarono
contagiare dalla «malattia
del mattone»: cioè costruire edifici
all’«europea». Scrisse padre Filippo
Perlo: «Non è nostro sistema far le
chiese e poi i cristiani, ma pensiamo
sia metodo migliore l’attendere che
questi sentano il bisogno di quelle».
Per anni la chiesa sarà un capannone
e il campanile si mimetizzerà
con un mugumu (albero sacro), dalla
cui sommità la campana suonerà
a distesa.

L’ALBERO DELLA SFIDA
Di pari passo con l’attendismo,
alcune scelte del missionario indicano
come l’evangelizzazione dovesse
pure sfidare la cultura locale.
Il capo Wambugu (che aveva concesso
al missionario delle agevolazioni
per erigere la sua sede) rispose
picche quando si ventilò l’ipotesi
di abbattere degli alberi sacri, sotto
i quali gli operatori magici compivano
sacrifici per impetrare la pioggia
o la vittoria sugli odiati masai. Il
padre tuttavia, necessitando di un
alto fusto per innalzarvi la campana,
additò proprio un rigoglioso mugumu.
Gli anziani replicarono che, se avesse
toccato l’albero, sarebbe certamente
morto; ma il missionario si
avvicinò alla pianta per incidervi col
coltello una croce. Nello sbigottimento
generale, si rivolse alla gente,
osservando che nulla gli era successo,
perché il «patri è l’uomo di Dio».
Una provocazione per affrettare
l’ora del vangelo.

(1) Padre Costanzo Cagnolo scrisse The
Akikuyu, Mission Printing School, Nyeri
1933 (un’importante monografia sul popolo
in questione, con pregevoli illustrazioni).
(2) Il riferimento al Massaia non è casuale.
I missionari della Consolata intendevano
proseguie l’opera.

ATTENTI ALLO STREGONE!
Nel villaggio tradizionale
lo «stregone» detta legge:
si nasce, si vive e si muore
ai suoi ordini.
E guai a snobbarlo!
Il missionario lo sa e prende
le sue misure.

DAL «MEDICO CONDOTTO»
Non si scherza con la tradizione.
I suoi interpreti sono gli athuuri (anziani).
Essi «formano il gran senato
della nazione; ad essi è dato di conoscere
il bene e il male e, al di sopra
di loro, non v’è che Dio. Dopo
il loro giudizio non c’è appello».
Ma il ruolo degli anziani resta lettera
morta senza il consenso, diretto
o indiretto, del mundu-mugo (medico,
indovino, operatore magico o,
più volgarmente, stregone).
Nel villaggio e nella famiglia l’individuo
nasce, vive e muore ad libitum
del mundu-mugo; nessuna azione, privata o pubblica, sfugge
al suo controllo: «Questi
indigeni non fanno nulla
di importante (o creduto
tale) senza il parere
dello stregone».
Il mundu-mugo dispone
di effettive conoscenze
terapeutiche. Ad un
missionario capitò di
assistere alla medicazione
di una profonda ferita
alla mano; l’arto venne legato
con fili d’erba e poi cucito con lunghe
spine. «Non si può negare che
tutto fosse fatto con una certa cognizione».
Quando però il mundu-mugo affrontava
un male psico-somatico, l’ironia
per il medico e la commiserazione
per il paziente traboccavano.
«Vorrei lo vedeste (lo stregone) nell’esercizio
delle sue funzioni: con
che energia si dà attorno al cliente
per liberarlo dall’ossessione di spiriti,
che gli vogliono fare la pelle. Se
non suda due camicie è solo perché
non ne possiede neanche una…».
Anche i capi si ammalano. E, come
tutti, vengono trattati dal mundumugo.
Ma, al cospetto di un personaggio
influente, lo stregone spesso
annaspa impacciato per una diagnosi
adeguata al paziente. Tuttavia se la
caverà con l’astuzia, asserendo che
«il capo è stato avvelenato da qualche
bestia mentre dormiva; oppure
un rospo gli è entrato in pancia, o
che è stato vittima di imbrogli e filtri
nocivi di qualche nemico».

ALTRE TRE MANSIONI
Il mundu-mugo svolgeva pure altre
importanti funzioni.
?¡ Arbitro di pace. Quando, dopo
un litigio o una guerra, i contendenti
trattavano la pace, si procedeva secondo
un rituale diretto dal mundumugo.
Chi chiedeva la sospensione
delle ostilità offriva i pegni della pace:
una pelle di bue, un fascio d’erba,
uno scranno, una pecora. La controparte
consegnava un montone e
una giovane pecora. Si sgozzavano
gli animali (quelli della controparte);
con il grasso si ungevano sia i pegni
della pace sia le parti che la contraevano.
?¡ Contro ladri e avvelenatori. Un
missionario, durante una visita al villaggio,
dovette sostare, perché si stava
compiendo una cerimonia. «Il
capo e lo stregone… stavano mettendo
una medicina in una piccola
fossa nella strada» e pronunciavano
minacce… Terminata l’operazione e
ricoperta la buca, il padre fu ricevuto
dal capo, che gli spiegò come tutto
ciò avrebbe impedito a qualunque
ladro o avvelenatore di entrare
nel villaggio senza essere visto.
?¡ Maledice e benedice. Fra le maledizioni
primeggiano, per efficacia
e timore, quelle scagliate da genitori
e anziani, specialmente se in punto
di morte… Camminando succedeva
di imbattersi in sentirneri e campi
attraversati da liane, tese a 2 metri
di altezza, oppure contrassegnati da
ramoscelli o pali con appeso un osso
umano. Allora i passanti indietreggiavano,
perché quelli erano segni
di maledizione.
Di fronte a tali segni, ci si rivolgeva
al mundu-mugo. Costui girava a
più riprese attorno al luogo maledetto,
ammonendo che chi lo avesse
violato sarebbe stato destinatario
di disgrazie. Proclamato il divieto,
piantava qua e là dei rami secchi,
ciascuno accompagnato da una maledizione.
«Chi entrerà qui sprofondi
sotto terra, come io vi sprofondo
questo ramo! Chi varca questi confini
inaridisca all’istante come queste
foglie secche».

L’OSTILITÀ DEL MUNDU-MUGO
Per i missionari gli «stregoni» erano
«i sacerdoti del paganesimo»,
i quali a loro volta tolleravano gli
stranieri dalla veste bianca «come
il fumo negli occhi».
Il missionario non mieteva molte
conversioni, ma intanto lavorava. La
sua popolarità, dovuta a dispensari,
scuole e fattorie, cresceva di giorno
in giorno. Il mundu-mugo lanciò l’allarme:
se non si interveniva subito,
quei bianchi avrebbero scalzato la
tradizione e, con essa, il suo potere.
Il patri apparve al mundu-mugo
come un concorrente economico temibile,
capace di rovinargli la piazza
con la cura gratuita dei malati…
mentre lui esigeva bovini e ovini.
Contro la volontà del mundu-mugo
e degli anziani, nel 1907 a Limuru
il missionario riuscì nel difficile
intento di ridurre il tributo di montoni
che i giovani della «classe d’età»
dovevano pagare a quella anteriore
di otto iniziazioni: non più 60 capi
di bestiame, ma due!
Il fatto fu grave, perché provocò
un contrasto fra le generazioni, contrasto
fino allora sconosciuto nella
società kikuyu. Ma questo era quanto
il missionario si riprometteva: disarticolare
il sistema tradizionale per
far spazio al messaggio evangelico.
Il mundu-mugo attaccò il missionario
con accuse precise.
a) Accusa di siccità. Padre Perlo,
fondatore nel 1903 della missione
centrale di Nyeri, all’inizio stabilì la
sua sede sulla collina Niagaitua, in
barba a tutti. Il loro stregone Waweru
lo apostrofò: «Tu ci hai assicurato
che sei venuto in mezzo a noi per
farci del bene, ed ecco che ora ci
porti un gran male, fabbricando la
tua casa su questa collina sacra; Dio
si è offeso, ci nega la pioggia e con la
ostinata siccità annienta i nostri raccolti
e vuol farci morire di fame».
b) Accusa di avvelenamento. Era
morto Wanghengie, un operaio addetto
alla controversa costruzione
della missione sulla collina Niagaitua.
Il mundu-mugo colse la palla al
balzo per diffondere la notizia che il
bianco avvelenava i kikuyu, per pascersi
di notte dei loro corpi. L’accusa,
che mirava ad isolare il missionario,
sortì un certo effetto: «Per
quasi due mesi restammo isolati dalla
gente, per quella specie di blocco
morale di cui gli stregoni, con la loro
infame calunnia, erano riusciti a
circondare la missione».
c) Accusa di sterilità. Il mundumugo
ammoniva incessantemente:
«Chi si fa cristiano non avrà figli in
eterno!». Lo stesso capo Karuri, sul
punto di convertirsi al cristianesimo,
si sentirà minacciare: «Amico, prenditi
guardia! Ti proibiranno di avere
dei figli: vedi un po’ se essi ne hanno!».
Di fronte a tali accuse, il missionario
rispose con l’azione catechetica
e sanitaria. E… qualche mundumugo
mutò atteggiamento.

DA RIVALI AD AMICI
Il primo incontro fra un missionario
e un operatore magico avvenne
il 12 ottobre 1902 (a Tuthu?), per
iniziativa di padre Perlo. Egli intuì
subito l’eccezionalità del personaggio
e, da abile stratega, gli chiese un
appuntamento, come qualsiasi altro
cliente. Al termine il mundu-mugo
pronunciò il responso: favorevole in
tutto.
Padre Rodolfo Bertagna ne cercò
l’abboccamento per un’intervista su
Dio. «Gli chiesi se sapeva così bene
le cose di Dio, come si intendeva
delle sue pecore… Tutto il suo scibile
in materia si riduceva a questo: esservi
due dèi; uno in alto per le cose
al di sopra della superficie terrestre
ed uno in basso, entro terra, da cui
vanno quelli che muoiono. Concluse
la dissertazione con un’aria trionfante,
visto che non l’avevo mai interrotto
né contraddetto».
Diversi missionari strinsero amicizia
con il mundu-mugo. Poteva capitare
che, durante il catechismo, avessero
come uditore lo stesso operatore
magico… L’argomento di una
lezione era l’unità di Dio. Terminata
l’esposizione, il mundu-mugo ap-
provò il maestro, pur stravolgendo
il senso del discorso. «Sentite, uomini,
il padre ha parlato bene. Noi
credemmo sempre che ogni collina
avesse il suo dio, e ci sbagliavamo.
Non ci sono che due dèi: uno per i
bianchi e uno per i neri…».
Il mundu-mugo e padre Antonio
Borda Bossana, una volta conosciutisi,
entrarono in confidenza. «Mi
racconta le istruzioni che ha sentito
dalle suore riguardanti l’eternità dell’anima,
l’unità di Dio, giusto e onnipotente,
e aggiunge che anche lui
ora, quando va a medicare i malati,
fa la preghiera al Dio del patri e insegna
tutto quanto ha sentito di
nuovo. In verità da questi stregoni
non era da aspettarsi così subito un
aiuto tanto prezioso».

LA GRANDE RINUNCIA
Leggiamo in un diario anonimo:
«Ho trovato che i nostri insegnamenti
sono assai diffusi e (per così
dire) inconsciamente assorbiti; tanto
che molti anziani ed anche qualche
stregone mi enunciarono le cose
da noi insegnate riguardo a Dio,
ai suoi attributi, all’anima umana e
alla sua destinazione oltre la tomba,
miste colle loro credenze».
Il testo, del 1905, conferma il mutato
rapporto fra missionario e mundu-
mugo. Non era ancora la conversione,
ma per l’evangelizzatore era
già un consolante risultato. Il salto
di qualità per l’avvicinamento al cristianesimo
fu l’accettazione che i figli
dello stregone si battezzassero.
Karogo aveva cinque mogli e una
stalla che rigurgitava di vacche. Era
un mundu-mugo convinto; per la sua
rettitudine, prudenza e ospitalità era
venerato come un patriarca nell’intera
regione di Tetu e Masera. Acconsentì
che il figlio ventenne Momboy
si convertisse al cristianesimo. A
casa sua strinse un patto di amicizia
con la missione… a scapito di un magnifico
montone!

IL MISSIONARIO NON È…
«Non esiste religione senza il suo
mundu-mugo». Secondo questo proverbio
kikuyu, il missionario fu assimilato
all’operatore magico. Infatti
anch’egli, come il mundu-mugo, curava
gli ammalati, indiceva preghiere
per la pioggia, consigliava.
Padre Gioachino Cravero ascoltò
un dialogo fra un anziano e il capo
Karuri. «Dunque – interruppe il vecchio
– i padri sono anch’essi stregoni?
». «Sicuro – rispose convinto Karuri.
Qual paese e qual popolo non
ha i suoi stregoni? Li hanno i bianchi
in Europa… Perfino Dio in cielo
ha i suoi stregoni, per dare le medicine
a quelli che stanno lassù con lui.
Non è così, patri?».
Padre Cravero non gradì il paragone.
E, tutte le volte che il suo lavoro
era equiparato a quello del presunto
collega, metteva i puntini sulle
«i»: il patri insegnava una verità
certa e traeva la dottrina dalla sapienza
di Dio, mentre il mundu-mugo
si affidava alla divinazione.
Il missionario non accettò di essere
paragonato all’operatore magico
neppure nel campo medico, per
non inficiare il messaggio evangelico
della stessa magia. Che la religione
kikuyu fosse compenetrata di elementi
magici costituiva per lui una
ragione in più per salvaguardare
la propria da una simile affinità, allo
scopo di proporla come un’alternativa
assolutamente nuova.

IL PREZZO DELLA SPOSA
«Intrattenetevi quanto
volete con i neri…
Decantate loro i diritti
delle donne…
Essi vi risponderanno
con il sorriso più fine:
“Ma… la donna
non è un uomo”».

POVERE DONNE!
Il primo impatto del missionario
con la donna lasciò subito una
traccia profonda nel suo cuore. Le
bambine nude, le ragazze rapate,
le madri a seno scoperto o vestite
con una ruvida pelle
imbevuta di grasso misto a ocra
lo impressionarono.
L’impressione si tramutò immediatamente
in «compassione», allorché
apparve la mole di fatica sopportata
dalla donna. «I kikuyu appartengono
ad una bella razza, che
però nelle donne è degenerata a
causa delle eccessive fatiche».
Il missionario dovette aver ritratto
la donna continuamente curva
sotto pesanti carichi, se
scrisse: «In questo paese la
donna è la vera bestia da soma.
Dal mattino alla sera ogni
riposo le è sconosciuto». Il paragone «bestia da
soma» riecheggerà ancora
nel 1954.
Ci si aspetterebbe un po’ di considerazione
per la donna incinta.
Invece… «le donne sono non di
rado, insieme colle loro creature,
vittime innocenti di tanta schiavitù.
Non sono pochi i casi di aborto
(spontaneo), come sono
ancora abbastanza frequenti
le morti di giovani spose nel
momento di dare alla luce il
frutto delle loro viscere».
Che il «sesso debole» svolgesse
mansioni più numerose del «sesso
forte» è fuori discussione. Ecco che,
mentre le mogli sudano nel campo,
i mariti «vanno a zonzo» a tracannare
birra. Ecco che mentre le sorelle
sono impegnate nel trasporto
di un carico, i fratelli guerrieri si allenano
nel canto e nella danza o lucidano
le lance. E mentre le ragazze
collaborano con le missionarie nella
conduzione di orfanotrofi ed asili,
i ragazzi a scuola rifiutano ogni lavoro,
come i genitori maschi.

INFERIORITÀ PARADOSSALE
La donna subiva una paradossale
discriminazione: non solo svolgeva
un’azione economica superiore a
quella dell’uomo, ma l’assolveva in
una inferiorità psicosociale, indotta
e mantenuta dalla nascita alla morte.
Alla nascita di un figlio, la madre
e le sue assistenti emettevano un trillo
di gioia, ripetuto cinque volte se
era maschio e tre se femmina. Il padre,
per celebrare la venuta al mondo
di un nuovo rampollo, tagliava
cinque o tre canne da zucchero: cinque
per un «lui» e tre per una «lei»…
L’iniziazione per i giovani è l’evento
per antonomasia. È una festa
per tutti, specie per i candidati. Trattandosi
tuttavia delle ragazze, i festeggiamenti
si svolgevano in tono
più dimesso rispetto a quelli per i ragazzi:
una minore coreografia di balli
e canti, un’offerta ridotta di cibi e
bevande.
La donna era la massima incarnazione
della forza-lavoro: dissodava
il terreno, seminava, mieteva e
trasportava a casa. Il suo lavoro non
sempre era compensato da un adeguato
raccolto; bastava una breve
siccità per annullare la sua fatica. In
tale caso, all’inizio di una nuova semina,
la donna doveva assoggettarsi
alla purificazione con il sacrificio
di una pecora o una capra, onde rimuovere
il thahu (impurità) che aveva
frustrato il dovuto raccolto.
Quando la donna cadeva ammalata,
rischiava la morte per mancanza
di assistenza: le si prestava un po’
di cura nei primi giorni di malattia;
ma, se non guariva in fretta, era abbandonata
a se stessa. È sorprendente
che quasi tutti i morenti rinvenuti
dai missionari nella brughiera
fossero donne o bambini.
Nel 1930 era ancora imperante,
se padre Ciravegna poté scrivere:
«Intrattenetevi quanto volete con i
neri, anche coi più svegli ed intelligenti.
Decantate loro i diritti delle
donne; spiegate con pazienza le ragioni
buone a persuaderli dell’onore
a cui la donna ha diritto in forza
della sua debolezza e delle sue funzioni
di madre… Essi, scrollando il
capo, vi risponderanno col loro sorriso
più fine: “Ma… la donna non è
un uomo!”».

LA DONNA SPOSATA
Una moglie come si comportava
nel regime poliginico? Alla stregua
del proverbio «due donne insieme
sono due vasi di veleno», ci si aspetterebbe
gelosie e litigi all’ordine del
giorno. Non era escluso: per questo
ogni moglie viveva separata nella sua
capanna.
Tuttavia, non di rado, si assisteva
ad una pacifica convivenza. Fratel
Benedetto Falda rilevò: «Il bisogno
di aiutarsi per i lavori faticosi dei
campi, il taglio della legna, ecc. fa sì
che queste disgraziate, sfiorite dalla
loro giovinezza, conducano una vita
senza sogni, perché non sono considerate
degne di essere consultate
o di condividere col marito l’amministrazione
della famiglia, ma solo riservate
a produrre figli che aumentino
la ricchezza del capo famiglia».
La poliginia, pertanto, diventava una
scappatornia per sgravarsi dal lavoro.
Talora l’insofferenza femminile esplodeva:
la donna fuggiva di casa.
Era un gesto di enorme coraggio,
perché carico di conseguenze. Se la
moglie abbandonava il marito senza
essere stata picchiata, non poteva più
tornarvi se prima non lo avesse pacificato
«con il sacrificio di un montone». Il che costava.
Eppure alcune mogli erano così esasperate
che ne combinavano «di
belle e strane per costringere il marito
a percuoterle».
Altre volte era l’uomo ad assumere
l’iniziativa di cacciare la donna.
Questo avveniva quando la sposa
dimostrava poco amore al lavoro,
oppure era rea di infedeltà coniugale.
Fu il caso di Wangiuku, adultera
e pigra. La donna, cacciata, andò errando
di casa in casa per un po’ di
cibo e un ricovero per la notte. Il figlio
illegittimo trovò rifugio nell’orfanotrofio
della missione, mentre la
madre finì la sua esistenza azzannata
dalla iena.
Nelle liti minori fra marito e moglie,
il missionario interveniva talora
da paciere. «Non di rado la rappacificazione
di mariti e mogli avviene
per i buoni uffici del patri, raggiunta
con soddisfazione delle parti».

ASILI, COLLEGI, CONVENTI
Con il taglio del cordone ombelicale,
madre e figlio incominciano ad
existere separatamente. Chi nasce,
tuttavia, è ben lungi dall’essere autonomo,
in quanto ha estremo bisogno
degli altri e, in caso di allattamento
naturale, della donna in modo
esclusivo.
Le madri kikuyu raramente, durante
il giorno, deponevano i figli
poppanti. Le vedevi al mercato o in
chiesa, mentre sarchiavano o attingevano
acqua, con il bimbo sempre
lì: sulla schiena o attaccato al capezzolo.
E chi attendeva agli altri figli?
Non «lui», ma sempre «lei».
Però agli svezzati si concedeva parecchia
libertà: un’espressione eufemistica
per nascondere l’impossibilità
fisica di curarsi di loro.
Il missionario, osservando quotidianamente
molti ragazzetti abbandonati
a se stessi e affamati, decise
di raccoglierli in asili. Nel 1920 ne esistevano
15. L’iniziativa favorì sia i
figli sia le madri, per ragioni facilmente
intuibili.
In alcune missioni l’affluenza di
bambini all’asilo fu tale che, mancando
del necessario personale di
assistenza, le missionarie furono costrette
ad accettare solo i figli di famiglie
cristiane. «E non potete immaginare
quanto le donne ci prendono
gusto al sollievo che l’asilo loro
apporta; al mattino presto sono già
lì con i loro piccini; mentre alla sera
non compaiono mai a ritirarseli».
Un altro passo mosso dal missionario
per la «liberazione della donna
» si concretizzò nei collegi femminili.
Il primo sorse a Nyeri nel
1911; nel 1921 erano 13, capaci di ospitare
250 ragazze. In questi centri
erano istruite religiosamente, imparavano
a leggere e a scrivere, si esercitavano
in cucito e culinaria. Specialmente
erano avviate al matrimo-
nio cristiano attraverso una capillare
sensibilizzazione ad opporsi alla
poliginia, basata sulla compra-vendita
della donna.
L’unico onore raggiungibile dalla
donna era quello di generare figli. La
sterile era oggetto di scherno. E una
ragazza che, volontariamente, avesse
rinunciato alla mateità, avrebbe
costituito un caso serio aberrante. Il
missionario mirò proprio a questo:
avere delle donne che professassero
la verginità per «vocazione».
Nyeri, 8 dicembre 1929: 10 ragazze
kikuyu emisero il voto di castità
come suore. Quando, due anni
prima, vestirono l’abito, si tenne il
«siku kuu ya airitu» (il grande giorno
delle vergini).
Per i kikuyu «airitu» sono le ragazze
non iniziate che, se rimaste tali,
non sarebbero mai state ritenute
donne. Il fatto che per delle airitu si
organizzasse una festa infliggeva un
colpo severo alla mentalità kikuyu.
All’unico ideale della fecondità-mateità,
condizione imprescindibile
per realizzarsi, si replicava con quello
inedito della verginità… per il regno
dei cieli (cfr. Mt 18, 12).
Ma la verginità o il celibato comportava
per i kikuyu un atto di fede
nell’assurdo. Economicamente e socialmente
si infrangeva l’istituzione
della «ricchezza della sposa»…
Per l’evangelizzatore era pure «la
rivincita del sesso debole»: dopo essere
stato calpestato per secoli con
dicerie e sarcasmi, esso acquistava
dignità e rispetto anche al di fuori
del dogma della tradizione.

RESISTENZE AL MUTAMENTO
Il sistema maschilista reagì prontamente
ai tentativi di mutamento.
Sull’affluenza dei bambini all’asilo
gravarono le solite accuse di cannibalismo
e di avvelenamento, rivolte
al missionario. Ma, con il passare del
tempo, le prevenzioni scomparvero.
Più lungo si rivelò, invece, il contrasto
circa le ragazze che frequentavano
la missione; a tal punto che i
collegi si limitarono ad essere solo
dei dormitori. Si temeva (non a torto)
che le ragazze si convertissero al
cristianesimo.
Nel giugno 1932 a Murang’a il Local
Native Council discusse la proposta
delle missioni cattoliche di aprire
e finanziare un collegio femminile.
Il primo kikuyu che interloquì
sull’argomento aveva fama di essere
progressista; ma sostenne che «la
donna è una schiava, che deve lavorare
soltanto per il marito e che, pertanto,
non deve essere considerata
degna di educazione alcuna». Così
ragionarono anche gli altri membri
del Consiglio, sancendo la fine dell’emancipazione
della donna.
Ancora più tenace fu l’opposizione
alle postulanti della «vita religiosa
». Poiché, mentre le ragazze del
collegio, alla fine si sposavano e la famiglia
percepiva «il prezzo della
sposa», quelle che invece si chiudevano
in convento non procacciavano
il becco di un quattrino.
Per protestare contro il mancato
guadagno, una madre giurò di impiccarsi
ad un albero del monastero.
Vari genitori fecero ricorso al governo
coloniale, che impose al missionario
di restituire le ragazze o di
pagare una somma equivalente al
«prezzo della sposa». Altre furono
rapite mentre lavoravano alla missione,
rinchiuse in una capanna per
parecchi giorni e battute a sangue.
Erano altri tempi.

ECCO IL RE. EVVIVA IL RE!
Il tormentato
cammino di Karuri
verso il battesimo.
Ma che fare delle
50 mogli?
E la conversione
fu libera? Il valore
determinante
del bene.

NELLA LEGGENDA… DA VIVO
Quando a Tuthu, nel 1902, avvenne
il primo incontro fra il capo
Karuri e il missionario, il kikuyu era
all’apice della sua fama. Ricchissimo
di terre e bestiame, di figli e mogli
(ne avrebbe accasato almeno 50!),
Karuri era il «re» più temuto dagli altri
capi e il più rispettato dalla popolazione.
Intelligenza e forza, ambizione
e volontà gli avevano spianato
la strada verso una eccezionale
ascesa sociopolitica. Come se non
bastasse, vantava una storia personale,
che lo proiettò nella leggenda
ancora vivo.
Karuri sarebbe stato gravemente
ammalato. Secondo il costume locale,
fu confinato nella brughiera e,
quando sembrò morto, abbandonato
in pasto alle iene. Ma qualcuno lo
riportò a casa e guarì. L’evento fu il
trampolino di lancio verso il successo.
Era evidente, infatti, che questo
uomo, vincitore della morte, avrebbe
operato grandi cose.
Per spiegare il fatto si ricorreva al
mito della «doppia origine». Sarebbero
esistiti «due» Karuri: il primo,
quello umano, morto nella foresta…
per lasciare posto al secondo, di
provenienza divina. L’idea era così
radicata che qualcuno, dopo avere
perlustrato la cappella dei missionari,
«vista la madre e il figlio di Dio»,
avrebbe domandato: «Karuri
dov’è?». Come se la chiesa, la casa
di Dio, dovesse essere la naturale dimora
del capo.

UNA FIGURA COMPLESSA
Karuri fu anche un mundu-mugo,
«facitore della pioggia». Si sarebbe
pure dato alla divinazione. «I suoi
responsi sono i più stimati. Egli è richiesto
soprattutto quando si ammala
un capo, e ci va con solennità.
Però egli, più furbo, quando non sta
bene, viene da noi (missionari), perché
ha ormai provato che le nostre
medicine, specie se purganti, l’effetto
lo producono con sicurezza».
Commentando la morte di un ragazzo,
avvenuta nonostante il sacrificio
ufficiato da un mundu-mugo,
Karuri esclamò: «Quanto sono ignoranti
i kikuyu!… Correte a fare la cabala
dallo stregone, e intanto la gente
muore. Non sapete che, prima dei
sacrifici dei montoni agli spiriti, bisognano le medicine? E per dare le
medicine adatte soltanto il patri e le
suore non sbagliano».
A Tuthu pioveva troppo e le messi
marcivano sui campi. Karuri, arrabbiato
con i «facitori della pioggia
» per non essere stati capaci di
arrestarla, li radunò tutti, «e ora sono
là, legati al collo, che si sforzano
coi loro gesti a far cessare la pioggia…
Se non ce la faranno, staranno
lì. E quanti colpi di kiboko si sono
già presi!… Di notte si ritirano nella
capanna; però sono proibiti di accendere
il fuoco per scaldarsi».
Un simile comportamento, contraddittorio,
lasciava trasparire una
complessa personalità, capace di
esulare dal canone della tradizione.
Per il missionario era di buon auspicio.

INTESA E FASCINO
Tra l’evangelizzatore e il leader
nacque subito un’intesa. Al primo
giovò molto, per superare la diffidenza
del popolo. Di fronte agli altri
capi ed anziani, «egli (Karuri)
parla di noi (missionari) e ci presenta
ai suoi sudditi. Dice che siamo venuti
non con pensieri cattivi, ma per
far loro del bene, curarli delle malattie,
insegnare a leggere e scrivere,
difenderli dai nemici».
A Karuri interessò soprattutto l’istruzione.
La prima scuola fu aperta
nel 1902, frequentata dallo stesso
capo e dai suoi figli. All’illustre allievo
il missionario riservò un trattamento
speciale con lezioni private.
A volte nel capo albergavano secondi
fini, come quando esigeva dal
bianco qualche regalo (una coperta
colorata, ad esempio). In tali frangenti
il missionario rifuggiva dal patealismo,
scoraggiando il pretendente.
Al pari di tutti, Karuri subì il fascino
del missionario, specie del suo
servizio gratuito. Secondo l’usanza
kikuyu, chi si rivolgeva ad un superiore
per consigli o per risolvere un
problema, gli offriva un montone
quale ricompensa. Ma Karuri, impressionato
dalla generosità del patri,
non fu da meno: soppresse ogni
donativo dovutogli.
Il missionario aspettava Karuri al
«varco». Nel frattempo mise in atto
varie iniziative per accelerae la
conversione.
?¡ Risiedere vicino al capo. La località
dove erigere la missione, oltre
che centrale rispetto alla gente, doveva
soddisfare il requisito di «essere
alle costole di Karuri, per avere
una costante influenza su di lui».
?¡ Catechizzare il capo a tu per tu.
L’efficacia dell’iniziativa consisteva
proprio in quel «a tu per tu».
?¡ Riposo domenicale alla missione.
Scrisse padre Gaudenzio Barlassina:
«Pigliando Karuri in disparte
gli suggerii, poiché imita il bianco,
di imitarlo anche di domenica,
rifiutando la cira (assemblea) e tutto
il suo lavoro; la festa sia per tutti
di Dio e trascorsa con il padre. Accettò
volentieri».

LA DIFFICILE CONVERSIONE
Se le conversioni dei kikuyu al cristianesimo
furono travagliate, quella
di Karuli le superò tutte per difficoltà.
Lo «scandalo dell’apostasia»
dalla tradizione e il timore della conseguente
vendetta degli ngoma pesarono
sull’animo di Karuri come
un incubo. Gli anziani e i capi minori
gli puntavano di continuo il dito
del «non ti è lecito».
Gli sciamani si dimostrarono i più
irriducibili, poiché la defezione del
grande capo avrebbe segnato la loro
parabola discendente. Senza di
lui, come avrebbero potuto conservare
il potere? Secondo gli anziani,
era gravissimo «correr dietro a certe
dottrine dei bianchi», che stavano
mangiandosi tutta la ricchezza
del paese.
Fra le difficoltà affrontate da Karuri,
è da menzionare anche la critica
pretestuosa del protestantesimo
e dell’islam contro il cattolicesimo.
I missionari anglicani inglesi guardavano
in cagnesco quelli cattolici
italiani (e viceversa). «Chi sono gli
italiani? Povera gente in cerca di che
sfamarsi. Figurarsi! Nel loro paese
sono tanto schiavi che sono obbligati
a fare gli askari per niente… I padri
poi ti costringeranno ad adorare
una muiritu, ad inginocchiarti davanti,
vedrai!» (allusione alla Vergine
Maria). Per un kikuyu inginocchiarsi
davanti ad una muiritu, cioè
una ragazza non iniziata, era un’umiliazione.
I musulmani sfruttarono l’opinione
secondo cui l’islam, oltre ad assicurare
un progresso rispetto al culto
tradizionale, sarebbe stata anche
una religione più adatta alla mentalità
kikuyu.
Che dire, poi, della scandalosa incoerenza
degli stessi cristiani con le
loro intee divisioni? Gli ufficiali
dell’Impero britannico, attillati, seri
e potenti, «com’è che non vengono
in chiesa? Perché non sono tutti
cattolici, se la vostra è l’unica vera
religione? E il re d’Uganda, perché
non è cattolico, ma protestante?».
Infine l’ostacolo della poliginia.
Non fu di poco conto per Karuri rinunciare
alle sue 50 mogli. Al di là
della componente affettiva (da non
sottovalutare), quelle donne valevano
centinaia e centinaia di montoni,
dozzine e dozzine di buoi! Con il
battesimo tutto sarebbe svanito.

GIUSEPPE
E MARIA CONSOLATA

Candidata al battesimo c’era pure
Wanjiru, «la regina» delle 50 consorti
di Karuri. Fu lei che il capo
scelse come sposa per il resto della
nuova vita. Le altre furono date in
moglie ad amici e conoscenti, con i
quali Karuri aveva debiti di riconoscenza
per servizi ricevuti.
Il 6 gennaio 1916 Karuri e Wanjiru
furono battezzati con il nome di
Giuseppe e Maria Consolata.
Karuri visse appena 5 mesi da cristiano.
Il missionario, che ne aveva
favorito la conversione fin dal 1902,
vide coronati i propri sforzi dopo 14
anni, quando la vita del capo volgeva
ormai al tramonto.
Quali furono gli effetti dell’avvenimento
per la causa dell’evangelizzazione?
Buoni, secondo padre Perlo.
Qualche missionario credette di
scorgere in tutta la popolazione l’attesa
evoluzione psicologica, favorevole
all’accettazione del battesimo.
Alcuni kikuyu si sarebbero perfino
chiesti: «Karuri si battezza! È dunque
questa la via da seguire?» (*).
Ma la realtà fu diversa. Maria Consolata,
per esempio, la promettente
moglie cristiana di Karuri, morto il
marito il 14 maggio 1916, ridiventò…
Wanjiru. Altrettanto significativo fu
il fatto che nessuno dei figli più influenti
di Karuri si fece cattolico.

