TARGET 2015 Obiettivi di sviluppo del Millennio (5)

LA MORTE NELLA VITA

Ogni anno mezzo milione di donne muore durante la gravidanza o il parto.

Molte vite potrebbero essere salvate, semplicemente dando la possibilità a tutte le mamme di partorire in un centro sanitario dove sia possibile intervenire sulle eventuali complicanze del parto. O anche solo di essere assistite durante la gravidanza e il parto da un medico o da un’ostetrica. E invece mezzo milione di donne ogni anno muore perché non ha potuto ricevere le cure necessarie: una ogni minuto. Molti milioni di donne portano con loro per tutta la vita le conseguenze di gravidanze e parti seguiti poco o non seguiti del tutto: disturbi, malattie, invalidità con cui fare i conti negli anni a venire.
Il 5° Obiettivo di sviluppo del millennio si è posto il traguardo di ridurre di tre quarti la mortalità matea entro il 2015 (a partire dai dati del 1990).
Squilibrio poveri-ricchi
Ancora una volta, tutte le donne che muoiono dando la vita appartengono praticamente ai paesi in via di sviluppo: il 99%.
Una donna che vive nell’Africa subsahariana, nel corso della sua vita ha una probabilità su 16 di morire quando aspetta un figlio o lo dà alla luce: nei paesi sviluppati una su 2.800; in Sierra Leone o in Afghanistan una donna ogni 6 muore per complicazioni collegate a gravidanza o parto; in India 136 mila ogni anno. Malawi, Angola, Niger, Tanzania, Rwanda, Mali, Somalia sono tutti paesi dove la mortalità matea è alta. Ma il quadro potrebbe essere anche peggiore di quanto registrato, perché non sono disponibili i dati relativi a 62 nazioni, che da sole coprono il 27% delle nascite mondiali.
Inoltre, lo squilibrio non è solo fra uno stato e l’altro, bensì anche all’interno dello stesso paese, fra popolazione agiata e in miseria: in Etiopia, una futura mamma ricca ha una probabilità 28 volte maggiore di una povera di essere seguita da personale qualificato durante il parto.
Questi numeri evidenziano un enorme squilibrio, ma sottolineano anche la possibilità di cambiare le cose, dando a tutti la disponibilità di personale qualificato, strumenti e farmaci. Si intrecciano dunque i diversi obiettivi del millennio, si riafferma la concatenazione per la quale il raggiungimento di uno porta con sé il miglioramento di un altro: dalla povertà all’istruzione, dalle pari opportunità alla mortalità infantile e alle malattie infettive come l’Aids, il quinto obiettivo porta con sé tutti i precedenti.

AVERE UN MEDICO ACCANTO
Per la mortalità matea, i dati disponibili nel 2005 indicano che finora i miglioramenti si sono avuti solo nei paesi dove vi era già un basso livello di mortalità. In quelli invece in cui i numeri erano più alti la situazione non è migliorata o è addirittura peggiorata. Negli stati più poveri solo 28 partorienti su 100 vengono ancora seguite da personale qualificato nel momento che dovrebbe essere fra i più belli della loro vita e che troppo spesso diventa quello della loro morte.
Punti fondamentali per cambiare i dati di mortalità sono proprio l’assistenza professionale e sanitaria adeguata durante la gravidanza e durante il parto, quell’assistenza che viene data per scontata nei paesi industrializzati e che non lo è affatto in quelli in via di sviluppo.
La prevenzione della mortalità matea passa attraverso un rapido accesso alle cure ostetriche di emergenza, alla possibilità di un trattamento adeguato di emorragie, infezioni, ipertensione e travaglio complicato.
In Burkina Faso, alcuni ricercatori hanno segnalato sulla rivista medica British Medical Joual (Bmj) che, su 34 donne decedute durante il parto, 10 erano morte per emorragia, 7 per sepsi (infezione diffusa) e 4 per travaglio prolungato: morti evitabili, con un’assistenza adeguata.
In Mozambico e in Zimbabwe, questioni burocratiche e organizzative non rendono disponibili per le gravide farmaci utili e a basso costo, come il magnesio solfato, efficace nel trattamento e nella prevenzione dell’eclampsia (convulsioni legate a un marcato aumento della pressione), per la quale muoiono ogni anno nel mondo oltre 60 mila donne, il 99% delle quali nei paesi a medio e basso reddito.
Per l’Organizzazione mondiale della sanità ci sono stati miglioramenti nell’assistenza medica od ostetrica; ma la disponibilità di interventi che possono salvare la vita, come antibiotici, chirurgia, trasporto in centri medici attrezzati, manca ancora a molte donne, soprattutto nelle zone rurali, lontano dalle città.
In Myanmar (ex Birmania), le donne della minoranza karen verso la fine della gravidanza cercano di arrivare in Thailandia e, in prossimità della data del parto, si dedicano addirittura alla microcriminalità: tutto questo per essere arrestate ed entrare in travaglio nelle carceri thailandesi, dove sanno che ci saranno infermiere al loro fianco e che verranno portate in ospedale al momento del parto. Scelgono quindi la prigione per essere seguite e per nutrire per qualche mese i loro figli: nel loro paese non avrebbero questa possibilità, in quanto minoranza senza cittadinanza birmana.

DIFFICILE INTERVENTO NEL RISPETTO DELLA VITA 
Gli interventi sulla mortalità matea, rispetto ad altri Obiettivi del millennio, sollevano anche polemiche e questioni etiche sull’aspetto della «prevenzione» delle gravidanze, dell’offerta di una consulenza appropriata e rispettosa di idee, culture, visioni della famiglia nei paesi in via di sviluppo.
Per ridurre la mortalità matea e salvaguardare la salute della donna, si parla infatti anche di misure preventive. Ad esempio: l’aumento dell’età dei matrimoni e della prima gravidanza, adeguati intervalli di tempo fra un figlio e l’altro, prevenzione delle gravidanze non volute ed eliminazione degli aborti in condizioni non sicure. Azioni che, si legge sui documenti del Dipartimento per lo sviluppo internazionale (Dfid) britannico, potrebbero evitare un terzo delle morti matee ed essere importanti per 1 miliardo e 300 mila giovani che si affacciano all’età riproduttiva.
Sempre sul Dfid si legge che la mateità rappresenta la causa principale di morte fra i 15 e i 19 anni nei paesi in via di sviluppo, che ogni minuto 190 donne si trovano di fronte a una gravidanza non voluta o non pianificata e ogni anno circa 70 mila muoiono per complicanze di un aborto non sicuro.
Ma sono temi che aprono il capitolo sulla difficoltà di integrare con correttezza interventi medici di salute in una cultura, in un modo di vivere, e anche di intendere la vita, differente. Sono interventi che sollevano polemiche sulla concentrazione degli sforzi nella prevenzione delle gravidanze più che nella cura delle stesse.
L’argomento è stato per esempio affrontato dalla giornalista Eugenia Roccella, nel contesto più globale dell’azione dell’Onu e dell’Unione europea nei confronti della donna, salute riproduttiva e controllo delle nascite nei paesi in via di sviluppo. Roccella riporta che, secondo la Società di ostetricia e ginecologia del Canada, in base ai dati di rapporti inteazionali, gli obiettivi di riduzione del numero di morti conseguenti al parto non vengono raggiunti per la mancanza non di conoscenze e strumenti, bensì dell’investimento di risorse per permettere l’accesso alle cure ostetriche per le complicanze.
«Il problema consisterebbe quindi nella scarsa volontà internazionale di affrontare questo aspetto della salute riproduttiva, nonostante sia il più drammatico e urgente, sia per il numero dei decessi femminili che per le conseguenze sui bambini» scrive Roccella. E ancora: «I dati confermano come i cosiddetti servizi alla salute riproduttiva siano rivolti moltissimo alla prevenzione delle gravidanze indesiderate, ma pochissimo alle cure delle gravidanze desiderate. Il modo principale con cui si intende ridurre la mortalità da parto è riducendo, semplicemente, il numero di parti, e aumentando quello di aborti».
Ciò che va bene in un paese può non inserirsi positivamente in un altro e ogni intervento richiede la conoscenza della realtà cui è rivolto. Scrive sempre sul Bmj Zulfiqar A. Bhutta, del Dipartimento di pediatria e salute infantile dell’Agha Khan University (Karachi, Pakistan): «La mancata comprensione di importanti aspetti socioculturali nell’affrontare la salute e la malattia può ostacolare programmi sanitari, soprattutto in quelle società dove la salute e i diritti di donne e bambini sono strettamente interconnessi».