PRESSIONE?
Ogni conversione religiosa trascende
la logica umana. Per i missionari
quella di Karuri era da attribuirsi
principalmente all’azione della
«grazia divina».
Questo tuttavia non fuga le perplessità
umane sull’accaduto. Non si
potrà mai stabilire quanto la conversione
del capo sia stata libera e sincera.
Ci si chiede se nel missionario
ci sia stata pressione… In ogni caso la
sua buona fede è fuori discussione.
La ricerca di un’azione adatta al contesto
culturale e, particolarmente, gli
scoraggiamenti e i dubbi dimostrano
che l’evangelizzatore non ebbe altro
scopo che quello religioso e che
operò secondo coscienza.
La buona fede, dimostrata e convalidata
da opere di carità, salvò i
missionari dall’essere accomunati ai
colonialisti. «Il padre non è uno straniero
» osserveranno i kikuyu durante
la lotta dei Mau Mau per l’indipendenza
del Kenya (1950-54).
Ma le stesse opere di carità potrebbero
prestarsi all’accusa: «Così
facendo, voi li comprate alla fede».
Però giova ricordare come i missionari
si siano astenuti da doni inutili
e abbiano proposto la conversione
evangelica nella sua essenza.
Essi hanno operato con dedizione
cristiana, sull’esempio di Gesù
Cristo, «il quale passò facendo del
bene e sanando tutti» (At 10, 38).
(*) Il personaggio fu analizzato da padre
Filippo Perlo nel libro Karoli, Istituto
Missioni Consolata, Torino 1925. Il
sottotitolo «Il Costantino Magno del
Kenya» è eloquente.

Superficie: 582.646 kmq.
Popolazione: 30 milioni (stima 2000).
Capitale: Nairobi (2,5 milioni di abitanti).
Gruppi etnici: kikuyu 17,7%, luhya 12,4%, luo 10,6%,
kamba 9,8%, kisii 6%, meru 5%, mijikenda 5%, kalenjin,
turkana, maasai, pokot, borana, samburu, indo-pakistani
(80 mila), europei (45 mila), arabi (40 mila).
Lingue: kiswahili (ufficiale), inglese e idiomi locali di origine
bantu (luyia, gusii, guria, akamba, kikuyu, embu, meru,
mbere, tharaka, swahili, mijikenda, segeju, pokomo, taita,
taveta), nilotici (maasai, samburu, turkana, teso, njemps,
el molo, kalenjin, nandi, marakwet, pokot, tugen, kipsigis,
elkony, luo) e cusciti (boni, somali, rendille, orma, borana,
gabbra).
Religione: tradizionale 60%; cattolici 26%; protestanti
7%; musulmani 6%.
Ordinamento statale: Repubblica presidenziale; membro
del Commonwealth, Onu, Oua, associato Ue.
Presidente e capo del governo: Daniel Arap Moi dal
1978. Dicembre 2002: elezioni presidenziali senza Moi.
Economia: agricoltura per esportazione: caffè, tè, ananas,
piretro, fiori, cereali; allevamento, specie tra i pastori
nomadi; turismo (377 milioni $ Usa nel 1997).
Indice sviluppo umano: 0,508 (130° su 174 paesi).
Analfabetismo: 17,5%.
Pil pro capite: 350 $ Usa (1998).
Debito estero pro capite: 242 $ Usa (1998).

FONTI CONSULTATE
Tutte le testimonianze e citazioni,
riportate nel presente articolo e
in quelli successivi, sono tratte con
qualche adattamento da: Francesco
Beardi, I MISSIONARI DELLA CONSOLATA
FRA I KIKUYU DEL KENYA, 1902-
1933, Torino 1980.
È una tesi di laurea in antropologia
culturale alla facoltà di Scienze
politiche del capoluogo piemontese,
che si avvale di tutti gli articoli
sui kikuyu pubblicati dalle
riviste mensili «LA CONSOLATA» e
«MISSIONI CONSOLATA» dal 1902 al
1933. La tesi valorizza pure diari
di missionari, non pubblicati, ma
esaminati da: Alberto Trevisiol, I
PRIMI MISSIONARI DELLA CONSOLATA NEL
KENYA, 1902-1905, Università Gregoriana
Editrice, Roma 1983.
Per un’introduzione alla storia e
cultura dei kikuyu fino all’arrivo dei
missionari della Consolata, si legga
il saggio di Francesco Beardi,
I KIKUYU DEL KENYA, in «Il popolo
kikuyu», Edizioni Missioni Consolata,
Roma 2001, pp. 11-30.
Circa l’impatto del cristianesimo
sulla cultura tradizionale kikuyu, si
veda: Silvana Bottignole, UNA CHIESA
AFRICANA SI INTERROGA, Morcelliana,
Brescia 1981.

GLOSSARIO KIKUYU E MERU
– Airitu: ragazze non iniziate
– Areki: sodalizio degli anziani
(meru), meno importante di «njuri»
– Askari (usato da europei): soldati
kenyani alle dipendenze degli
inglesi
– Athuri: classe degli anziani
– Mbu: grido di allarme nel pericolo
– Mugumu: albero sacro
– Mundu-mugo: medico tradizionale,
operatore magico, indovino,
stregone (volgarmente)
– Mungu (swahili): Dio
– Mware: suora missionaria
– Mwareki: singolare di «areki»
– Mwiritu: singolare di «airitu»
– Ngai (kikuyu): Dio
– Ngoma: spirito malvagio di un
defunto
– Njuri: classe degli anziani meru
– Patri: padre missionario
– Thahu: impurità rituale

CHI È II L DEMONIO?
Un punto focale, secondo la metodologia
missionaria di Murang’a,
fu la presentazione del messaggio
cristiano usando le categorie
mentali della cultura locale. Oggi si
parla di inculturazione del vangelo.
I missionari come si atteggiarono
di fronte a questa tematica? Va da sé
che, ai loro tempi, essi si sentirono
latori di una religione che doveva essere
più accettata che proposta. Ma
sorprende come la loro predicazione
si sia incarnata nell’habitat culturale
locale, assumendone talora la dialettica
concettuale.
Ecco un dialogo fra padre Cagliero
e i lavoratori della missione. Il tema
è: «Il diavolo non è l’anima dei
defunti».
– Chi è il diavolo? – chiese il padre.
– Non lo sappiamo. Dillo tu e lo sapremo
anche noi.
– Secondo voi, il diavolo è l’anima
dei morti. È così?
– Sì, padre. Quando uno si ammala,
uccidiamo un montone per offrirlo al
diavolo, dicendo: «Anima di mio padre
cessa di fargli del male».
– Ebbene, questo è errato. Se il demonio
fosse l’anima dei nostri genitori
defunti, come voi dite, come potrebbe
farci del male? Un genitore,
che da vivo ama i figli, morto che sia,
cessa forse di amarli?… Tu, per esempio,
quando sarai morto, maleficherai
i figli che ora ami? «No, mai!»
rispose l’interpellato.
– Allora, perché affermate che il diavolo
è lo spirito dei morti?
– Adesso che conosciamo la verità
non lo diremo più.
Lo stesso missionario si cimentò
con un articolo complesso del credo
cristiano: la divina figlianza adottiva
dell’uomo. «Per spiegarmi, mi servii
di un fatto comune fra i kikuyu.
Un fanciullo, senza genitori e parenti,
viene adottato da un altro nel
modo seguente: l’adottante uccide
un montone alla presenza dell’adottando,
riempie una tazza di sangue
e, dopo avee bevuto alquanto, la
porge da bere al fanciullo, che con
quell’atto diventa suo figlio. Così –
dissi – fa Iddio con gli uomini. Questi,
nascendo macchiati, sono senza
padre in cielo, sono anzi schiavi del
demonio; ma l’acqua del battesimo,
data dal padre, libera dalla schiavitù
del demonio e ci fa figli di Dio».
L’assemblea, attonita ed ammirata,
esclamò: «Costui è sapiente e sa
di tutto: conosce perfino i nostri costumi».
Una missionaria sfruttò la categoria
del thahu per spiegare il
peccato originale: come il primo è una
impurità che contamina, diffondendosi
a macchia d’olio, così il secondo
si trasmette di padre in figlio.
Ma il battesimo purifica tutto.

IL BUONO E IL CATTIIVO
Si è detto che i primi battesimi solenni
di adulti risalgono al 1909-
1911. Non è esatto. Il primo battesimo
fu quello di Waweru, mundumugo
di Murang’a, l’11 giugno 1905.
Mentre era catecumeno, un’epidemia
gli sterminò tutti i montoni. La
moglie l’accusò di essere lui la causa
della moria, perché favorevole alle
«dottrine del bianco», irritando
così gli antenati. Waweru rispondeva:
«No, no: i genitori vogliono sempre
bene ai loro figli, e i nostri vecchi
non hanno cessato di amarci. Iddio
è padrone dei nostri montoni: c’è
dunque da arrabbiarsi se egli dispone
delle cose sue?».
A chi gli consigliava di sacrificare
agli spiriti per placarli, dichiarava:
«Preferisco rivolgermi direttamente
a “Dio padrone”, il quale saprà bene
far cessare i miei infortuni». Fu battezzato
sfidando gli altri stregoni,
che lo tacciarono di tradimento.
Affascinante è la storia di Kagwe,
di Karima. Fabbro trentenne,
impazzì e bruciò la sua officina. Ustionato
in tutto il corpo, guarì, ma
non dalla pazzia. La fantasia popolare
lo circondò presto di un alone
mitico: figlio delle fiere, dormiva con
loro trasformandosi egli stesso in bestia;
si cibava di cadaveri come le iene,
lottava coi leoni. Godeva però di
intervalli di lucidità; anzi, erano
sempre più frequenti.
Un giorno ritoò sulle ceneri della
sua capanna, sotto lo sguardo curioso
di 40 stregoni, che decisero di
guarirlo del tutto e avviarlo alla magia.
Kagwe divenne mundu-mugo, la
cui fama valicò la regione, al punto
da scalzare quella di tutti gli altri 40
messi insieme.
Venuto a diverbio con il capo degli
stregoni, lo infilzò con la lancia
e gli succedette nella medesima dignità.
Uccise pure un soldato indigeno;
e fu sferzato con 20 colpi di kiboko
per 10 giorni consecutivi ed imprigionato
un anno.
Pessimi i rapporti con la missione.
Accusò il padre di aver causato la
meningite che decimò i kikuyu; ma
il missionario, proprio durante il processo
che dibatteva il caso, lo zittì.
Kagwe allora mutò tattica: cercò l’intesa
truccata con il rivale bianco.
E qui il tranello giocò lo stesso artefice,
a tal punto che una sera chiese
al patri il battesimo. «Tu!».
– Sì, io, Kagwe!
– Vedremo…
Quel «vedremo» comportò prove
interminabili. Quando ormai tutto era
pronto, ne arrivò ancora una, l’ultima,
la più ardua. «Kagwe, io ti battezzo,
ma a una condizione…».
– Quale?
– Che tu edifichi la tua casa presso la
missione.
Il mundu-mugo tentennava. L’indomani
disse: «Accetto». Però, sul
punto di costruire la capanna, buttò
via ogni strumento gridando: «No,
non posso!». Il padre escogitò un
compromesso: affidare il lavoro a operai.
L’8 settembre 1919 Kagwe, ex assassino
e mundu-mugo infausto, si
chiamò Giovanni Battista.

Quando lei osò… parlare
A Tetu e a Gikondi alcune ragazze catecumene si ribellarono alla poliginia,
determinando una situazione conflittuale.
Ma l’esempio più clamoroso di «femminismo», che coinvolse anche il missionario,
riguardò Wangare, accasata presso Kemoso. Il marito non aveva
ancora consegnato tutti i montoni pattuiti per «il prezzo della sposa» e,
per giunta, la bastonava.
La donna notificò il fatto al genitore, il quale, in vista del processo, cercò
il sostegno del patri. Al processo Wangare osò prendere la parola opponendosi
a Kemoso, che naturalmente si dichiarava innocente.
«Non l’avesse mai fatto! Esplose tutto l’antifemminismo dei kikuyu, con
l’aggiunta dell’assioma che le donne non hanno voce in capitolo. Ciò che
rovinava tutto era l’atteggiamento nuovo, contrario alla tradizione, di Wangare,
la femminista selvaggia, che non sapeva, non voleva tacere». Con un
gesto espressivo di protesta, gli anziani e il marito abbandonarono il processo.
La donna perse la battaglia e fu condannata, perché il suo intervento nel
processo fu giudicato un affronto al consiglio degli anziani. Fu condannata
perché lei, donna, aveva parlato in «pubblico», mentre le spettava solo
il «privato».

FRANCESCO BERNARDI




KENYA, AMORE NOSTRO

Sull’onda del cambiamento
I missionari
allargano
l’orizzonte:
da Meru
a Marsabit.
E non solo…

Ancora quattro missionari,
cavalcando «tre asini ed un cavallo
bigio abissino, scortati da due
cani», si mettono in viaggio alla «conquista»
del territorio dei MERU. Non mancano
scoraggiamenti e ritardi. Alla fine si
fondano alcune «roccheforti avanzate nel
cuore del paganesimo». È il 1911…
Nel 1964 è la volta del deserto
di Marsabit. Scrive padre Luigi Graiff
(poi martire nella terra dei SAMBURU):
«Quando arrivai non c’era nulla. I serpenti
erano i padroni assoluti. Capii che
un grande lavoro mi attendeva. Misurai
a lunghi passi i confini della futura
missione (Laisamis), mi rimboccai le
maniche e, con l’aiuto di alcuni
volenterosi, cominciai a rimuovere
le pietre».

SENZA MAI
ARRENDERSI

Resi ormai «esperti»
dal lavoro tra i kikuyu,
i missionari
si spingono più in là,
lasciandosi perfino
innamorare
da un posto sterile
come il «Tharaka»,
nella terra
dei meru…

I kikuyu furono «il primo amore»
dei missionari della Consolata in
Kenya. Fu tra loro che impegnarono
gli sforzi maggiori, cercando
di entrare in un mondo tutto da
scoprire. Ma il territorio kikuyu, attorno
a Nyeri, cominciava a diventare
stretto e lo sguardo, da tempo, si
spingeva oltre i confini imposti dal
governo inglese ai missionari italiani.
Verso il 1911, anche per gli europei
arrivò il permesso di varcare il
territorio dei meru… e mons. Filippo
Perlo non era rimasto ad aspettare.
Dopo un viaggio di esplorazione, si
era convinto che il nuovo territorio
era «incantevole, fertilissimo e molto
popolato»: per cui mise in atto la
sua strategia di «occupazione».
I primi quattro missionari (G. Balbo,
G. Aimo Boot, L. Olivero e G.
Toselli) cavalcando «tre asini ed un
cavallo bigio abissino, scortati da due
cani», si misero in viaggio alla «conquista
» del territorio. Non mancarono
incertezze, scoraggiamenti e ritardi,
ma alla fine vennero fondate
nel Meru «quattro roccheforti avanzate
nel cuore del paganesimo»: sono
Egoji, Mujwa, Tigania e Igembe.
Il ricominciare da capo, l’isolamento,
la nuova lingua, la scarsità di
mezzi, l’apparente disinteresse della
popolazione… resero la penetrazione
nel territorio lenta e logorante.

DOPO LA BUFERA
Non ci mancava che la prima guerra
mondiale, con il conseguente reclutamento
di portatori e soldati, a
bloccare il lavoro pastorale; poi carestie
ed epidemie, cui i missionari
cercarono di fare fronte con iniziative
di carità, che convinsero (finalmente!)
i meru ad avvicinarsi agli
«stranieri», venuti unicamente per
loro.
Dopo anni di provvisorietà, lo sviluppo
delle missioni prendeva slancio
con una sistemazione più decorosa
per padri e suore. Nel biennio
1924-25 le attività essenziali nel Meru
furono le nuove fondazioni (Embu,
Mikinduri e Kyeni) e il consolidamento
delle precedenti, tanto da
ritenere giunto il momento di rendere
indipendente la nuova realtà.
Il 10 marzo 1926 fu decretato dalla
Santa Sede lo smembramento del
vicariato apostolico del Kenya (che
prese il nome di Nyeri) e l’erezione
della prefettura apostolica di Meru.
Questa, secondo la relazione inviata
a Propaganda Fide, comprendeva:
1.940 cattolici, 850 protestanti, 300
mila pagani; vi lavoravano 10 padri,
2 fratelli coadiutori e 14 suore della
Consolata; coadiuvavano l’attività 52
catechisti e 36 maestri (per 20 scuole
maschili e 12 femminili). Prefetto
apostolico fu nominato padre Giovanni
Balbo, che (ahimè), pur essendo
un ottimo missionario, non risultò
all’altezza della situazione; tant’è che,
nel 1929 fu sostituito con padre Carlo
Re, missionario senza storia particolare,
che «trovò, nei calli delle sue
mani laboriose e nell’esperienza dei
due anni passati a Mikinduri, il coraggio
di accettare».
Sì, perché malumori e scontentezze
tra i missionari non mancavano:
le casse erano vuote, il personale
scarso e anche in Kenya si viveva la
drammatica situazione dell’Istituto,
sconquassato dalla «visita apostolica
» che stava mettendo in forse la
stessa sopravvivenza dell’opera voluta
dall’Allamano.
La tempesta, un po’ alla volta, cominciò
a diradarsi. Il piccolo drap-
pello di missionari non si lasciò vincere
dai problemi e, lentamente, il lavoro
trovò il verso giusto, anche se i
risultati (battesimi) non furono consistenti.

GUERRA, PRIGIONIA
E… MAU MAU

Nel 1936 fu padre Nepote Fus ad
assumere la responsabilità del vicariato
di Meru, che contava allora 15
padri, 6 fratelli coadiutori e una trentina
di suore: un bel passo avanti!
Il punto debole del lavoro missionario
erano però le scuole; tanto che
il nuovo responsabile sentì la necessità
di cercare personale preparato
soprattutto per questo. «Il Meru è
molto indietro e se si dorme…» – scriveva
ai superiori di Torino, sollecitando
un aiuto per le scuole, da lui ritenute
il problema più urgente per la
prefettura.
Purtroppo lo scoppio del secondo
conflitto mondiale segnò, ancora
una volta, l’arresto di ogni attività; i
missionari della Consolata diventati
«nemici» degli inglesi, furono deportati
nei campi di concentramento
in Sudafrica e sostituiti da missionari
inglesi, mentre migliaia di giovani
africani furono inviati sui campi
di battaglia. Costretti ad inattività, i
«prigionieri» approfittarono per perfezionare
la conoscenza della lingua
meru, compilae grammatica e dizionario,
tradurre la bibbia e i testi liturgici.
Non fu facile il rientro alle missioni
dopo la guerra, anche perché
l’essere italiano non era gradito alle
autorità. Ci vollero molta pazienza,
diplomazia e generosità per supera-
re le difficoltà…
Intanto, mentre si preparava l’indipendenza
del paese (1963), si scatenò
la «bufera» del movimento Mau
Mau. Furono momenti di paura e di
grande prova. Il «giuramento mau
mau», cui la popolazione veniva costretta,
obbligava a rinnegare il governo
e i missionari; in caso contrario,
ne derivavano attacchi, violenza
ed anche morte.
Le missioni furono prese d’assalto:
a Gikondi tre catechisti furono
uccisi, mentre presiedevano la preghiera
comunitaria; a Barichu le suore
Cecilia Wangeci e Rosetta Njeri
(della congregazione locale dell’Immacolata
Concezione) caddero vittime
della furia omicida; a Imenti il 28
settembre 1953 veniva trucidata suor
Eugenia Cavallo, mentre padre Edmondo
Cavicchi fu brutalmente picchiato
e padre Aldo Cremasco rimase
ferito da un’arma da fuoco.
Amministratore apostolico unico,
a Nyeri e Meru, era mons. Carlo Cavallera,
una figura dinamica che diede
slancio e coraggio ai missionari,
riorganizzò le scuole e i centri sanitari
e iniziò una grande politica di espansione
con «teste di ponte» per
occupare un territorio molto vasto.

ACQUA E STAMPELLE
Il 3 marzo 1954, altro cambio di
guardia: Meru, divenuta diocesi autonoma,
accoglieva il nuovo vescovo
Lorenzo Bessone. Favorito da buone
doti di amministratore, fu capace
di creare un clima di famiglia con i
suoi missionari, anche se la situazione
risentiva pesantemente del passaggio
dei Mau Mau; di questi si avvertivano
ancora le sacche terminali,
come la situazione delle scuole, dove
i maestri erano diminuiti del 35%.
Venendo anche ampliati i confini
della diocesi, si presentò subito l’urgenza
di nuovo personale, cui il vescovo
pensò con l’istituzione di un
seminario per preti locali: la prima
pietra fu posta il 3 settembre 1955.
L’anno seguente il vescovo iniziava
la congregazione delle Nazareth
Sisters of Annunciation per l’istruzione
religiosa e l’opera sociale nel
campo femminile.
Le prime e vaste missioni vennero
smembrate e ne sorsero di nuove, affidate
a padri coraggiosi e intraprendenti come Giovanni Bonzanino,
Luigi Eandi (cfr. box), Angelo Sala…
e soprattutto un piccolo drappello di
coadiutori. Tra questi, il mitico fratel
Giuseppe Argese: insieme ad altri, egli
sconfisse il dramma della mancanza
d’acqua, creando con intelligenza
e fantasia un acquedotto di 270
chilometri, che ancora oggi sa… di miracolo.
Significativa al riguardo la testimonianza
di una donna del posto:
«Passeranno tanti anni, molti saranno
dimenticati, ma noi non dimenticheremo
mai i fratelli dell’acqua».
Di fronte alle carenze sanitarie
della popolazione, la diocesi si impegnò
a tutto campo per la realizzazione
di dispensari e ospedali, alcuni dei
quali famosi come quello di Nkubu
e Kyeni, elogiato dallo stesso presidente
Kenyatta. Fiore all’occhiello
divenne, poi, il centro per bambini
handicappati di Tuuru, iniziato da
padre Franco Soldati e capace di operare
i «miracoli delle stampelle»,
non solo per il recupero fisico dei
piccoli, ma per l’affetto (dei missionari
e della gente) con cui vennero
circondati. L’opera fu affidata
nel 1972 alle
suore del Cottolengo,
che ritornarono
così, dopo quasi 70
anni, a lavorare accanto
ai missionari
della Consolata, in
quel Kenya
che le aveva viste tra i pionieri.
Le suore della Consolata diedero
il loro contributo nella promozione
della donna con il «Centro sociale
femminile» di Getoro (alla periferia
di Meru) e una serie di corsi per assistenti
sociali, segretarie d’azienda,
assistenti all’infanzia.
Lentamente, ma tenacemente, la
chiesa di Meru poteva camminare
con le proprie gambe; finito il tempo
dei pionieri, si camminava verso la
maturità. E questo avvenne il 2 ottobre
1975, quando mons. Silas Silvius
Njru, originario della diocesi, veniva
nominato vescovo di Meru.
L’anno seguente, all’ospedale di
Nkubu si spegneva mons. Bessone:
dopo 22 anni, lasciava in diocesi ben
200 mila cristiani e tante opere sociali
e religiose. Scrisse di lui padre Bonzanino:
«Le chiese, le scuole, le cappelle,
gli ospedali, i dispensari, i seminari
che spuntarono a Meru in 20
anni di attività sbalordiscono. Questo
lavoro gli calzava come un guanto
in una mano ben fatta. Era il vescovo
che ci voleva per una diocesi
nuova, la più vasta del Kenya, dove
c’era tutto da fare. Adesso che lui
non c’è più, resta quello che ha fatto.
E non c’è nulla da ritoccare, perché
fu fatto bene… alla Bessone!».
O, meglio, all’«Allamano».

SIINO IN FONDO
AEgandene (Meru) la raccolta prometteva bene. C’era una cristianità
giovane, dove il battesimo non era soltanto un bel rito. C’era una
chiesa viva, sana, non handicappata da sfasature o compromessi. C’erano
debolezze e difetti, perché un cristiano, anche quando ce la mette
tutta, non è mai un angelo, è soltanto un santo in «potenza». E c’era
un missionario che, mezzo eroe e mezzo profeta, ci viveva dentro. Un
missionario che non aveva nulla di singolare, se non la tempra di un uomo
diritto e onesto. Non gli fu concesso di vivere a lungo. Quando è
morto, non aveva ancora 40 anni. Non si era ancora rimesso dalla gioia
di essere missionario, dal desiderio di pregare, di ringraziare, di adorare
e di lavorare. Nei suoi pochi anni di missione amò Egandene e la sua
gente, dalla quale fu riamato con grande sincerità.
Quando un missionario ama ed è amato come padre Luigi Eandi (1932-
1970), può morire in qualsiasi momento senza rimorsi e in qualunque
modo. Anche con un tuffo dall’alto, dentro uno stagno d’acqua sporca.
Come morì lui, all’improvviso, in un pomeriggio di sole. Quando lo ritrovarono,
il volto era sfigurato, vischioso, gonfio. Non aveva più nulla
di quell’espressione grave e serena d’un tempo. Più nulla di quel sorriso
giovane e spontaneo, che è un prodotto della grazia di Dio. Perché
era passato all’aldilà, oltre il tempo, ricongiunto finalmente al suo Dio
per cui era vissuto.
Gli anni passano a Egandene e la intensa memoria di padre Eandi resta.
Perché è stato un missionario che non è rimasto a mezza strada. È
andato fino in fondo e il suo essere in Africa è stata la sua vita. È stato
duro, ostinato, anti-fariseo, vigoroso, e ha calcato la mano, ma sempre
alla misura del vangelo e dell’amore. È stato un uomo che con semplicità,
chiarezza e amore ha cercato di viverla. L’ha vissuta sui colli di Egandene,
dove si è accalcati di verde, dove misere capanne sembrano
navate di basiliche, dove la gente vive in una liturgia di povertà, e dove
si vedono brecce d’azzurro tra la nuvolaglia itinerante sui bianchi picchi
del Kenya.
P. GIOVANNI BONZANINO

TRA PAURA E CORAGGIIO
Nel 1945 venne fondato in Kenya il
«Kenya African Union» (Kanu), un
partito politico che rivendicava l’indipendenza
della colonia dagli inglesi e che
ebbe, nel 1946, come presidente Jomo
Kenyatta, rientrato nel paese dopo 15
anni di esilio. Nonostante i comizi infiammati
e le pubblicazioni inneggianti
alla libertà, il partito seppe mantenersi
nei binari della legalità rifiutando, per
principio, la violenza fisica e l’opposizione
armata.
Visti gli scarsi risultati, sorse, accanto
al Kanu, un‘altra formazione, che scelse
la violenza, il terrore e la clandestinità
come strategia per ottenere l’allontanamento
dei bianchi e l’indipendenza. Era
il movimento Mau Mau, che fece la sua
comparsa nel 1950 nel distretto di Kiambu,
vicino a Nairobi e a Naivasha. Era
guidato soprattutto dai kikuyu, che contavano
la maggioranza dei contadini senza
terra e dei disoccupati usciti dalle
scuole. Si presentava come una società
segreta e, tra gli obiettivi, non si prefisse
solo l’indipendenza del Kenya, ma anche
il recupero delle terre sottratte dai
bianchi e il ritorno alla cultura tradizionale
secondo i costumi, le tradizioni e la
religiosità degli antenati. Per questo anche
i missionari erano, in un certo senso,
nel mirino dei rivoluzionari decisi a
tutto, pur di raggiungere il loro scopo.
L’affiliazione alla società segreta avveniva
tramite un giuramento: si rinnegava
il battesimo e le convinzioni cristiane,
si dichiarava odio ai bianchi e ci
si impegnava a lottare con ogni mezzo,
accettando le conseguenze funeste in caso
di mancato adempimento ai doveri
della Mau Mau. «Se userai ancora il tuo
nome cristiano, che tu sia ucciso da questo
giuramento!».
All’inizio i missionari e il governo non
considerarono l’impatto del movimento
sulla popolazione, sottovalutandone
la pericolosità. Un’azione eclatante
ne rivelò, tuttavia, la consistenza nell’ottobre
del 1952, quando, in occasione
dell’arrivo del nuovo governatore della
colonia, sir Evelyn Baring, venne ucciso
il capo kikuyu Warouhiou, collaborazionista
dei bianchi. L’attentato convinse
le autorità a prendere la cosa sul serio e
ad opporsi con tutti i mezzi.
Iniziò così una lunga serie di attentati
e scontri, vendette e guerriglie, che si
protrasse per anni. Nel 1953 Yomo
Kenyatta, presidente del Kanu, fu condannato
come leader del movimento a
sette anni di prigione e poi a domicilio
coatto fino al 1961.
Carlo Cavallera, vescovo di Nyeri, e i
missionari vissero quegli anni con paura,
ma rifiutarono di abbandonare i loro posti,
anche se cercarono di difendersi evitando
le occasioni di pericolo, costruendo
case solide e appoggiandosi alle forze
di polizia. Il vescovo, soprattutto, interpretò
la drammatica situazione in chiave
di fede, preoccupato del pericolo di apostasia
dei cristiani.
Il 16 maggio 1952 scrisse una lettera
pastorale sui Mau Mau, condannando il
movimento: loro scopo è quello di distruggere
la chiesa di Cristo, iniettando
nelle persone «false brame di progresso
con un’incomprensibile ingratitudine per
gli innumerevoli benefici ricevuti dalla
chiesa e dal governo»; costituiscono un
pericolo di perversione per gli aderenti,
costretti al giuramento e a seguire «l’istinto
brutale delle loro malvagie passioni,
il loro orgoglio infantile e l’impulso
alla ribellione»; l’adesione ai Mau Mau
è proibita dalla chiesa per essere «un sacrilego
movimento» e dal governo, in
quanto impedisce «di tutelare il buon ordine
del paese».
Per contrastarlo, il vescovo non trovò
di meglio che fargli fronte con un «partito
cristiano», che promuovesse il benessere
della colonia e attirasse le simpatie
dei giovani per gli ideali di progresso;
per coloro che entravano a far
parte del movimento Mau Mau c’era la
scomunica!
I missionari temevano l’odio antireligioso
del movimento e certe azioni li convinsero
nel loro timore.
«La sera del 30 novembre si avvicinò
una gang di Mau Mau vestiti da poliziotti…
Entrarono in chiesa, spaccarono il
tabeacolo e, estratta la pisside e il ciborio
dell’ostia grande, le sparsero sulla
predella e sull’altare dicendo che non esiste
Gesù Cristo e che il solo dio è Yomo
Kenyatta… Si dissero comunisti!».
L’autorità inglese trovò in mons. Cavallera
un collaboratore, di cui fidarsi.
Per sicurezza, la popolazione fu costretta
a riunirsi in circa 450 villaggi di emergenza,
circondati da filo spinato, siepi
e steccati, con severe regole di entrata
e uscita. Qui, però, ben presto la gente
soffrì la fame e ogni malattia.
Èperò impressionante rilevare come
tutte le testimonianze della gente
sottolineino con gratitudine l’aiuto dei
missionari durante l’emergenza.
Ad esempio, padre Francesco Comoglio
è ricordato per avere «salvato molti cristiani
e persino dei detenuti»; padre Bartolomeo
Favaro è considerato «un vero
artefice di pace e questo lo si potè notare
soprattutto durante la sollevazione dei
Mau Mau, quando aiutò molta gente che,
altrimenti, sarebbe morta»; o ancora padre
Bartolomeo Negro, lodato «perché aveva
salvato molte vite e nutrito tante
famiglie con i fondi della parrocchia».
Ha scritto Joseph Ki-Zerbo nella sua
«Storia dell’Africa Nera»: «Il bilancio
ufficiale dei Mau Mau è di 7.811 morti
e oltre 100 mila prigionieri; quello riguardante
le forze dell’ordine è di 460 africani
e 68 europei, morti tra militari e
civili».
Le azioni militari durarono fino a tutto
il 1954; ma la tensione continuò fino
al 1960 (con strascichi locali fino al
1963), quando il Kenya raggiunse l’indipendenza
e Jomo Kenyatta ne fu il primo
presidente.

La dentiera di Filippo
Filippo è un cristiano molto in gamba.
Lo chiamo «il martire». Ed ecco il perché.
Erano gli anni della guerriglia per l’indipendenza
del Kenya. Quella che in
Europa fu chiamata la rivolta dei Mau
Mau e qui «emergenza»…
Filippo scelse la via della fedeltà a Cristo
e al suo dovere di maestro. Nonostante
le minacce di morte, continuò a
fare scuola. E pagò caro il suo coraggio.
Gli chiesi un giorno:
Filippo, non avevi paura che un giorno
o l’altro ti avrebbero fatto fuori?
– Eh sì! Speravo sempre di no, ma ne
vedevo tanta di gente massacrata. Sapevo
di essere dalla parte del Signore e
Lui mi dava forza.
Com’è che ti hanno assalito e non ti
hanno ammazzato?
– Non lo so. Toavo da scuola. Mi vidi
circondato dai Mau Mau. Tentai di
scappare, ma mi furono addosso. Capii
che ero finito. Caddi in ginocchio e mi
misi a recitare l’Ave Maria. A quel tempo
pregavo molto la Madre di Gesù che
mi aiutasse nell’ora della morte. Non
so cosa mi accadde. Aprii gli occhi e vidi
qualcuno che mi soccorreva.
Cos’era capitato?
– Non so. Forse, sentendo arrivare gente,
sono scappati. Forse hanno creduto
che fossi morto. Sai, io non gridavo,
pregavo. Forse è stata la Madonna che,
in quell’ora di morte, ha avuto compassione
della mia famiglia. Il fatto è che
sono passati 15 anni e io sono ancora
qui, sano e salvo. Sia ringraziato il Signore,
che è stato davvero buono con
me…
«Beh, proprio sano e salvo non direi –
mi disse alcuni giorni dopo Donatella,
la suora infermiera. Sai perché porta il
bastone? Non fu possibile aggiustargli
il ginocchio».
– Sì, ho visto.
– Hai notato che bei denti ha? Glieli ha
messi il vescovo.
– Oh bella! Non sapevo che il vescovo
facesse anche il dentista.
– Non capisci niente! Glieli ha fatti mettere
il vescovo, perché i suoi erano partiti
tutti. E come avrebbe fatto a masticare
granoturco e fagioli?… Che paura
quel giorno! Ero qui in ambulatorio come
adesso. Non mi avevano mai minacciata.
Curavo anche loro, i Mau Mau.
Ne avevano un gran bisogno, poveretti,
con la vita grama che conducevano nella
foresta. Sentii delle grandi urla che
aumentavano sempre più. Poi mi parve
di sentire le parole «ammazzato… Filippo». Sono corsa fuori. Che orrore! Tutto
sangue. Vedevo solo sangue. Era
proprio Filippo. Cosa potevo fare?
L’ho lavato, disinfettato e fasciato in
tutta fretta. Poi il padre l’ha portato all’ospedale.
Se chiudo gli occhi, lo vedo
ancora. Tu scherzi quando lo chiami «il
martire», ma lo è davvero.
– Sorella, io non scherzo affatto. Gli voglio
un gran bene e mi sento una pulce
davanti a lui.
GIUSEPPE MAGGIONI,
autore di «Storie africane», EMI,
Bologna 1987

A PIEDI, SOTTO IL SOLE
I missionari protestanti e cattolici cominciarono ad
aprire missioni nella «Riserva Africana del Forte
Meru» nella prima decade del 1900, piazzandosi sull’altopiano
nei pressi di Meru. Vedevano bene quel posto…
I cattolici diedero un’occhiata pure alla regione
del Tharaka: la giudicarono un «foo» inospitale
e poco popolato. Scarsi di numero e mezzi, si consacrarono
ai soli altopiani popolati e climaticamente più
ospitali del Kenya e del Nyambene, in attesa di tempi
migliori.
Ma nel ’50 il vescovo Carlo Cavallera ruppe ogni indugio:
Gesù offriva la sua salvezza anche ai Tharaka
e, quindi, anch’essi avevano diritto a godee i benefici:
come pure quelli che l’Europa poteva offrire loro
con lo sviluppo tecnico e culturale. Accompagnato dal
meglio navigato padre Vittorio Pacchiardo e guidato
dal capo Mburugu, il vescovo consacrò 9 giorni al Tharaka:
lo esplorò in lungo e in largo e incontrò più gente
possibile per pianificare con intelligenza e saggezza
l’attività missionaria. Nel suo diario il vescovo annotò:
«A piedi e sotto il sole». Una nota scaa, che ai missionari
andati poi a risiedere parla di fatiche e costanza
degne di grande ammirazione.
L’anno seguente prese il via Ntonyai Mission: non
era però nel Tharaka, ma ai suoi margini e raggiungibile
da Meru solo con la pista carrozzabile. Quella gente
ne fu felicissima, perché si era accorta dello sviluppo
sociale portato dalle missioni sull’altopiano del
Meru. Tanto che il capo Muraga si fece subito avanti
per offrire il terreno necessario per due scuole e a richiedere
altri missionari.
Ntonyai Mission ebbe vita travagliata e breve per
la forte opposizione dei metodisti di Meru Mission, che
ritenevano la zona loro feudo missionario, e per lo svilupparsi
della guerriglia mau mau.
Passata la bufera, padre Pietro Fissore, il fondatore
di Ntonyai, decise di spostare il centro della missione
nel cuore del popolo tharaka e dette il via a Materi
nel sud. Fu così più facile seminare nel Tharaka
scuole e cappelle, catecumeni e cristiani.
La scuola-cappella fondata presso il mercato di Gatunga,
quasi 30 km più a nord, prese un avvio molto
promettente. Veniva seguita con attenzioni particolari:
messa ogni domenica e tre visite settimanali dell’ambulatorio
mobile. Nel ’63 Gatunga contava già 900
cristiani e 10 scuole-cappelle con buoni catecumenati.
Fu, quindi, più che naturale promuovere quella
succursale a sede di missione, per assicurare un’adeguata
assistenza al Tharaka del nord.
Nacque così «Gatunga Mission». Il fondatore fu
padre Guido Baggio, un artista come pochi. Ma si adattò
a vivere in una capanna di fango e paglia, a costruire
blocchi di sabbia e cemento, a cuocere mattoni
al sole per rendere il centro della missione più ospitale
per i suoi successori.
Non era facile vivere a Gatunga. Una decina di anni
dopo, padre Aimone Rondina scrisse: «Posto da dissodare,
primitivo. C’è bisogno di acqua e cibo prima
che di istruzione… Un popolo duro e difficile come la
terra che coltivano. Vivono di bestiame e miglio. Lottano
per la vita. Il Tharaka è posto malarico e vi sono
numerosissime altre malattie cagionate da malnutrizione
e mancanza di vitamine. Paese poco ben servito
climaticamente».

Èbene
ricordare prima di tutto che qui, tra i meru, al
contrario dei nostri paesi cosiddetti civili, la chioma
è curata in maniera tutta speciale dal sesso forte…
poiché le donne vanno abitualmente rasate e rasate
proprio completamente. Gli uomini, invece, se i capelli
donati loro da madre natura s’attardano ad allungarsi
sì da potersi fare un bel codino, te li allungano con cordicelle
e fili, impiastricciando tutto di ocra rossa, così
che capelli veri e aggiunta di cordini, diventano un quid
unum e danno materia per abbellire il bellimbusto che,
quando ha il codino, si crede
giunto all’apogeo della
bellezza.
Il neonato dev’essere rasato
al terzo o quinto giorno
dalla nascita e, finché
non sono tagliati questi capelli,
la madre non può uscire
di casa. Non può essere
rasata per allontanare e
seppellire (insieme coi capelli
raschiati) tutto quel
non so che di sacro e inviolabile
che ha la capanna,
dove abita col bimbo nei
primi giorni della nascita. Il
bimbo rasato può essere
portato a vedere ai parenti
e anche il padre, per lo meno
di sotterfugio, potrà dargli
un’occhiata; la madre è
libera d’attendere alle sue
consuete occupazioni e i capelli,
oggetto di tanto terrore,
sono con ogni riguardo
seppelliti ai piedi del letto
della madre, perché piede
profano non calpesti la
«mambura» (capigliatura)
del neonato.
Però, col crescere del bimbo, ricrescono i capelli e crescono
davvero, perché per tagliarli una seconda volta,
occorre ancora più solennità. Si richiede la presenza dello
stregone e, si sa, costui non lavora gratis: occorre un
montone, che viene ucciso per la cerimonia e la cui carne
e pelle sarà la sua paga. Ma, tra i meru, vi sono molti,
anzi troppi poveracci che difficilmente trovano tanto
presto il montone necessario; intanto si aspetta e il
bimbo cresce fino a sei, dieci e più anni e… i capelli non
sono più riccioli spioventi sulle spalle, ma formano una
boscaglia aspra o forte «che nel cor rinserra… ogni
lordura». Oh, non importa! Nessuno li tocca, nessuno li
deve toccare: sono cosa sacra!
Ricordo un fatterello. Tra i marmocchi che frequentavano
la scuola di Egoji, parecchi anni fa, c’era un
ragazzetto di una dozzina d’anni, molto, ma molto intelligente
e anche tanto,
ma tanto bravino, che si attirò
l’attenzione premurosa
della suora maestra. E davvero
faceva progressi a
scuola; ma la maestra, poveretta,
ogni volta che doveva
avvicinarlo per raddrizzargli
la penna in mano
o che so io, sentiva una ripugnanza
indescrivibile,
ché il ragazzo aveva appunto
in testa una di quelle capigliature
arruffate e incolte
da più di dieci anni.
Un bel giorno le venne un’idea
e, senz’altro, prese le
forbici, s’improvvisò parrucchiera
per amore del
prossimo; e il ragazzetto fu
libero dalla boscaglia!
Venne poi il pandemonio
quando il bimbo toò a casa.
Padre e madre, come
spiritati, giunsero alla missione.
Era troppo l’insulto
fatto loro, quasi non avessero
un montone per chiamare
lo stregone a tagliare
i capelli al loro Kaibi. Chi
salvò la faccenda, oltre la mia barba un poco temuta,
fu l’osservazione di un vecchio, presente alla scena, che
tagliò corto dicendo che non c’era nessun problema, perché
i capelli non erano stati «rasati», ma semplicemente
tagliati con le «magazi» (forbici). E fu fatta la
pace…
P. ANGELO BELLANI

FRA LE ROSE DEL DESERTO
È quasi l’ultima tappa di un «andare sempre più in là»,
fino agli estremi confini del Kenya.
Il piccolo seme è diventato un albero dai molti frutti.
Alcuni, anche rossi di sangue…

Dopo Meru, arriva Marsabit.
Questa «diocesi del deserto»,
nel nord del Kenya, nacque
dalla stima di Paolo VI per il vescovo
Carlo Cavallera e crebbe in fretta,
grazie alla dedizione sconfinata di
una trentina di missionari e suore,
con un piccolo gruppo di cornoperatori
laici.

SASSI E SERPENTI
Niente giustificava, il 4 novembre
1964, l’erezione di una nuova diocesi
in un territorio arido, poco popolato
da pastori nomadi. Fino al 1963
il governo vi permetteva a stento la
residenza agli europei. Ma era un sogno
antico che si realizzava, risalente
addirittura a monsignor Filippo
Perlo, quando nel 1902 pensava già
all’evangelizzazione dei masai.
Un contatto con il nord, i missionari
della Consolata l’avevano avuto
nel 1914 quando, con una sfortunata
spedizione guidata da padre Angelo
Dal Canton, tentarono di penetrare
in Etiopia. Rispediti indietro,
rimasero a Moyale per tre anni (in attesa
del permesso di tornare a Nyeri)
e ne approfittarono per un apostolato
spicciolo. Un’altra occasione
persa la si ebbe nel 1925, quando,
per mancanza di mezzi e personale, i
missionari declinarono l’invito del
governo inglese ad aprire un dispensario
a Marsabit, battuti dagli anglicani
che vi si installarono nel 1931.
Però nel 1948 Carlo Cavallera, vicario
apostolico di Nyeri e amministratore
della prefettura di Meru, decise
di «esplorare» il vasto territorio
a lui affidato, fino agli estremi confini
della Northe Province, per studiare
la possibilità di una presenza
stabile. Prese contatto con i capi locali,
discusse con le autorità civili, conobbe
la sparuta e isolata presenza
dei cattolici: instancabile e deciso a
trovare una fessura in quel vasto e inospitale
territorio e iniziare l’evangelizzazione
delle varie tribù presenti
(turkana, samburu, masai, rendille,
gabbra, el molo, ecc.).
Le esplorazioni del vescovo continuarono,
finché nel 1951 arrivò il
sospirato permesso di una prima installazione
a Baragoi. La missione divenne
operativa l’anno successivo,
con padre Carlo Andrione e, in seguito,
con tre suore della Consolata.
Nel 1963 nacquero contemporaneamente
le missioni di Laisamis, Archer’s
Post e Marsabit.
Inutile tentare di raccontare in poche
righe le difficoltà a installarsi in
posti simili: difficoltà di trasporti, isolamento,
malaria, caldo soffocante
e soggiorno in tenda rendevano
l’impresa quasi eroica. Scrisse padre
Luigi Graiff, iniziando la missione di
Laisamis: «Quando arrivai non c’era
nulla. I serpenti erano i padroni assoluti.
Compresi subito che un grande
lavoro mi attendeva. Misurai a
lunghi passi i confini della futura
missione, mi rimboccai le maniche e,
con l’aiuto di alcuni volenterosi, cominciai
a rimuovere le pietre».
C’era tutto da fare e la prima cosa
era dare al territorio, dal punto di vista
ecclesiale, un’autonomia giuridica.
La cosa fu facilitata dal vescovo
Cavallera che bruciò le tappe: nonostante
le esitazioni da parte delle autorità
romane, si offrì a diventare il
primo pastore di quella diocesi desertica,
lasciando la ben avviata chiesa
di Nyeri al vescovo africano Cesare
Gatimu.
Il 25 novembre 1964 veniva così
eretta la diocesi di Marsabit e, il 25
febbraio dell’anno seguente, con un
rituale sobrio ed essenziale, il coraggioso
missionario «prendeva possesso
» del nuovo campo di lavoro.

SANGUE SULLA SABBIA
Non erano solo le condizioni ambientali
a rendere difficile l’evangelizzazione.
Il contesto era totalmente
diverso da quello sperimentato dai
missionari fra i kikuyu e i meru con
popolazioni agricole e sedentarie. Invece
le tribù che pascolavano le mandrie
nel vasto bacino, confinante con
Etiopia e Somalia, potevano avere
con i missionari soltanto sporadici
contatti. Quindi anche la metodologia
missionaria doveva essere diversa:
più mobile e capace di adattarsi
alla situazione.
Data la precarietà, le prime attenzioni
furono rivolte alla situazione sanitaria,
con dispensari, cliniche mobili
e, soprattutto, con la realizzazione
dell’ospedale di Wamba, uno dei
progetti più sofferti ed ambiziosi.
Nato dal nulla nel 1969, con 40 posti
letto, fu reso possibile dalla generosità
di tante persone (benefattori,
amici, medici, missionari) e, specialmente,
dalla presenza del dottor Silvio Prandoni, insostituibile figura di
medico dalla generosità sconfinata.
Accanto all’ospedale, nel 1967 sorgeva
pure una «clinica oculistica»,
grazie all’interessamento del prof.
Angelo Vannini (di Torino), padre
Mario Valli e una lunga serie di oculisti
italiani che vi si recavano, alternandosi,
per brevi periodi di lavoro.
Nel campo dell’istruzione ci si impegnò
per scuole secondarie, decine
di scuole elementari, matee e una
di arti e mestieri, superando la non
piccola difficoltà di avere insegnanti
preparati in luoghi così lontani e inospitali.
Una triste nota che caratterizzò
il lavoro di mons. Cavallera
furono le ricorrenti siccità, che costrinsero
il vescovo alla ricerca ossessiva
di aiuti all’estero e ad organizzare
le missioni, perché fossero
centri di assistenza a gente stremata
dalla fame.
La presenza nel territorio di Marsabit
aveva come scopo primario l’evangelizzazione,
che si rivelò però
più difficile del previsto per il carattere
mobile delle popolazioni, l’insicurezza
causata dai predatori shifta e
anche l’influenza (in alcuni posti) dei
musulmani. Per questo i missionari
puntarono la loro azione su tre direzioni,
con una strategia che teneva
conto non solo delle forze umane e,
soprattutto, della fede (era il «pallino» del vescovo).
In primo luogo, una «presenza»
costante ai «piedi dell’Eucaristia»: in
modo che, in tutta la giornata, venisse
garantita nell’intera diocesi la preghiera
continua. Poi fu curata la pastorale
scolastica, affinché gli alunni
ricevessero una formazione cristiana
(oltre che un esempio di vita), così da
far nascere in loro l’esigenza di chiedere
il battesimo e costituire nuove
comunità. E, infine, studio serio delle
(difficili) lingue locali, insieme a usi
e costumi, per inculturare il messaggio
del vangelo, conoscere la gente
in profondità e rispondere ai loro
bisogni.
Il vescovo sognava anche una «pastorale
nomade». Ma l’impresa si rivelò
difficile, sia perché il governo
impose ai missionari la residenza fissa,
in luoghi sicuri e protetti dalla polizia,
sia perché la «squadra volante»
di padri, destinata a seguire gli spostamenti
dei nomadi, ripiegò sulla
creazione di strutture di aiuto che,
gradualmente, divennero stabili; più
che fare gli itineranti, i missionari si
dedicarono a sviluppare i posti difficili
e lontani.
Fondamentale si rivelò anche l’opera
dei catechisti e catechiste, per i
quali fu creato il Centro pastorale di
Maralal, attentamente studiato e adattato
alle esigenze locali. E prese
sempre più corpo l’idea che fosse ormai
giunto il momento di pensare a
preti locali. Dopo lunghe riflessioni,
nel 1979 si aprì il seminario «Buon
Pastore», da cui uscirà nel 1988 il primo
sacerdote samburu, Dominic Lesaion.
Intanto la forte fibra del vescovo
Cavallera cominciava a cedere, sotto
la spinta di una lunga e intensa attività,
svolta in condizioni disagevoli;
dopo 36 anni di episcopato al servizio
della chiesa kenyana, le sue dimissioni
furono accolte il 12 luglio
1981. Ritiratosi a Torino, potè realizzare
quello che era sempre stato il
suo sogno: preghiera e contemplazione.
Al suo posto arrivò padre Ambrogio
Ravasi, presente in Kenya da
una decina d’anni, che dovette sobbarcarsi
la non facile eredità dell’infaticabile
predecessore: vi riuscì con
il suo ottimismo, semplicità, realismo
pastorale e vicinanza patea a tutti.
Ultima tappa nelle vicende della
diocesi di Marsabit è stata la sua divisione,
con la creazione della nuova
diocesi di Maralal, per la quale veniva
nominato vescovo Virgilio Pante,
consacrato il 6 ottobre 2001. Il vescovo
giusto: veterano del posto, appassionato
di moto e caccia, profondo
conoscitore degli usi e costumi locali,
vero «nomade» del Signore!

SAPER RICOMINCIARE
Dopo il Concilio ecumenico Vaticano
II, la chiesa entrava in una fase
di rinnovamento; c’era voglia di cambio,
novità, vie pastorali non ancora
battute. Anche la missione non rimase
indenne al vento dell’«aggioamento», anche se dovette fare i
conti con il calo drastico di vocazioni
e la critica (talvolta ingiusta) ai metodi
del passato, considerati lesivi
delle culture e dei diritti dei popoli.
Maturava anche una nuova «strategia
», che riconosceva ai missionari
non più il ruolo di protagonisti, bensì
quello di (umili) «accompagnatori
» delle chiese locali, fino alla loro
piena autonomia. Famosa la definizione
di missionario, che circolava in
quei tempi: «Straniero, in casa di mio
padre». Si parlava di «trapasso», con
l’evidente allusione al sacrificio e al
distacco materiale che il missionario
era chiamato ad affrontare, nel momento
di affidare la sua «creatura»
ad altre mani. Nel frattempo doveva
imparare a collaborare con altre forze
che cominciavano a fare capolino:
come i laici missionari che, da pochi,
diventavano una presenza stabile e
consistente; o come i sacerdoti fidei
donum, presenti dai primi anni ’60, a
cui verrà affidata, nel 1996, la diocesi
di Isiolo, «figlia» della missionemadre
di Mujwa (Meru).
E si faceva sempre più strada una
parola capace di far rizzare i capelli e
battere il cuore, soprattutto ai missionari
di una certa età: «ridimensionamento
», ossia ridurre le presenze
nelle diocesi ormai consolidate. La
scelta poteva far pensare a una fatale
necessità dell’istituto, causata dall’inesorabile
e lenta riduzione di personale;
ma, sul versante positivo, diventava
pure la strada obbligata per
riqualificare le presenze in situazioni
più consone all’ad gentes.
Non è che i vescovi africani fossero
tanto d’accordo. Mons. Gatimu,
vescovo di Nyeri, scriveva ai superiori
di Torino: «Non mi si portino
via i missionari migliori per la mia
diocesi; se non ne approfittiamo ora,
domani potrebbe essere troppo tardi!…
». Ma il ridimensionamento era
(ed è) una «cura» obbligata e cominciò
ad attuarsi. I 224 missionari,
presenti in Kenya nel 1975, scesero a
171 nell’81, quando il settimo Capitolo
generale affrontò il problema
delle nuove presenze sul territorio.
Vennero lasciate missioni «storiche
», iniziate da zero dai primi missionari,
come Embu, Kyeni, Chuka,
Gikondi, Nyeri (il «Vaticano» della
Consolata, dato il complesso di opere:
parrocchia, tipografia, centro catechistico,
ospedale, ecc.), Murang’a,
Nanyuki, Karatina… per scegliere situazioni
di «frontiera»: come tra i
musulmani di Mombasa (1991); o a
Chiga (1992) tra il popolo dei luo, in
diocesi di Kisumu; o nella periferia di
Nairobi, tra i baraccati degli slums a
Kahawa (1993) e Lileleshwa (2001).
Emergeva, inoltre, tra i missionari
una nuova priorità: quella dell’animazione
missionaria e vocazionale,
che assorbe ancora oggi persone e
mezzi, spingendo a nuove presenze
anche fuori dal Kenya, come a Kampala
(Uganda).
Per anni il Kenya ha accolto evangelizzatori
che venivano dall’estero:
un dono prezioso, che ha permesso
a questa chiesa di diventare adulta e,
a sua volta, di restituire ad altri il dono
ricevuto. È un salto di qualità, che
rivela come il lavoro missionario abbia
dato i suoi frutti.
Oggi sono 121 i missionari della
Consolata kenyani, la maggior parte
dei quali è sparsa nei vari paesi del
mondo; ultimo, la Corea del Sud, che
ha appena accolto Joseph Otieno e
Peter Njoroge, due giovani freschi di
ordinazione e decisi ad affrontare una
cultura (e una lingua) così lontana
dalla loro.
Chi avrebbe mai pensato che la
Consolata, assumendo pure il volto
kenyano, arrivasse a tanto?

ATLETA, SOLDATO, CONTEMPLATIVO
Nell’apostolato Carlo Cavallera è impegnato non solo ad amministrare
battesimi, ma ad evangelizzare le culture. Iniziando la missione di
Marsabit, ha ben chiaro in mente che, nell’inculturazione del vangelo,
gli agenti principali sono gli stessi nomadi. Essi, perciò, devono vivere
la fede cristiana in armonia con la loro identità culturale ed esprimere
la propria maturità ecclesiale con il favorire la nascita di vocazioni sacerdotali.
Il vescovo si spende tutto per l’evangelizzazione:
la sua vita è la corsa di un atleta
eccezionale, la battaglia di un soldato valoroso,
il servizio di un amministratore fedele.
Per lui «contemplazione» significa avere
il tempio come epicentro del proprio
essere e agire: stare nel recinto sacro per
guardare il mondo con gli occhi di Dio e
giudicare la storia con il criterio della sua
logica misericordiosa.
In comunità la tensione contemplativa lo
rende capace di comunicare e convocare,
comprendere e concordare, compensare e
convincere, comporre e conservare, completare
e consolidare, commuovere e convertire,
compatire e confortare, compiangere
e consolare. La sua grandezza è proprio
questa: in lui, «la missione diventa
contemplazione».
Lino Zamuner
(autore di «Mons. Carlo Cavallera – Quando la missione invade la vita»,
Edizioni Missioni Consolata, Roma 2000)

NON CI RESTA CHE PREGARE
Padre Luigi Graiff è destinato
a South Horr (diocesi di
Marsabit), con l’incarico di occuparsi
anche dell’avamposto di
Parkati, aperto due anni prima
e sua prossima destinazione. La
regione è abitata dai turkana,
tribù nomade minacciata periodicamente
da fame, malattie e
dalle incursioni dei banditi Ngorokos,
un corpo clandestino con
intenti politici eversivi, che si alimenta
di rivalità tribali e di oscure
ingerenze straniere, come
fanno supporre le sofisticate armi di cui sono dotati.
Da South Horr padre Luigi scende ogni settimana nella
valle di Sukuta, dove si trova Parkati: vi si reca in jeep
attraversando la solitudine della steppa, portando viveri,
medicinali, materiale da costruzione e tutto quanto può
servire alle necessità di quelle popolazioni, tra le più povere
della diocesi. Ogni viaggio in quelle distese pietrose
e arroventate è compiuto nel segno del rischio, e rappresentava
una sfida agli Ngorokos, ostili verso chiunque si
sia reso testimone dei loro soprusi e razzie e resi sospettosi
nei confronti del missionario che, raccogliendo le confidenze
di chi va da lui per farsi curare, potrebbe conoscere
gli autori di tante violenze e scorrerie. Di questo rischio padre
Luigi è ben consapevole, ma continua nella sua dedizione.
Prima di compiere il suo ultimo viaggio, padre Luigi è
alla missione di Baragoi, sulla via del lago Turkana,
per rifoirsi di viveri. Mentre carica la Land Rover, suor
Christiana Sestero, sapendo che pochi sono i cristiani rimasti,
date le continue scorrerie delle bande di razziatori,
gli ha detto: «Sono scappati tutti da Parkati: perché si reca
ancora là?». «Faccio solo il mio dovere – è la risposta -;
vi sono ancora i bambini della scuola e i vecchi che non
sono riusciti a fuggire: se non porto loro un po’ di farina,
che cosa mangeranno?».
Questa volta però il missionario non è completamente
tranquillo, anche se ha deciso di partire: sa che la gente
attende, come una benedizione, la
sua visita per ricevere da lui farina,
olio, zucchero, medicine, ma soprattutto
un po’ di coraggio.
All’alba dell’11 gennaio 1981,
dopo aver celebrato la messa, lascia
anche Parkati per raggiungere
Tuum, un piccolo mercato a una
ventina di chilometri. Un viaggio
già compiuto decine di volte
per garantire alla piccola comunità
di cristiani l’assistenza religiosa, ma
anche per promuovere istruzione,
cura dei malati, approvvigionamento
di acqua e viveri in modo da
ovviare ai disagi della siccità. In
macchina con lui ci sono due ragazzi
di South Horr e il fedele catechista
Patrick: hanno il compito
di animare la liturgia e aiutare
il missionario a distribuire
viveri.
Il viaggio procede senza intoppi,
ma ad una dozzina di chilometri
da Tuum ecco l’imprevisto:
alcuni uomini a bordo di una
jeep, armati di mitra e fucili,
costringono padre Luigi a fermare
il mezzo. Il missionario intuisce
il pericolo, sa che i razziatori tendono spesso imboscate
e che, per poco, sono disposti a compiere qualsiasi
azione delittuosa. Vano è il tentativo di invertire la
marcia per evitare lo scontro: alcuni spari bloccano infatti
l’auto, che viene accerchiata. Vano è anche il tentativo
di avere un colloquio con i banditi.
Ormai non c’è più nulla da fare: «Non ci resta che pregare
» sembra abbia sussurrato, rivolgendosi al catechista.
È la sua ultima esortazione.
Il missionario vorrebbe almeno salvare i ragazzi che lo
accompagnano, ma la spietatezza degli assalitori compie
l’inevitabile e la speranza che si limitino a depredare
l’automezzo si infrange ai primi spari. Padre Luigi cade a
terra raggiunto da varie pallottole, assieme ai ragazzi, pure
loro colpiti a morte. Sul corpo del missionario, gli assassini
infieriscono impietosamente: gli squarciano il torace,
i visceri sono sparsi sul terreno, la cavità riempita di
sassi; il cuore gli viene selvaggiamente strappato e al suo
posto gli viene posta una grossa pietra.
La tragedia è consumata, la strada sassosa è una pozzanghera
di sangue delle vittime. Il posto si è trasformato
in un nuovo golgota d’amore e di morte insieme, sul quale
si è compiuto il sacrificio.
Passata la furia dei banditi Ngorokos, il catechista, già
ferito, riconosce nel giovane che gli sta spianando contro
il fucile un suo ex alunno: abbassata l’arma, il guerriero gli
risparmia la vita, perché racconti l’accaduto…
«Martire dell’amore e della fede» si
legge sulla lapide, divenuta per
quella comunità un centro di affetti
e di preghiera. Nei 30 anni vissuti
in terra di missione, tra avversità
e pericoli, padre Luigi ha sempre
voluto rimanere al suo posto
ed essere fedele al suo compito.
MICHELE NICCOLINI

GIACOMO MAZZOTTI




KENYA, AMORE NOSTRO

Gli altri popoli dei missionari

Nel «deserto di pietre»
di Marsabit, nel nord
del Kenya, ecco
i pastori seminomadi
SAMBURU, come pure
i TURKANA, i RENDILLE,
gli EL MOLO, i BORANA,
i GABBRA.
Attoo al grande lago Victoria,
vivono i dinamici e numerosi
LUO.
A differenza dei bantu kikuyu
e meru, questi popoli sono
nilotici, cusciti e nilo-camiti.
Altre culture dunque.

SAMBURU
il popolo dalla «schiena dritta»

Viso ovale e altero, corpo robusto
e armonioso come una
statua greca, dritto come un
fuso su una gamba e l’altra sollevata
nella tipica posizione dell’airone, la
destra appoggiata alla lunga lancia, il
guerriero samburu è l’esemplare tipico
dei popoli pastori, che disprezzano
con orgoglio il «lavoro a schiena
curva» dei popoli agricoltori.
Anche la danza tradisce tale orgoglio:
i guerrieri si divertono saltando,
pettoruti e a piedi pari, come canguri,
librandosi nell’aria come farfalle,
per ricadere sugli stessi centimetri di
suolo da cui prendono lo slancio.

ORIGINE
Proprio la farfalla avrebbe dato il
nome ai samburu, per quel senso di
raffinata armonia, sconfinante nell’effeminatezza,
che sprigiona dalla
loro vita (*). Per alcuni tale nome deriverebbe
da «coloro che hanno il
borsellino» (ampur); per altri da «coloro
che vanno in guerra» con la sacca
dei viveri, per fare razzie o combattere
i razziatori.
Un tempo erano conosciuti come
burkineji, corruzione di loibor kineji,
cioè «possessori di capre bianche».
Tra di loro, però, preferiscono chiamarsi
lookop, «possessori della terra
». Di fatto occupano un territorio
di oltre 20.000 kmq a sud del lago
Turkana, costituito dal Distretto
Samburu e alcune frange del Distretto
di Marsabit.
Da dove siano giunti non si sa. Gli
anziani raccontano di provenire da
un luogo chiamato Pagaa, probabilmente
nell’attuale Sudan, spinti da
grave fame e carestia. Una cosa è certa:
i samburu sono cugini stretti dei
masai, dai quali si sono staccati, non
sappiamo quando, formando un
gruppo autonomo e omogeneo: entrambi
i popoli sono nilo-camiti, nomadi
e pastori, parlano la stessa lingua,
hanno usi e costumi assai simili.
Il termine in-kishu per i samburu
significa sia «bestiame» che «persona
»: l’identificazione è totale e sacrale,
vivendo in profonda simbiosi,
sul piano esistenziale e psicologico,
soprattutto col bestiame bovino, il
cui latte e sangue giocano un ruolo
essenziale anche nella simbologia religiosa.
Bovini, capre, pecore e qualche
dromedario costituiscono la base
dell’economia, della sussistenza e del
prestigio familiare. Il bestiame fornisce
cibo e pelli, che servono per
fabbricare oggetti di uso domestico
e ricoprire le abitazioni. La quantità,
più della qualità, oltre a costituire
motivo di orgoglio dell’allevatore, è
strategia di sopravvivenza. Le mandrie,
divise in piccoli nuclei, vengono
dislocate in varie zone del territorio:
sull’altopiano e nelle pianure
orientali, dove abbondano corsi
d’acqua e vegetazione forestale, nella
savana delle pianure occidentali e
nel semideserto delle pianure centrali
ed orientali. Con tale dislocamento
i samburu garantiscono la sopravvivenza,
in caso di grave crisi,
come razzie, epidemie, siccità, di almeno
un piccolo nucleo di animali
da cui ricominciare.
Ovviamente, il bestiame costituisce
la base dell’alimentazione. Ma esso
non è visto in funzione della resa di
carne, che viene consumata solo raramente,
in occasioni di celebrazioni
sociali, rituali e familiari. La dieta è
quella classica dei popoli nomadi: il
saroi, cioè latte unito a sangue.

ORGANIZZAZIONE SOCIALE
Il popolo samburu è diviso in otto
grandi famiglie: cinque sono dirette
discendenti di altrettanti progenitori;
tre sono nate da conflitti e divisioni
tribali. All’interno d’ogni clan
esistono varie segmentazioni, che
rafforzano le relazioni personali, legami
di solidarietà e senso di parità.
Elemento portante dell’organizzazione
sociale e politica sono le classi
di età, con funzioni e mansioni specifiche
simili al modellato dei masai.
Nel sistema samburu tali classi sono
sei. Ma poiché ogni classe è racchiusa
nel ciclo di circa 15 anni e si entra
nella prima all’età di 15-20, le classi
più importanti sono quattro, con rari
superstiti della quinta e sesta, vegliardi
quasi ottuagenari e oltre.
La prima classe di età è formata dai
giovani iniziati e circoncisi durante
lo stesso ciclo di 15 anni: essi sono
chiamati moran, cioè guerrieri. La
loro funzione, infatti, è militare: hanno
il diritto e dovere di difendere il
territorio e gli armenti che vi pascolano;
di iniziativa propria passano all’attacco
per battute di caccia contro
animali predatori o per razzie del bestiame
alle popolazioni vicine. Non
hanno potere decisionale, ma i moran
seniori hanno il compito di comunicare
la loro esperienza ai coscritti
più giovani e ai primi gruppi
di iniziati della classe successiva.
«Non c’è classe di circoncisi senza
il proprio nome» dice un proverbio
samburu. Il nome è importante: conferisce
identità a individui e gruppi.
Per questo tutti gli iniziati di un determinato
ciclo ricevono un nome
speciale, che li distingue dalle classi
precedenti: lkishili sono quelli della
classe iniziata nel 1960; lkiroro dal
1975; lmoli dal 1990.
La seconda classe è formata da uomini
sposati o in procinto di sposarsi.
Essi devono badare alla famiglia e
soprattutto accudire al bestiame, la
cui crescita procura prosperità e prestigio
personale e serve ad avere nuove
mogli e figli. La fortuna economica
e familiare toerà utile per acquistare
più autorità nel passaggio
alla classe successiva.
La terza classe possiede il potere
politico e decisionale. È la classe dei
padri: i loro figli sono ormai entrati
nella prima classe, dei moran, e ne
controllano movimenti e attività militari.
Le decisioni vengono prese nei
consigli degli anziani, cui fanno parte
anche i membri delle classi successive.
Essi hanno uguale potere
politico; ma il prestigio e successo
personale possono essere motivo di
maggiore ascolto ed efficacia persuasiva.
Tali consigli sono locali; ma
ci sono occasioni in cui si richiede un
consiglio unico per tutto il territorio.
La quarta classe, insieme ai superstiti
della quinta e sesta, ha funzione
«religiosa». I suoi membri sono i depositari
della tradizione: rappresentano
il legame vivente tra il passato e
l’aldilà. Il loro compito specifico è di
consulenza e sacerdotale: alcuni riti
e cerimonie richiedono la presenza
di almeno uno di loro.
Benché in tale sistema organizzativo
anzianità e vecchiaia siano altamente
rispettate, non si può definire
l’ordinamento samburu una gerontocrazia.
In tale modello, infatti, il
potere e le varie funzioni (militare, economico,
politico e religioso) sono
distribuiti tra tutti i membri in maniera
diffusa e partecipata, sottraendoli
al dominio del singolo capo o di
un gruppo oligarchico.
Le donne, però, sono escluse dalla
vita politica e dal meccanismo delle
classi di età, dal momento che non
sono destinate a restare nel clan.