Mete da raggiungere

1. Povertà e fame: dimezzare rispetto al 1990 la povertà estrema e la fame.
2. Istruzione: garantire a tutti un livello di istruzione primaria.
3. Parità dei sessi: promuovere l’uguaglianza tra maschi e femmine; dare maggiore autonomia e poteri alle donne.
4. Bambini: ridurre di due terzi rispetto al 1990 la mortalità infantile.
5. Mamme: migliorare la salute matea, inclusa la riduzione di tre quarti rispetto al 1990 della mortalità in gravidanza e da parto.
6. Malattie: prevenire la diffusione di HIV/AIDS, malaria e altre malattie.
7. Ambiente: assicurare uno sviluppo sostenibile.
8. Scienza, tecnologia, progresso: sviluppare una collaborazione globale per lo sviluppo.

OBIETTIVO N°5
Migliorare la salute matea
e ridurre la mortalità in gravidanza e da parto.

In tutto il mondo oltre 50 milioni di donne soffrono di disturbi, anche gravi, correlati alla gravidanza o al parto: mezzo milione muore nel dare la vita. La maggior parte di questi decessi si verifica in Asia, ma sono le donne africane ad avere il rischio più alto di morire durante la gravidanza o il parto: nell’Africa Sub Sahariana il rischio di morire di parto nel corso della propria vita è di uno a 16, in Europa uno a 2.000, nel Nord America uno a 3.500. Il 5° Obiettivo del millennio si propone di ridurre di tre quarti, fra il 1990 e il 2015, i numeri della mortalità matea.

Valeria Confalonieri




BRASILE Undicesimo capitolo generale Missionari Consolata

Sandali al vento

Con l’11° Capitolo generale i missionari della Consolata hanno esaminato il lavoro degli ultimi tempi e progettato il cammino dei prossimi sei anni, per rispondere alle sfide del mondo attuale e alle attese dei popoli in cui svolgono la loro opera di evangelizzazione.

Zaccaria, dallo sguardo sorridente. C’è pure lui, alto ed esile come un grissino. Partecipa, insieme ad altre 48 persone provenienti da Africa, America, Asia ed Europa, all’11° Capitolo generale di São Paulo (Brasile). È la massima assemblea dell’Istituto Missioni Consolata.
Ogni sei anni i missionari della Consolata, presenti i loro delegati da tutti i paesi dove operano (oggigiorno 22), sostano un mese abbondante a valutare il trascorso sessennio e a programmare quello futuro. Inoltre il Capitolo elegge la nuova direzione generale dell’Istituto, composta da un superiore e quattro consiglieri.
In pullman… Zaccaria appare alquanto spaesato, mentre dal finestrino rincorre la sterminata metropoli paulista, immersa in una fungaia di grattacieli. Approdato tutto solo dalla Costa d’Avorio, si sente troppo smilzo in una nazione dove tutto è «maior do mundo».
Tuttavia, oggi, 11 aprile, apertura ufficiale del Capitolo generale, Zaccaria si rasserena un poco. Con i 48 colleghi (comprese le missionarie della Consolata, anch’esse riunite in Capitolo), dopo il viaggio in autobus, si trova a pregare nel santuario mariano di Nossa Senhora Aparecida. Ma questa «signora» è una «madonnina»: non bella, troppo nana, a pezzi. Si racconta che, nel 1717, sia «apparsa» ad alcuni pescatori addirittura senza testa!
Ma sorride. Forse è l’unica Madonna al mondo che sorrida sempre con smagliante spontaneità. Zaccaria se la gode, perché ride come lui ed è nera quanto lui.
Zaccaria King’aru è un missionario della Consolata kenyano. Appartiene al popolo dei kikuyu, nato a Tuthu nel 1953, esattamente nel villaggio dove il 29 giugno 1902 i missionari della Consolata celebrarono la prima messa in Kenya in onore della loro omonima patrona.
Attualmente padre Zaccaria è il superiore, in Costa d’Avorio, dei 13 missionari della Consolata italiani, congolesi, spagnoli, kenyani e colombiani. Al Capitolo di São Paulo è il loro portabandiera.

Dopo 37 giorni di sessioni, incontri, dibattiti e gruppi di studio, l’11° Capitolo generale chiude i battenti tra il sollievo comune.
Il 16 maggio padre Zaccaria fa le valigie, per ritornare in Costa d’Avorio. Non è un problema raccogliere poche camicie e canottiere. Più difficile, invece, è districarsi fra la congerie di relazioni, schede, comunicati e mozioni che il Capitolo ha prodotto. «Troppa carta!» mormora tra sé il missionario maneggiando una pila di fotocopie.
Ma, dovendo informare i confratelli sui lavori e le scelte del Capitolo, padre Zaccaria passa in rassegna con cura l’intera documentazione acquisita e si sofferma pure a rileggerla. Anche perché è interessante.
Recita, per esempio, la relazione dell’Italia: «Bisogna essere testimoni della missione ad gentes, che supera la questione degli aiuti economici. Nostro compito specifico è invitare la chiesa locale e la società civile a respirare un’aria di mondialità e a destare in tutti una sana inquietudine per il regno di Dio. Se la chiesa è rannicchiata sui propri problemi e paralizzata da schemi del passato, dobbiamo offrire le vivaci esperienze delle giovani chiese, e non solo raccontare avvenimenti patetici, tali da suscitare facili emozioni per elemosinare denari. L’animazione missionaria è ben altro!».
A proposito di soldi (ma non solo), ecco quanto si scrive dal Tanzania: «Ringraziamo la Provvidenza, che ci giunge attraverso vari canali: parenti, amici, benefattori e associazioni varie. È spesso un coro di generosa solidarietà, a volte del tutto inattesa. Forse la missione non può che avere che questo unico cespite sicuro: la Provvidenza. Riconoscenza, sobrietà, responsabilità e fedeltà amministrativa devono essere le caratteristiche con cui noi, missionari, riceviamo e doniamo. Ma anche disceere, valutare bene ed essere pronti, eventualmente, a ridimensionare il nostro stile di realizzare la missione…».
Quanto al Kenya (paese cui Zaccaria è, ovviamente, molto attento), le diocesi di Maralal e Marsabit sono ancora un campo d’avanguardia, con aree di primissima evangelizzazione. Il problema di tanti idiomi e il disagio di vivere in zone impervie non facilitano il lavoro missionario. Ciononostante, si auspica un rinnovamento della pastorale, che coinvolga maggiormente la popolazione locale.

Varie volte, durante il Capitolo, è risuonato il termine «pandemia», assai più eloquente del pur grave «epidemia». Oggi la pandemia per antonomasia si chiama Aids e furoreggia in Africa. «Aids che per molti è una parola-tabù, da non pronunciarsi mai» ha denunciato in assemblea padre Zaccaria. «Aids che ha ucciso 500 persone nel mio villaggio natale e sei fratelli nella mia stessa famiglia» ha precisato un altro capitolare africano, raggelando l’uditorio.
Nell’Africa subsahariana dove operano i missionari della Consolata, dall’Etiopia all’Uganda, dal Congo al Mozambico, l’Aids produce il deserto: scompare la generazione degli adulti (la più valida economicamente e culturalmente), lasciando alle spalle solo vecchi e bambini orfani, sovente sieropositivi.
Dal Sudafrica si è udita, forse, la voce più sconsolata. In media, ogni giorno, un migliaio di persone contrae il virus Hiv-Aids. Nel 2004 oltre 400 mila individui sono deceduti. Però (ed è un’assurdità!), nonostante la forte pressione internazionale per usufruire di farmaci a basso costo, «il governo sudafricano, ottenutili, non ha approvato alcuna terapia, quale ad esempio gli antiretrovirali durante il parto». Perché?…
La relazione dal Sudafrica (a suo tempo caratterizzato dall’odiosa discriminazione razziale, imposta ai neri dai bianchi) ha impressionato anche per il clima di insicurezza e paura che regna in varie parti del paese: a tal punto che alcune abitazioni sono munite di «recinti ad alta tensione elettrica» per respingere i malintenzionati.
Intanto l’anziano e saggio Nelson Mandela raccomanda a tutti «un piano di ricostruzione e sviluppo che nasca dall’anima».