INIZIAZIONE
Nei primi 15 anni il samburu non
conta nulla: è un nkerai (bambino) o
layeni (ragazzo-pastorello). Ma con
l’iniziazione entra nella maturità.
L’iniziato, dopo essere stato rasato
e fornito di sandali nuovi, coperto da
una pelle di pecora, spalmata dalla
madre con grasso e polvere di carbone,
viene circonciso davanti alla
porta della propria abitazione, con
l’assistenza di un padrino. In genere
il circoncisore non è un samburu. Il
circonciso non deve mostrare paura
né lamentarsi per il dolore: sarebbe
una vergogna per tutta la famiglia.
Dopo la cerimonia il giovane riceve
regali, cibo e, dal padrino, arco e
frecce. Quindi rimarrà a casa per circa
un mese nell’osservanza di restrizioni
rituali; quindi comincerà ad andare
a caccia di uccelli: un’occupazione
di tre mesi chiamata laibartani.
Quindi raggiunge gli armenti lontani
per dedicarsi al pascolo e alla difesa
del bestiame; per una decina
d’anni intrecciano atti di coraggio a
una vita di vanitosi elegantoni.
Ma per diventare un moran il giovane
deve passare attraverso tre stadi,
con relative cerimonie dette lmugit:
sono riti di passaggio obbligatori
e punti fermi dell’educazione
impartita dagli anziani.
Inizia con il lmugit delle frecce (o
uccelli), durante il quale viene ucciso
un bue: di fronte a sua madre, il
giovane giura di non mangiare più
carne in presenza di donne sposate.
Solo da questo momento diventa
moran e può dipingersi il corpo con
l’ocra rossa.
Segue il lmugit del nome, quando
il giovane ha circa 20 anni. Anche
questo rito è accompagnato dal sacrificio
di un bue, ucciso per soffocamento:
esso non deve cadere a terra,
ma tenuto sollevato dai giovani
per i quali la cerimonia è celebrata.
Il bue dovrà essere mangiato interamente
e le ossa bruciate. Il lmugit del
toro, in cui viene ucciso un altro bue,
chiude praticamente il periodo del
«moranato»: il giovane è pronto per
il matrimonio e passa nella seconda
classe di età.

IL MATRIMONIO
Il cerimoniale del matrimonio è
complesso e suggestivo. Le trattative
con la famiglia della sposa sono condotte
dall’interessato, col sostegno
del padre; ma ogni anziano della parentela
patea o matea può mettere
il veto sulla ragazza scelta, minacciando
di maledire i futuri figli.
Oltre agli otto buoi da consegnare
al suocero, lo sposo deve procurare
vari regali per la sposa (due pelli di
capra, due orecchini di rame, un recipiente
per il latte, una pecora) e vari
capi di bestiame per parenti e affini
e da sacrificare per la festa. La
sposa dovrà procurarsi un grembiule
speciale, orecchini, un pezzo di
pelle di leone da legarsi alla gamba,
perline, sandali, un bastone di pianta
detta nkoita.
Per la data delle nozze, la nuova
luna è la più propizia e i giorni pari
i più adatti. Quel giorno, di primo
mattino, la promessa sposa viene
circoncisa (clitoridectomia). Tre
quarti d’ora dopo giunge lo sposo,
accompagnato dal compare e da altri
che sospingono un bue, una vacca
ed una pecora. La madre della
sposa toglie i paletti che ostruiscono
l’entrata della
capanna ed il
bue viene fatto entrare ed è ucciso.
Con tale sacrificio il matrimonio è
validamente ratificato, anche se la
cerimonia è appena iniziata. Seguono
riti complicati per la divisione
della carne del bue; quindi gli anziani
avviano una litania di benedizioni
sul padre della sposa, deponendo
burro sulla sua testa.
Per tutto il giorno si compiono altri
riti e il mattino la sposa deve recarsi
a piedi fino al villaggio dello
sposo. Il viaggio, spesso lungo e penoso
per la donna appena circoncisa,
termina alla manyatta (capanna)
dello sposo; vi entra passando tra
due file di anziani che benedicono
la nuova coppia. Nella nuova capanna
essa accende il fuoco nuovo,
che deve scaturire da due bastoncini
sfregati: il fuoco non dovrà mai
spegnersi finché la nuova famiglia si
trasferirà altrove.

MONDO DEL SACRO
Fulcro delle credenze religiose, attorno
a cui ruotano preghiere, sacrifici
e la stessa vita, è Nkai, Dio
buono e severo contemporaneamente.
Al di sotto di lui c’è una serie
di spiriti custodi, posseduti da ogni
cosa e persona.
Il termine nkai serve per indicare
anche il cielo e la pioggia; ma il concetto
che i samburu hanno della divinità
è molto chiaro: Dio è unico,
onnipotente, onnipresente, provvido,
ecc. In generale, gli attributi lo
descrivono come essere maschile;
ma alcuni lo descrivono come ente
femminile, quando, per esempio, lo
si prega perché sorregga l’uomo, come
una mamma sostiene i suoi bimbi.
Anche se gli attribuiscono forme
antropomorfiche, i samburu
rifuggono dal compararlo agli uomini:
Nkai è Nkai, dicono.
Benché Dio sia dappertutto, alcuni
luoghi, densi di fascino e meraviglia,
sono ritenuti privilegiati dalla
presenza divina, come i monti Ng’iro,
Marsabit e Kulal, oppure grosse
piante, cave, sorgenti d’acqua. Luoghi
sacri in cui si svolgono i riti più
importanti della vita.
Oltre alle preghiere quotidiane in
cui, in modo assai spontaneo, si invoca
Dio per le necessità dell’etnia,
clan, famiglia o individuo, i samburu
esprimono il loro culto mediante il
sacrificio. Un tempo avevano il lasar,
sacrificio di offerta. Oggi, il sorio, sacrificio
di ringraziamento, è l’atto di
culto fondamentale: ricorre due volte
all’anno. Lo si celebra di sera in ogni
gruppo di capanne e consiste nell’offerta
di una pecora nera, grassa,
non ancora incinta. La carne viene
arrostita e mangiata: la parte destra
dagli uomini e la sinistra dalle donne.
Il sangue, mescolato con l’interno
dello stomaco, viene spalmato
sulle capanne e sugli animali.
Contrapposto a Dio buono, i samburu
credono in uno spirito maligno
chiamato Milika, pressappoco il nostro
demonio.
Al pari di altre etnie africane, anche
i samburu hanno la figura del
mago-guaritore (loiboni), a cui si ricorre
in caso di malattia inguaribile,
sterilità, peste del bestiame, prima di
affrontare il nemico… È retribuito
con buoi e montoni. I suoi strumenti
sono sassolini, cianfrusaglie e radici
contenute in zucchette.
È un personaggio temuto da tutti
e di cui non si parla volentieri. Dal
canto suo, il mago-guaritore non
ama mostrarsi in giro. Egli trasmette
il suo mestiere al figlio più abile,
insegnandogli i segreti di erbe e veleni.
Quando muore viene sepolto
sotto un mucchio di sassi.
Un altro importante personaggio
è il laidetidetani, indovino o sognatore.
Suo compito è interpretare i sogni,
conoscere le stelle, prevedere
l’arrivo della pioggia. Il lais, invece,
è un personaggio dotato del potere
di ritrovare cose perdute, portare
fortuna o iella. Da costui i samburu
stanno volentieri alla larga.

LA MORTE
Anche la morte ha il suo cerimoniale.
In genere i morti non sono seppelliti,
eccetto i personaggi molto anziani
e rinomati e i bimbi di pochi
mesi; questi sono sepolti presso il
fuoco nella capanna, che viene poi
abbandonata. Per questo l’anziano
samburu, quando sente la morte vicina,
prega così: «Dio, fammi un vero
lookop: non permettere che l’erba
mi mangi». Chiede, cioè, di morire
nel suo clan e non lontano dal villaggio;
di avere una sepoltura onorevole
e una tomba riconoscibile, non coperta
dall’anonimato della savana; di
essere sepolto con la faccia rivolta alla
montagna sacra, sede di Dio.
In tal caso, il morto, rasato, viene
adagiato sulla pelle su cui dormiva e
sistemato in modo che la sua faccia
sia rivolta verso la montagna. La
gente deporrà rami intorno dicendo:
«Dormi da solo!». Il luogo verrà ricordato
per un po’ di tempo; chiunque
passerà accanto alla tomba vi
getterà un ramo verde.
(*) Cfr. anche: Achille Da Ros – Virgilio
Pante – Egidio Pedenzini, Proverbi Samburu,
Emi, Bologna (in samburu, inglese
e italiano).

RENDILLE
cultura del cammello

Lo chiamano harab lanugseli,
letteralmente «succhiarsi la
lingua». È un rito che si compie
alla nascita d’un bambino e si
svolge in questo modo: raccolti insieme
otto oggetti tipici del clan, un
uomo picchia leggermente il neonato
ripetute volte; poi altri uomini del
clan sputano sugli stessi oggetti e li
passano sulle labbra del neonato; infine
ognuno gli sputa sulla bocca
gridando: «Idei aleh!», sii come me.
La cerimonia serve a controllare il
potere delle maledizioni (ibire), che
per i rendille sono una cosa seria: ogni
clan ha le sue; vengono tramandate
da una generazione all’altra. Sono
credute e temute anche dai popoli
vicini: qualsiasi cosa strana possa
capitare l’attribuiscono a una maledizione
dei rendille, che spesso sono
invitati a pregare per togliere la iella.

«T’AMO… PIO CAMMELLO»
Circa 600 anni fa, gli antenati dei
rendille vivevano in Somalia: facevano
parte di uno stesso gruppo etnico
cuscita e parlavano la stessa lingua.
Fin d’allora elaborarono una cultura
ruotante attorno al cammello e determinati
riti per ottenere benessere
per sé e per gli animali, seguendo un
duplice calendario, solare e lunare.
Poi l’espansione degli oromo avviò
un grande movimento migratorio
verso sud e ovest, provocando una
differenziazione progressiva e dando
origine agli attuali somali, sakuye,
gabbra, rendille.
Tra i nuovi gruppi etnici, i rendille
sono quelli che si sono spostati più
a sud e hanno mantenuto lingua e
cultura più intatte. Oggi, sono circa
36 mila e vivono nella zona semidesertica
del distretto di Marsabit, circondati
a est dai borana, a nord dai
gabbra, con i quali si guardano in cagnesco
da qualche decennio, a est e
sud dai samburu.
Con questi ultimi, invece, le relazioni
sono ottime. La delimitazione
territoriale è molto elastica, per cui i
samburu entrano nella terra rendille
e viceversa. Pur mantenendo la propria
identità, la vicinanza dei gruppi
ha favorito mutui scambi di elementi
culturali: i rendille imitano gli oamenti
maschili e femminili dei
samburu e hanno metabolizzato varie
cerimonie di iniziazione.
Gelosi della propria identità, i rendille
si definiscono «proprietari di
cammelli»: ma allevano pure bovini,
ovini, caprini e pochi asini. Dal bestiame,
eccetto gli asini (usati solo
come bestie da soma) proviene il cibo,
sotto forma di latte, sangue e raramente
carne; la pelle è adatta a
molteplici usi. Il bestiame compare
nelle feste religiose e profane ed è
motivo d’orgoglio e prestigio per il
proprietario, il cui peso sociale e politico
è determinato dalla grandezza
delle mandrie.
Il cammello, soprattutto, gioca un
ruolo importante nella vita economica
rendille: esso è utilizzato per il
trasporto di attrezzi e strutture degli
accampamenti verso nuove terre da
pasto; o per trasportare l’acqua da
pozzi lontani. Un servizio inestimabile
se si tiene conto che l’animale
può portare fino a 90 chili di peso,
percorrendo 40 km per 6-8 ore al
giorno. Inoltre può restare senza bere
per 10-14 giorni.

CASA MIA, CASA MIA!
La pastorizia è attività comune a
uomini e donne, dall’infanzia al matrimonio;
in seguito le mansioni vengono
distinte: l’uomo l’abbandona
gradualmente per avvicinarsi alla vita
politica e la donna si dedica ai lavori
domestici, tra cui l’approvvigionamento
d’acqua, legna da ardere e
periodica costruzione della casa.
Trenta abitazioni in media formano
un villaggio, che non ha una collocazione
territoriale stabile; ma, secondo
esigenze igieniche e di pascolo,
viene smontato e ricomposto
altrove, rispettando la consuetudine:
la casa del capo al centro e tutte le altre
intorno, in ordine d’importanza
decrescente verso la periferia.
Una siepe di rami spinosi circonda
sempre l’abitato, entro il quale sono
disposti i recinti per il bestiame e
si aprono alcuni spazi che la gente utilizza,
di tanto in tanto, per eseguire
danze o canti corali.
Sotto un albero frondoso, accanto
al villaggio, si riunisce quotidianamente
il consiglio di anziani, per esaminare
i problemi inerenti alla vita
pubblica ed esercitare funzioni di
corte giudiziale, quando occorre.
Ogni famiglia tiene attorno all’accampamento
un piccolo numero di
cammelle, dalle quali le donne mungono
il latte per il fabbisogno quotidiano.
Le mandrie, invece, pascolano
lontano: ragazzi e guerrieri custodiscono
cammelli e bovini; ragazze e
donne non sposate capre e pecore.
I rendille vivono quasi in simbiosi
con il proprio bestiame, legati da vincoli
sacrali; ciò si manifesta soprattutto
durante le lunghe abbeverate:
i pastori, soprattutto le ragazze, chiamano
le bestie per nome, parlano loro
come si fa tra amici; ne cantano le
lodi e ne esaltano le qualità, quasi
fossero membri di famiglia.
Diversamente da molte società africane,
la donna rendille gode di
grande rispetto e considerazione: la
casa è territorio femminile e il marito
non ci mette il becco. Se un uomo
vuole parlare privatamente con altri
uomini, non può mandare via la moglie:
è lui che deve andarsene in un
posto dove non ci sono altre case,
oppure mandare gentilmente la consorte
a fare una commissione. Se un
matrimonio si rompe e non ci sono
figli, la casa rimane alla moglie per
sempre, anche se la rottura avviene
durante le trattative per le nozze.

UNA SPOSA PER 8 CAMMELLI
Due sono i capisaldi dell’organizzazione
sociale e politica dei rendille:
la divisione in 9 clan patrilineari
ed esogamici e il sistema delle classi
d’età. I clan di grandi dimensioni sono
ramificati in varie sezioni; clan e
sezioni sono dispersi in numerosi villaggi
che accolgono, oltre la famiglia,
un certo numero di forestieri.
Ogni clan è caratterizzato da notevole
coesione intea e si distingue
dagli altri per alcuni poteri rituali e
costumi propri. Tra i nove clan ne emergono
due: l’uno è detentore del
potere politico; l’altro di quello religioso,
i cui capi hanno carica ereditaria
e sono riconosciuti come tali da
tutti i rendille.
Le classi d’età conferiscono uguali
diritti e doveri a tutti gli uomini appartenenti
alla stessa leva. La formazione
di una classe ha luogo quasi
contemporaneamente in ogni villaggio
e comporta l’iniziazione di tutti i
giovani il cui padre appartiene alla
terza classe d’età.
In tale circostanza, i candidati, riuniti
in gruppo, sono circoncisi e, subito
dopo, ricevono in dono alcuni
capi di bestiame dai parenti più prossimi.
Durante la cerimonia gli iniziandi
eseguono canti e danze particolari,
che non ripeteranno più per
tutta la vita. Ai festeggiamenti segue
un periodo di reclusione in una capanna
comune appositamente costruita,
in attesa della completa guarigione.
Poi iniziano a svolgere le
mansioni proprie del grado d’età: pascolo
e attività di guerra.
Passati 12 anni, i «guerrieri» possono
sposarsi. Il matrimonio non si
concretizza in un momento particolare,
ma è un processo che avviene
per gradi: una serie di incontri tra i
padri dei futuri sposi stabilisce l’ammontare
della ricchezza della sposa
(in media 8 cammelli); i festeggiamenti
iniziano con la circoncisione
della moglie e durano diversi giorni.
La celebrazione interessa contemporaneamente
diverse coppie della stessa
leva (vedi riquadro).
Col formarsi di una nuova classe,
ogni 14 anni, i guerrieri passano allo
status di anziani, abbandonano le armi
e si dedicano alla famiglia e bestiame.
Successivi passaggi conferiscono
loro prestigio crescente, fino al
grado più alto, il sesto, difficilmente
raggiungibile: i superstiti diventano i
saggi custodi della tradizione.

SENZA ALDILÀ
I rendille credono in un Dio identificato
col cielo, creatore d’ogni cosa
visibile, capace d’influire sugli eventi
terreni, fenomeni naturali e vita
di ciascun individuo.
Il culto, per il quale non esistono
luoghi specifici, si avvale della preghiera,
a volte associata a sacrifici animali
e offerte di latte. L’attività sacerdotale
è svolta occasionalmente
dal padre e quotidianamente da un
anziano che funge da coreuta nelle
preghiere corali del mattino e della
sera.
Viene attribuita notevole importanza
ai cicli lunari e, ogni prima notte
di luna nuova, il «ritorno della luce» è festeggiato dalle donne con apposite
danze.
Non vi è credenza nella vita ultraterrena
e la morte viene spiegata come
un riappropriarsi della vita da
parte di Dio. Subito dopo il decesso,
il capo del defunto viene rasato e il
corpo cosparso di grasso; poi, a sepoltura
avvenuta, la tomba è coperta
da un mucchio di pietre, sulle quali
i parenti di passaggio versano un
po’ di latte in segno di benedizione
e posano qualche foglia di tabacco.

CAPRO ESPIATORIO
TURKANA
orgogliosi di vivere all’«inferno»

«Imigliori guerrieri dell’Africa
orientale; eccezionalmente
impavidi; con una fama di estremo
e rapace eroismo»: così hanno
definito i turkana gli amministratori
coloniali del passato. I primi incontri
non sono incoraggianti, scrive
un missionario che da anni vive insieme
a loro: sono «chiusi, un po’ rozzi
e grossolani, privi delle grazie della
società; impulsivi e attaccabrighe;
fieramente indipendenti, orgogliosi,
arroganti, ma anche giorniosi e felici; ispirano
forti emozioni: chi lavora tra
loro o li ama o li odia; spesso tutte e
due le cose insieme».
Ma è grazie a tale aggressività o reputazione
di essere tali, che sono tanto
numerosi e riescono a vivere in un
ambiente lunare.

SEGUENDO UN BUE RIBELLE
Il nome turkana (*) non dice molto:
forse deriva da aturkan (grotta,
cavea), da cui ngaturkana: uomini
delle cavee. Qualcosa in più si può
ricavare dai loro scarsi miti delle origini.
Inizialmente esisteva il gruppo
etnico dei karamojong: 500 anni fa,
questi emigrarono dall’Etiopia nel
Sudan, per poi ripiegare verso sud,
dividendosi in gruppi autonomi e
prendendo nomi propri: jie, dodos,
turkana, jiye, toposa, teso, donyiro,
kuman. I vecchi raccontano che queste
popolazioni «erano un tempo un
solo territorio, un solo popolo, una
sola famiglia».
Gli etnologi definiscono a grandi
linee questi gruppi come «nilo-camiti
» o «nilotici cuscitizzati». Di fatto,
la loro lingua affonda le radici
nell’intricato sottobosco nilotico, ma
sangue e cultura hanno i colori dei
popoli di lingua camitica (cuscita).
Per quanto riguarda i turkana,
un’antica leggenda narra che essi si
chiamavano jie; ma un giorno si separarono
da essi, seguendo le orme
di un bue capriccioso che, fuggendo,
si tirò dietro molta gente: da quel
momento essa si chiamò turkana; avanzò
verso sud e, sgomitando, assimilando
o cacciando le popolazioni
arrivate prima, diede il proprio nome
alla terra occupata: Turkwen, terra
dei turkana. Il contatto con altre
popolazioni ha arricchito la formazione
delle loro mandrie: ai soliti bovini
hanno aggiunto capre, pecore,
cammelli e asini.

HABITAT INFERNALE
Il Turkwen o, come viene chiamato
dall’amministrazione statale, Distretto
Turkana, misura oltre 61.000
kmq e si trova nella Great Rift Valley:
una lunga fossa a circa 600 metri
s.l.m., caratterizzata da pianure
sabbiose, blocchi rocciosi di 300-400
metri e catene di colline e montagne
di origine vulcanica alte fino a 1.600
metri.
La temperatura minima si ferma a
24° e la massima può raggiungere i
42° nei mesi di gennaio-marzo. Le
precipitazioni sono scarse e imprevedibili,
anche se i turkana continuano
a dividere l’anno in akiporo
(stagione delle piogge, aprile-agosto)
e akamu (stagione secca, settembremarzo).
Nel nord cade 100-300 mm
di pioggia l’anno; nel sud 300-800;
nel centro e nell’est non piove quasi
mai. Turkwell e Kerio sono i fiumi
principali; altri corsi d’acqua stagionali
non sono altro che letti di sabbia,
pietre e detriti. La vegetazione è
quella tipica della savana: acacie spinose,
cactus, sisal, palma dum, specie
lungo i corsi d’acqua, e cespugli
spinosi qua e là tra sassi e sabbia.
In tale ambiente infeale, nulla è
dato gratuitamente; tutto ciò che si
ha, o si vuole avere, deve essere faticosamente
conquistato e difeso, aggredito
e vinto. Altrimenti si soccombe.
Qui i turkana hanno sviluppato
carattere e cultura, orgogliosi
del proprio isolamento, accresciuto
dalla fama di guerrieri spietati che si
portano addosso.
Da sempre, infatti, essi compiono
razzie di bestiame: fa parte del loro
sistema economico, giustificato da
un mito tramandato da una generazione
all’altra: Dio ha dato ai loro antenati,
e solo a loro, tutto il bestiame
domestico esistente nel mondo; per
cui, razziare il bestiame altrui non è
pelle, abbellite da teorie di perline
multicolori.
Famosi sono i fabbri turkana: estraggono
il ferro da una roccia speciale
e modellano armi e utensili. Oltre
alle classiche lance e frecce dei
popoli nomadi, essi fabbricano il
micidiale bracciale: infilato al polso
e coperto da una sottile guaizione
di cuoio, sembra un oamento; ma
liberato da essa, svela il suo vero scopo:
è un’arma che non lascia scampo.
Caratteristici sono pure i loro
bastoni da combattimento: sembrano
comuni canne decorate; ma dovunque
colpiscono le decorazioni
lasciano il segno.
Nei loro oamenti, donne e uomini
rivelano un vasto campionario
d’inventiva, gusti, significati suggestivi
e altro. Le fogge dei capelli
sono totalmente differenti
da quelle samburu;
collane, orecchini, pendenti
e altri oamenti
femminili distinguono le
nubili dalle sposate e indicano
differenti situazioni
familiari: nascite e
lutti, vedovanza e lontananza
del marito. Oltre
alla perforazione dell’orecchio,
è praticata
quella del labbro inferiore,
per inserirvi un
monile metallico.
Armi, utensili, oamenti
e oggetti artigianali
hanno per la gente
un valore puramente
pratico, senza escludere
quello estetico; ma
da quando i bianchi
hanno cominciato ad
apprezzarli come souvenir
turistici, i turkana
hanno fatto un balzo
nell’adattamento alla
«civiltà industriale».

SOCIETÀ DEL BESTIAME
L’intera etnia turkana è divisa in 12
clan, con usi e rituali propri, e 25 sezioni
sparse in tutto il distretto, con
regole esogamiche. Tutti i maschi sono
divisi in due grandi gruppi: ngimoru
(pietre) e ngirisae (leopardi),
distinguibili da segni decorativi in
occasione di feste. L’appartenenza è
alternata tra padre e figli: se il padre
è ngimoru, i figli saranno ngirisae e
viceversa. Col matrimonio le donne
entrano nel clan e gruppo del marito.
Ma clan, sezioni e gruppi non rivestono
particolare significato sul
piano socio-economico, poiché non
posseggono bestiame proprio.
Cuore e centro del sistema sociale
turkana è l’ekal, famiglia estesa:
un nucleo indipendente,
economicamente autosufficiente
e geograficamente
distinun
crimine, ma significa semplicemente
riprendersi ciò che è proprio
per diritto divino e primordiale.
Se a tale giustificazione si aggiunge
il prestigio di uccidere uno o più
nemici, ostentato con speciali decorazioni
e cicatrici sul petto, si comprende
come i turkana si siano guadagnati
la fama di guerrieri coraggiosi
e sanguinari; anche se negli
ultimi anni si sono dati una calmata,
sia per convinzione, sia perché le popolazioni
circostanti si sono rifoite
di armi da fuoco (vedi riquadro).

ADATTARSI O SPARIRE
Dote fondamentale dei turkana,
modellata dalle difficoltà ambientali,
è il grande spirito di adattamento.
Pur conservando vari usi e costumi
del gruppo originario karamojongjie
(modi di vestire, decorazioni e
fogge di capelli, rituali e tipi di alleanze),
i turkana hanno abbandonato
tante pratiche classiche dei popoli
nilotici, come la circoncisione
sia maschile che femminile; le classi
di età, l’importanza dell’autorità degli
anziani e della divisione clanica.
Il rapporto con il bestiame, soprattutto,
è essenzialmente pratico, ben
lontano dalla simbiosi psicologicasacrale
dei samburu.
Quando, per motivi di sopravvivenza,
migrano nelle città o altri territori
tribali, i turkana accettano di
ripristinare la circoncisione o adottano
le tradizioni del nuovo habitat.
Unici tra i pastori nomadi, i turkana
non si vergognano di «piegare la
schiena» per zappare e coltivare la
terra, appena le rare piogge ne offrono
l’opportunità, né di avvantaggiarsi
d’ogni cosa commestibile: uova,
pesce, pollame e carne di animali selvatici,
cibi rigorosamente tabù per le
altre popolazioni pastorali. Fanno eccezione
le cai di cane e iena.
Poiché le difficoltà aguzzano il cervello,
i turkana hanno imparato a usare
tutte le risorse offerte da un ambiente
ostile. Legno, pelli, cuoio, avorio,
metalli, zucche, semi, ossa,
coa, zoccoli, unghie, piume ecc….
nulla è buttato, ma trasformato in utensili,
oamenti e altri oggetti di artigianato.
Solo la tessitura non è praticata,
per mancanza di fibre vegetali.
In compenso, le donne sono abili
nel lavorare il cuoio, con cui confezionano
caratteristiche sottane di
to, formato da padre, moglie (o mogli),
figlie non sposate e figli con relative
mogli e prole; ma può essere estesa
a parenti e affini. Il padre è padrone
assoluto (ekapolon) del
bestiame, che non sarà spartito tra i
figli fino a quando egli è in vita.
Nella vita quotidiana sono importanti
i rapporti di vicinato: differenti
ekal possono aggregarsi, formando
un villaggio sparso, in una comune
area di pascolo, per aiutarsi a
vicenda nella ricerca di acqua, custodia
del bestiame e assistenza reciproca
in ogni eventualità.
Nel vicinato si realizza l’organizzazione
politica dei turkana, dando
vita a un microcosmo di consigli di
anziani, con potere decisionale circa
la soluzione dei problemi che emergono
dalla vita quotidiana. Tali consigli
non sono stabili, poiché un ekapolon
può emigrare dal villaggio in
qualsiasi momento verso altre zone
di pascolo e non incontrare più i vicini
per tutta la vita.
Altra importante struttura organizzativa
è la «società del bestiame»:
è un’alleanza tra uomini discendenti
dallo stesso antenato, parenti, affini
e amici, con l’impegno di procurare,
dare o ricevere animali quando
uno dei soci ha perduto il bestiame
o si trova in qualche grave necessità,
come il matrimonio.

MA QUANTO MI COSTI!
Più delle strutture, sono gli eventi
della vita a ricoprire un ruolo importante
nella vita turkana: iniziazione
e matrimonio, nascita di un figlio
e morte dell’ekapolon.
Bambini e ragazzi hanno il compito
di pascolare e difendere il bestiame
dell’ekal fino al giorno dell’iniziazione
(esapan). Questa avviene all’età
di 15-20 anni, con un gruppo
consistente di candidati, nella stagione
umida, quando il cibo abbonda.
Il rituale è ridotto all’osso: abolita
la circoncisione, esso consiste nel
«sacrificio dell’esapan»: a tuo gli iniziandi
devono uccidere un animale
(toro o caprone) con un colpo di
lancia preciso, per dimostrare la
propria forza e abilità. Poi gli anziani
li spalmano con il contenuto dello
stomaco della vittima e spruzzano
su di loro saliva e acqua, simbolo
di vita e di benedizione.
I rituali proseguono con festeggiamenti e abbuffate di carne. Infine
ogni giovane si reca dal padrino che,
dopo avergli trasmesso il bagaglio
morale, le tradizioni dell’etnia e acconciato
la capigliatura, gli consegna
il necessario di un autentico turkana:
lancia, clava, poggia-testa, braccialecoltello,
anello, sandali nuovi. Ora il
giovane è diventato un guerriero: deve
respingere i nemici, condurre la
mandria in pascoli lontani e partecipare
alle razzie.
Verso i 30 anni, il giovane può sposarsi
e così raggiunge un secondo
grado di maturità. Ma è un processo
lungo e complesso.
Iniziato il corteggiamento e ottenuto
il consenso della ragazza, in genere
ancora adolescente, il giovane
deve ottenere l’approvazione del padre.
Se esso è positivo, il genitore si
reca con gli anziani alla casa della famiglia
della sposa e avvia il contratto
matrimoniale.
È questo il punto cruciale, dove la
«società del bestiame» si rivela provvidenziale.
Il prezzo della sposa, infatti,
può raggiungere i 40-50 capi di
bovini e cammelli, 100-150 di pecore
e capre, un discreto numero di asini
e beni di uso immediato (coperte,
tè, zucchero, tabacco). Domanda
e offerta subiscono sconti durante la
contrattazione; ma la somma rimane
sempre alta; e non è scontato che il
padre sia disposto a sborsarla, specie
se vuole procurarsi un’altra moglie:
da qui la necessità di rivolgersi a zii,
affini e amici.
Raggiunto l’accordo tra le due famiglie
sul prezzo da sborsare, lo sposo
chiama alcuni amici e rapisce la
ragazza. La sposa è consenziente, naturalmente;
ma il rapimento deve avvenire
col maggiore baccano possibile:
la ragazza grida e si divincola
per mostrare l’attaccamento ai genitori;
i rapitori devono fare apparire
che si tratta di un bottino di razzia,
tanto per non smentire la propria fama.
A colpo fatto, gli anziani benedicono
gli sposi, che cominciano a
convivere.
Riprendono le trattative tra le due
famiglie per la consegna del bestiame,
che generalmente viene fatta a rate.
La prima deve essere la più consistente,
perché i parenti della sposa
acconsentano alla cerimonia definitiva:
l’uccisione del bue. Con questa
cerimonia viene sancita la legittimità
del matrimonio a tutti gli effetti, anche
se il pagamento delle altre rate
durerà molti anni o tutta la vita.

RELIGIONE… INTERESSATA
I turkana hanno la certezza di un
Dio chiamato Akuj (cielo): benevolo,
onnipotente, unico (senza mogli
e figli), onnisciente… ma è alquanto
lontano. Presente al tempo delle origini,
non si interessa troppo delle
faccende umane, pur rimanendo
sempre sorgente della vita e del destino
di ogni essere. A volte Dio comunica,
attraverso il sogno, in vista
di necessità collettive, mediante uomini
scelti, come l’emuron, personaggio
fondamentale nella società
turkana, che riveste il ruolo di sacerdote,
mago, medico e divinatore.
I turkana si avvicinano ad Akuj ed
esprimono la loro dipendenza, seppure
raramente, con preghiere e sacrifici,
in caso di calamità collettive,
malattia di anziani e altre circostanze
dettate dalla tradizione. Si ha il
«sacrificio per la pioggia», con l’uccisione
di un bue in caso di siccità
prolungata; si sacrifica un toro (o caprone)
al rientro del bestiame dalle
alture o per scongiurare la moria degli
animali.
Oggetto della preghiera, guidata
dagli anziani o dall’emuron, sono
realtà concrete: pioggia, acqua, cibo,
aumento di figli e bestiame, salute
delle persone; ma anche pace, armonia,
concordia tra gli anziani.
Inoltre, l’universo turkana è popolato
da entità benevoli o malevoli,
da un gran numero di spiriti della
natura e spiriti dei morti. La loro potenza
è limitata, ma è sempre meglio
tenerli a bada con una serie di rituali,
formule di scongiuro, amuleti e talismani,
piccoli gesti di rispetto: un
pizzico di tabacco, libagioni di latte
e acqua.
Infine, accanto all’azione di Akuj
e degli spiriti, i turkana credono in
realtà soprannaturali impersonali,
controllabili dagli specialisti: maghi
e indovini, possessori di poteri positivi
o distruttivi. Ne esistono parecchi,
ma il più popolare, stimato e temuto,
è l’emuron, spesso molto ricco,
grazie al contributo in bestiame
che riceve per le sue prestazioni.
Personaggio caratteristico, presente
in quasi tutti i villaggi, è il «lanciatore
dei sandali»: dalla posizione che
tali aesi assumono in volo e nella ricaduta,
egli diagnostica le cause di
un’anomalia e dà la risposta al problema
che gli viene presentato.
(*) Cfr. anche: Achille Da Ros,
Noi, i Turkana, Emi, Bologna, 1994.

PASSARE TRA LE DITA
EL MOLO
quei «poveri diavoli»

Fisico malsano, endemica debolezza
ossea, labbra macchiate,
denti scoloriti… una trentina di
anni fa gli el molo contavano un centinaio
d’individui, destinati a scomparire
per carenze alimentari e matrimoni
tra consanguinei. Apatia e sregolatezza
facevano il resto: sembrava
che la gente avesse deciso di darsi alla
pazza gioia prima di sparire.
Con la fondazione della missione
di Loyangallani, le cose cominciarono
a cambiare sia dal lato umano che
morale: medicine, igiene e aiuti alimentari
fermarono la moria; i matrimoni
con turkana e samburu hanno
portato un ricambio di sangue e, in
pochi anni, gli el molo sono più che
raddoppiati.