Data la diversità culturale, padre Zaccaria ha ascoltato con interesse soprattutto gli interventi riguardanti le nazioni dell’America. Nazioni socialmente travagliate. Fa testo l’Argentina (un tempo granaio del mondo), dove ieri si moriva anche di fame, mentre oggi si sopravvive alla «buena de Dios». Oppure il Venezuela, che vede crescere spudoratamente il divario fra ricchi e poveri.
Per i missionari della Consolata la scelta dei bisognosi è sempre stata una priorità. E bisognosi sono, specialmente, i popoli indigeni. In Argentina e Venezuela la loro scoperta (o riscoperta) qualifica la missione.
Gli aborigeni latinoamericani sono stati il cavallo di battaglia in tante campagne di sensibilizzazione. L’ultima in ordine di tempo è stata «Nos existimos»: ha riguardato i contadini poveri, gli emarginati urbani e gli indios di Roraima (Brasile). Ebbene, con quale gioia, il 16 aprile, i capitolari hanno salutato l’omologazione dell’area indigena Raposa/Serra do Sol di Roraima! Esultanti specialmente i padri Antonio Feandes e Laurindo Lazzaretti, nonché fratel Carlo Zacquini, operanti in loco…
E la Colombia? Da decenni, con i suoi 25 mila morti ammazzati all’anno, è dilaniata da un tasso di violenza superiore persino a quello dell’Iraq. Eppure non mancano spiragli di luce, come la Scuola di riconciliazione e perdono «Espere». È un antidoto efficace al clima di odio instauratosi nella nazione per motivi politici. «Gli effetti positivi di questa scuola – ha affermato padre Piero Trabucco, ex superiore generale – potrebbero suggerire al nostro Istituto di favorire l’iniziativa ovunque svolgiamo un’azione missionaria».
Dunque, riconciliazione e perdono, però non disgiunti da verità e giustizia.
Poiché i missionari della Consolata sono intercontinentali, padre Zaccaria ha accolto con stupore l’analisi sul Nordamerica (Stati Uniti e Canada). Qui la multiculturalità è, nello stesso tempo, dono e fardello. In ogni caso assurge a sfida che i missionari, sia di cultura inglese che francese, vogliono affrontare con coraggio.
E coraggioso è stato padre Leonard De Pasquale, superiore del Nordamerica, nell’affermare che «gli Stati Uniti esportano la loro ideologia di democrazia in un modo non accettabile da tutti i cittadini. Di conseguenza molti si sono opposti all’aggressione degli Usa all’Iraq, come pure alla politica di controllo e dominio del mondo».

Valigia in mano e borsa a tracolla, padre Zaccaria King’aru lascia Rua Itá 381 – São Paulo, sede dell’11° Capitolo generale. Poiché assai difficilmente vi rimetterà piede, il missionario, prima di andarsene definitivamente, si volta a guardare per l’ultima volta… e incontra sulla facciata dell’edificio l’altorilievo della Consolata: bislungo, sproporzionato, impassibile. Non sorride questa Madonna; anzi, non ha neppure volto. Ma è volutamente incompiuta.
E forse, proprio per questo, è eloquentissima. Senza manto, indosserà e il sari indiano e il pareo tanzaniano e il ruana colombiano. Senza sguardo, avrà gli occhi verdi della mamma canadese, quelli a mandorla della coreana o le pupille estasiate dell’etiope.
Consolata e consolatrice, sorella e madre di tutte le genti.

Box 1

«Il nostro stile
di vita e missione»

È il titolo del documento ufficiale prodotto dall’11° Capitolo generale. Consta di due parti. La prima offre una sintesi articolata sul come i missionari della Consolata:
– sono discepoli di Cristo,
– vivono l’appartenenza al proprio istituto,
– manifestano la comunione,
– prestano servizio missionario,
– dispensano i misteri di salvezza,
– amministrano i beni materiali,
– sono organizzati.

L a 2a parte (assai diversa dalla prima) comprende alcune «schede» con proposte operative attinenti a:
– santitá di vita come orizzonte della missione,
– comunitá multiculturale e interculturale,
– comunione e collaborazione con altre forze,
– attenzione all’ad gentes degli areopaghi,
– giustizia, pace e integritá del creato,
– dialogo interreligioso,
– formazione di base e permanente,
– fratelli missionari consacrati,
– animazione missionaria e vocazionale,
– mezzi di comunicazione sociale
– sfida dell’Aids.

N el sessennio 2005-2011 la direzione generale dei missionari della Consolata sarà composta dai padri:
– Aquiléo Fiorentini, superiore generale
– Stefano Camerlengo, vicesuperiore e primo consigliere
– Francisco de Asís Jesús López Vásquez, secondo consigliere
– António Manuel de Jesus Feandes, terzo consigliere
– Matthew Ouma, quarto consigliere

C omplessivamente i missionari della Consolata sono un migliaio. Provengono da Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Congo, Corea del Sud, El Salvador, Eritrea, Etiopia, Inghilterra, Italia, Kenya, Mozambico, Polonia, Portogallo, Spagna, Tanzania, Usa, Uganda, Uruguay, Venezuela. Operano, in comunità inteazionali, in questi stessi stati (esclusi Cile, El Salvador, Eritrea, Polonia, Uruguay). Ma sono presenti anche a Gibuti.

Francesco Beardi




OBIETTIVI SVILUPPO DEL MILLENNIO Tutti a scuola (2)

Il diritto allo studio è l’Obiettivo di Sviluppo del Millennio numero due: l’istruzione primaria è il ponte che permette alla persona di fare le proprie scelte e diventare parte integrante e attiva della società e del mondo.

Banchi di scuola per tutti, a Nord e a Sud, al freddo e al caldo, in campagna e in città, nel deserto e nelle baraccopoli. Perché l’istruzione è il punto di passaggio necessario per offrire a tutti le stesse possibilità, per dare gli strumenti ai bambini di oggi di costruire il proprio futuro o, quanto meno, di avere qualche carta in più per diventare protagonisti attivi della loro vita.
Il traguardo numero due degli «Obiettivi di sviluppo del millennio» (vedi riquadro), dichiarati come priorità dell’agenda internazionale da 189 stati membri delle Nazioni Unite durante il Millennium Summit del 2000, sottolinea l’importanza dell’alfabetizzazione universale, perché tutti i bambini del mondo possano imparare a «leggere, scrivere e fare di conto», come si diceva una volta.
Sono molti i paesi dove il diritto all’istruzione è ancora negato e i bambini non hanno la possibilità di frequentare gli «studi dell’obbligo», come vengono chiamati.
Secondo i dati del 2000, 104 milioni di bambini in età scolare non andavano a scuola: di questi, il 57% apparteneva al mondo femminile e il 94 per cento viveva nei paesi in via di sviluppo (soprattutto nell’Africa sub-sahariana e nel sud dell’Asia). Questo per la piaga del lavoro minorile, o dei bambini soldato, o della povertà che impedisce alle famiglie di pagare l’iscrizione, o i libri e i quadei necessari allo studio, o la divisa da indossare.
Spesso infatti, non sono le strutture che mancano: la maggior parte dei paesi in via di sviluppo ha le scuole necessarie per garantire questo diritto dell’infanzia: nonostante ciò, solo in un quarto di queste nazioni i bambini raggiungono un livello base di istruzione.

Esperienze vissute

Le ragioni per non frequentare la scuola o abbandonarla prima del tempo possono essere diverse, a volte intrecciate con altre difficoltà della vita che rendono difficile guardare al futuro; ci si accontenta di tirare a sera e sopravvivere fino a un nuovo giorno.
Il Tanzania può essere un buon esempio per capire come, a volte, la presenza di scuole e anche di aiuti da parte del governo, ancora non basti per portare i bambini in classe. Il governo tanzaniano, per permettere l’accesso all’istruzione anche ai nuclei familiari più disagiati, ha eliminato le rette, lasciando da pagare alle famiglie solo 10 euro l’anno.
Ma nel paese una persona su tre vive al di sotto della soglia della povertà e, nonostante l’iniziativa del governo, tre bambini su dieci non hanno la possibilità di andare alla scuola primaria: anche quei 10 euro fanno la differenza.
Altre volte la difficoltà è legata alle esperienze vissute dai bambini, che rendono difficile un ritorno alla normalità e quindi anche ai banchi di scuola: nel caso degli ex bambini soldato, per esempio, è spesso difficile ritornare a studiare, rientrare in una classe, in mezzo ai compagni di scuola, dopo tutto quello che hanno visto e vissuto e che continua a tornare nella loro mente.
Altre volte ancora un male ne porta con sé un altro e bambini con la vita già segnata dal virus dell’Aids si vedono negare l’accesso a scuola. È successo per esempio in Kenya, a Nairobi, dove il nuovo anno scolastico iniziato a gennaio ha lasciato fuori da alcune scuole elementari i bambini sieropositivi, ai quali non è stata permessa l’iscrizione: le classi «erano piene».

Diritto per sopravvivere

La negazione di questo diritto ai bambini è grave e porta con sé conseguenze per tutta la vita. L’istruzione primaria di base è la chiave della sopravvivenza in diversi contesti e situazioni, ogni giorno: senza di essa, viene negata la possibilità di esercitare diversi lavori, non si possono contare i soldi, non si possono leggere istruzioni, percorsi da fare, strade dove andare, pericoli da evitare. Non si possono leggere le spiegazioni di un medico, contare le pastiglie, capire le medicine da prendere e a che ora, capire cosa viene proposto di fare e fatto firmare.
Sapere leggere, scrivere, contare può determinare il corso della vita di un individuo. Se ne sono rese perfettamente conto alcune mamme in Ecuador, che a Logarto, nella provincia di Rioverde (zona dell’entroterra) hanno protestato a viva voce per la chiusura della scuola, avvenuta all’inizio di quest’anno. La maestra se ne era andata; ed essendo una struttura con un unico insegnante, come accade spesso, le lezioni erano state sospese.
In questo paese, ma non solo, spesso l’istruzione dei bambini è legata alla buona volontà dei loro maestri, che devono fare chilometri di strada per raggiungere la scuola, che raccontano di banchi vuoti, perché le famiglie a un certo punto dell’anno scolastico non possono più fare a meno dei loro figli per il lavoro nei campi.
Altre volte invece, gli insegnanti ci sono, vorrebbero esserci anche i bambini e lo vorrebbero anche i genitori, ma i banchi sono vuoti e le lezioni interrotte, perché la povertà, complice la natura, ha avuto la meglio. Come è successo a ottobre dello scorso anno fra le comunità indios in Paraguay: 8 mesi di siccità hanno portato alla chiusura di 50 scuole. La maggioranza dei bambini era partita con la famiglia verso le montagne, per procurarsi cibo; i pochi rimasti avevano troppa fame ed erano debolissimi, certo non in grado di concentrarsi e seguire le lezioni.

A che punto siamo

Gli esempi che si possono fare sono numerosi e spaziano da un continente all’altro, a sottolineare l’importanza dell’Obiettivo di sviluppo del millennio stabilito. Secondo le analisi della Banca mondiale, che ha valutato il panorama scolastico in 155 paesi in via di sviluppo, solo in 37 venivano completate le scuole primarie e, sulla base dell’andamento fino agli anni Novanta, si poteva prevedere il raggiungimento di tale risultato in altri 32. Ma gli altri?
Se le cose non cambiano e le iniziative non accelerano i cambiamenti e miglioramenti della situazione, non raggiungeranno l’obiettivo, anche perché in alcuni casi non solo la situazione è definita ferma, «stagnante», ma addirittura peggiorata negli ultimi anni.
Le regioni dell’Asia dell’Est e Pacifico, Europa e Asia Centrale, America Latina e Caraibi sono sulla buona strada e potrebbero arrivare alla meta entro il fatidico 2015.
Facendo esempi più precisi, se continuano con lo stesso ritmo e caratteristiche, hanno buone possibilità di successo Cina, Russia, Bulgaria, Laos, Brasile e Messico. Ma le altre tre zone geografiche identificate, che contano 150 milioni di bambini in età da scuola primaria, rischiano di fallire.
L’Africa sub-sahariana è quella con maggiore ritardo (meno del 50% dei bambini raggiunge l’obiettivo) e dal 1990 sono pochi i progressi registrati. Il cammino dell’Asia del Sud è troppo lento: poche iscrizioni e pochi cicli di studio terminati. Nel Medio Oriente e Africa del Nord la situazione è sostanzialmente ferma agli anni ’90, nonostante il numero di iscrizioni a scuola sia relativamente più alto rispetto alle altre due regioni.
Da ricordare infatti, come l’obiettivo da raggiungere sia il completamento degli studi, perché la sola iscrizione alla scuola non rappresenta una garanzia sufficiente: in Madagascar per esempio, nonostante una percentuale molto alta di iscrizioni, otto studenti su dieci non completano il ciclo primario di istruzione.
Di fatto dunque, se le cose continuano così, i bambini di oltre la metà dei Paesi in via di sviluppo non potranno completare la scuola elementare entro il 2015.

* Siti Inteet:
http://www.millenniumcampaign.it
http://www.developmentgoals.org
http://www.developmentgoals.org/Education.htm
http://www.unmillenniumproject.org
http://web.worldbank.org
http://www.peacereporter.net

Box 1

Mete da raggiungere

1. Povertà e fame: dimezzare rispetto al 1990 la povertà estrema e la fame.
2. Istruzione: garantire a tutti un livello di istruzione primaria.
3. Parità dei sessi: promuovere l’uguaglianza tra maschi e femmine; dare maggiore autonomia e poteri alle donne.
4. Bambini: ridurre di due terzi rispetto al 1990 la mortalità infantile.
5. Mamme: migliorare la salute matea, inclusa la riduzione di tre quarti rispetto al 1990 della mortalità in gravidanza e da parto.
6. Malattie: prevenire la diffusione di HIV/AIDS, malaria e altre malattie.
7. Ambiente: assicurare uno sviluppo sostenibile.
8. Scienza, tecnologia, progresso: sviluppare una collaborazione globale per lo sviluppo.

Box 2

OBIETTIVO N°2

Garantire in tutto il mondo un livello di istruzione primaria

Raggiungere in tutto il mondo un livello di istruzione primaria. Gli obiettivi del millennio in questo campo sottolineano come l’istruzione sia sviluppo: apre le porte alla possibilità di scegliere e fornisce nuove opportunità alle persone; fornisce i mezzi per contrastare la povertà e il diffondersi delle malattie, offre a tutti la possibilità di far sentire la propria voce e le proprie aspirazioni nella società, partecipando in modo attivo alla vita pubblica.
Entro il 2015 la meta da raggiungere è il diritto allo studio: garantire a tutti i bambini, maschi e femmine, ovunque siano nati, la possibilità di frequentare e completare i corsi di scuola primaria

Valeria Confalonieri




Appunti (nostalgici) di un giovane missionario

DOVE L’UTOPIA MUOVE LE MONTAGNE

Tre anni trascorsi tra gli indios Nasa del Cauca.
Viaggio di ricordo tra tanti ricordi all’orizzonte un futuro diverso

Il fuoristrada bianco con il quale ho condiviso tanti chilometri durante questi ultimi due anni e mezzo di vita missionaria scende, quasi controvoglia, per la strada sterrata che da Toribío conduce alla pianura della valle del Cauca, destinazione l’aeroporto di Cali. Sembra quasi che la macchina rifletta i sentimenti di chi, in questi mesi, a lei si è affidato per potersi spostare fra le varie comunità, come se avesse un’anima anche lei, povero ammasso di ferro e plastica, e volesse manifestare il dispiacere dell’addio.
Non guido – il piccolo incidente al ginocchio che ha fatto anticipare il mio rientro in patria non me lo permette – e questo fa sì che possa guardare con calma dal finestrino, ripercorrere tratti di cammino conosciuti, vedere per l’ultima volta luoghi familiari e visi che riconosco e che saluto con un cenno del capo. La tristezza sta nel fatto che da oggi in avanti di questi posti e di questa gente potrò solo parlare ad altri, senza aver più un giornaliero contatto diretto con loro. Non mi sono trattenuto molto in questi luoghi, poco meno di tre anni.
Non c’è momento più denso e adatto dell’addio, credo, per iniziare una piccola relazione di un’esperienza di missione, come se in un’ultima fotografia si potesse rappresentare la totalità delle immagini che hanno riempito la mia mente in tutti questi giorni. È come rigirarsi fra le mani un’istantanea che rappresenta una comunità, con la sua organizzazione, i suoi giovani, i suoi anziani e tutte le persone che le strade polverose del Cauca mi hanno fatto incontrare.
Con questa comunità, con queste persone, cammina da più di vent’anni l’equipo misionero, un gruppo formato da missionari della Consolata, religiose e laici, che condividono vita e lavoro al servizio di questa gente (box).