INSEGUITI DALLA SFORTUNA
Per molto tempo gli el molo sono
stati denominati, anche nei censimenti
ufficiali, come ndorobo o dorobo,
storpiatura europea di il torobo,
poveracci: nomignolo con cui i
maasai indicavano una ventina di
gruppetti etnici, el molo compresi,
sprovvisti di armenti e costretti ad arrangiarsi
con altre attività, come caccia
e pesca. La loro vita e attività giornaliera
non potevano essere descritte
con una parola più significativa.
Probabilmente anche il termine
cuscita el molo (o ol molo) significa
la stessa cosa: «pescatori del lago».
Recenti studi etnologici, infatti, li
classificano tra i cusciti e non più nilo-
camiti, come erano ritenuti fino a
pochi anni orsono. Si tratta infatti di
un gruppo cuscita orientale che,
spinto dai somali 500 anni fa, raggiunse
l’estremo nord del Kenya e si
stabilirono lungo la sponda orientale
del lago Turkana.
Attacchi, vessazioni e persecuzioni
da parte di altre etnie circonvicine
continuarono a restringere il loro territorio,
cacciandoli sempre più a sud
e costringendoli a trovare scampo su
minuscole isole. Finché la piccola comunità
sopravvissuta, ritoò a costruire
i loro villaggetti sulla terra ferma,
di fronte alla cosiddetta «isola
delle capre» o più realisticamente «isola
del non ritorno».
Più dei feroci predatori di un
tempo, sembra che sia la natura
ad accanirsi contro gli el
molo. Tutto il territorio, dove
la precipitazione annua
non supera i 50-60 mm,
non offre che pietrame,
con pochi cespugli spinosi
e palme dum. Pur
mitigato da venti che soffiano
notte e giorno, il caldo
raggiunge e supera facilmente
i 45°. Anche per le capre
diventa ardua fatica trovare
qualcosa da brucare. E se le piogge
falliscono, allora è tragedia per gli
animali e per la gente tutta.
Da quando si è cominciato a misurare
regolarmente il livello del lago
Turkana, si è scoperto che esso scende
di 30 cm l’anno: fenomeno preoccupante
per il futuro degli el molo.

ADDIO CULTURA ANTICA
Oggi essi costituiscono una delle
più esigue etnie del Kenya. Secondo
etnologi e missionari, gli el molo puro
sangue sarebbero una quarantina;
quelli con sangue turkana e samburu
oltre 200 individui.
Mescolanza di sangue e contatti
con altre etnie hanno provocato un
processo di acculturazione, specialmente
tra i giovani, in cui è difficile
distinguere gli usi e costumi originari.
Pochi anziani conoscono la lingua
el molo; mentre la gioventù è passata
al samburu o turkana e non capisce
più neppure i canti tradizionali.
I guerrieri samburu, soprattutto,
hanno affascinato i giovani el molo,
almeno nel passato, arruolandosi
nelle loro classi di età e tingendo la
capigliatura con ocra rossa.
Da questa stessa etnia sono copiati
vestiti e abbigliamenti femminili.
Oamenti originali delle ragazze sono
costituiti da dischetti di guscio
d’uovo di struzzo, oppure da rozzi
monili di spine e pinne di pesce. A
volte si fanno collanine di conchiglie,
alle quali è legato un valore sacrale.
Unico capo di vestiario che resiste
è il selah: una specie di gonna aperta
ai fianchi, fatta di funicelle attorcigliate,
indossata da donne e ragazze
specie quando vanno a pescare.
Gli uomini, invece, seguono la moda
turkana, sia nel vestire che nell’acconciatura
dei capelli: parrucca
fatta con peli e pelle di vacca o piume
di struzzo.

CACCIA… A DIO IPPOPOTAMO
Quella degli el molo è essenzialmente
una vita di pescatori: sono abilissimi
nell’uso di arpioni, lenze e
reti o nasse, quanto coraggiosi nello
sfidare le onde del lago, a volte gigantesche,
con una zattera composta
da due tronchi di palma dum, legati
insieme da corde vegetali.
L’arpione è la loro unica arma tipica:
è fatto di un pezzo di ferro, a
cui è fissata una corda vegetale, che
permette di recuperare l’aese e tirare
la preda verso la zattera. Il lungo
manico è ricavato dalla radice di
acacia, raccolta in luoghi esenti da
tabù. D’uso comune sono le reti fatte
con fibre della solita palma dum,
come pure quelle europee, nonché
un tipo di nassa che essi chiamano
«rete dei turkana».
Naturalmente la dieta degli el molo
è basata essenzialmente sul consumo
di pesce, soprattutto pesce
persico e tilapia. Coccodrilli, tartarughe
e ippopotami procurano a volte
un apprezzatissimo cambio nel
menù. Il pesce è di solito arrostito sul
fuoco, oppure viene tagliato a strisce
ed essiccato al sole, per poi essere
rammollito in acqua e bollito in pentolini
di recupero.
Il dattero di palma e bacche di
sokotei costituiscono il secondo nutrimento,
specie per i giovani. Marginale
è il consumo di latte, fornito
dalla modesta quantità di bestiame,
allevato per scambi matrimoniali.
La carne d’ippopotamo è considerata
nutrimento di prima classe e,
quando ne sentono il bisogno, gli el
molo organizzano tutti insieme battute
di caccia in grande stile. È sempre
un’impresa pericolosa, rivestita
di senso mitico: l’ippopotamo è considerato
quasi una divinità, un dio
che dona la sua stessa vita per la buona
salute del «popolo del lago».
L’ippopotamo è al centro di una
speciale cerimonia, detta ngwere, celebrata
ogni due o tre anni a Moite,
65 km dagli usuali accampamenti. In
tale festa vengono ricordati gli antenati
con danze e canti, accompagnati
dallo sbattere di due bastoncini. Il
capo gruppo spiega le parole dei
canti, dato che pochi ormai conoscono
la lingua.
Quando viene aperta la caccia al
pachiderma, i giovanotti vengono
frustati dai vecchi, per stimolarli alla
ricerca dell’animale. Una volta localizzato,
il giovane prescelto deve
lanciarglisi contro con coraggio, se
non vuole buscarsi altre frustate.
L’uccisore dell’ippopotamo diventa
una persona tabù: per tutta la durata
della cerimonia non potrà cibarsi
della carne della vittima; in compenso
è acclamato come eroe della festa
e avrà diritto a fregiarsi di un amuleto
fatto di osso dell’animale, appeso
al lobo dell’orecchio.

VITA SOCIALE
Punti fondamentali della vita sociale
degli el molo sono la circoncisione
maschile e femminile. Quest’ultima
avviene lo stesso giorno del
matrimonio, come tra i samburu, dai
quali probabilmente hanno copiato
il rito.
Una volta, la dote, versata dallo
sposo al suocero o alla parentela della
sposa, ammontava a quattro pali
di palma dum per costruire la zattera,
un arpione da pesca e una rete di
funicelle; attualmente, da quando
sono permessi i matrimoni con
turkana o samburu, tale pagamento
consiste in qualche mucca e capra.
Alla sposa, poi, il giorno del matrimonio,
viene dato un nuovo nome
da parte del marito.
Compito dell’uomo è badare alla
pesca e al pascolo, per chi possiede
bestiame. La donna si occupa della
costruzione della capanna, cura dei
figli, provviste di acqua e quant’altro
concee la misera cucina.
La società el molo è acefala, anche
se si pratica un certo rispetto per
l’anziano, eminente per doti umane
e sacrali.
Ogni nascita è salutata da preghiere
a Wacq (Dio), nell’ambito della
famiglia, senza partecipazione del
clan. A differenza di altri popoli, gli
el molo accettano con gioia i parti gemellari.
La morte è considerata un ritorno
presso Wacq. Gli adulti vengono
sepolti fuori del villaggio, vicino
al lago, e il tumulo è ricoperto di
pietre. Poi tutto il villaggio si sposta
dal luogo dove sorgeva.

GABBRA
pace, pioggia e lunga vita

Pelle color rame, corpi longilinei
e volto dai lineamenti asciutti e
fini non lasciano dubbi: i gabbra
(*) sono uno dei tanti gruppi cusciti
della grande famiglia oromo (Etiopia),
con i quali condividono lingua
e cultura pastorale. Dai somali
hanno attinto elementi arabo-musulmani
e la predilezione per i cammelli,
che assumono rilevante importanza
economica, sociale e rituale.
Abitano a cavallo del Kenya ed Etiopia.
La zona kenyana (35.000
kmq) si estende dalla sponda orientale
del lago Turkana fino al centro abitato
di Marsabit ed è popolata da
oltre 25 mila gabbra, 36 mila cammelli,
9 mila bovini e 360 mila tra pecore
e capre.

VAI DOVE TI PORTA IL VENTO
Il territorio dei gabbra è un immenso
tavolato dove steppe e savane,
disseminate di arbusti spinosi ed
erbe secche, si alternano a deserti di
pietraie e polvere lavica, circondate
da rilievi rocciosi e ammassi morenici
di origine vulcanica, simili a enormi
palle di cannone arrugginite.
Il turista che vi si avventura nella
stagione secca non può sottrarsi all’impressione
di essere capitato in
una solitudine sconfinata, soprattutto
di fronte al deserto del Chalbi, incrostato
di sale, regno assoluto della
fata morgana. Chi invece vi arriva
durante la stagione umida (marzo-aprile
e novembre) e vede scrosciare
le piogge, lo scorrere tumultuoso di
torrenti in piena, lo spuntare rapido
dei fiori, pianura e monti ricoprirsi
di verde, può comprendere perché i
gabbra amino questa terra.
Conservatori come tutti i popoli
pastori, quella dei gabbra è l’etnia
kenyana meno toccata dall’occidentalizzazione.
Cultura e strutture sociali
sono mirabilmente adattate all’habitat,
lasciandolo intatto come è
da millenni. Lavoro e vita sono guidati
dalla natura, dai ritmi lunghi delle
stagioni, gestazioni e crescite.
I gabbra comprano dal fabbro accetta,
lancia, coltello, scalpello per lavorare
il legno; per il resto sono indipendenti
e ricavano quanto occorre
loro da ciò che offrono la natura e
il mondo animale.
Attività principale è la pastorizia,
accompagnata da un semplice artigianato
per uso domestico: sedie, recipienti,
coppe, manici, bastoni, borse,
cordami.
L’abitazione soprattutto rivela lo
spirito di adattamento dei gabbra.
Costruita con materiali vegetali e
pelli, pianta circolare di 3-4 metri di
diametro, struttura a cupola, essa è
facilmente montabile e smontabile,
per essere trasportata quando, alla ricerca
di acqua o nuovi pascoli, essi
migrano liberi e leggeri come il vento,
che corre libero e gagliardo, inebriato
dagli spazi immensi.
La terra appartiene a tutta l’etnia;
il bestiame è proprietà dei capifamiglia.
Tutti hanno diritto di accedere
ai pozzi: la priorità può essere riservata
a chi ha costruito o riparato il
pozzo; gli altri si attengono pazientemente
e rigorosamente ai tui decisi
dagli anziani. Inoltre, prima si abbeverano
le bestie, poi le persone.

ATTÀCCATI AL TRENO!
La famiglia (worra), per lo più monogamica,
è il fondamento della società
dei gabbra. Essi vivono in villaggi
(olla) di una ventina di capanne,
disposte in fila o in semicerchio,
circondate da una siepe di rami spinosi
con due entrate. Accanto alla capanna
ci sono i recinti del bestiame.
In ogni villaggio l’assemblea degli
anziani, raccolta sotto un albero, cura
gli affari di politica, amministrano
la giustizia e dirimono le questioni
comunitarie: ricerca di nuovi pascoli,
migrazioni, dispute, date di celebrazioni,
tui di abbeveramento degli
animali, epidemie, pericoli di attacchi
nemici. Nel consiglio emerge
la figura dell’«abba olla» («padre del
villaggio»), con funzioni di guida,
proporzionate alle doti personali.
Un’unità più vasta raggruppa i discendenti
da un capostipite comune
e non lontano nel tempo. I membri
del lignaggio sono tenuti ad aiutarsi
a vicenda, specie in caso di vedovanza,
razzie subite o carestie.
Il clan o sezione (gosa) è alla base
dell’organizzazione della vita. Sono
cinque: Alganna, Galbo, Gara, Odola
e Sharbanna. Il principio di discendenza
è patrilineare: ogni gabbra
sa fin da fanciullo a quale gosa appartiene
suo padre e quindi egli stesso.
Il ricordo del nome degli antenati
si spinge fino alla 10a generazione.
Ogni clan si organizza come unità
sociopolitica, in molti aspetti autonoma,
con funzioni rituali e costumi
propri, con un gruppo di anziani responsabile
dell’andamento generale
e particolari funzioni giudiziarie, per
dirimere i problemi di difficile soluzione.
Questi anziani risiedono in un
villaggio sacro, detto yaa, dove sono
custoditi gelosamente i simboli sacri
clanici: tamburo, corno e bastoncini
per l’accensione del fuoco.
Ma la struttura socio-politica più
tipica dei gabbra è la classe di età (luba),
uno dei più affascinanti modelli
socio-politici dell’Africa. In tale sistema
ogni generazione assume, via
via, compiti e funzioni dapprima privati
(farsi la propria famiglia), poi sociali,
politici e religiosi (ordinare la
cosa pubblica e celebrazione di riti),
per restringersi, infine, in un gruppo
con funzioni di consiglio e rappresentanza.
Il sistema delle classi di età tra i
gabbra può essere paragonato a un
treno in corsa, composto da 10 vagoni,
in cui viaggiano tutti i membri
dell’etnia, eccetto i ragazzi non ancora
iniziati e le ragazze nubili; in ogni
carrozza ci sono i componenti di
una stessa classe. Ogni 8 anni il treno
si ferma e tutti i passeggeri passano
dal proprio vagone a quello precedente,
lasciando libero l’ultimo,
sul quale salgono i giovani, che cominciano
così il loro cammino nella
vita sociale.
Tale fermata, o passaggio di classe,
viene celebrata con grande enfasi,
specie per gli anziani, ai quali sono
conferiti i poteri rituali, prestigio sociale
e custodia delle tradizioni. La
circoncisione dei giovani, invece, di
solito avviene nell’adolescenza senza
che l’evento sia solennizzato.

PACE E PIOGGIA
I gabbra credono in un unico Dio,
chiamato Waqa, che significa cielo e
fenomeni atmosferici. Egli è signore
della vita e della morte e sanzionatore
del male. La religione è piuttosto
ritualistica, basata sulla natura, ordinata
ai bisogni dell’uomo ed espressa
in riti, cerimonie, sacrifici, feste,
danze, canti e benedizioni.
I gabbra non conoscono altro intervento
di Dio se non quello che egli
compie nella natura e nella vita.
Le sue parole sono pioggia, stagioni,
nascita dei figli, morte, malattie, ritmo
del tempo, prosperare degli uomini
e animali.
In genere si prega per ottenere,
non per glorificare. L’uomo è il centro
di attenzione: si chiede pioggia,
pace, figli, salute. I riti si svolgono in
un’atmosfera di serenità, tanto più
che sono sempre feste sociali. Nelle
preghiere si usa il passato: per invocare
la pioggia si dice: «Qui è piovuto
»; per chiedere la pace: «Noi siamo
uomini di pace» (vedi riquadro).
Pioggia e pace sono due valori fondamentali
della società gabbra, espressione
del modo di porsi in rapporto
con la natura, con Dio e con
gli altri.
Tra i gabbra non c’è parola più ripetuta
del termine nagaya (pace) nel
senso più vasto del termine: armonia,
ordine, sereno compimento del
proprio lavoro, intesa e accordo tra
i membri del villaggio, crescita ordinata
degli animali, celebrazione regolare
di feste e riti, libertà da attacchi
nemici, malattie, carestie.
In un ambiente dove la precipitazione
non supera i 200 mm l’anno e
non è sempre puntuale, la seconda
parola più ricorrente in conversazioni
e preghiere è bokaya, pioggia, attesa
con spasmodica pazienza.
L’attesa è la logica dei gabbra. Non
si tratta di inerzia o fatalismo, ma di
semplice fiducia in Dio, poiché da
lui tutto dipende: da Waqa viene la
pioggia, dalla pioggia l’erba, dall’erba
il latte, dal latte la vita.

L’ISOLA… CHE NON C’È
Pioggia e pace, dunque. Due valori
che potrebbero far pensare alla società
gabbra come un’isola di uomini
felici. In realtà istinto di aggressività
e desiderio di trionfare sul
nemico, difficoltà ambientali, tensioni
provenienti dalla vita quotidiana
e dal contatto con altre culture
creano non pochi problemi.
Essi desiderano e invocano la pace
per la propria etnia; ma diventano
aggressivi e spietati con le tribù
vicine, fatta eccezione per i borana,
loro fratelli e di cui parlano la lingua,
e a volte per i rendille. Nemici tradizionali
sono samburu e shangilla.
L’esaltazione del valore viene espressa
in riti e canti che inneggiano
al coraggio, alla vittoria e vendetta.
L’uccidere un nemico è gloria imperitura
in seno alla società; un grosso
anello d’avorio oa il braccio dell’uccisore;
le donne esaltano il guerriero
e gli mettono al collo una delle
loro collane dicendo: «Ne hai ucciso
uno, uccidine un secondo!».
I gabbra lasciano la caccia di gazzelle
e antilopi ai wata: una classe di
uomini di origine straniera guardata
con un certo disprezzo; mentre provano
coraggio e bravura uccidendo
gli animali più pericolosi: leoni, elefanti,
rinoceronti.
Tale orgoglio viene espresso anche
nel canto:
«Leone solitario!
Hai la criniera come la chioma
di una giovane donna.
Ma quando da lontano
fai sentire la tua voce
chi non ha coraggio dice:
son morto!
Leone solitario,
mi hai irritato.
Sono sceso dalla collina
e t’ho finito».
(*) Cfr. Paolo Tablino, I gabbra del Kenya,
Emi, Bologna 1980.

BORANA
pacifici, ma non pacifisti

«Dio creò l’uomo e un elefante,
li pose in un meraviglioso
giardino; tutti
i giorni passeggiava con loro. Nel
giardino c’era un fiume d’acqua limpida;
ma l’elefante la intorbidiva e
non ascoltava né Dio né l’uomo che
gli dicevano di non farlo. Allora l’uomo
uccise l’elefante. Dio si stizzì per
tale gesto e cacciò l’uomo dal giardino.
Per questo i borana vivono nella
disperata ricerca d’acqua, seminomadi
in un semideserto».
Dal «paradiso perduto» alla dura
realtà presente: il breve mito racchiude
secoli di storia.

RITORNO ALL’INFERNO
In un tempo imprecisato, popolazioni
dell’alto Egitto migrarono nelle
regioni montagnose dell’Etiopia
meridionale. Non era il paradiso, ma
ce n’era quanto bastava per fermarsi
stabilmente, dedicandosi all’agricoltura, ma senza dimenticare l’allevamento
dei bovini. Così nacque l’etnia
cuscita (o camitica) degli oromo.
A partire dal secolo XVI, la crescita
demografica e la diminuzione di terre
produttive causarono frizioni e lotte,
anche sanguinose. Molti oromo si
staccarono dal ceppo originario e ripresero
a migrare, dando origine a
circa 200 gruppi di differente consistenza
numerica, gelosi della propria
autonomia, pur conservando lingua
e tradizioni culturali.
Alcuni si spinsero verso est, ma furono
ricacciati dai somali. Costretti
a migrare verso sud, occuparono le
regioni ai piedi dell’acrocoro etiopico
e continuarono a coniugare agricoltura
e allevamento.
Altri, poi chiamatisi borana, si
sparsero nel semideserto, a cavallo
tra Kenya ed Etiopia: ambiente più
simile all’inferno che al paradiso dei
miti delle origini. Nelle immense distese
di sabbia e pietraie sono tornati
alle antiche abitudini del nomadismo,
con un drastico cambiamento
economico e culturale: all’allevamento
dei bovini hanno aggiunto
quello dei cammelli, una volta disprezzati,
insieme ai loro pastori.
Oggi i borana contano 4-5 milioni
di persone, in maggioranza stanziate
in Etiopia; 90 mila circa vivono in
Kenya, concentrati nei distretti di
Marsabit, Moyale e Isiolo, con altre
comunità sparse fino al fiume Tana e
al distretto di Garissa.
La sopravvivenza nel semideserto
non è facile: a volte la pioggia si fa attendere
per anni; negli ultimi decenni
solo sei volte è caduta in abbondanza.
Ogni anno essi sono costretti
a spostare le loro mandrie di capre,
pecore, bovini e cammelli da un luogo
all’altro, fino a 100 km di distanza,
in cerca di pozzi e nuovi pascoli.
Varie carestie hanno reso i borana
sempre più dipendenti dagli aiuti umanitari,
una situazione aborrita da
questo popolo orgogliosamente abituato
alla propria autosufficienza.

«PACE BORANA»
Il termine borana significa «amico,
persona gentile». Il peggiore rimprovero
a una persona che si comporta
male è: «Non sei borana!».
La coesione etnica è il massimo ideale, che va sotto il nome di nagya
borana: pace borana. Di fatto essi sono
un popolo pacifico: la pace all’interno
dell’etnia è un valore sacrosanto
e inviolabile. Ma anche con le
altre popolazioni del Kenya essi mantengono
rapporti cordiali. Ma in passato
si sono verificati scontri sanguinosi
per difendere i pascoli ed episodi
di reciproche razzie di bestiame.
La gestione delle risorse ambientali
è decisa dagli anziani. Quando i
pascoli e le risorse idriche si esauriscono,
una delegazione si reca nei
villaggi che hanno ancora l’acqua per
chiedere il permesso di accedere. In
quell’occasione vengono concordati
il numero di mandrie e il periodo
nel quale è consentito l’accesso.
I borana hanno un grande senso
comunitario: se un membro della comunità
è in difficoltà, tutti gli altri
sentono il dovere di aiutarlo. Per
questo vige tra loro un’assistenza reciproca
su basi quotidiane. Ne è esempio
l’approvvigionamento d’acqua,
elemento vitale per la gente e gli
animali: un lavoro che a volte richiede
decine di persone.
Il rifoimento avviene ogni mattina
dai cosiddetti «pozzi che cantano
». Scavati in un’arida valle, essi penetrano
verticalmente nel terreno fino
a 4-5 metri. Alcuni uomini
scendono nel fondo del pozzo e, immersi
nel fango fino al torace, raccolgono
l’acqua melmosa in secchi
fatti di pelle di giraffa e li passano agli
uomini in bilico su speroni di roccia
lungo le pareti. Raccolta d’acqua
e passamano di recipienti vuoti e pieni
avvengono con tutto il tempismo
e la destrezza di un gioco di prestigio
e con movimenti sincronici ritmati
dal canto.

VIVA LA DEMOCRAZIA
I borana sono parenti stretti dei
gabbra, tanto da assomigliarsi anche
fisicamente: corporatura longilinea,
pelle bruno-rossiccia e volto
asciutto. Le donne vestono un telo
di cotone avvolto attorno al corpo e
un velo sul capo; dopo il matrimonio
si acconciano i capelli con numerose
treccine. Oamenti in alluminio,
ambra e rame, completano
l’abbigliamento in forma di collane,
bracciali e cavigliere. Gli uomini indossano
larghi pantaloni, un telo
sulle spalle e un turbante, tutti in
cotone bianco.
Nella costruzione dell’abitazione
grabbra e borana si somigliano: capanna
a cupola e pianta cilindrica;
con la differenza che i borana coprono
il tetto con paglia e fango; i
gabbra con pelli di animali. Le due
etnie parlano pure la stessa lingua.
Più case formano un villaggio, che
si sposta in accordo con le esigenze
di pascolo. Alle donne spetta il compito
di smontare e ricostruire la casa
nei vari spostamenti.
La società borana è strutturata in
clan patrilineari ed esogamici e in
classi di età (gada); ma il loro sistema
è più complesso e… democratico di
quello gabbra.
Non il singolo né certi uomini soltanto
curano la cosa pubblica, ma
tutti, a loro tempo, esercitano le loro
responsabilità in gradi e classi, dai
«fanciulli sacri», ritenuti portatori di
benedizioni, a quello degli «anziani
sacri», passando per i gradi dei ragazzi
tenuti in casa, i giovani che vanno
a pascolare lontano, i giovani
guerrieri (cusa), i guerrieri veri e propri
(raba), i dirigenti e gli anziani.
Il passaggio da una classe all’altra
avviene ogni otto anni: due di esse
sono festeggiate in modo solenne:
quelli che segnano l’ingresso al sesto
grado d’età, caratterizzato dall’esercizio
del potere, verso i 40 anni, e
l’ultimo grado, l’entrata nella classe
degli anziani sacri. Per l’occasione
tutti gli interessati si riuniscono in
una data località, sempre la stessa;
costruiscono un grande villaggio semicircolare,
attorno a un recinto, in
cui il bestiame viene temporaneamente
tenuto in comune.
I borana hanno una struttura organizzativa
molto attiva: nonostante
le distanze, le informazioni relative
alle leggi dei borana e alle decisioni
prese dai dirigenti, anziani e abba gada
(punto di riferimento per tutti i
borana) vengono trasmesse da una
fitta rete di comunicazioni verbali,
che mantiene in contatto tra loro i
villaggi, anche quelli oltre il confine.

AUGURI E… FIGLI MASCHI
Nella classe dei raba (guerrieri) si
entra verso i 30 anni e dura una dozzina
d’anni: loro compito è quello
della guerra. Per otto anni non possono
sposarsi né avere figli, per essere
liberi nei loro spostamenti. Qualora
ci fossero, vengono abbandonati.
Passati gli 8 anni possono avere
figli, purché siano maschi; ma vengono
allevati fuori casa, finché il padre
non esca dal grado di raba, e sono
affidati ai wata, un gruppo di persone
che vive tra gabbra e borana con
usi e costumi particolari. Se nascono
femmine, vengono abbandonate.
L’infanticidio è ancora oggi praticato,
anche se tale costume sta cambiando:
il sentimento naturale sta
prevalendo sul costume e la prole,
anziché soppressa viene affidata a
persone di differente etnia.
Negli ultimi anni del raba, il guerriero
deve pensare a formarsi una famiglia:
compie numerose visite alla
famiglia della ragazza prescelta, recando
doni in tabacco, caffè o bestiame.
Prima di ottenere il consenso,
egli viene volutamente fatto attendere
per lungo tempo.
Ottenuto l’ok, viene celebrato il fidanzamento;
dopo breve tempo,
sborsati quattro bovini alla famiglia
di lei, seguono le nozze, che si svolgono
in parte nel villaggio della sposa,
in parte in quello dello sposo. A
celebrazioni concluse, la convivenza
dei coniugi ha inizio nel villaggio del
marito. Questi è tenuto a evitare la
suocera.
I bo

BENEDETTO BELLESI




KENYA, AMORE NOSTRO

Voci speciali del coro

Missionari alla ribalta
Ecioè: padre Giuseppe Richetti,
ricco di molti doni; suor Prisca
Groppo, «la grande sorella medico»;
padre Franco Soldati, divenuto africano
come pochi; i padri Peter Njoroge
e Joseph Otieno, kenyani, oggi missionari
in Corea del Sud; padre Franco Cellana
con i ragazzi di strada a Nairobi….

LA RICCHEZZA
DI MOLTI DONI

Padre Giuseppe Richetti (1933-1993)
I giovani e i pellegrini che in quest’anno
centenario del nostro arrivo
in Kenya hanno visitato la
«culla» delle missioni della Consolata,
a Tuthu, avranno certamente sostato
presso un tempietto, isolato
nella radura: è il luogo esatto dove, il
29 giugno 1902, fu celebrata la prima
messa in territorio kikuyu. Quel
monumento, modesto e prezioso ad
un tempo, fu progettato e realizzato
da padre Giuseppe Richetti. Tra le
molteplici attività della sua vita missionaria,
era anche attento alle piccole
cose, ai «segni» capaci di suscitare
emozioni e interrogativi.
Ricordandolo oggi, a quasi 10 anni
dalla sua scomparsa improvvisa,
l’immagine che di lui è rimasta più
impressa è quella di un uomo «tuttofare
», dall’instancabile e variegata
attività. Per lui, essere missionario significava
affrontare la realtà con generosa
dedizione e sguardo intelligente,
per rispondere ai bisogni, prevenire
le attese, inventare soluzioni.
Se la parola non fosse un po’ abusata,
si potrebbe dire che fu «un profeta
»: non arrabbiato o scostante, ma
buono, sensibile e… furbo!
L’Africa l’aveva nel sangue e, prima
di raggiungerla, dopo l’ordinazione
sacerdotale, aveva dovuto aspettare
«impazientemente» oltre 10
anni in Italia e Spagna. Le idee sulla
missione le aveva chiare, anche perché
aveva operato una scelta convinta,
lasciando il seminario diocesano
di Modena per entrare tra i missionari
della Consolata.
Ma i superiori volevano prima approfittare
delle molteplici doti di un
giovane prete, pieno di entusiasmo e
voglia di fare, brillante nell’insegnamento,
trascinatore nell’animazione
missionaria, capace di maneggiare
senza problemi soldi e bilanci. Anche
se lui, il chiodo lo ribatteva continuamente,
insistendo con richieste
accorate per la partenza, convinto
che se questa fosse stata ancora dilazionata,
avrebbe inferto «un colpo
mortale al suo entusiasmo missionario».
Finalmente, nel 1968, poteva raggiungere
il Kenya, convinto che quello
sarebbe stato il luogo definitivo
dei suoi giorni, che nessuno gli avrebbe
mai strappato via; nemmeno
i superiori che, dopo aver tentato di
proporgli un’eventuale destinazione,
come economo negli Stati Uniti, si
sentirono rispondere: «Non mi sento
più di lasciare questa vita per intraprendere
un lavoro in gran parte
sconosciuto e che, nel poco che conosco, mi ripugna profondamente…
Mi permetto di chiedere di non darmi
un’obbedienza che mi richiederebbe
una violenza che non sono in
grado di farmi!».
Ci riuscirono in realtà, qualche anno
dopo, a farlo ritornare in Spagna
come maestro dei novizi. Ma fu solo
una parentesi di nemmeno due anni.
In Kenya iniziò nella missione di
Tompson’s Falls e poi a Kerugoya.
Qui, pur sommerso da intense attività
pastorali, riuscì a costruire, con
l’aiuto dei fratelli coadiutori, un’artistica
chiesa parrocchiale (la prima di
una lunga serie), funzionale e ammirata
da tutti. Insieme ad un’équipe affiatatissima,
fu richiesto per due anni
a Nyeri, per organizzare il «Centro
pastorale».
Nonostante fosse impegnato al
massimo nel campo pastorale (e anche…
murario), non trascurava quello
che era uno dei suoi risvolti più caratteristici:
l’attenzione amorosa ai
poveri. Rimaneva profondamente
colpito dalle situazioni di indigenza
e, nello stesso tempo, della sua impotenza
di fronte all’enormità dei
problemi.
Scriveva agli amici, nel natale del
1992: «L’esperienza più forte è quella
della povertà, nei suoi aspetti elementari
(mancanza di cibo-medicine-
vestiti) e in quelli più complessi:
bambini che non vanno a scuola, genitori
che non si curano dei figli, disoccupazione
giovanile, corruzione…
Davanti a tali situazioni, spesso mi
prende un senso di impotenza. Tanto
più che, mentre tradizionalmente
la frateità del clan assicurava protezione
a tutti e a ciascuno, oggi le esigenze
della sopravvivenza acuiscono
(ahimè) l’individualismo… “I poveri
li avete sempre con voi e potete
aiutarli quando volete”. Ma li teniamo
veramente sempre con noi, in
mezzo a noi? Oppure, sono sempre
più emarginati e dimenticati? Cosa
vuol dire aiutarli? Si fa presto a dire:
“Insegnate a pescare, invece di dare
un pesce!”. Non bisogna dimenticare
che per pescare, oltre all’amo, occorrono
i pesci e l’acqua!». Sono rimaste
famose due sue iniziative, per
venire incontro ai bisogni: il «revolving
fund», microcrediti concessi alla
gente e che, una volta restituiti, venivano
nuovamente «investiti» per
altri; e il mulino mobile, trasportato
di villaggio in villaggio, secondo le
necessità di coltivatori e contadini.
Venne anche nominato amministratore
della missione del Sagana: una
realtà complessa e variegata per la
presenza di molteplici attività: noviziato,
casa di ritiri, parrocchia, dispensario,
villaggio per donne anziane,
scuole professionali… Riuscì, come
sempre, a tenere testa a tutto con
vivacità, saggezza e creatività.
Un tocco tutto personale lo diede
all’ideazione della cappella rotonda
della Bethany House, così da lui sognata:
«I fedeli siedono su di un’unica
panca circolare, che corre tutta intorno
all’edificio; lo scranno più alto
è riservato al celebrante: simbolo della
comunità, stretta attorno al suo pastore.
L’altare, al centro, costruito su
una roccia che balza dal pavimento,
richiama il Calvario; l’ambone è la
tomba vuota, rappresentazione plastica
del mistero che qui si celebra:
calpestando la tomba, simbolo di
morte, proclamiamo la risurrezione».
Tra le numerose iniziative, rimise
in attività la tipografia, sfoando a
pieno ritmo sussidi di ogni tipo per
la formazione di catechisti, animatori
di gruppi giovanili, leaders di comunità
di base, missionari. Suo chiodo
fisso era il catecumenato degli adulti
(non molto presente in Kenya,
nonostante la riforma del Concilio ecumenico):
si impegnò perché fosse
serio, duraturo, impostato come vero
cammino di iniziazione cristiana,
quale era appunto nella chiesa dei
primi tempi.
L’aspetto che più colpiva in padre
Giuseppe, fragile all’apparenza, erano
le mille idee che erogava, instancabile
nel ricercare il nuovo, ma attentissimo
anche agli aspetti più normali
dell’esistenza. Amava fermarsi
a chiacchierare con tutti, domandando
informazioni, interessandosi
ai problemi (anche spicci) e elargendo
consigli pratici (e non solo spirituali)
sull’agricoltura, l’allevamento,
le costruzioni, le malattie, i soldi…
Ebbe anche problemi di salute e due
volte dovette subire l’operazione all’anca
destra, che lo costrinsero ad usare
un caratteristico bastone-seggiolino
a forma di ombrello, che non
abbandonava mai.
L’ultimo suo campo di lavoro fu
alla periferia di Nairobi, nella
parrocchia di Banana Hill (la collina
delle banane): piccola come territorio,
ma popolata di 65 mila persone
(1.500 per chilometro quadrato), con
una marea sconfinata di giovani:
2.700 nella scuola matea; 14 mila in
quella elementare; 7 mila al liceo. Cifre
da capogiro! Come sempre, si
tuffò nell’impresa cercando di trovare,
ancora una volta, strade e mezzi
perché la piccola comunità cristiana
locale diventasse punto di riferimento
e luogo di frateità per tutti.
Ma quell’uomo che non sapeva coniugare
il verbo «riposare» non riuscì
a terminare la lunga serie dei progetti
in cantiere. A soli 60 anni, la sua
corsa frenetica si arrestava, lasciando
in tutti il vuoto e la tristezza per la sua
scomparsa.
Una persona buona, generosa e capace
di sognare in grande. Con i piedi
per terra e un grande ottimismo in
cuore.