CONTRATTO A TERMINE
È in questo contesto dove sono atterrato, nel settembre del 2002, con in tasca una specie di contratto a termine con la missione vissuta, per così dire, sul campo. In tasca qualche sogno, molte paure e tanta, tanta voglia di conoscere.
Il primo passo che ho dovuto fare è stato quello di rendermi conto che, sebbene fossi stato destinato alla Colombia per un tempo relativamente breve, non avrei potuto svolgere il mio lavoro in maniera efficiente senza impegnarmi totalmente in questa nuova realtà. È stato quindi necessario cercare di dimenticare, per quanto possibile, il futuro ed attenermi alle circostanze presenti, lasciandomi coinvolgere dalla situazione come se avessi dovuto lavorare per sempre in quel contesto. Come si può facilmente immaginare non è stata un’operazione facile, ma in questo sono stato aiutato enormemente dall’equipo misionero e dallo stile di missione che, in questi anni, esso ha cercato di portare avanti.
Il grande lavoro di riflessione e di progettazione che il gruppo aveva condotto durante la sua storia era lì a mia disposizione, un immenso materiale che ben presto ha riempito la mia stanza, pronto per essere letto, assimilato e discusso nelle periodiche riunioni che l’equipo organizza con lo scopo di valutare ed orientare il lavoro nel modo più omogeneo possibile.
La chiesa latinoamericana, nei suoi documenti di Medellín, Puebla e Santo Domingo ha sempre spinto il lavoro missionario verso un’opera di evangelizzazione che fosse in sintonia con le culture alle quali era diretta, liberatrice e condivisa dalle varie forze ecclesiali che la animano. Queste tre dimensioni sono state accolte dalla nostra presenza nel Cauca come una sfida da portare avanti con coerenza nel suo progetto di lavoro.
La dimensione del lavoro in équipe aiuta a comprendere meglio una realtà culturalmente differente permettendo, a coloro che si uniscono in un secondo tempo, di approfittare di un cammino già fatto, di evitare errori già commessi e di dar valore ai contributi che vengono dai membri stessi della comunità in modo che il messaggio del vangelo trovi nel contatto con un’altra cultura tutta la sua forza liberatrice. Chiaramente tutto ciò mette in crisi, almeno all’inizio, il desiderio di “fare”, di buttarsi immediatamente nella mischia e richiede una buona dose d’ascolto e di condivisione. Ciò che uno ha appreso negli anni di formazione o di precedente esperienza pastorale e che forma la sintesi personale, il sogno della missione di ciascuno, deve entrare in contatto con una realtà specifica, che richiede preparazione, adattamento e talvolta sacrificio da parte del singolo operatore pastorale.

L’INCONTRO CON LA CULTURA NASA
La prima grande sfida che ho dovuto affrontare è stata quella relativa al dialogo fra culture e all’inculturazione del messaggio cristiano. L’aver sempre vissuto, come nel mio caso, in un contesto occidentale (Italia, Inghilterra e Stati Uniti) ha significato un cambio di rotta e un’apertura ad una cultura differente, il passaggio da un mondo tecnicizzato ad un universo tutto sommato ancora mitico, seppur messo in crisi dal rapido avanzare della modeità. Il modo di ragionare “circolare”, dove non sempre le conclusioni sono il frutto di un sillogismo, la visione collettivista della vita e la poca importanza data alla persona, il continuo appellarsi a forze spirituali e naturali come veri responsabili dei vari avvenimenti che segnano il corso dell’esistenza e che cancella quasi completamente la responsabilità personale, sono solo alcuni esempi della difficoltà di entrare in un mondo diverso, senza lasciarsi condizionare dai pregiudizi frutto della nostra formazione.
Uno dei grandi aiuti che ho ricevuto è stato il poter seguire la formazione dei delegados de la palabra, i catechisti locali. È a loro che devo il merito di essermi potuto inserire gradualmente in un mondo che non conoscevo. Ciò che avevo appreso negli anni precedenti e che potevo offrire nel campo della catechesi e della pastorale veniva restituito generosamente sotto forma di indicazioni su come muovermi meglio all’interno della cultura nasa. Me lo ricordava prima della mia partenza José Gentil, il delegato della comunità del Berlín, poche case e una scuola aggrappate sul dorso della montagna, “passare del tempo con noi è la miglior maniera per poter penetrare nel nostro modo di vivere senza rimanere per sempre uno straniero”. In verità ci si rende conto che stranieri si rimarrà per sempre, che non si possono cancellare di colpo forme mentali che ci appartengono dal giorno della nostra nascita, ma si possono ridurre le distanze e porre le basi per un dialogo che sia confronto e non scontro di culture.
La stessa cosa si può dire parlando del dialogo interreligioso. Anche dopo 500 e più anni di evangelizzazione l’indio nasa vive la sua spiritualità in maniera propria, dove elementi di cristianesimo si fondono con l’eredità religiosa e culturale degli antenati. A un gruppo relativamente ristretto di persone che oggi cercano di opporre i valori della Ley de origen, e della visione del cosmo nasa a quelli trapiantati del cristianesimo, corrisponde un numero ben più alto di persone che vivono in modo spontaneo e naturale queste due realtà. E questo è ciò che colpisce maggiormente e pone più difficoltà all’operatore pastorale che si trova a lavorare in questo contesto. È qui dove ci si rende conto che tre anni di esperienza nel mondo indigeno sono troppo pochi per poter fare una sintesi sufficientemente accurata dell’esperienza stessa. La pastorale sacramentale, quella della salute, nonché l’istruzione religiosa nelle scuole devono fare i conti con questa realtà quotidianamente. Che risposte può dare il povero missionario alle prime armi quando una famiglia ti chiede un battesimo per i loro figli perché invitata a far ciò dal medico tradizionale (sciamano), cattolico egli stesso, e che ha visto nella vita della famiglia un influsso negativo di qualche spirito e nel battesimo la forza della benedizione di Dio che può ristabilire l’armonia che si era perduta? O che dire alla famiglia di una piccola comunità della montagna che ti chiama, come mi è successo, un venerdì santo, perché visiti e benedica una ragazza inferma, 24 anni e madre di tre figli, e che rifiuta il trasferimento della stessa all’ospedale in quanto il medico tradizionale aveva diagnosticato la caduta della ragazza sotto l’influsso negativo dell’arcobaleno?
Il delegado de la palabra, catechista preparato e costantemente formato sulla parola di Dio e sull’essenza del messaggio cristiano, ma nello stesso tempo persona che vive inserito nella realtà culturale del suo popolo, è l’unica persona che può dare una risposta, che può aiutarti a far luce su cose e atteggiamenti che a prima vista appaiono incomprensibili o che può orientare le persone della sua comunità a vedere un bene anche in elementi culturali estranei alla propria esperienza.