L’HOTEL A CINQUE STELLE
«Andiamo a parlarne… nell’hotel
a cinque stelle, dove mangiano
e dormono».
Non riesco a capire dove voglia parare
questo trentino tagliato con l’accetta,
con una trentina d’anni di missione,
che trasmette simpatia a chili.
Ma stasera è giù di corda, padre Franco
Cellana a Nairobi: un paio di ore
fa, la polizia ha «pizzicato» 20 suoi ragazzi.
La stampa locale, il giorno dopo, ne
darà ampio risalto: volti terrorizzati di
bimbi fra poliziotti sorridenti e soddisfatti
del loro operato. La didascalia
di una grande foto recita: «Ragazzi
di strada. La polizia ha ricevuto numerose
denunce da pedofili aggrediti
e derubati»… Secondo padre Franco,
le retate si ripetono regolarmente: e,
dopo 3-4 giorni, i ragazzi ritornano
stravolti. Cosa succede in quel lasso
di tempo? Meglio sorvolare…
Sono le 9 di sera. Alcuni ragazzini
ci corrono incontro. Da un baracchino
nei pressi, padre Franco incomincia
a servire la cena. Gli «ospiti» siedono
sul marciapiede. La strada è il
loro quartiere; qui vivono e dormono.
Il cielo come tetto; asfalto o erba come
materasso. Schiena contro schiena
per sentire meno freddo: a Nairobi
le notti sono abbastanza rigide.
Mi siedo fra loro, ma non posso
non pensare alle mie tasche: c’è roba
da sfilare, se lo volessero. Ma sono
con il «loro padre», che difenderebbero
senza riserve: anche a costo di
pesanti conseguenze da parte di aggressori.
Aggressori forse su commissione,
perché il «loro padre è scomodo».
Mentre mangiamo, i ragazzi parlano
in swahili con foga. Per uno strano
miracolo (che nei paesi poveri
spesso succede), il senso del loro discorso
giunge anche a me, mentre essi
capiscono il mio. Chiedo loro di
cantare qualcosa.
Passano le ore, ma non hanno intenzione
di mettersi a dormire: temono
che la polizia possa ritornare.
Molti di loro non hanno mai ricevuto
un gesto di affetto, una parola buona.
Molti non conoscono il papà, ma solo
le percosse di tanti patrigni…
È notte fonda. Il taxi, che mi deve
portare alla modesta stanza in cui soggiorno,
attende. Cinque ragazzi si offrono
di accompagnarmi. «Potrebbe
essere pericoloso» dice uno. Uno di
quelli che, secondo negozianti e poliziotti,
borseggiano le signore troppo
eleganti. Ed è vero: e pure padre
Franco li rimprovera.
Questi, però, quasi a giustificarlo,
mi fa capire che la lotta contro la miseria
è sempre troppo dura.
Il missionario mi abbraccia, come
se ci conoscessimo da sempre. Poi…
«Hai visto il loro hotel a cinque stelle?
». Al mio no, con un dito indica il
cielo. «A Nairobi è sempre nuvoloso.
È difficile vedee più di cinque…».
Una sonora risata accompagna il primo
quarto di luna che si affaccia tra le
nubi.
Ripenso ad altre espressioni di padre
Franco. «Nelle baraccopoli
di Nairobi lo stato di denutrizione è
permanente. L’inquinamento presso
le discariche provoca asma e congiuntivite.
Tifo e malaria sono endemici.
Frequenti le epidemie di colera,
epatite e meningite. La tubercolosi è
in recrudescenza. Per non parlare dell’Aids…
Il mondo missionario ha fatto
molto, ma non basta. Occorre ripensare
la sanità secondo ideali umani
e cristiani più veri, credendo che la
salute per i poveri non è un’elargizione,
ma un diritto sacrosanto…».
MARIO BELTRAMI

UN’«ANGIOLA»
PER AMICA

Suor Prisca Groppo (1931-1971)
Aveva solo 40 anni. La sua vita
si fermò impietosamente
sulla strada Mombasa-Nairobi.
L’incidente (uno dei tanti su
quel tragitto della morte) strappava
al Kenya una missionaria tutta d’un
pezzo, generosa, intraprendente e
piena di sogni per alleviare le sofferenze
dei malati: suor Prisca Groppo,
la sister dagetari mkuu (la grande
sorella medico), come la chiamavano
gli africani (*).
Originaria di Torino, aveva dovuto
sfuggire ai pericoli della seconda
guerra mondiale rifugiandosi a Casorzo,
piccolo paese del Monferrato,
dove era rimasta per tre anni. E fu lì
che, ancora tredicenne, decise di dare
alla sua vita una direzione precisa.
Si era trovata per caso al funerale di
una suora della Consolata, morta a
soli 27 anni, senza aver potuto coronare
il suo sogno missionario. La piccola
Angiola (così si chiamava allora
suor Prisca) fu folgorata dal pensiero
che il posto di quella giovane suora
fosse rimasto vuoto. Disse tra sé: andrò
io per lei in Africa!
E quella decisione, frutto forse dell’emozione
del momento, rimarrà come
un chiodo fisso, una strada ormai
decisa e che aspettava solo di essere
percorsa. Per questo, quando dopo il
liceo si trattò di scegliere l’università,
nonostante che le piacessero le lettere
classiche, si iscrisse alla facoltà di
medicina: sempre in vista dell’Africa.
Intanto, accanto agli studi, riempiva
le sue giornate di mille altri «interessi
», in favore degli altri: i ragazzi dell’oratorio,
i piccoli a cui dare ripetizioni,
gli anziani delle soffitte torinesi,
gli ammalati e i poveri della «San
Vincenzo»…
Era una bella ragazza, esuberante
e piena di vita, ma anche capace di silenzio
e preghiera. Ai genitori aveva
confidato il suo sogno, che però poté
realizzare solo dopo aver raggiunto i
21 anni, diventando maggiorenne. Le
costò non poco lasciare il suo mondo
felice, i genitori che l’adoravano e, soprattutto,
il fratello Gian a cui scriveva:
«Noi due eravamo proprio amici
e tu ti fidavi molto della tua sorella così
mattacchiona. Ma sei stato contento
della mia gioia, mi hai capita e non
ti sei vergognato di fronte ai compagni
per avere una sorella così… retrograda
da andare a farsi suora».
Il 22 maggio 1955 faceva la professione
religiosa tra le missionarie
della Consolata. Riprese gli studi di
medicina, laureandosi nel 1959. Sensibile
com’era (nonostante le apparenze),
non le fu facile avvicinarsi al
mondo del dolore, soprattutto quando
doveva entrare in sala operatoria.
Con un amico, che incoraggiava la figlia
a iscriversi a medicina, sbottò:
«No, non incoraggiarla, è troppo doloroso
per una donna!». L’amico la
guardò sorpreso e le chiese:
– Ma, allora, perché ti sei fatta medico?
– Oh, per me è diverso – rispose -; lo
sai che l’ho scelto per l’Africa.
Era quella la sua meta, lo scopo
della sua vita. E neanche là sarà chirurgo,
ma solo un medico in giro per
i villaggi a curare, confortare e stare
accanto ai malati.
Arrivò in Kenya nel 1964, all’indomani
dell’indipendenza, e la
sua prima destinazione fu un piccolo
ambulatorio, con 18 letti a 30 chilometri
da Nairobi, che le suore avevano
battezzato Nazareth Dispensary,
proprio per la sua piccolezza e povertà.
E qui, la medico-missionaria iniziò
il suo tirocinio, fatto di accoglienza
dei malati, visite ai villaggi
sparsi sui collinoni vicini, incontro (e
scontro) con atteggiamenti e mentalità
che non sempre riusciva a capire.
Poi il problema della lingua, che imparò
con non poca fatica.
Un medico così bravo come suor
Prisca sembrava «sprecato» in un
piccolo dispensario… e poi le richieste
di assistenza aumentavano sempre
di più. Si arrivò così alla decisione di
ampliare la struttura e fae un vero
ospedale. L’artefice e protagonista di
questa lenta trasformazione fu proprio
suor Prisca; si vide moltiplicato
per mille il lavoro già intenso di medico,
che continuava a svolgere con
amore, intelligenza e la passione di
cercare il meglio. Soprattutto le mamme
impararono ad avere fiducia in
quel malaika rafiki (angelo amico),
capace di commuoversi per i piccoli
che nascevano in numero sempre più
abbondante e che, quando avevano
bisogno di lei, ricevevano sicuramente
il massimo delle attenzioni.
Le mille preoccupazioni per l’ospedale
che stava crescendo rendevano
ancora più faticose le sue giornate;
ma lei era sempre sorridente,
correndo da una parte all’altra, premurosa
e disponibile a chi la chiamava
per un paziente grave o per dare
un parere sul colore della sala operatoria.
Era contenta che i nuovi reparti
avrebbero potuto accogliere più
malati, venire incontro ai bisogni
sempre crescenti. E tutto sempre nello
stesso stile, senza deroghe: «Non
cambieremo sistema: le preferenze
saranno sempre per i più poveri!».
Prima dell’inaugurazione dei nuovi
padiglioni, volle darsi una pausa e
poter fare con calma gli esercizi spirituali.
Ottenne di andare a Mombasa,
sull’Oceano Indiano, dove sarebbe
potuta stare più tranquilla, riposarsi
e pregare con calma.
Il 25 novembre 1971 riprendeva la
strada del ritorno, sulla macchina
che lo zio aveva regalato all’ospedale,
in compagnia di un giovane medico,
autista, una consorella. Improvvisamente
la Volkswagen si trovò incastrata
nel retro di un grosso camion,
accartocciandosi come un giocattolo.
La più colpita fu lei che rimase immobile
mentre il sangue, inarrestabile,
le tingeva l’abito bianco. Fu trasportata
in un ospedaletto, a una sessantina
di chilometri (il più vicino) e
poi a Nairobi. Ma non ci fu nulla da
fare, nonostante le mille attenzioni, i
tentativi, le due operazioni…
Si spense, senza aver ripreso la parola,
il 30 novembre, lasciando attorno
a sé incredulità e disperazione. La
seppellirono nel piccolo cimitero dell’ospedale,
tra quei malati per cui aveva
dato il meglio di se stessa, vita
compresa. L’ultimo gesto, di delicatezza
e affetto fu del cardinale di Nairobi:
non volle che la bara fosse calata
nella tomba, ma vi fece scendere
alcuni uomini perché accogliessero la
missionaria e l’adagiassero, piano piano,
nella terra buona.
Era l’Africa che riceveva il piccolo
seme, perché, nascosto nella terra,
continuasse a portare vita e vita in abbondanza.
(*) Su Prisca Groppo si veda: Gian Paola
Mina, In Africa con amore, Emi, Bologna
1977.

La condizione della donna,
ALLEVIARE IL DOLORE È PROPRIO DI DIO…
Grazia ricevuta: una settimana di deserto, lontana dal
traffico assorbente dell’ospedale. Una settimana trascorsa
fuori del tempo in un altro mondo, un mondo immobile
di sole, pietre e spine. Immersi in questo mondo primordiale
vi sono gli abitanti, perfettamente connaturati con
l’ambiente, i nomadi del deserto appartenenti alla preistorica
età del ferro, senza la minima relazione con l’attuale era
post-atomica.
Il distretto del Nord è la zona del Kenya confinante con
l’Etiopia e la Somalia e si estende a nord-ovest fino al magnifico
lago Turkana nella
Rift Valley. Vulcani
spenti, montagne di pietre
laviche e sabbia danno
un senso di desolazione
eterna. Qua e là
arbusti spinosi. La strada
è appena tracciata:
una pista vagante dalle
mille direzioni, come la
vita quaggiù. Là si sente
che cos’è la vita. Si
percepisce cos’è l’esistenza.
Nulla è facile:
l’acqua per prima. Un filo
d’erba ha il suo valore.
Là tutto è ridotto all’essenziale.
Incontrare
un uomo, là, diventa una
cosa importante. E
non c’è uomo senza lancia
per la propria difesa.
L’uomo (antico come i
primi abitanti della terra
e nuovo come appena
creato) dai sensi acutissimi,
non logori né smorzati
dalla mollezza del
non uso.
Come sono belli i borana,
i samburu, i rendille,
i turkana: torniti
come statue d’artista! Mi
allontano dalla jeep per
fotografare alcune capannucce
rendille così
diverse da quelle kikuyu,
allineate laggiù all’orizzonte, mentre una processione di
cammelli torna al recinto. Sono pervasa dalla maestà rude
e semplice del paesaggio. Ma un vecchio, con la lancia, mi
viene incontro: calo rapidamente nella realtà e mi viene il
dubbio che voglia infilzarmi, perché ho profanato il suo regno.
Toare indietro ormai è impossibile. Avessi almeno
del tabacco! Ma egli ha qualcosa che lo preoccupa. Accenna
alla capanna ancora lontana e dice delle parole di cui
ne afferro una sola: malato. Lo seguo incuriosita. In un attimo
un gruppetto di guerrieri – sbucati da dove? – mi circonda
e mi scorta. Che meraviglia! Uno sa lo swahili. Mi
sento quasi un inviato celeste, un «Raffaele» (qui i richiami
biblici sono spontanei), capace di portare un bene, la
medicina, a questi esseri nomadi.
Si tratta di un bambino della cui malattia non sanno
dirmi alcun sintomo: loro non hanno osservato, sanno solo
che sta male. Guardandolo, mi sembra abbia una brutta
bronchite. Poi compare una donna a farmi vedere la mano
gonfia per un’infezione e mi fa capire che da tante notti
non dorme per il male. Un terzo ha la febbre, un quarto
qualcosa nell’occhio. Un altro, un altro… Ora non più meraviglia,
ma profonda compassione per questa gente che
soffre senza sollievo, senza uno di quei semplici conforti
che noi (con o senza ricetta)
usiamo con tanta
naturalezza senza
neanche pensarci.
Nelle mie capaci tasche
ho sulfamidici, antimalarici,
colliri, vitamine e
analgesici. Distribuisco
tutto con una certa trepidazione.
La mia arte
medica, sebbene semplice,
è troppo raffinata
per gli uomini del deserto!
Tuttavia essi ripetono
in coro le mie parole:
«Una pillola al mattino,
una a mezzogiorno, una
alla sera». Ho imparato
il ritornello perfino io,
nella loro lingua, e sono
sicura che non sbaglieranno
la dose. Come finale,
una vecchietta
vuole anche la scatola
ormai vuota, felice di
possedere qualcosa pure
lei.
Nel loro vagabondare
non hanno ancora incontrato
le suore che
stanno nelle missioni
del deserto, proprio per
loro. Vorrei restare là!
Penso a quel detto ritrito:
«Alleviare il dolore è
proprio di Dio»… e lo
sento vero.
Con fatica mi accomiato, mentre i compagni sulla jeep
cominciano a impensierirsi: è vicino il tramonto e la missione
è ancora lontana! I guerrieri mi scortano felici.
Un episodio come questo compensa largamente gli affanni
ordinari e i disagi della vita medico-missionaria. Tra
queste pietre ripenso ai miei colleghi, tutti presi da altri
problemi, eppure così sensibili a questo misterioso fascino
della dedizione che si cela nella coscienza sociale del medico.
Mi sembra di aver dato – con il semplice gesto di distribuire
una medicina a degli esseri tra i più bisognosi e
sconosciuti del mondo – una testimonianza di valore universale,
quella della frateità cristiana.
SUOR PRISCA

PIÙ AFRICANO
DI COSÌ…

Padre Franco Soldati
Èabbastanza raro che di un personaggio
si pubblichi la biografia
mentre è ancora in vita,
a meno che non sia davvero eccezionale.
Ma anche un umile missionario
della Consolata, da 50 anni in Kenya,
ha avuto questo onore ed è interessante
scoprie i motivi.
La storia di padre Franco Soldati
inizia nel 1921 ed è accompagnata,
fin dai primi giorni, dal ticchettio regolare
e continuo (pure di notte) di
una macchina da cucire Singer: quella
di sua madre che, rimasta vedova
con tre marmocchi e una femminuccia,
doveva trovare il modo di procurare
alla famiglia il pane quotidiano.
Lui era il più grande e la vita era
grama in quegli anni,
subito dopo la prima
guerra mondiale. Con il
fratello Pietro era stato
accolto dai salesiani; ma,
arrivati alla fine del ginnasio,
furono ambedue rispediti
a casa. Il motivo lo scopriranno
più tardi: essendo il
papà morto di tubercolosi,
non potevano intraprendere…
la carriera ecclesiastica in
una congregazione religiosa.
Ma Franco, diventato con
gli anni un ragazzetto esile e
smilzo, sapeva quello che voleva:
gli piaceva (chissà perché!)
essere missionario. Pertanto
tentò di entrare nell’Istituto della
Consolata, che aveva la sede vicino a
casa sua, a Torino, dove la famiglia si
era trasferita. Fu accettato «in prova
», mentre Pietro entrava dai gesuiti.
Rimaneva ancora l’ultimo fratello,
Gabriele, sul quale erano riposte le
speranze della famiglia per il futuro.
Ma un giorno aveva trovato il coraggio
di dire a mamma: «Anch’io voglio
farmi missionario!», e partì per
il seminario di Varallo Sesia con il fratello
Franco.
Poi la guerra distrusse la loro casa.
La mamma, dopo un’inutile operazione,
se ne volò al cielo e, tanto per
cambiare, pure l’ultima rimasta, Aldina,
si fece missionaria della Consolata.
Una famiglia al completo per
Dio!
Intanto Franco era diventato prete,
ma invece di spedirlo in Africa, i
superiori lo trattennero in Italia con
incarichi vari: professore di latino,
greco e geografia, assistente dei seminaristi
e vicerettore. Trangugiò i
bocconi amari e seppe resistere.
Poi arrivò il permesso di partire e,
il 24 marzo 1951, sbarcò in Kenya, iniziando
il suo tirocinio a Tuuru. Era
la missione «più scalcinata, pagana
e restia» di tutte le missioni del
Meru; dei 100 mila abitanti che popolavano
la zona, solo 475 erano cattolici.
Avrebbe voluto iniziare subito
a… convertire, ma preferì il metodo
di san Paolo «di farsi tutto a tutti»,
diventando il più possibile africano
con gli africani. Aiutato dalla sua indole
aperta e dall’ottima padronanza
della lingua, non ebbe paura di
«perdere tempo» nelle interminabili
conversazioni, visitando assiduamente
le capanne, mangiando con i
nativi fegato di capra in segno di amicizia,
lasciandosi perfino andare a
timidi saltelli nelle danze tribali.
E sì che il carattere di padre Franco
non era per niente conciliante, anzi!
Egli stesso si definiva un «orso irsuto,
litigioso, brontolone» e, di fronte
a un’ingiustizia o un sopruso, era
meglio stargli alla larga, perché tutti i
mezzi erano buoni per raggiungere lo
scopo. La sua fama comunque si consolidava,
il suo parere cercato, la sua
parola ascoltata…
Questo legame divenne ancora più
profondo e… visibile, quando gli anziani
decisero di ammetterlo nelle loro
file, facendolo diventare uno di loro:
mwareki. I ricchi pagani meru,
giunti ad una certa età e sistemati i figli
entravano a far parte di un sodalizio
a carattere patriarcale, in cui venivano
rispettati e presi in considerazione
per la loro saggezza. Essere
accolti tra gli anziani (areki) era una
meta sognata, perché significava raggiungere
uno stato di privilegio, una
condizione nuova, espressa dal cambio
del nome e dal segno distintivo
di una corona di conchigliette da
portare in testa.
Una notte anche padre Franco fu
ammesso a far parte di questa società:
gli furono date le insegne della
nuova condizione e gli venne imposto
il nome di mwereria: termine intraducibile,
indicante colui che, camminando,
fa del bene a tutti. Un nome
originale che indicava in quale
considerazione era tenuto il missionario.
Anche se, pur essendo diventato
un «pezzo importante», la gente
continuava a fare la sua strada e i
frequentatori della chiesa continuavano
a rimanere… pochi!
Ma arrivò il momento giusto per
cambiare le cose. Terminata la
bella chiesa di Tuuru, si era pensato
di iniziare una scuola di economia
domestica, anche se non si trovava
l’insegnante. Mentre si aspettava di
risolvere il problema, una sera, padre
Franco trovò sul bordo della strada
un ragazzino poliomielitico, malridotto.
Se lo portò a casa e fu lì che
scoccò la scintilla: invece di economia, avrebbe iniziato una «scuola di
misericordia».
Il numero dei bambini handicappati
cominciò ad aumentare. In breve,
a Tuuru, divennero famosi quei
piccoli ospiti, assistiti con amore e…
mantenuti dalla gente. La messa domenicale
cominciò così a diventare
un appuntamento irrinunciabile: all’offertorio,
la lunga fila di fedeli (cristiani
e no) si avvicinava all’altare per
deporre sui gradini una serie variegata
di doni: due zucche, un grappolo
di banane, un pollo, una misura di
fagioli, un cestello di uova: tutto per
quei bimbi sfortunati.
E fu proprio questa «la molla» capace
di avvicinare anche i refrattari
al messaggio cristiano, più di mille
prediche. Padre Franco iniziò, allora,
una gara di solidarietà, perché alla
gente locale si unissero volontari,
amici lontani e associazioni varie per
sostenere un’opera nata dal niente e
diventata, in breve tempo, il fiore all’occhiello
della missione.
Un altro fatto rese famoso il nostro
mwereria: quello dell’acqua. Fin dal
suo arrivo era rimasto colpito dallo
spettacolo quotidiano di gruppi di
donne condannate tutto il giorno alla
ricerca di acqua, che tornavano alla
sera ricurve sotto il peso di enormi
zucche. La carenza del prezioso liquido
diventava drammatica e toccava
il cuore del padre, soprattutto
quando a soffrire erano i piccoli poliomielitici.
Davanti a questa emergenza
continua, il missionario non si
diede pace finché non ingaggiò fratel
Giuseppe Argese (un altro «mito») a trovare la soluzione.
La vicenda è nota: per mesi il «fratello
dell’acqua» (silenzioso, quanto
intraprendente) viaggiò, cercò, studiò
e… trovò il rimedio. Sfruttando
la catena del Nyambene, coperta di
foreste vergini e ricca di acqua, riuscì
a costruire quella che è diventata
una delle meraviglie della zona: un
acquedotto lungo e fantasioso, capace
di dissetare migliaia di persone.
Il nostro protagonista poteva ormai
ritenersi soddisfatto: ben radicato
tra la gente e famoso per le «opere di
misericordia» (assetati e bambini sofferenti),
avrebbe potuto ritirarsi in
santa pace e… obbedire ai superiori
d’Italia, che avevano pensato ad un
suo «avvicendamento». Ma la sola idea
scatenò un putiferio di reazioni.
Per farla breve, la gente di Meru, sinceramente
affezionata al suo mwereria,
escogitò uno stratagemma che,
secondo loro, avrebbe funzionato:
legare ancora di più padre Franco,
facendolo entrare tra gli njuri (un altro
sodalizio distinto dagli areki, a cui
il padre già apparteneva).
L’accettazione da parte del missionario
non era scontata, anche per via
di certe cerimonie, non tutte approvate
dalla chiesa. Ma, pur di averlo,
gli anziani sarebbero stati disposti ad
esonerarlo da tutto ciò che era contrario
alla morale cristiana e al suo
stato sacerdotale.
Ecco allora padre Franco, con il
volto dipinto di ocra rossa e bianca,
diluita con succo di banane, diventare
njuri nceke, acquisendo così il
potere di giudicare senza appello le
liti tribali e risolvere i problemi con
l’autorità derivante dalle tradizioni
più antiche e sacre.
E, per completare l’operazione,
anche gli areki gli offrirono l’ultimo
e ambizioso grado del loro sodalizio:
quello di mwareki wa naicio, al quale
nessun europeo era mai potuto accedere.
Unto con grasso di montone
e cosparso di farina bianca, il missionario
ricevette la corona degli areki,
il bastone di mogano e anche un secondo
nome: Kiunga, cioè colui che
raduna tutte le cose e ne fa una sola!
Probabilmente queste due ultime
cerimonie ebbero il potere di toccare
il cuore dei superiori, che non trovarono
più il coraggio di richiamare
in Italia padre Franco, il quale, unico
tra tutti, è riuscito ad entrare così
profondamente nel cuore e nella cultura
dei meru, da distinguersi ormai
soltanto per la pelle bianca.

QUALCHE TUORLO D’UOVA
Ricorda commosso padre Franco che, quando gli fu proposto (e non una
volta sola) di chiudere quella missione che appariva inconvertibile
e negata ai frutti dello Spirito, furono le suore, solitamente silenziose ma
sempre indomite, a insistere che si continuasse nello sforzo apparentemente
inutile, perché quella gente esse l’avevano capita per femminile intuito
e l’amavano per quello che era e che sicuramente sarebbe stata.
Mwereria ricorda… Anche a lui era capitato, una domenica dei suoi primi
anni a Tuuru, di sentirsi depresso e svuotato di speranza, da decidere
di far fagotto e abbandonare quella sterile missione, dove nemmeno di domenica
la chiesetta tarlata si riempiva, là, sulla cima del colle, inutilmente
visibile a tanti.
Era una mattina fredda e nebbiosa e lui, chiusosi in casa perché quell’assalto
di tristezza non avesse testimoni, non riusciva a trattenere lacrime
di desolazione. Dove se ne era andata tutta la sua giovanile baldanza?
Che ne era di quei momenti in cui sentiva in sé tanta forza, tanto esuberante
amore per tutti da immaginarsi capace di schiacciare tutto il male
del mondo?
Aveva sentito bussare discretamente. Non si era mosso. Altri picchi più
risoluti. Aveva aperto. Si era trovato davanti suor E… e a due aitanti giovani
africani. Pieno di confusione, aveva balbettato qualche parola su un
suo vago non sentirsi bene. Ma suor E…, mateamente accorta, aveva
compreso al volo il suo stato d’animo.
«Su su, padre, animo! C’è gente che l’aspetta al confessionale. Coraggio!
Ma aspetti prima un momento!».
Era sparita e presto tornata con una tazza piena di tuorli sbattuti.
«Su, prenda questo cordiale. Ne ha bisogno. E se lo prenda tutto!».
Era stata suor E…, creatura che come le consorelle non si volgeva mai
indietro, lo strumento della Provvidenza, perché egli superasse la crisi. I
due africani non avevano detto parola, ma avevano capito, condiviso, e
poi avevano fatto il diavolo a quattro per svegliare i dormienti di Tuuru…
Erano trascorsi altri anni di durissimo impegno. Ora il buon seme fruttificava.
Ma non importava chi fosse a raccogliere la messe in quella… harambee
(lavoro d’insieme) degli spiriti, che è il mondo cristiano.
M. TERESA DAINOTTI,
autrice di E venne tra la sua gente, Emi, Bologna 1993

Due kenyani in Corea del Sud
QUASI UN NUOVO INIZIO
I padri Peter, Tamrat e Joseph, oggi… in Corea del Sud

Così potrebbe chiamarsi la destinazione
dei primi tre missionari
africani (dei quali due kenyani) per
la Corea: i padri Tamrat Defar (etiope),
Peter Njoroge e Joseph Otieno.
Nel centenario della missione in
Kenya, questa partenza rappresenta
una vera sfida: nella loro persona,
l’Africa, che cent’anni fa ha ricevuto
l’annuncio del vangelo, oggi ne fa
dono all’Asia.
Com’è nata la decisione di partire
per la Corea?
PETER: Nel momento di esprimere
le mie preferenze, non avevo pensato
alla Corea. Poi mi è stata fatta
la proposta dicendomi che due miei
compagni di noviziato, che studiavano
a Londra, andavano in Corea
e si desiderava che fossero almeno
in tre. Non è stato facile scegliere.
Quando, in passato, si parlava della
Corea era sempre per sottolineae
le difficoltà, soprattutto della lingua.
Ho riflettuto un po’ e mi sono
detto che qualcuno doveva pur andare
e non avevo ragioni per dire di
no. Pensando che altri confratelli lavorano
in Corea e sono riusciti ad
inserirsi… alla fine ho accettato volentieri
di andarci anch’io.
JOSEPH: La possibilità di andare in
Asia ci è stata presentata solo alla fine
e, per me, si è trattato di disponibilità.
La nostra scelta iniziale era
diversa, ma, dopo aver riflettuto a
lungo, abbiamo accettato la sfida
della Corea. È stata una scelta difficile,
ci è voluto un po’ di coraggio;
ma anche con l’aiuto della preghiera
siamo riusciti a farla nostra.
Quali sono le difficoltà che prevedete
di incontrare?
PETER: Anche se la lingua costituisce
indubbiamente una grossa
sfida (bisognerà, infatti, studiarla
per cinque anni), la difficoltà più
grande, credo, sarà lo sforzo di inserirci
in una cultura così diversa
dalla nostra. Subito dopo, viene il
«cosa fare», ossia come essere missionari
in Corea. Da quanto sappiamo,
la chiesa coreana apparentemente
non ha bisogno di preti ed è
autosufficiente. Noi africani abbiamo
l’esperienza della missione come
di un «fare»: costruire chiese,
scuole, dispensari… mentre in Corea
non ci sarà bisogno di questo.
Pertanto la nostra missione consisterà
soprattutto in un «essere»; ossia,
si tratterà di testimoniare con la
vita il vangelo di Gesù. Lo faremo
come africani, diventando strumenti
di comunione e arricchimento reciproco
tra la cultura africana e
quella coreana.
JOSEPH: La prima sfida sarà quel- la di realizzare una vera inculturazione.
La difficoltà potrebbe riguardare
l’adattamento agli usi e costumi
di un mondo completamente
diverso da quello da cui proveniamo.
Poi, come sappiamo, in Corea
l’istituto è impegnato a fare missione
in modo diverso: si tratta, allora,
di sottolineare soprattutto l’aspetto
della testimonianza cristiana.
PETER: Abbiamo coscienza di essere
i primi sacerdoti africani dell’istituto
che partono per la Corea e,
per quanto abbiamo udito, non sarà
facile essere accettati in un paese
che si considera all’avanguardia in
tanti campi. Sarà una cosa bella e un
grosso passo in avanti nella costruzione
del Regno, se i coreani sapranno
accettare che degli africani
possano portare loro l’annuncio di
Cristo.
A CURA DI SERGIO FRASSETTO

GIACOMO MAZZOTTI




SOLO UNO FRA TANTI

La mia «terza età», provata a volte da tante fatiche,
mi obbliga a fermarmi. Avendo però conosciuto
voi, cari amici, sono spinto a continuare a lavorare insieme:
Dio, voi, io e i poveri, che ci sono affidati per
constatare che è sempre possibile crescere, liberare, amare.
Crescere nei valori cristiani portandoli in ogni
angolo della terra; liberare gli oppressi dall’odio, dalle
ingiustizie, dall’egoismo dilagante di oggi; amare col
cuore di Dio, che predilige gli ultimi della terra dando
a noi il privilegio di essere le sue mani.
Se viviamo nell’incertezza del futuro e nella paura, abbandoniamoci
a Dio che ci ha pensati fin dall’eternità.
È vero che viviamo in un tempo molto duro; ma è «il
nostro tempo». Abbiamo solo questo da vivere. Il segreto
consiste nell’agire per il bene comune.
Ieri sera sono andato a letto tardi (come al solito),
per finire il lavoro d’ufficio e la corrispondenza.
Pensavo alle vacanze che passerò tra voi. Pensavo alla
messa che celebrerò sulla tomba di mio fratello Piero
nell’anniversario della morte. Riflettevo sulle sue ultime
parole: «Il Signore continua a chiedere: “Chi manderò?”.
“Eccomi, Signore, manda me!”».
Ripensavo a mia madre Palmina: dagli occhi azzurri,
meravigliosa, quasi analfabeta. Durante la guerra faceva
le notti al telaio per preparare lenzuola ai suoi nove
figli. L’ho rivista in sogno. Era nell’orto della vecchia
casa, dove siamo nati tutti.
– Che fai, mamma?
– Sto innaffiando un seme molto raro. Nella nostra parentela
è da molti anni che porta frutto.
– E che cos’è?
– È il seme della vocazione. Non vorrei che finisse con
don Guido, don Mario, don Stefano, don Mariano e con
te, padre Renato, l’ultimo missionario dei Saudelli.
Se vogliamo vedere una nuova fioritura di vocazioni
nell’orto della chiesa, dobbiamo rimettere in uso il
vecchio concime della… povertà, castità e obbedienza.
Funziona ancora. Basta guardare il «campo» di Madre
Teresa come continua a fruttificare.
In Etiopia mi consola che, fra i tanti chierichetti (alcuni
musulmani), uno mi abbia dichiarato in segreto:
«Abba, voglio farmi missionario della Consolata come
te». Ogni sera, prima di andare a letto, viene a pregare
con me.
Sono in Etiopia da 19 anni, durante i quali sono venuti
ad aiutarmi tanti giovani; ma solo uno è in seminario
a Roma, per rispondere alla vocazione missionaria. Mi
incoraggia, tuttavia, il fatto che tutti gli altri siano stati
«scossi» e intendano dare un nuovo senso alla loro vita.
Me lo confermano le loro lettere.
Un giovane, andato pure in India e Cina, mi scrive:
«Ho capito che la povertà materiale è nulla a confronto
di quella umana, interiore. Ho visto gente vivere
sotto un ombrello, ed era felice, con una dignità commovente.
Ora vedo persone che possiedono castelli e
si impiccano, perché non riescono più a dormire».
Una ragazza da Londra mi dice: «La mia vita ha senso
solo se faccio qualcosa per gli altri, meno fortunati di
me. Ogni momento che vivo è prezioso e lo porto nel
cuore con tutti i suoi insegnamenti».
Un’altra dalla Svizzera: «È notte e sto per andare a
dormire; ma la nostalgia per l’Etiopia, le emozioni
provate in quei giorni indescrivibili sono così forti che
devo scriverle. Cerco di trasmettere ad altri tutto
quello che mi avete insegnato. Ogni giorno che passa
è un granellino di fede in più; la scintilla di tutto, dopo
un periodo buio, è stata la missione in Etiopia»…
Dalla «città dei ragazzi» (tutti bisognosi) di Asella dove
lavoro, a tutti un saluto riconoscente ed affettuoso.

padre Renato Saudelli




SOMALILAND/ viaggio in un paese pacificato, ma non riconosciuto

UN POSTO SUL MAPPAMONDO

È uno dei
paesi che Bush definisce «stati canaglia», perché sospettato di proteggere
terroristi. In realtà, la Somalia è un paese in completa anarchia, in
balia dei «signori della guerra». Dal 1992, la parte nord si è separata
costituendo uno stato autonomo di nome «Somaliland», che ha deposto le
armi, ma che il mondo non riconosce. Questi sono gli appunti di viaggio di
un regista televisivo torinese, che su Somalia e Somaliland ha girato un
documentario.

Sono in
compagnia dei tecnici Liborio L’abbate operatore e Antonio Venere fonico.
Ad accoglierci c’è Stefano Errico, cornoperante italiano in servizio
permanente effettivo. Quando si atterra su una striscia di asfalto
bollente in mezzo al deserto, carichi di bagagli, con la prospettiva di un
controllo doganale africano, sporchi, sudati e stanchi, ci si affida alla
«voce amica» come un neonato alla mamma.

Riesco a
guardarmi attorno, a rendermi conto che cavalletto, telecamera, cassa luci
e affini rispondono tutti all’appello. Davanti al Tupolev noto due
signori: bianchi, piuttosto in carne, biondi, con la pelle color aragosta,
pantaloni corti, ciabatte infradito e maglietta bianca sdrucita della
Dallo Airlines.

Stefano
incrocia il mio sguardo. «Chi sono?» chiedo. «I piloti» risponde. Poi
aggiunge: «Avete fatto bene a viaggiare di mattina. Il pomeriggio, in
genere, sono ubriachi». Ho voglia di andare a dormire.

Ci
troviamo in Somalia per girare un documentario sulla guerra in corso.
Raffaele Masto, giornalista di Radio Popolare, e Davide Demichelis,
regista freelance, sono già stati un paio di volte a Mogadiscio. A me
tocca raccogliere materiali di contorno, un compito certamente più
agevole: la guerra è lontana da Berbera.

Abbiamo
preso alloggio in questa città, nel compound di Coopi (**), l’Ong italiana
che ci aiuterà nella nostra impresa. Esausto sul letto, condizionatore a
manetta, sfoglio il mio passaporto. L’ultimo timbro è ancora fresco e
recita: «Republic of Somaliland Visa Entry».

E qui vale
la pena spendere qualche parola di spiegazione. La Somalia è un paese che
da alcuni anni vive in una condizione di anarchia totale. Senza governo e
senza pace. Il nord del paese, già colonia britannica, nel maggio 1992 ha
unilateralmente dichiarato la propria indipendenza. Ed è nato il
Somaliland. Con tanto di capitale (Hargheisa), un presidente (Egal), un
parlamento, un esercito, una motorizzazione civile, una bandiera (rossa,
bianca e nera), una moneta (lo scellino).

Insomma,
ci troviamo nell’isola che non c’è; in una nazione che l’Onu non riconosce
e che sull’atlante non esiste. Il Somaliland, però, a differenza del resto
del paese è pacificato. Qui la guerra è un ricordo.

Anche
questa «stranezza africana» è da documentare. Insieme ai cooperanti
costruiamo un piano di lavorazione. Rimarremo in Somaliland due settimane
e ci muoveremo  tra Berbera, Hargheisa e Boroma, la terza città del paese.
Sempre scortati da Coopi. Quanto basta per portare a casa materiale
sufficiente a completare il nostro documentario.

Tutti sono
disponibili. Avremmo così visitato i progetti di Coopi. Giriamo in lungo e
in largo per il Somaliland, raccogliendo materiale sulla guerra ormai
conclusa.

A Berbera
la guerra ha lasciato segni profondi, soprattutto sulle persone. Anche
perché Berbera è il porto più importante del Somaliland, uno dei più
trafficati del Golfo di Aden. E la rivolta contro Siad Barre, all’inizio
degli anni novanta, è cominciata proprio nell’ «isola che non c’è». Il
generale Hersi Morgan ha messo a ferro e fuoco le città principali del
nord, nel tentativo di reprimere la rivolta. Oggi Morgan è un potente
signore della guerra. Vive nel sud. Qui lo ricordano come «il macellaio di
Hargheisa».


CORANO…
TERAPIA

A Berbera
c’è un manicomio. In inglese suona meglio: Mental Hospital. Lo gestisce la
cooperazione italiana, in collaborazione con una piccola, ma
efficientissima Ong locale.

Ma il
Mental Hospital non è solo un manicomio. Rappresenta la parabola di un
paese, racconta la storia di una guerra che ha sconvolto gli equilibri,
anche mentali, di una nazione.

«La
guerra, in fondo, è una follia. E quando la guerra finisce, spesso, rimane
solo la follia», ci spiega uno dei responsabili dell’Ong. I manuali di
psichiatria li definiscono «traumi da guerra». È la paura che cresce ogni
giorno di più. Che prima ti fa nascondere, poi scappare, poi ti gela e ti
rende incapace di reagire. Ti annienta il cervello. Colpa dei kalasnikov,
dei caccia che sfrecciavano sulla testa, delle razzie dei vincitori di
giornata e delle vendette degli sconfitti del giorno prima.

Il Mental
Hospital non è né bello, né accogliente, né adatto ad assolvere il suo
compito. È un luogo fetido, chiuso al mondo. Eppure ai nostri occhi sembra
un posto umano. «Facciamo quello che possiamo – raccontano -; l’emergenza
non è finita. Le priorità del paese sono altre. Noi cerchiamo di garantire
un minimo di assistenza e di pulizia».

Gli
inglesi nel 1944 trasformarono questa, che già era una prigione, in un
campo di concentramento per i soldati italiani.

«Per gli
standard occidentali questo posto può solo essere definito
“inconcepibile”- ci dicono i cooperanti di Coopi -. Invece questo è un
esempio, unico in Africa, di ospedale psichiatrico che si è aperto alla
comunità estea. I problemi sono enormi, ma la gente di Berbera si è
fatta carico, per come può e sa, di questi pazienti. Per quanto possa
sembrare assurdo, questo è un ospedale moderno».

Mentre
Liborio riprende questo carcere trasformato in manicomio, dietro di noi il
medico procede con le visite. Una visita assolutamente fuori del comune,
in perfetta sintonia con il luogo.

Avete mai
assistito ad una seduta di «coranoterapia»? Servono un imam (nella parte
del medico), un megafono (nella parte della siringa), un corano (nella
parte del medicinale) e un paziente (nella parte di sé stesso). La terapia
è semplicissima: trattasi della lettura di versetti del corano, sparati a
tutto volume nelle orecchie del paziente.

«Allah ha
il potere di liberare la mente, di scacciare il “gin”, lo spirito maligno
che, a volte, si impossessa degli uomini», ci spiega il «medico».

Antonio è
il più perplesso della troupe. Tutti e tre rivolgiamo all’unisono la
stessa domanda ai cooperanti: «Funziona?». «Non sarà ortodosso, ma i
risultati sono apprezzabili», è la risposta. L’Africa è, letteralmente,
incredibile.


L’EREDITÀ
DELLE MINE

I dintorni
di Berbera sono cosparsi da vecchie caserme e strutture militari
distrutte. Immagini preziose per il nostro documentario. Un pomeriggio
raggiungiamo una zona collinare, piuttosto distante dalla città. La
temperatura, come sempre, è soffocante. Ad accompagnarci, questa volta,
c’è solo l’autista, che non è per nulla entusiasta della «gita fuori
porta».

Il
pomeriggio somalo (a nord, a sud, a Mogadiscio o a Berbera) è dedicato
alla masticazione del chat, erba dagli effetti dopanti se ingurgitata in
dosi massicce. Al nostro autista tocca masticare chat non all’ombra di un
alberello, ma sul sedile della jeep.

Più
sconsolato che seccato (gli leggi in fronte «Ma perché i bianchi non
imparano una volta per tutte a godersi la vita?»), ci porta davanti a un
gruppo di caserme distrutte.

Con
Liborio e Antonio ci inoltriamo tra camerate scoperchiate, autoblindo
carbonizzate, elmetti forati da proiettili, ecc. Lavoriamo un’oretta sotto
il sole bollente. Esausto, chiamo l’autista. Un cenno con la mano, poi un
urlo, poi un altro urlo. Infine un cenno di risposta: «Non posso venire».
«Perché?» chiedo con un tono un po’ deciso. «Perché siete su un campo
minato». Anche se lontano, credo abbia notato il nostro repentino pallore.

«Non vi
preoccupate, credo ci siano solo mine anticarro». Non vi preoccupate?
Bombe anticarro? E se avessero, per errore, seminato anche qualche bella
italica mina antiuomo? In punta di piedi, tipo gatto Silvestro mentre si
avvicina furtivo a Titti, torniamo sui nostri passi fino alla jeep.

Rivolgendo
poi un sentito pensiero di ringraziamento all’Altissimo, sentenziamo:
«Domani pomeriggio si esce solo dopo che l’autista avrà serenamente finito
di masticare il suo cespuglio di chat. Ne avrà ben diritto no?». E
soprattutto impariamo anche noi bianchi a goderci un po’ la vita! L’Africa
è terra di uomini saggi.


SENZA GUERRA
C’È UN FUTURO

Durante
gli spostamenti (da Berbera ad Hargheisa e da Berbera a Boroma)
incontriamo paesaggi dall’asprezza incantevole. Cammelli, rovi, sabbia,
roccia, facoceri, capre, arbusti rattrappiti dal vento e dalla siccità. Un
habitat da brivido, all’apparenza ostile. Fermiamo la macchina, piazziamo
il cavalletto e iniziamo a girare. Tutto sembra immobile. Poi, una volta
che l’occhio si abitua alla luce quasi bianca e ai riflessi del calore,
scopri che quel deserto ostile brulica di vita: capanne, pastori, piccoli
villaggi. Scesi dalla macchina ci sentiamo soli, ma non lo siamo. Però il
silenzio è assoluto. Interrotto solo dalle folate di vento caldo.

Ad
Hargheisa cerchiamo di intervistare il presidente Egal o, in sub- ordine,
qualche suo ministro.

Tutto
inutile. Dopo varie telefonate, lettere e messaggi, ci dirottano su un
sottosegretario ai progetti di sviluppo. 

È un
incontro cordiale, breve, tra un regista curioso e un funzionario di
governo orgoglioso del suo paese. Un ufficio piccolo e disadorno. Un
computer impolverato e spento. Una scrivania di fòrmica trovata in chissà
quale cantina. Tende gialle bisognose di una rinfrescata. Il solito caldo
insopportabile. Il funzionario, alto e magro, vestito in completo cachi.
Si tratta di un cinquantenne con un sorriso cordiale e sdentato.

Sembra
stupito del mio stupore. «Il Somaliland non esiste» è la mia obiezione.
«Io, invece, mi aspetto che i fratelli somali seguano il nostro esempio» è
la sua risposta. «Ma l’Onu non vi riconosce», incalzo. «Ma Coopi sì:
questo è ciò che conta». Come dargli torto?


Ricapitoliamo. La Somalia occupa buona parte del Coo d’Africa, una delle
«pentole a pressione» del pianeta. La Somalia non ha un governo
riconosciuto da tutte le fazioni in lotta dalla fine di Restore Hope. La
Somalia ha un seggio all’Onu. Il Somaliland ha dichiarato la propria
indipendenza. Lo ha fatto anche il Puntland. Lo faranno anche altri. C’è
da scommetterci.

Il
Somaliland, che non esiste «de jure», ha i suoi porti pieni di navi
container che arrivano dal Golfo, ma anche dall’Europa. Le Ong occidentali
riescono a promuovere progetti di cooperazione solo in questa fetta di
Somalia. Che, vale la pena di ricordarlo, è l’unica davvero pacificata.
Voci sempre più insistenti dicono che la British Airways, la compagnia di
bandiera inglese, presto inaugurerà un volo Londra-Hargheisa. A Mogadiscio
non volano nemmeno i colombi.


Annusando l’aria, i nostri commenti sono due: o siamo finiti in un covo di
pazzi, che prima o poi qualcuno da Mogadiscio spazzerà via, oppure qui
hanno scoperto la «via africana alla pacificazione». Certo è che il
Somaliland, giorno dopo giorno, ci appare da un lato più strano e
dall’altro più credibile.

A
Boroma, che rispetto a Berbera è a sud e beneficia di un clima
godibilissimo, incrociamo un ingegnere italiano, con un curriculum vitae
invidiabile. Ama il suo lavoro e l’Africa. Quindi ha deciso di fare per
qualche tempo il cornoperante.

«Sono
qui da qualche anno – dice -. Ogni giorno vedo aprire nuovi piccoli negozi
e ogni giorno aumentano i prodotti che in quei negozi vengono venduti. Ci
sono sempre più auto in circolazione. La gente si veste meglio, mangia
meglio. Sanno approfittare delle opportunità che arrivano dalla
cooperazione internazionale. E sai cosa significa tutto ciò?».

«No»,
rispondo. «Che il Somaliland è un paese che cresce rapidamente, che
migliora il livello di vita e di istruzione e che, un domani, se la
Somalia dovesse diventare una repubblica federale la classe dirigente
arriverà da qui, dal Somaliland».

In
effetti, mentre a Hargheisa i giovani studiano, a  Mogadiscio si arruolano
nelle milizie armate. E mentre gli ex miliziani del nord sono tornati a
lavorare la terra, quelli del sud non sanno nemmeno più come si tiene una
zappa.



TRA «CHAT» E «CLAN»

In
tutta questa storia, un piccolo capitolo a sé meritano il chat e il clan.

Il chat
è quell’erba tanto cara al nostro autista. È un prodotto eccitante di cui
gli uomini sono accaniti consumatori. Si consuma nell’arco di tutto il
pomeriggio, fino alla chiamata del muezzin, che arriva verso le cinque. Il
chat, se serve, fa passare la fame e fa combattere. Ti tiene sveglio e può
mandare l’adrenalina alle stelle. Il nostro autista, per fortuna, si
accontenta di sognare beatamente all’ombra di un albero.


Controllare il mercato del consumo del chat significa poter contare su una
quantità enorme di denaro. Denaro indispensabile, a sud, per mantenere le
milizie armate; a nord, più prosaicamente, per arricchirsi.

Il chat
arriva clandestinamente dal Kenya e dall’Etiopia. Dall’alba fino alle 11
tutti i mercati della Somalia vengono raggiunti dal chat.

Tutti
lo masticano, quasi tutti ne abusano. Costa caro: una mazzetta di erba
(per poco più di un giorno) vale alcuni dollari.

Il
bello è che il chat è formalmente illegale. Per riprendee la vendita al
mercato ci appelliamo ai buoni uffici di Coopi. Alla fine ce lo offrono
anche. Ovviamente il dovere dell’ospitalità ci impone di assaggiarlo. Non
è male…

Il clan
è la cellula su cui si fonda la società somala. Sia essa il Somaliland
indipendente o quel che resta della Somalia unita. Il clan è,
sostanzialmente, una grande famiglia allargata, ma che ha potere assoluto
nella zona in cui vive. Senza l’assenso del clan, nessuna decisione
governativa può sperare di essere attuata.

Il
parlamento del Somaliland, che in tutto conta meno di 2 milioni di
abitanti, è formato da 600 persone. Al di là del fatto che l’elezione dei
parlamentari avviene per cornoptazione da parte dei clan, ciò rende l’idea
di quanto sia diverso il concetto di «rappresentanza politica».

Gli
«elders», gli anziani, rappresentano all’interno del parlamento, l’intero
scacchiere dei clan presenti sul territorio. Poi nascono alleanze,
convergenze, programmi comuni, ma l’instabilità è sempre in agguato. A
tenere insieme il puzzle c’è Egal, il presidente, «il padre della patria»,
colui che ha dato fuoco alle polveri nella seconda metà degli anni
Ottanta, iniziando a incalzare Siad Barre fino a farlo cadere.



LABORATORIO

Il
Somaliland è uno spicchio di mondo sospeso tra realtà e finzione.
Sicuramente degno di essere «scoperto» dalle telecamere. Credo si possa
affermare che siamo in presenza di un «laboratorio», tanto più
significativo in quanto sorto in un contesto di caos politico-militare
assoluto.

La
scommessa in atto è di quelle da far tremare i polsi. Di fronte
all’anarchia, il Somaliland ha scelto di dotarsi di un governo, di
strutture e di darsi una prospettiva economica. A noi, visitatori
occasionali, questo coraggio è piaciuto. Il continente africano attraversa
una crisi che sembra senza fine. In quella fetta di Coo d’Africa si sono
cercate e, forse trovate, risposte a quella crisi.

 


(*) Sante Altizio, nato a Torino nel 1966, lavora come programmista e
regista presso la «Nova-T», società di produzioni televisive di Torino. È
specializzato in reportage su temi sociali, con particolare attenzione per
le realtà dei paesi del Terzo mondo.


Ha firmato lavori su Capo Verde, Etiopia, Guinea Bissau, Brasile,
Argentina, El Salvador, India, Russia.


Tra l’autunno 2000 e la fine del 2001 è stato insignito di vari
riconoscimenti: documentari da lui firmati sono stati premiati ad
«Anteprima Spazio» di Torino, al «Festival Internazionale del Cinema» di
Saleo, al «XXX Premio Guidarello» di Ravenna.

***

(**) Il
Coopi, «Cooperazione internazionale», è un’associazione italiana di
volontariato internazionale che opera dal 1965. Attualmente interviene in
36 paesi del Sud del mondo con 106 progetti. La sede centrale è a Milano.

 

 


Scheda
geo
politica

 SOMALIA,
SOMALILAND E PUNTLAND


 Situata nel Coo d’Africa, estremità orientale del continente nero, la
Somalia conta su una popolazione di circa 9 milioni di abitanti, di
religione islamica al 95%. Ex colonia italiana indipendente dal 1960. Un
colpo di stato, nel 1969, guidato dal generale Siad Barre, conduce il
paese in un vortice di guerre (contro l’Etiopia) e violenze (contro gli
oppositori) senza fine. Anche negli anni più bui del governo di Siad
Barre, l’appoggio politico, economico e militare italiano (in particolare
di Bettino Craxi) non viene mai meno.

Mentre
la popolazione soffre le conseguenze di siccità e carestia, nel 1991 Siad
Barre viene deposto. È l’anarchia che dilania il paese costringendo le
Nazioni Unite all’intervento (1992, operazione Restore Hope). L’emergenza
umanitaria viene superata, quella politica no. L’intervento Onu è un
fallimento militare, raccontato dal recente film di Ridley Scott «Black
Hawk Down».

Dal
1992 la Somalia è abbandonata a se stessa. Dilaniata dalla guerra civile,
lo stato non esiste più. La Somalia, di fatto, è una nazione fantasma,
dove il potere è in mano ai «signori della guerra», finanziati per lo più
da capitali arabi.

Negli
ultimi anni, nel nord del paese, due regioni (Somaliland e Puntland) hanno
dichiarato unilateralmente la propria indipendenza. Nel 2001 un consiglio
di anziani ha eletto, a Gibuti, un presidente della repubblica, Moahamed
Abdim Kassim. La sua autorità non è stata riconosciuta dai clan più
importanti. Mogadiscio, la capitale, è una città isolata dal resto del
mondo.

 

Una
serie di documentari della NOVA-T


Quelle guerre dimenticate


Democrazia in salsa somala


Produzione: NOVA-T Torino

Durata:
25 minuti

Regia
di Sante Altizio (con la collaborazione

di
Davide Demichelis e Raffaele Masto)

Prezzo:
12,90 Euro

 

Le
radici degli scontri si perdono negli anni Sessanta e si allungano fino
alla crisi di metà degli anni Novanta.

Le
testimonianze di Giancarlo Marocchino (forse l’italiano più famoso di
Mogadiscio) e di Hersi Morgan, il «macellaio», rendono bene l’idea di cosa
significhi vivere nella più completa anarchia. Il chat, il clan, gli
eserciti privati. E poi ancora Restore Hope, le organizzazioni umanitarie.

Abbiamo
provato a ricostruire il puzzle somalo. E di aiutare lo spettatore (grazie
anche alla presenza in video del prof. Angelo Del Boca) a cogliere
l’unicità di un paese che esiste solo sulla carta geografica.


«Democrazia in salsa somala» racconta anche il Somaliland, regione
settentrionale della Somalia. Nel 1993 ha dichiarato unilateralmente la
propria indipendenza. Hanno eletto un presidente, commerciano, battono
moneta. Non fanno più la guerra. Nel silenzio della comunità
internazionale, che riconosce la Somalia (che non c’è), ma non il
Somaliland (che c’è).

 È
questo l’ultimo episodio della serie intitolata «Guerre dimenticate»,
dedicata a conflitti di cui nessuno parla. Paesi in cui da anni si
combattono alcune tra le guerre più assurde del pianeta: lotte tra poveri
per il predominio di una striscia di arido deserto o per la supremazia di
una etnia sull’altra. 


Democrazia in salsa somala

Produzione:
NOVA-T Torino

Durata:
25 minuti


Regia di Sante Altizio (con la collaborazione di Davide Demichelis e
Raffaele Masto)


Prezzo: 12,90 Euro


 


Saharawi, un muro nel deserto
– Per oltre 20 anni, il Sahara
occidentale è stato testimone della guerra tra l’esercito del Marocco e il
Fronte Polisario, organizzazione armata del popolo saharawi. Un muro di
2.000 chilometri è stato costruito dal Marocco, quale argine agli attacchi
del nemico.

 


Etiopia & Eritrea: vite di frontiera
– Erano paesi fratelli,
accomunati da usi e costumi simili. La guerra scoppia, improvvisamente,
nel 1998. Decine di migliaia di morti, profughi, feriti. Due economie, già
gracilissime, in

ginocchio.
Le ostilità dilagano per una contesa di territori che ha radici nella
storia coloniale: per brulle pietraie e deserti infuocati, senza valore
economico, senza una linea certa di confine.

 


Hutu-Tutsi. La guerra infinita
– Il Ruanda è un paese consumato da
lotte tribali. Quasi 1 milione di morti lasciati sul campo da hutu e
tutsi, le due etnie più rilevanti del paese. E la riconciliazione, a
distanza di anni, resta un traguardo lontano.

 

I
Nuba del Sudan
– Nel cuore del Sudan, nella regione dei monti Nuba, si
vive ancora secondo usi e costumi dell’Africa Nera. Dal 1983 la chiusura è
totale, a causa della violenta guerra che spacca il paese e oppone i
ribelli dell’«Esercito di liberazione» (Spla) al regime islamico, per
affermare l’autonomia del sud e dei monti Nuba.

 


Angola. La guerra invisibile
– Il conflitto, che da oltre 25 anni
insanguina questo grande e travagliato paese, di solito non appare. È una
guerra senza testimoni, combattuta in un territorio vastissimo, in
villaggi dispersi e isolati nella grande foresta pluviale che copre gran
parte del territorio. A scontrarsi sono i soldati governativi e i
guerriglieri dell’Unita, formazione nata dalla lotta per l’indipendenza,
che non ha mai accettato di integrarsi nel governo. Il conflitto non si
vede, ma se ne vedono gli effetti: fame, distruzione, fuga.

  


Per
informazioni su tutti i documentari, contattare:  «Libreria Missioni
Consolata», corso Ferrucci 12 ter,


Torino
– Tel. 011.44.76.695 – E-mail: libmisco@tin.it

 



I 20 anni della Nova-T

Due
decenni di reportage dal pianeta, sui problemi della globalizzazione, i
drammi del Terzo mondo, i temi dello spirito.

 di
Luca Rolandi


 Torino. Chilometri di nastro magnetico attraversano le frontiere sociali,
etniche, religiose e culturali per raccontare il mondo arabo, l’America
Latina, l’Africa, attraverso le parole e le esperienze di chi, in questi
paesi, vive e opera. Oltre 5.000 ore di girato in più di 80 paesi del
mondo. È questa la prima eredità di un progetto nato, quasi per caso, nel
1982, dall’intuizione di un cappuccino, padre Ottavio Fasano. NOVA-T
(Nuove Terre) da quell’anno fatidico di strada ne ha fatta moltissima. Nei
primi anni di vita ha lavorato molto nel mondo delle missioni per
raccontare quella parte dell’umanità dimenticata e afflitta da carestie,
guerre, povertà. NOVA-T ha realizzato documentari «senza frontiere», atti
a testimoniare l’attività di promozione sociale e umana svolta da
Organizzazioni non governative e da istituti religiosi impegnati nella
missione ad gentes.

La
società dei frati cappuccini della provincia di Torino all’inizio ha
lavorato molto nel Terzo mondo, poi negli anni ha spostato il suo raggio
d’azione anche nel settore educativo, catechistico, di promozione della
fede alla luce delle storie di santità, note e meno note. Le telecamere
della NOVA-T hanno filmato le vie della fede, della cultura, della guerra
e della pace, documentato le bellezze e le miserie del mondo, con un
occhio sempre attento all’uomo (i suoi bisogni, le sue pene, le sue
speranze).

Un
percorso che racconta grandi figure religiose: da San Francesco a papa
Giovanni Paolo II, dai santi sociali torinesi ai missionari martiri nelle
terre di frontiera. Tante finestre aperte sul mondo e realizzate con i più
modei strumenti tecnologici, audiovisivi e multimediali.

In
vent’anni di lavoro, faticoso e senza onori, vissuto con passione dai suoi
dipendenti, collaboratori, registi, amici, missionari, molte sono state le
collaborazioni di prestigio, realizzate con istituzioni civili e religiose
e con grandi protagonisti del mondo del cinema e del teatro.

Negli
anni Novanta, con il trasferimento nella suggestiva sede di Via Ferdinando
Bocca, in un ex convento e chiesa parrocchiale, all’inizio della salita
che porta alla basilica di Superga, la ricerca di nuovi stimoli e la
volontà di crescere professionalmente hanno portato NOVA-T a partecipare
alle principali rassegne del settore e a creare sinergie con distributori
e produttori di profilo internazionale. Prende il via la stagione
d’importanti collaborazioni.

Con la
serie «Popoli e Luoghi dell’Africa», nel 1996 NOVA-T trova in Superquark
della RAI il primo importante cliente nazionale televisivo: è l’inizio di
un interesse verso la società torinese, che culminerà con la co-produzione
NOVA-T e RAIGIUBILEO di «Padre Pio. Uomo di Dio», video ufficiale per la
beatificazione del frate di Pietrelcina.

Nel
1998, l’ostensione della Sindone a Torino, offre l’occasione di
realizzare, con l’Euphon, «L’Uomo dei dolori. La Sindone di Torino», video
ufficiale dell’evento. Nel 2000 escono due importanti co-produzioni:
«Conoscere la Sindone» (NOVA-T, Arcidiocesi di Torino ed Euphon) e
«Giovanni Paolo II. Quasi un’autobiografia» (NOVA-T, Centro Televisivo
Vaticano, Euphon).

Nel
2001 è la volta de «Una giornata al Concilio», rilettura critica e
divulgativa dell’evento che ha cambiato la chiesa, il Vaticano II,
realizzato in collaborazione con il Centro televisivo Vaticano e
l’Istituto Luce di Roma, del documentario «I fioretti di San Francesco».
Ed infine gli episodi della serie per la Tv «Guerre dimenticate», dedicata
a sei conflitti africani semisconosciuti ma, comunque, terribili.

E la
sfida di NOVA-T prosegue con l’arrivo di molti lavori tra i quali spiccano
i documentari sul beato Ignazio da Santhià (il cappuccino piemontese che
Giovanni Paolo II canonizzerà domenica 19 maggio 2002) e il film sul beato
Giuseppe Allamano, dove si racconta l’affascinante storia del fondatore
dei missionari/e della Consolata. Un uomo che non si mosse mai da Torino,
eppure abbracciò il mondo.

Sante Altizio




DOSSIER: mutilazioni genitali femminili


Circa 130 milioni di donne, soprattutto nel sud del mondo,
sono sottoposte a scioccanti mutilazioni: l’operazione si pratica su
bambine in tenera età. Un atto contro i diritti dell’integrità della
persona. Una sua manipolazione. E la denuncia è doverosa.


Persone in
corpo e anima

Lo scrisse
su Missioni Consolata, nell’aprile 1996, la ricercatrice Anna Bono.

La piaga
riguardava allora 80 milioni di donne, mentre oggi ne investe 130 milioni.
Il dato al rialzo è dovuto a maggiori informazioni acquisite negli ultimi
anni: informazioni non facili, trattandosi di un tabù.

Nel giugno
1996 il Tribunale di Washington riconosceva che l’escissione, ad esempio,
è una persecuzione: quindi motivo sufficiente per concedere asilo alle
donne che lo richiedono.

In Italia
le mutilazioni femminili sono vietate,in base all’articolo 5 del Codice
civile e agli articoli 582 e 583 del Codice penale.

Missioni
Consolata ritorna sul tema con un dossier, perché ritiene che la sua
conoscenza sia fondamentale per debellare la piaga. È una violazione dei
diritti umani.

Secondo la
teologia morale cristiana, «l’uomo è unità»: di qui l’importanza anche del
corpo-soggetto. La persona si apre al mondo attraverso il corpo. Ma, se
l’individuo è corpo, è pure vero che non si identifica con esso. «Il
soggetto umano è il proprio corpo e tuttavia più del proprio corpo»
(Tullio Goffi, Problemi e prospettive di teologia morale, Queriniana,
Brescia, 1976, p. 335).

In nome di
una presunta supremazia (complici tradizioni culturali discutibili),
l’uomo può trattare i suoi simili da oggetto. A fae le spese sono spesso
le donne. Donne ferite, nel corpo e nella mente, anche attraverso le
mutilazioni genitali. Una gravissima manipolazione.

Non
l’unica oggi.

Francesco
Beardi


Storie
drammatiche sulla propria pelle

 E
non sei più come prima


 «Io urlavo come un animale al macello… Non permetterò
mai che le mie figlie possano subire un torto simile» (Aisha). «Sono stata
cucita con spine senza anestesia. La ferita mi bruciava» (Basma). «Ci
hanno dato dei regali: ma con quello che abbiamo patito non sarebbe
bastato tutto l’oro del mondo» (Fatima).

Prende
fiato Aisha, una bella ragazza somala di 30 anni, mentre inizia il suo
racconto percorrendo, a ritroso nella memoria, i ricordi di un evento
traumatico. «Avevo otto anni – continua -, stavo giocando a pallone con
alcune amiche e cuginette, in mezzo alla strada, davanti alla casa di mia
nonna. All’improvviso arrivò correndo mia sorella, Zahra, che disse:
“Vieni, dài, stiamo per essere infibulate…”. Era felice. Ci avevano
detto che era un grande evento e che, per l’occasione, avrebbero ucciso un
pollo e ci avrebbero offerto dei dolci. Quindi mi alzai e, felice, corsi
via con lei. Entrammo in una casa poco distante, dove abitava una vecchia
levatrice. Toccò per prima a mia sorella, di un anno più grande di me. La
donna, con l’aiuto di mia madre e mia nonna, fece stendere la sorella su
una stuoia. Io rimasi nella stanza a fianco, seduta per terra, silenziosa,
come paralizzata. La sentii urlare. Il suo dolore mi sembrava atroce: mi
entrava nelle orecchie e mi impediva di respirare. Ero terrorizzata. Una
violenta ribellione si impossessò di me. Feci per fuggire.

Non capivo
bene che cosa stesse accadendo, ma certamente, regali o no, non volevo
soffrire. “Non voglio più essere cucita” gridai con quanto fiato avevo in
gola. Ma la nonna mi afferrò stretta e, aiutata da una vicina, mi adagiò
su un materasso. Poi si sedette dietro di me e mi tenne aperte le gambe,
come in una morsa. La vecchia ostetrica aveva terminato il lavoro di
ricucitura. Mia sorella ora se ne stava quieta, come un animale ferito,
senza forze e senza volontà, sulla stuoia ancora insanguinata.

Era il mio
tuo. Sentivo crescere la disperazione e la rabbia. In ginocchio, di
fronte a me, la vecchia mi guardava sicura e severa. Con un esperto colpo
di coltello mi tagliò la clitoride e le piccole labbra, senza anestesia.
Allora non si usava ancora; ora sì, in ospedale, dove l’infibulazione è
praticata dai medici.

Furono
minuti indescrivibili: il coltello grondava sangue, mentre io urlavo come
un animale al macello; non capivo perché mi stessero facendo quel male.
Mia madre e mia nonna mi rassicuravano dicendo che stavo per diventare una
donna, che avremmo festeggiato tutti insieme l’evento, che erano
orgogliose di me, della sorella e che, qualche anno dopo, avrei potuto
sposarmi e fare dei bambini.

“Sposarmi?
Fare figli?” domandavo a me stessa mentre mi tagliavano, e pensavo ai
giochi lasciati per strada… Mi cucirono con ago e filo, lasciando
un’apertura sottile per far defluire l’urina e il sangue mestruale. Poi mi
lavarono e disinfettarono con erbe e unguenti. Infine mi legarono le gambe
strette tra loro e mi portarono a casa della nonna, insieme a mia sorella,
dove rimanemmo immobili, distese su stuoie, per due settimane. “La ferita
si deve rimarginare bene – ci spiegarono -; altrimenti, quando
partorirete, si lacererà”.