“LOS SEMILLEROS DE LA PAZ”
L’utopia della pace è il disincanto rappresentato da una situazione di conflitto armato che dura ormai da più di cinquant’anni. Ecco un altro grande spazio della mia missione nel Cauca colombiano. Ricordo quando, prima di partire mi imbattei in una delle nostre riviste in una foto di giovani italiani che partecipavano ad una delle varie attività estive di formazione missionaria. Tutti indossavano la maglietta con la scritta “Credo alla pace perché ho visto la guerra”. Non so in verità quanti di loro avessero toccato concretamente con mano la realtà della guerra, un po’ come il sottoscritto, cresciuto ascoltando i racconti di genitori e familiari che erano passati attraverso le crudezze della seconda guerra mondiale, ma mai prima d’ora tanto vicino ad un’esplosione o a un colpo di mitragliatore.
Cosa fare in questa situazione? Come trasformare l’utopia di una pace fondata su criteri di giustizia, nel mezzo di un conflitto duro e assurdo che coinvolge direttamente la gente della tua parrocchia? Una guerra come molte delle guerre che si stanno combattendo in questi giorni, per molti lati incomprensibile, dove, come ha scritto il filosofo e scrittore francese Beard-Henry Levy in un suo saggio sulla guerra, il male e il fine della storia, “all’orrore di morire si aggiunge l’orrore di morire senza una ragione”.
Anche in questo frangente è importante ascoltare, saper leggere i segni del tempo, cercare di capire le ragioni degli uni e degli altri, con in mano, come diceva Karl Barth il vangelo e il giornale, affinché la parola di Dio non si esaurisca in un irenico ma sterile messaggio, ma possa invece trasformarsi in parola di liberazione per i tanti che soffrono a causa del conflitto. Anche in questo contesto mi ha aiutato molto poter condividere con altri il mio lavoro, sostenersi vicendevolmente per difendersi dallo stress provocato dalle sparatorie, stabilire norme di azione pastorale che potessero essere il più possibile coerenti e uniformi. Ma aldilà dell’equipo misionero anche l’organizzazione della comunità, autorità tradizionali come il cabildo o entità come il “Progetto nasa” (l’associazione dei cabildos delle tre riserve indigene che formano il municipio di Toribío) sono elementi importanti ai quali far riferimento per poter affrontare i momenti di conflitto con più serenità.
La gente di queste zone ha assunto ufficialmente una posizione ben chiara rispetto al conflitto armato che ne insanguina la terra, una posizione che reclama a viva voce l’autonomia politica e territoriale in conformità con i diritti garantiti agli indios colombiani dalla Costituzione politica della repubblica colombiana del 1991. Detta opposizione alle ingerenze dello stato e della guerriglia (nel territorio di Toribío è presente un grosso contingente delle Farc, il più importante e numeroso gruppo guerrigliero del paese) è attuata in forma pacifica, come segno alternativo alla logica di violenza che attanaglia da decenni la Colombia. È la stessa linea nella quale si muove l’equipo misionero e in cui ho provato ad inserirmi, cercando nel mio piccolo di essere un segno di pace e di speranza. Girando per il paese o visitando le molte veredas sparse sui fianchi della montagna con l’occasione di celebrare un sacramento o di visitare una scuola si ha modo di avvicinare la gente, parlare con loro, soprattutto ascoltare e rendersi conto di come vive o subisce la realtà del conflitto. Facendo sentire la vicinanza non solo spirituale, ma anche fisica del missionario, si può con più autorità parlare ai giovani del rischio rappresentato dal cedere al richiamo dei gruppi armati o alle sirene del narcotraffico, che della guerra è il principale finanziatore. Si può predicare la giustizia sociale, a tutti i livelli, incominciando da quello familiare, sapendo che la pace in Colombia sarà possibile nel momento in cui crolleranno certe barriere sociali che marginalizzano troppe categorie di persone a beneficio di pochi gruppi economicamente più avvantaggiati.
Anche qui, il sogno di costruire un mondo di pace si scontra con la dura realtà di una situazione contingente che lascia poco spazio alla speranza. Fortunatamente è la gente stessa che ti insegna a non disperare, a non lasciarsi cogliere dal puro disincanto e a vivere anche di utopia. In questo senso a Toribìo è nato uno dei programmi più semplici e più belli di quelli ai quali ho potuto partecipare, Los Semilleros de la Paz (I seminatori della pace). Nato nel 1998 per iniziativa di un padre tanzaniano, padre Thomas Ishengoma, missionario della Consolata, oggi formatore nel suo paese, e di Marìa Esperanza, una volontaria laica originaria di Medellin, los Semilleros sono un gruppo di bambini del centro abitato e delle varie frazioni circostanti che, una volta al mese, si riuniscono in parrocchia per fare attività formativa di educazione alla pace. Sono loro, in fondo, il futuro e la speranza vera di questa terra che saprà crescere ulteriormente nei sentirneri della tolleranza e della convivenza pacifica nella misura in cui avrà un ricambio di leaders capaci di testimoniare e credere in questi valori.

SOLIDARIETÀ
Il fuoristrada bianco continua la sua discesa, siamo ormai giunti al termine della strada sterrata. L’asfalto che tra poco incontreremo porterà via più velocemente i ricordi, i profumi di questa terra magica, i suoi colori più vivi, i sapori di frutta, le emozioni forti che genera. Non sarà la terra promessa dove “scorrono latte e miele”, ma è comunque un mondo per me ricchissimo per quanto ha saputo offrirmi in tutti questi mesi, nelle cose forse banali che formano il quotidiano.
Sono passato davanti alla casa di Dany Gustavo, un bambino di 8 anni affetto da istiocitosi di Langerhans, una forma tumorale molto rara. Lo curano a Cali con sessioni massicce di chemioterapia per cercare di sanare il fegato e di dargli qualche speranza di vita.
La solidarietà è da sempre il centro dell’attività dell’equipo misionero, ma in questi ultimi anni si è voluto dare un enfasi del tutto speciale a questo aspetto, non solo come testimonianza personale del messaggio dell’amore evangelico, ma anche come formazione della comunità ad un valore che trascende uno degli elementi etici fondamentali della cultura nasa: la reciprocità, il fare qualcosa per gli altri aspettando qualcosa in cambio o come risposta a un qualcosa che si è ricevuto.
Il sogno è quello di veder cambiare per sempre situazioni che ci fanno soffrire soltanto al contemplarle, sogno che si blocca davanti ad una realtà che ci supera e che frustra i nostri desideri; davvero il regno dei cieli è qui presente, ma non ancora pienamente realizzato. Il disincanto, frutto della coscienza dei nostri limiti davanti alla complessità della realtà, solo ci spinge a sognare di più, a continuare ad offrire il nostro piccolo bicchiere per svuotare un oceano di dolore che sembra essere a prima vista inestinguibile.
A questo sogno tentano di rispondere varie iniziative che vogliono essere azioni concrete di solidarietà: il progetto di adozioni a distanza organizzato in collaborazione con l’associazione romana “Italia Solidale” che coinvolge ormai più di 1300 bambini e le loro famiglie di tutte le riserve indigene del Nord del Cauca, il progetto di assistenza ai carcerati indigeni e alle loro famiglie, orientato a dare un po’ di luce a quelle persone che sono finite in una prigione con accuse varie che possono andare dalla lotta armata, al narcotraffico, a episodi di delinquenza comune e che spesso vengono abbandonate dalle loro comunità e dai loro parenti. Anche il progetto di assistenza dei bambini disabili vuole essere una piccola risposta ad un problema grande della comunità. A questo riguardo si è formato un piccolo ambulatorio in Toribío, dove operano una fisioterapista e una logopedista. Aldilà di un aiuto specifico ai soggetti interessati e alle loro famiglie, l’ambulatorio offre anche la possibilità di coscientizzare la comunità sul fenomeno dell’handicap psico-fisico.

MAI SMETTERE DI ESPLORARE
Facendo una valutazione finale del mio operato, penso che quanto, in questi anni, ho saputo offrire in termini di disponibilità, aldilà delle mie limitazioni umane, è stato enormemente superato da quanto ho ricevuto, imparato, assimilato. La comunità nasa chiede all’equipe missionaria di essere un punto di riferimento etico-spirituale in questa nuova fase della sua storia e questo fatto obbliga la persona che vuole impegnarsi con il processo comunitario a crescere in queste dimensioni, se vuole essere un segno significativo al suo interno. Si tratta, in fin dei conti, di formarsi per poter essere un domani formatori.
Il flusso dei miei pensieri si interrompe a causa della voce del soldato che, come in un nastro registrato, chiede i documenti e di poter perquisire la vettura. Un suo commilitone riconosce tra i passeggeri “il padre di Toribio” e ci lascia proseguire.
Passato il posto di blocco dell’esercito situato nella vereda de “El Palo”, ci separano 50 chilometri dall’aeroporto di Cali. Più speditamente la macchina inizia ad attraversare la grande pianura solcata dal fiume Cauca, coltivazioni di canna da zucchero interrotte da qualche piccolo centro abitato generalmente da famiglie afro-colombiane. Lasciamo alla nostra sinistra Cali, la capitale del dipartimento del Valle, la “succursale del cielo” come orgogliosamente la definiscono i suoi stessi abitanti. Chissà cosa deve essere il cielo, penso, se Cali ne è la succursale. Solo per un attimo penso ai due padri che vivono là, in una parrocchia del barrio Antonio Nariño, occupandosi della pastorale afro e immersi fino al collo nei molti problemi di ordine socio- economico che stanno trasformando il quartiere in una zona difficile. Ma è un pensiero di breve durata, il fuoristrada bianco ha ormai imboccato il viale dell’aeroporto, già si affacciano sullo scenario altri panorami, altri sogni, che si riuniscono tutti nell’unica grande utopia della missione.
Da domani la vita sarà differente, altre situazioni e altre sfide si apriranno ai miei orizzonti. Ricordo per darmi coraggio la frase di un celebre poeta inglese che recita, se la memoria non mi tradisce: “Non dobbiamo mai smettere di esplorare e alla fine di tutte le nostre ricerche arriveremo un’altra volta lì dove abbiamo iniziato e conosceremo quel posto per la prima volta”.

BOX 1
DALLE ANDE ALLE ALPI

Capita a volte di fare dei ritrovamenti impensati. Mezzo nascosto tra scaffali polverosi ho trovato nella biblioteca della parrocchia di Toribío un libro di Claudio Magris intitolato “Utopia e Disincanto”. Nel primo capitolo, quello che dà il titolo all’intero volume, l’autore analizza l’inizio del nuovo millennio alla luce di queste due cornordinate. Ho pensato che sarebbe stato interessante applicarle alla missione e alle diverse sfaccettature con le quali essa si è presentata alla mia esperienza.
L’utopia è la tensione verso il futuro, il fine che anima e orienta il nostro presente verso spazi immaginati ma non ancora conosciuti, verso ideali grandi che sono stati, nel mio caso, il frutto di una lunga formazione. Il disincanto è invece l’attenersi alla realtà, la resa dei conti con le circostanze che limitano l’utopia, ma che al tempo stesso non le lasciano prender piede, non permettono che sfoci nell’irrealtà, nella fantasia, che ti fa, in altre parole, rimanere con i piedi ben piantati per terra. Dal dialogo costante fra utopia e disincanto dovrebbe nascere la giusta misura, il corretto relazionarsi con la propria missione, il viverla con buon senso, senza lasciarsi travolgere dal sogno e senza neppure venir troppo frenati dalla cogente realtà di tutti i giorni.
Vorrei quindi narrare qualcosa di questi anni, iniziando dalla mia esperienza personale, da ciò che ho sentito e compreso, dalla risposta che il mio viaggiare ha dato alle tante aspettative che avevo e di come la realtà ha giocoforza sagomato il mio essere missionario nel nord del Cauca colombiano. In un secondo momento vorrei raccontare, in modo più diretto e specifico, qualcosa della comunità che mi ha ospitato, degli indigeni nasa (o páeces), delle utopie che continuano ad ispirae il progetto di vita, nel mezzo di una situazione contingente di grande difficoltà, dell’alternativa che essa vuole rappresentare, in aperto contrasto alle logiche di potere portate avanti sia dal governo colombiano che dai movimenti eversivi. In un terzo articolo narrerò qualcosa dei giovani, che di questa comunità rappresentano la linfa vitale, il futuro, del loro “pensamiento joven” (il pensiero giovane), che cerca di opporsi alla mentalità disincantata degli anziani, ad un mondo nel quale non si riconoscono più e al quale vogliono offrire qualcosa di nuovo e più vicino alle loro esigenze e alla loro sensibilità.
U.Po.

BOX 2
STORIA E SCOPI DELL’EQUIPO MISIONERO

L’equipo misionero di Toribío venne fondato il 4 marzo del 1979 su iniziativa del padre Alvaro Ulcué Chocué (sacerdote indigeno e parroco delle comunità di Toribio e Tacueyó), insieme ad alcune suore missionarie della Madre Laura. L’iniziativa voleva essere una risposta al processo di rinnovamento ecclesiale e pastorale, in corso in America Latina negli anni che seguirono il Concilio Vaticano II e le grandi conferenze episcopali di Medellín e Puebla.
La scelta di vivere in un équipe apostolica di vita e attività pastorale doveva, nel disegno del padre Alvaro, condurre ad una evangelizzazione inculturata e liberatrice, con una chiara opzione per i poveri ed un’enfasi verso il mondo indigeno e il suo processo storico di recupero della terra, organizzazione e sviluppo che, tra molti conflitti e a prezzo di molto sangue versato, la comunità stava vivendo da alcuni anni a quella parte.
Dopo la morte del padre Alvaro, assassinato a Santander de Quilichao il 10 novembre del 1984 per il suo impegno in favore della causa indigena, l’esperienza dell’equipo misionero venne raccolta dai missionari della Consolata. Coordinato a partire dal 1988 da padre Antonio Bonanomi, il gruppo è oggi formato da circa 20 persone: sacerdoti, religiose, e laici sia estei come facenti parte della comunità nasa.
U.Po.

BOX 3
SCHEDA

Superficie: 1.141.748 Kmq
Popolazione: 45.300.000 abitanti (proiezione per il 2005)
Lingua: spagnolo (ufficiale); in Colombia sono però presenti 84 popoli indigeni con 64 lingue differenti
Religione: cattolica (ufficiale, 93%).
Capitale: Santa Fe de Bogotá (7.029.928 abitanti)
Ordinamento politico: repubblica presidenziale
Presidente: Alvaro Uribe Velez, dal 7 agosto 2002
Economia: Il caffè è il principale prodotto legale da esportazione. Il sottosuolo contiene giacimenti di petrolio, carbone, oro, platino, argento e smeraldi. Le coltivazioni di marijuana, coca e papavero da oppio alimentano il floridissimo traffico illegale degli stupefacenti. Si stima che dalla Colombia provenga 80% della produzione mondiale di cocaina.
Moneta: peso colombiano (3.000 pesos = 1 Euro nel 2004)

BOX 4
CARISSIMO GUSTAVO

Carissimo Gustavo,
sono passati ormai alcuni mesi dall’ultima volta che ci siamo visti, da quell’8 di novembre dell’anno scorso quando, in silenzio come sempre, la tua anima si è riunita al “ks’a’w wala”, il grande spirito di Dio. Quel giorno, ironia della sorte, avevi deciso di prendere la chiva, la corriera locale che ti avrebbe portato con gli altri delegados della palabra fino al Cecidic, il collegio dove tutto era pronto per celebrare l’annuale assemblea su padre Alvaro dedicata al tema della solidarietà nella comunità che aveva sognato e per la quale era morto e che tu, inseguendo lo stesso sogno, avevi servito come catechista e come ricercatore storico. Dico “ironia della sorte”, perché tu non avevi certo bisogno della corriera per fare i tre chilometri che separano la parrocchia di Toribío dal collegio, abituato come eri a camminare per le tue montagne. Tre chilometri che avevi già percorso in senso contrario quella stessa mattina, per venire a vedere in paese chi era arrivato, per riunirti con i tuoi compagni, fare colazione e scambiare due chiacchiere prima dell’inizio dell’assemblea. La chiva si è capottata proprio davanti alla collina dove da qualche tempo vivevi, davanti a casa tua, intrappolando il tuo corpo sotto il peso della sua grande carrozzeria e spegnendo di un botto i tanti sogni che avevi iniziato a coltivare.
Ho ancora ben chiara in mente la volta che mi hai accompagnato a celebrare le prime comunioni nella cappella de La Primicia. Era la mia prima uscita “in vereda”, ed ero nervosissimo: ero arrivato da soli due giorni, la gente non mi conosceva ancora e nello spazio antistante la cappella c’erano vari guerriglieri, figure alle quali dovevo ancora fare l’abitudine. Mi hai spiegato in poche parole (non sei mai stato un uomo di grandi discorsi) quello che succedeva e ciò che la comunità si aspettava da me. Tutto è filato liscio come l’olio. Da quel giorno in avanti abbiamo condiviso molti chilometri, molte celebrazioni ed incontri. Era fondamentale, per esempio, quella tua introduzione alla liturgia, espressa in un linguaggio che la gente coglieva immediatamente, molte volte in nasa yuwe, la lingua del popolo nasa che tu dominavi alla perfezione.
Sapevi quello che dicevi. Negli ultimi anni, oltre alla catechesi, ti eri dedicato anima e corpo al progetto della “Cattedra nasa-Unesco”, un programma di ricerca storica all’interno della comunità basato sulle testimonianze dei protagonisti. Avevi intervistato moltissimi anziani che ti avevano parlato delle loro credenze, dei valori tradizionali, delle lotte per l’autonomia e il recupero della terra. Credevi, come padre Alvaro, che “l’utopia muove le montagne” e non ti rassegnavi a vivere come se niente avesse potuto cambiare solo perché alcuni volevano così. Sapevi che il passato orienta il nostro presente affinché, a partire da ciò che siamo, si possa camminare verso un futuro disegnato in modo differente.
Il giorno prima di lasciarci avevi comprato qualche regalino per Yuni Alexandra, la tua bambina di otto mesi: un vestitino azzurro, un atlante geografico e un dizionario. E a chi ti prendeva in giro facendoti notare che forse era un po’ azzardato regalare un dizionario di spagnolo a una bimba di neanche un anno, avevi risposto candidamente che questi strumenti sempre servono e sempre serviranno, che ora avevi i soldi e che chissà che prezzo avrebbero avuto quando Alexandra fosse andata a scuola. Grande Gustavo, grazie per questa iniezione di fiducia, per questa speranza che hai portato dentro e che fino all’ultimo, con poche parole, ma molte scelte pratiche, mi hai testimoniato.
padre Ugo

BOX: AUTORI
(*) Ugo Pozzoli, missionario torinese (1962), è rientrato in Italia per lavorare a Missioni Consolata. Da marzo 2005 è redattore in pianta stabile nella redazione della rivista.
A padre Ugo, un benvenuto e un augurio di buon lavoro.

(**) Enzo Baldoni, lo sfortunato giornalista free-lance rapito ed ucciso in Iraq, fu ospite nel Cauca dei missionari della Consolata. Le foto di questo servizio sono un suo regalo.