In quei
giorni arrivarono familiari, parenti e amici a congratularsi con noi.
Portarono dolci e doni, ma a me non interessava nulla: ero mortificata e
scioccata. Mia sorella sembrava invece gradire tutte quelle attenzioni; si
sentiva importante. Io ero piena di rabbia: “Mai – mi ripetevo –
permetterò che le mie figlie possano subire un torto simile”.

Pochi anni
dopo, fui data in moglie ad un uomo molto più vecchio di me… La notte
delle nozze avrei voluto morire. Provai un dolore atroce. Per il marito,
invece, fu un grande onore, una prova di virilità, avere rapporti con una
sposa così cucita. È anche una sicurezza sulla sua fedeltà: con chi altri
potrebbe mai tradirlo?

Rimasi
incinta. Andai in ospedale a Mogadiscio. Là mi aprirono per farmi
partorire, e mi ricucirono. Avevo 14 anni e avevo appena terminato le
scuole. All’età di 18 arrivai in Italia con mia sorella…».

Da 12 anni
Aisha vive in Piemonte con delle connazionali e si prende cura della
figlia. Il marito è in America a lavorare.

A
Mogadiscio ha frequentato, finché ha potuto, scuole italiane, come la
maggioranza delle sue coetanee benestanti, e in Italia si è laureata in
medicina, mentre lavorava come assistente domiciliare per anziani. La sua
attività più importante è quella di sensibilizzare le sue connazionali,
giovani mamme e ragazze, contro la pratica delle mutilazioni genitali,
affinché quelle giovani vite non debbano patire torture atroci in nome
della tradizione e del controllo dell’uomo sulla donna.

Una donna
grossa mi bloccava tra le sue gambe, mentre mi bendavano gli occhi con un
foulard nuovo. Mi hanno operato senza anestesia (sono solo 20 anni che
hanno iniziato ad usarla, ad operare su tavoli e a chiamare un’ostetrica).
Sono stata cucita con le spine. La ferita mi bruciava. Mia madre mi ha
lavata con acqua calda. Dopo aver scavato una buca per terra e deposto
della carbonella con delle erbe che producevano fumo, mi hanno fatta
appoggiare sopra per disinfettare e seccare la cucitura, che è diventata
scura. Ho contratto un’infezione, perché mi sfregavo la ferita: sono stata
male per un mese, avevo la febbre…».

Nonostante
il ricordo ancora vivo della sofferenza causatale da tale pratica, Basma
si dichiara pronta per lo stesso intervento: sua figlia è stata infibulata
e vorrebbe che anche le nipoti seguissero la tradizione.

Per
Fatima l’esperienza non è da ripetersi. «Sono stata circoncisa a sette
anni, insieme ad una sorella di nove. Altro che festa! Quel giorno ho
subìto uno shock che non dimenticherò più. Sono stata operata senza
anestesia, senza niente. Ho sofferto moltissimo. Eravamo sette bambine da
sei a nove anni; c’erano le figlie dei vicini di casa, nel tempo di
chiusura delle scuole. Le donne si erano dette: “Facciamo ciò che dobbiamo
fare, perché le ragazze sono ormai grandi”.

Hanno
chiamato una donna anziana e siamo state operate in una casa vicina. La
prima ad essere sottoposta ai ferri è stata la più piccola, mentre noi
guardavamo terrorizzate, in lacrime. La mamma era fuggita, perché non
voleva sentire i nostri pianti.

Mi
hanno deposta nuda su un tavolo grande, mentre tre donne mi tenevano
legate mani e piedi. Non ho visto con che cosa mi hanno tagliata, se con
un coltello o una forbice (si nascondono gli strumenti, perché la pratica
incomincia ad essere criticata). Mi hanno asportato la clitoride e le
piccole labbra. Poi sono stata cucita con filo, perché eravamo in città, e
non con spine, come avviene in campagna. Il dolore è durato ben sette
giorni. Sono rimasta con le gambe legate (dalla vita fin sotto le
ginocchia) per due settimane. Non si può mangiare… Io sono riuscita a
fare pipì, mentre a mia sorella (che non l’ha fatta per tre giorni) si è
gonfiata la pancia. Ha sofferto di più, perché era più grande.

Mamma e
papà, una volta guarite, ci hanno dato dei regali: ma con ciò che abbiamo
patito non sarebbe bastato tutto l’oro del mondo a consolarci! Per fortuna
non sono sorte infezioni, perché papà ci portava tintura di iodio e
antibiotici.

Prima
dell’operazione correvo, giocavo a pallone, ma dopo non l’ho più fatto.
Mia madre mi diceva sempre: “Attenta, ora sei diventata grande, ti
strappi!”.

Non ero
più libera. Non era più come prima. Mi hanno lasciato un buco
strettissimo. Prima del contatto con l’uomo, le mestruazioni erano molto
dolorose. I primi rapporti sessuali mi hanno fatto schifo. Poi è andata un
po’ meglio».

 



Il parere medico sulle mutilazioni

 Igiene?

C’è ben altro!

 «L’infibulazione
è un rapporto tra schiava


e padrone, dove, in accordo a schemi primitivi,

si dona
tutto e si riceve tutto. Il rispetto per le donne è zero. Esse non valgono
nulla» (dott. Mascherpa).


«È un rito iniziatico: la donna rimane un oggetto e, nello stesso tempo,
viene allontanata da lei ogni tentazione» (dott. Bracco).



E le conseguenze sono clamorose.


 Abbiamo interpellato il dottor Franco Mascherpa, medico presso la clinica
ginecologica universitaria di Torino, a suo tempo impegnato in Somalia,
sulle mutilazioni genitali femminili.


Dottore, cosa s’intende per mutilazione sessuale femminile?


«Attualmente sono circa 130 milioni le donne che hanno subìto pratiche di
mutilazione sessuale. Sono interventi laceranti, che si effettuano sui
genitali estei delle bambine prepubere.

Sono
possibili tre tipi di operazione. La più diffusa è quella sudanese o
faraonica (infibulazione), che risulta la più mutilante e dà origine a
tanti problemi medici e psicologici. Essa consiste nell’asportazione della
clitoride e delle piccole labbra, nella cruentazione (con incisioni
verticali, scaificare) della parte intea delle grandi labbra, della
parte mediana della vulva e nella cucitura delle labbra. Le tecniche di
sutura sono diverse: nelle zone rurali si possono usare spine di acacia,
tenute insieme da fili di cotone.

La
clitoridectomia (escissione) è meno diffusa: prevede l’asportazione della
clitoride e della parte superiore delle piccole labbra. La ferita non
viene mai suturata, bensì tamponata con erbe. Le bambine vengono fasciate
con le gambe strette.

La
sunnah (circoncisione), diffusa nei paesi arabi, ma anche in Somalia) è
una pratica meno cruenta della clitoridectomia: comporta minori
conseguenze permanenti sul piano fisico. Consiste, nei casi più radicali,
nella asportazione di una parte della clitoride. Nelle varianti minori
vengono prodotte piccole ferite superficiali nella regione paraclitoridea.
Lo scopo di tale pratica è di produrre una fuoriuscita di sangue.
Solitamente viene utilizzato un coltello rituale, oppure una lametta da
barba. Vengono anche impiegate sostanze anestetiche.

Dopo
l’intervento, le gambe delle bambine vengono saldamente legate con fasce
all’altezza delle caviglie, delle ginocchia e delle cosce, e mantenute in
questa posizione per dieci giorni, durante i quali seguono una particolare
dieta. Talvolta cospargono la ferita con una sostanza a base di incenso e
mirra, che ritengono svolga un’azione antisettica e cicatrizzante.

Un
altro aspetto del fenomeno è la reinfibulazione post partum. Una
missionaria mi raccontò che, in Somalia, la praticavano alle donne che
avevano appena partorito per evitare tensioni familiari».

Come
sono considerate le donne non circoncise?

«In
Somalia le donne non circoncise sono ritenute orfane, meticce e fanno di
mestiere le prostitute: questo perché perdono dignità, valore sociale ed
economico; non sono più sposabili e hanno perciò poche speranze di
sopravvivenza. In un paese povero come la Somalia, infatti, le poche
risorse sono legate alla presenza di un uomo. Le donne, se non c’è un
maschio a fianco che abbia qualche attività commerciale, da sole non
possono sopravvivere. Per la stessa ragione vogliono essere sempre
incinte: il marito, che ha mogli sparse qua e là, è più propenso ad
andarle a trovare spesso e portare loro da mangiare. Se la donna è
sterile, rischia di non ricevere mezzi di sussistenza».

In
Occidente consideriamo affascinanti le somale: la loro bellezza, la
fierezza e la sensualità del portamento sembrano giustificare tale
considerazione. Ma come vivono il rapporto con il proprio corpo?

«In
Somalia, come ginecologo e sessuologo, ho cercato di capire come le donne
si rapportavano alla propria sessualità: l’unica risposta che ne ho
dedotto è che essa ha una pura funzione riproduttiva. La loro grande
sensualità non è genitale, perché da quegli organi ricavano solo molto
dolore. Dal punto di vista ginecologico, hanno sempre mal di pancia e
problemi vari. Per loro il benessere non è vivere bene la sessualità nel
matrimonio, bensì avere un marito che le mantenga.

Le
bambine di soli cinque anni, che sanno di essere infibulate, aspettano con
ansia il momento di passaggio all’età adulta. Se una ragazzina grandicella
non ha ancora subìto tale operazione, viene emarginata dal gruppo di
amiche.

Il
corpo della somala è un corpo doloroso. Infatti i racconti sui primi
rapporti sessuali sono agghiaccianti, traumatici: lei si presenta a lui
“cucita”. Sono poche le mogli che, d’accordo con il marito, si fanno
scucire. In genere lui vuole constatare di persona che lei sia chiusa. La
regola è quella del grano di mais: se passa un grano è ben cucita. Da quel
foro fuoriescono urine e mestruazioni, ma con gran ristagno di liquidi.

Al
momento della penetrazione sorgono i problemi: la cucitura deve essere
aperta o con il pene o un oggetto qualsiasi (un coltello, una lametta, la
parte superiore di una lattina di coca-cola).

L’atto
sessuale, più che un rapporto intimo, è un gesto di valorizzazione sociale
delle velleità maschili: io, uomo, la posso penetrare anche se è
difficilissimo. È una prova, mentre alla donna è richiesta una
superverginità. Spesso questa ha il primo rapporto in modo strumentale,
non naturale: vetri, coltelli, forbici, frammenti di latta che lacerano le
suture. Una donna facile da avere è vista come una prostituta, con
sospetto. Una donna non infibulata può essere ripudiata immediatamente. Se
il marito non riesce a deflorare la moglie, può sempre dire di aver
sposato una donna ben cucita, quindi di grande moralità.

In
Somalia si porta ad estreme conseguenze questo aspetto antropologico: “io
sono così preziosa che sono inaccessibile; però quando mi conquisti mi dai
tutto”. È un rapporto tra schiava e padrone, in cui, in accordo a schemi
primitivi, si dona tutto e si riceve tutto. Il rispetto per le donne è
zero. Esse non valgono nulla.

Se
l’orgasmo femminile è seducente per l’uomo in un contesto occidentale, è
superfluo, negativo, privo di interesse in società maschiliste e sadiche.
“Perché una donna mi deve sedurre? Faccio io quello che voglio di lei.”
Innamoramento, amore non esistono. La donna è un mezzo attraverso il quale
l’uomo realizza la propria discendenza.


Comunque, a livello sessuale, donna e uomo hanno strategie diverse: la
prima deve essere prudente, poiché ne può conseguire una gravidanza; il
secondo invece cerca di sedurre più donne possibile, perché la poligamia è
la forma di famiglia più diffusa nel mondo (come numero di culture, non di
persone). In Occidente si espleta attraverso numerosi rapporti
extraconiugali, che coinvolgono l’80% delle persone».

Ci sono
donne somale che chiedono di essere deinfibulate perché sono fidanzate ad
italiani?

«Dove
sono? Si sposano solo tra loro. Da me arrivano donne con complicazioni
mediche… Un somalo non sposerebbe mai una connazionale, anche se
infibulata, arrivata qui molto tempo fa, perché pensa che abbia ormai
assunto la mentalità occidentale. Tutte le donne che hanno avuto
“contaminazioni” con l’Occidente non si sposano più».

Tutte
le giovani somale in Italia sono qui sapendo che perdono la possibilità di
trovare marito?

«Se non
trovano subito un fidanzato somalo, con il passare del tempo perdono la
propria accettabilità sessuale».

 


 Abbiamo brevemente intervistato anche il ginecologo Roberto Bracco.


Dottore, in certi contesti culturali l’infibulazione è considerata
un’usanza igienica, che rende più bello e pulito il corpo della donna.
Cosa ne pensa?


«L’infibulazione non è una pratica igienica. In tutti i casi che ci sono
capitati, quando abbiamo riaperto la ferita, abbiamo trovato l’assenza
totale di igiene. L’urina e il sangue mestruale ristagnano all’interno
della cucitura».

Come
intervenite?


«Introduciamo una pinza a becco e tagliamo i punti. In certi casi è
necessario operare con anestesia totale».

Come
definire allora l’infibulazione?

«Un
intervento mutilante che, dal punto di vista sanitario, non ha nulla di
igienico. È un rito iniziatico: l’asportazione della parte erettile della
donna. La clitoride, infatti, ha la stessa struttura anatomica dei corpi
caveosi del pene; rappresenta il centro del piacere sessuale femminile,
che viene così ad essere mutilato. Se in un rapporto di coppia si toglie
alla donna la parte di piacere, essa rimane un oggetto e, nello stesso
tempo, viene allontanata da lei ogni tentazione. Il controllo dell’uomo è
così veramente efficace.

La
circoncisione femminile, praticata alle donne egiziane, è invece più
blanda e permette loro di avere una vita sessuale normale.

Nei
casi estremi si può intervenire chirurgicamente con una plastica delle
piccole labbra».

 

La
pratica delle mutilazioni genitali femminili può comportare delle
complicazioni mediche immediate e a lungo termine.


Nell’immediato: shock post-operatorio, infezione locale, setticemia,
tetano, emorragia, lesioni delle vie urinarie e della regione perianale,
ritenzione di urina e infezioni urinarie…

A lungo
termine: proliferazione fibrosa del tessuto, cisti e ascessi, malattia
infiammatoria pelvica, ritenzione di sangue nella vagina e cavità uterina,
defibulazione cruenta al momento della deflorazione e del parto, parto
distocico, fistole vagino-vescicali e rettali post partum, rapporti
sessuali difficoltosi e dolorosi, infezioni uro-genitali ricorrenti…


mancano ripercussioni psicologiche: paura e angoscia infantile,
lacerazione in infanzia/età adulta, senso di inevitabilità del proprio
destino, senso di inferiorità sociale, morale e spirituale della
condizione femminile, disturbi della sfera sessuale, restringimento di
interessi e perdita di intraprendenza, senso di offesa alla propria
integrità psico-fisica, caduta di autostima, malattie mentali (nevrosi
cenestopatica, stati depressivo-reattivi).

 


I dati riportati sono stati desunti dalla ricerca della professoressa
Silvana Borgognini Tarli, docente di antropologia all’università di Pisa,
e della dottoressa Elisabetta Marini, ricercatrice in scienze
antropologiche, pubblicata dalla rivista «Sapere», maggio-giugno 1994.

 

 



Altre dichiarazioni e precisazioni

 Tra
dovere



e vergogna

 


Alia: sono stufa di sentirmi chiedere se approvo o meno l’infibulazione e
se la ripeterei sulle mie figlie… Mariam: l’unico suo significato è
quello di controllo, di potere da parte dell’uomo sulla donna; è una forma
di maschilismo cui dobbiamo opporci…Giovanna: i seni, i glutei e altre
parti del corpo sottoposte a chirurgia estetica non sono forse altrettante
forme di tortura a cui la donna si sottopone pur di piacere al maschio o
di tenersi il marito?

 

Alle
donne somale dà spesso fastidio l’interesse dell’Occidente verso
l’infibulazione: sentono una ingerenza nella loro vita, nelle loro
tradizioni, nei loro corpi.

Alia,
studentessa somala, dichiara: «Noi non andiamo a sindacare sulle abitudini
sociali, sessuali o estetiche delle donne europee. Sono fatti loro, come
la tradizione dell’infibulazione è affare nostro. Sono stufa di sentirmi
chiedere se approvo o meno questa usanza e se la ripeterei sulle mie
figlie. L’Occidente non può sempre esportare i suoi valori e il suo
modello di vita agli altri paesi. Credo che ogni popolo vada lasciato
libero di scegliere il suo modello di sviluppo e di seguire le proprie
tradizioni, senza per questo essere accusato di barbarie o di inciviltà».

Di
opinione differente si dimostra Mariam, mediatrice culturale presso uno
sportello sociosanitario di Torino: «Sono contraria alla pratica delle
mutilazioni genitali, anche se l’ho subìta e non me ne vergogno, come
invece accade ad alcune mie connazionali. È parte della nostra cultura e
non c’è da vergognarsene. Anche sul termine “mutilazioni” non sono
d’accordo. Si può condividere o meno l’uso di tale pratica, ma non credo
che si tratti di una mutilazione. Certo, i danni causati sono molti. Da
noi infatti arrivano donne infibulate, che hanno sviluppato seri problemi
clinici e hanno timore di essere visitate, ma anche madri che chiedono
consigli sulla scelta di fare infibulare (o circoncidere) le proprie
figlie.

In
Somalia tutte le bambine sono sottoposte a tale intervento. Vengono
preparate dalle madri ad accettare ciò che dovranno subire come un momento
importante nella loro vita: è un “rito di passaggio” che si manifesta
anche attraverso la festa, i regali e l’aspetto gratificante del
riconoscimento pubblico. Le mamme chiedono alle figlie di non esteare
dolore e pianto, perché altrimenti disonorano la famiglia: infatti la
parte coinvolta del corpo è “vergognosa”, e non può essere menzionata. Il
dolore, dunque, va nascosto, segregato, represso.

Alcuni
fanno ricoverare le proprie figlie in ospedale, affinché l’operazione sia
eseguita in modo corretto e igienico; altri si rivolgono a “mammane”, che
tagliano senza anestesia e in condizioni sanitarie pessime. In entrambi i
casi, tuttavia, la ferita rimane: nel corpo e nella mente. Ed è difficile
da rimarginare. Crescendo sorgono grossi problemi ginecologici, che si
manifestano soprattutto durante i rapporti matrimoniali, la gravidanza e
le mestruazioni. Le donne, qui in Italia, hanno paura di farsi visitare:
temono di essere scucite. A Firenze opera un medico somalo, che con il
laser deinfibula coloro che glielo richiedono.

Prima
della notte di nozze, qualche donna accetta di farsi scucire per evitare
lacerazioni e sofferenze eccessive; ma la maggioranza rifiuta tale
pratica, temendo il giudizio negativo del marito. Si dice che venga a
mancare la sensibilità femminile durante il rapporto sessuale; non è vero.
Ad essere asportata è solo la parte superiore della clitoride. Io ritengo,
comunque, che noi donne abbiamo il dovere di ribellarci a questa pratica.
Dobbiamo dire “no”. Dobbiamo porre fine a tale cultura.

Prima
della guerra civile, il presidente Siad Barre (1) aveva promosso una
campagna contro l’infibulazione, ma con il conflitto tutto è andato
perso…

Le
donne somale in Europa, ad esempio, si pongono il problema se fare
tagliare o meno le proprie bambine e pensano: “Adesso siamo qui e tutto va
bene. Ma, se torniamo nel nostro paese, cosa accadrà alle nostre figlie?
Verranno prese in giro dai coetanei, additate come prostitute e non
troveranno mai marito“.

A
Torino le donne somale sono oltre un migliaio, e sono poche quelle che si
rifiutano di ricorrere all’infibulazione. È sentita come un retaggio
culturale da mantenere.

Io non
l’accetto. Che senso ha? Perché mai è necessaria? Nel passato era forse
usata come una sorta di “cintura di castità”… L’unico suo significato è
quello di controllo, di potere da parte dell’uomo sulla donna. È una forma
di maschilismo cui dobbiamo opporci».

 


 Abbiamo avuto pure l’occasione d’incontrare Giovanna Zaldini, di origine
somala, vicepresidente dell’Associazione torinese Alma Terra.

Ci sono
famiglie, in Italia, che richiedono di infibulare le proprie figlie?

«A
Torino non sono mai state registrate, finora, richieste di
infibulazione/circoncisione.

Chi ha
scelto di emigrare in Italia ha pure scelto di mettere in discussione le
proprie origini e tradizioni, diversamente da chi è stato costretto a
lasciare il proprio paese a causa della guerra. Questa seconda tipologia
di persone si sente più sradicata e non è in grado di operare scelte
contro la propria cultura e tradizione… In ogni caso, se in Italia vi è
stata richiesta di infibulazione, non troverà risposta da parte dei
medici.

Il
problema più evidente è quello delle conseguenze sulla salute delle donne
già infibulate. A livello sanitario nazionale, permane ancora una grande
impreparazione nell’affrontare casi di pazienti infibulate e nel prestare
loro soccorso e cure adeguate. Quando, ad esempio, in ospedale arrivano
delle partorienti infibulate nessuno pensa di scucirle prima del parto. Il
personale sanitario ricorre automaticamente al taglio cesareo.

Inoltre
le donne giovani non si sottopongono a visita ginecologica per paura del
dolore, ma anche perché si vergognano e non si sentono capite dai medici.
Qualcuna ha raccontato di avere provato molto disagio, perché si sentiva
studiata, osservata.

Anche
per questa ragione va posta molta enfasi sulle nefaste conseguenze
cliniche di tale pratica e sulle ragioni che spingono certi poteri ad
infibulare le proprie donne; così facendo, sottopongono queste ultime ad
umiliazioni e mortificazioni ulteriori.

In
Occidente si parla di “mutilazioni” sessuali. Già! Ma i seni, i glutei e
altre parti del corpo sottoposte a chirurgia estetica non sono forse
altrettante forme di tortura a cui la donna si sottopone pur di piacere al
maschio o di tenersi il marito? Altrimenti se ne cercherebbe una più
giovane, più bella o più “nuova”…

Il
comune denominatore tra “noi” e “voi” resta sempre la sottomissione al
desiderio maschile. Abbiamo tutte subìto un lavaggio del cervello. Siamo
dipendenti dagli uomini, in un modo o nell’altro, a livello sociale,
economico, psicologico.

Per una
donna somala non essere infibulata significa non trovare marito; per una
occidentale non possedere un bel seno vuol dire non essere neanche
guardata. Per la paura di non trovare un uomo che le sposasse, nel mio
paese erano le bambine stesse a chiedere alle mamme più liberali di essere
cucite.

In
Somalia, durante il 1986-90, è stata portata avanti una campagna di
sensibilizzazione contro l’infibulazione, che non ha inciso molto.
Tuttavia, la massiccia emigrazione porterà per forza al confronto con
altre culture e al cambiamento di mentalità nei confronti di questa
pratica.

Se si
supera l’età più a rischio, che va fino a 12-13 anni, le ragazze saranno
fuori pericolo e le mamme avranno un alibi per evitare loro l’intervento.

Presso
gruppi somali, residenti all’estero da lungo tempo, si è visto come il
fenomeno dell’infibulazione si stia trasformando in un’azione puramente
simbolica, iniziatica (pungere la clitoride in modo che fuoriesca del
sangue), finalizzata alla purificazione».


Come dire: l’incontro fra culture diverse può essere liberatorio.

 

(1)
Siad Barre, presidente-dittatore, fu al potere in Somalia dal 1969 al
1991.

 

 


Mutilazioni
sessuali femminili nel mondo

Sono
circa 130 milioni le donne che, nel mondo, hanno subìto mutilazioni
sessuali: circoncisione (clitoridectomia), escissione, infibulazione.

La
circoncisione consiste nella rimozione del prepuzio della clitoride; tale
pratica, nei paesi arabi che la eseguono, è chiamata anche «sunnah».


L’escissione prevede la rimozione del prepuzio, della clitoride, delle
piccole labbra (interamente o in parte), ma lascia intatte le grandi
labbra e il resto della vulva.


L’infibulazione è la rimozione del prepuzio, della clitoride, delle
piccole e grandi labbra, la sutura delle due estremità della vulva (viene
lasciata una piccola apertura per permettere al flusso dell’urina e del
sangue mestruale di scorrere).

 

Queste
pratiche mutilatorie sono largamente diffuse in Africa, Asia, Mondo Arabo,
America Latina ed Europa.

n
Africa: nella costa occidentale, dal Camerun alla Mauritania, nelle zone
centrali e nel Ciad, nel nord dell’Egitto, in Kenya e Tanzania
(circoncisione ed escissione), in Mali, Sudan, Somalia, Etiopia e nel nord
della Nigeria (infibulazione).

n Asia:
Filippine, Malesia, Pakistan e Indonesia (tra i gruppi musulmani).

n Mondo
Arabo: Emirati Arabi Uniti, Yemen del sud, Bahrain, Oman.

n
America Latina: la circoncisione femminile è praticata in Brasile, in
Messico e Perù (presso gruppi di origine africana).

n
Europa: a causa della numerosa presenza di immigrati provenienti dai
sopracitati paesi, il fenomeno delle mutilazioni genitali, dall’antichità
dov’era sepolto, è ritornato alla luce e interessa una vasta fascia di
donne e bambine straniere. Una nuova tendenza, al riguardo, è stata
introdotta da ricchi africani che portano le loro figlie in Europa per
sottoporle a circoncisione, sotto anestesia e in condizioni
igienico-sanitarie migliori di quelle presenti nei loro paesi.

(cfr.
«The circumcision of women. Strategy for eradication», Zed Books ltd,
London).

 


E il
nostro paese?

 L’
Italia è interessata al fenomeno, insieme al resto dell’Europa, anche se
non è possibile risalire a dati certi e reali: certamente esistono casi
(forse qualche centinaio), dal 1992 ad oggi, di bambine, figlie di
immigrati, che hanno subìto mutilazioni sessuali nel nostro paese o in
patria. Quando i genitori non decidono di accompagnarle al paese
d’origine, le piccole vengono operate qui, in cliniche private o in case,
dove medici italo-somali o personale paramedico eseguono l’intervento.

Per
un’infibulazione la famiglia giunge a pagare oltre 1.000 euro. L’età delle
bambine si aggira tra 5 e 12 anni.

Molto
più alto è, invece, il numero di donne straniere, residenti in Italia, che
sono state sottoposte, anni addietro e nel paese d’origine, a
circoncisione o infibulazione.

Oggi
qui, in terra di immigrazione, manifestano varie patologie, fisiche o
mentali, o semplicemente profondo disagio psicologico.

 

 



Infibulazione: è possibile cambiare?

  

Di
questa pratica, delle sue origini, motivazioni e degli strumenti per
sradicarla totalmente dall’uso comune in molte aree dell’Africa, si è
occupato il seminario internazionale «Mutilazioni dei genitali femminili.
Una questione di relazioni tra uomini e donne», organizzato nel giugno
scorso a Torino, presso il Centro internazionale di formazione, dall’Aidos
(Associazione italiana donne per lo sviluppo). Numerosi gli interventi di
esperte africane (giuriste, psicologhe, medici, sociologhe e
antropologhe), da anni impegnate in prima fila nella lotta contro il
fenomeno.

«ll
nostro intento è quello di promuovere scambi di informazioni e conoscenze
fra le associazioni africane ed occidentali – ha detto Cristiana Scoppa,
dell’Aidos e una delle organizzatrici del corso – e di fornire strumenti
formativi e didattici per facilitare l’opera di prevenzione nei villaggi e
nelle città dell’Africa.


Cerchiamo di aiutare a sviluppare una consapevolezza sulle motivazioni
personali, non solo sociali e tradizionali, alla base del radicamento di
tale pratica. È solo prendendo coscienza di sé, del proprio ruolo di
donna, del proprio valore e dei modelli familiari di appartenenza
(centrati sul controllo della donna da parte del clan familiare maschile)
che è possibile apportare un cambiamento a tradizioni antiche e radicate.

Un
altro aspetto altrettanto importante è quello dell’informazione
nell’ambito sanitario: medici e infermieri, infatti, sempre più spesso in
Italia e a Torino, si trovano di fronte a donne infibulate o escisse, in
procinto di partorire, ed è impensabile che possano operare alla rimozione
della sutura al momento delle doglie. Bisogna intervenire prima,
altrimenti si creano lacerazioni o complicazioni gravi e tanto disagio,
sia per le pazienti sia per i medici».

 

Il prezzo … della
sposa

Le
mutilazioni genitali femminili (mgf) hanno radici lontane e ancora oscure.
Qualcuno le fa risalire ai faraoni di Egitto (circoncisione faraonica),
altri all’antica Roma (in-fibulare, chiudere con fibbia: è l’usanza di
applicare ai genitali estei maschili o femminili fermagli o anelli per
evitare i rapporti sessuali).

Molti
sono gli studi sull’argomento, a livello sia antropologico-sociologico sia
medico-scientifico, che tuttavia non hanno scalfito il silenzio e il
disagio che gravitano attorno a questo diffusissimo fenomeno.

 Scrive
Carla Pasquinelli nella ricerca «Antropologia delle mutilazioni dei
genitali femminili», curata dall’Aidos (Associazione italiana donne per lo
sviluppo): «Dietro questo silenzio ci sono molte cose: c’è un mondo di
donne chiuso su se stesso, un mondo di interni, sospeso tra l’attesa e il
timore di togliare via una parte del corpo delle proprie bambine nel corso
di cerimonie di cui per secoli le madri sono state le grandi registe, e
c’è un mondo esterno, un mondo di uomini che si mantiene estraneo e
distante, e che però su questo disciplinamento dei corpi femminili ha
fondato le proprie strategie di potere. A tenere insieme e dare coerenza a
questi due mondi così distanti tra loro c’è una pratica cruenta, che
stringe in una morsa tutta la fascia dell’Africa subsahariana, e che
costituisce l’espressione simbolica di un complesso sistema economico e
sociale di strategie matrimoniali diffuso in maniera capillare in tutta
l’area.

Si
tratta di un meccanismo di dominio fondato sul prezzo della sposa, cioè
sul compenso che la famiglia del futuro marito versa alla famiglia della
futura moglie in cambio di una donna illibata, il che vuol dire circoncisa
(escissa o infibulata che sia), pronta a rispedirla al mittente e a
riprendersi il compenso versato… se la donna non è operata come si deve.
Il valore di una sposa dipende infatti dalla sua verginità e le mgf sono
una forma di protezione che inibisce nella donna desideri e tentazioni di
rapporti prematrimoniali, ma che soprattutto la preserva e la difende da
violenze e stupri».

 

Fra
tanta incertezza circa l’origine del fenomeno delle mutilazioni genitali
domina una certezza: l’islam non ha nulla a che vedere con la diffusione
in territorio africano di questa antica pratica ad esso antecedente.

Scrive
ancora Carla Pasquinelli: «L’attribuzione che spesso viene fatta
all’islam… è probabilmente dovuta alla facilità con cui si è saputo
adattare al tessuto tradizionale conformandosi al modo di vita locale.

La sua
penetrazione, infatti, è stata resa possibile dalla presenza nelle culture
africane di alcuni elementi (come le strutture patrilineari e la
concezione di Dio fondata su un forte senso di dipendenza), che ne hanno
favorito l’accettazione, permettendogli di radicarsi nel tessuto
tradizionale molto più di quanto non siano riuscite a fare le varie chiese
cristiane che si sono impegnate alcuni secoli più tardi
nell’evangelizzazione del continente africano…

Questo
diverso atteggiamento della religione islamica e di quella cristiana si
riflette anche nella percentuale di donne sottoposte alla mutilazione dei
genitali nei due contesti. Le cifre parlano chiaro: mentre in area
cristiana (dove predomina la clitoridectomia) le percentuali oscillano tra
il 20 e il 50, in area islamica (in particolare nel Coo d’Africa, dove
l’infibulazione è di rigore) si toccano punte che vanno dall’80 al 100%.

Con il
tempo l’identificazione dell’islam con la tradizione indigena non ha fatto
che rafforzarsi, a tal punto che è stato il maggior responsabile della
diffusione delle mutilazioni genitali femminili fuori dell’Africa,
esportandole tra l’altro in Indonesia e Malesia».

 

Bibliografia

– The
circumcision of women, a strategy for eradication (a cura di Olayinka
Koso-Thomas), Zed Books Ltd, London


Antropologia delle mutilazioni dei genitali femminili, una ricerca in
Italia (a cura di Carla Pasquinelli), Aidos


Special needs of ritually circumcised women patients (a cura di Hanny
Lightfoot-Klein – Evelyn Shaw), in «Jognn, principles & practice»


Figlie d’Africa mutilate. Indagini epidemiologiche sull’escissione in
Italia (a cura di Pia Grassivaro Gallo), Editrice L’Harmattan Italia, 1998

– Nous
protégeons nos petites filles (a cura de la «Prefecture d’Ile-de-France»)

– Il
corpo offeso, in «Sapere», 1994

– The
sexual esperience and marital adjustment of genitally circumcised and
infibulated females in the Sudan (a cura di Hanny Lightfoot-Klein), in
«The Joual of sex research», 1989


L’histornire de Fatoumata (a cura di «Campagne pour l’éradication des
mutilations génitales féminines»)


Mutilazioni dei genitali femminili. Una questione di relazioni tra uomini
e donne, diritti umani e salute (convegno), Torino, luglio 2001, OIL


Figlie d’Africa mutilate, anche in Italia (convegno), Torino, febbraio
1999


Infibulazione tra diritti umani e identità culturale (a cura del CSA,
Centro Piemontese di Studi Africani, Associazione Frantz Fanon, Istituto
Avogadro), Torino 1998


Pharaonic circumcision of females in the Sudan (a cura di Hanny
Lightfoot-Klein), in «Medicine and Law», 1983


Observation ethnopsychiatrique de l’infibulation des femmes en Somalie (a
cura di Michel Erlich) in «Terrain Ethnologique»

– La
lunga marcia delle donne contro l’infibulazione, in «Tam Tam», 1995

– Waris
Dirie, Fiore del deserto. Storia di una donna, Garzanti Editore, 2000


L’excision hors la loi (a cura di Karine Sidibe), in «Le Temps de
l’Afrique noire», novembre 1996

– La
salute delle donne e le mutilazioni sessuali: un problema della società
multietnica (a cura di Elisabetta Cirillo), in «Politica del Diritto»,
marzo 1992

Angela Lano