Ugo Pozzoli




Il sogno di Mukiri


I bambini poliomielitici di Tuuru necessitano di acqua. E lui si accorge che, nella foresta-montagna del Nyambene, ogni mattina avviene quasi un miracolo: la nebbia nottua si condensa sulla chioma degli alberi e, con il sole, si disperde in mille rivoli sul terreno. Allora ha un’intuizione geniale: scava nel ventre della montagna e, attraverso gallerie, recupera l’acqua in bacini di raccolta. Nasce un acquedotto. Un’opera che, grazie a 270 chilometri di tubazioni, offre acqua a 250 mila persone. Ma il sogno non si esaurisce qui.

28 dicembre 2004.

Le chiese cattoliche risuonano, ancora una volta, del lamento altissimo delle mamme dei bimbi massacrati dal re Erode poco dopo la nascita di Gesù a Betlemme. Lacrime desolate. «Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più» (Mt 2, 18). Ma, il 28 dicembre 2004, la disperazione riempie anche tanti templi del mondo. L’urlo è straziante specialmente in Sri Lanka, Indonesia, India, Thailandia, Myanmar; raggiunge le coste della Somalia e del Tanzania. Persino i luoghi di culto islamici, indù, buddisti e cristiani sono stati squassati e violentati, due giorni prima, dallo tsunami, l’onda titanica e furiosa del maremoto. Le vittime appaiono subito molte: 10, 20, 30 mila. Addirittura 100, 200, 250 mila. Poi non si contano più. Sono troppe! Un anziano annaspa fra onde putride e vorticose: tiene anche stretto a sé un bimbo di pochi anni. Accortosi della telecamera che lo inquadra, ha ancora la forza di mormorare: «Water, please!» (acqua, per favore). Vecchio e bambino stanno soccombendo di terrore, di fatica. E di sete.

A prescindere dalle calamità

naturali, oggi si muore veramente per mancanza d’acqua. O la si soffre acutamente, con conseguenze letali. Nel celebratissimo anno 2000 la comunità internazionale siglò la Millennium Declaration di New York, impegnandosi a dimezzare entro il 2025 il numero di persone senza una fonte sicura d’acqua. Però, tre anni dopo, al Forum Mondiale dell’acqua di Tokyo (marzo 2003), si prese atto che il traguardo restava irraggiungibile. Fino al 2020, dai 34 ai 76 milioni di individui rischieranno di morire per malattie legate all’acqua malsana. La piaga è endemica in Africa: qui, secondo l’Oxfam (Federazione di Organizzazioni non governative inglesi impegnate contro il sottosviluppo), nel 2015 le persone prive di acqua potabile saranno aumentate di quasi 100 milioni.

«Acqua, per favore!».

Lo dicono pure i turisti al termine di un assolato safari nella savana africana. Tre loro Land Rover, di ritorno al lodge, impolverano pesantemente alcune bambine ai margini della strada sterrata: bambine scalze, un po’ lacere, che recano sul capo o sulla schiena un pesante recipiente d’acqua attinta sul fondovalle, dopo due chilometri di discesa ed altrettanti di lenta e faticosa salita. Domani e dopo domani rifaranno il tragitto: due, tre volte, come oggi. È la loro vita. Giuseppe Argese lo sa (*). Giuseppe è un missionario della Consolata «fratello», in Kenya da quasi 50 anni. Esattamente dal 1957 osserva le polverose e ossessive camminate quotidiane di tante bambine, come quelle delle loro mamme e nonne: fratel Giuseppe guarda con attenzione, ma non proferisce parola. Ecco perché i bameru (la popolazione locale) l’hanno ribattezzato Mukiri, il silenzioso. Intanto, con altri missionari, erige l’artistica cattedrale della diocesi di Meru. Nei pomeriggi domenicali Mukiri passeggia. Lungo i sentirneri rivede le bambine con il loro fardello d’acqua sulla testa crespa. E medita. Non distante da Meru, sorge Tuuru, la missione di padre Franco Soldati, che ospita anche bambini poliomielitici. Un giorno Franco avvicina Giuseppe e lo scuote: «Mukiri, i bambini, colpiti da polio, hanno bisogno d’acqua, e non possono andare a cercarsela come gli altri. Inventa qualcosa. In fretta!». Mukiri, il silenzioso, tace; ma, fissando il torrente Mwamba, pensa di utilizzae le acque. La domenica continua le sue passeggiate. È attratto dalle sorgenti del Mwamba, che lo porta nel cuore di una foresta-montagna-vulcano: è il Nyambene, che dà il nome anche alla regione. Inoltrandosi nella selva di felci, nota come la vegetazione sia intrisa d’acqua nella sua interezza, tanto da essere pavimentata da uno strato di muschio gocciolante.

La fredda umidità dell’ambiente fa rabbrividire Mukiri. Ma rabbrividisce, soprattutto, allorché intuisce che, sulla foresta-montagna-vulcano del Nyambene, quotidianamente accade qualcosa di straordinario. Ossia: la grande escursione termica tra giorno e notte (dovuta ai pochi gradi di latitudine dall’equatore, e agli oltre 2 mila metri di altitudine del luogo) fa sì che, con il calare delle tenebre, il cielo sul Nyambene si ammanti di spesse nubi, che il torrido sole equatoriale dissolve al mattino. La nebbia, ristagnando per ore, si condensa sulla chioma della foresta e cola al suolo lungo le pareti della montagna, dove proliferano tappeti di muschio imbevuti di rugiada; essa, gocciolando, alimenta piccoli ruscelli (cfr. Valeria Bianchi, Il nostro Kenya, SGI, Torino 2004, p. 9-11). Quell’acqua dove va a parare? Mukiri ha quasi una folgorazione: l’acqua può essere risucchiata dal terreno poroso del vulcano spento, come una spugna; se si scavasse nelle sue viscere, forse si recupererebbe l’acqua infiltrata. Così avviene.

Con scarsi fondi

ed attrezzature rudimentali, Mukiri scava nel cuore del vulcano gallerie lunghe centinaia di metri, al cui interno le pareti trasudano una quantità d’acqua potabile purissima. Incomincia a sognare in grande. D’ora in poi le donne non saranno più schiave della diutua fatica del trasporto d’acqua sulla schiena o sulla testa. Il sogno di Mukiri diventa realtà con l’acquedotto di Tuuru. Un’opera imponente e geniale: una rete di 270 chilometri di tubazioni reca acqua potabile alle oltre 250 mila persone della circostante area, siccitosa a memoria d’uomo. L’acqua ha radicalmente mutato la vita sociopolitica nel Nyambene. Attoo al primo rubinetto d’acqua nella savana si sono stretti adulti e bambini, prima dando vita ad un mercato e poi ad un villaggio. Oggi ogni fontana è presidiata da un custode, che richiede un piccolo contributo in denaro ai beneficiari dell’acquedotto: non solo per scongiurare la passività della popolazione, ma anche per alimentare la modesta economia locale. A Mukululu, sede storica del laboratorio-officina di fratel Giuseppe, grazie all’acqua, sono fiorite anche piantagioni di tè. Il missionario continua ad occuparsi della direzione tecnica dell’acquedotto, mentre la gestione ordinaria è in mano delle comunità locali. Però il sogno di Mukiri perdura: oltre ad ampliare la chiesa di Mukululu, incastonata nei campi di tè, sta gettando alcune dighe imponenti, onde accumulare la maggior quantità d’acqua possibile. Questi invasi rispondono alle incessanti richieste d’acqua e servono, soprattutto, a fronteggiare le ricorrenti siccità.

Giuseppe Argese, missionario della Consolata, abita tutto solo in una casetta di legno, sulla cui entrata spicca la scritta «lo chalet dell’orso». Ve n’è pure un’altra in latino: «ursus in silvis». Forse Giuseppe, assai poco loquace, sa di essere un po’ orso nella foresta del Nyambene. Ma per i bameru è solo Mukiri… Il sole è tramontato. Mukiri, ursus in silvis, si rintana nel suo angusto chalet. Prima di cena, sosta in preghiera e meditazione. Si sofferma sul vangelo di Matteo: «Venite, benedetti dal Padre mio, entrate nel regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo… perché ho avuto sete e voi mi avete dato da bere» (Mt 25,18). È notte. Sulla foresta-montagna-vulcano del Nyambene ristagnano le nubi. La «missione acqua» continua.

Giuseppe Argese

(*) Giuseppe Argese nasce a Martina Franca (TA) il 10 novembre 1932. A 15 anni è apprendista muratore. Presso la parrocchia «San Francesco di Assisi» conosce i missionari della Consolata. Nel 1953 diventa uno di loro come «fratello». È in Kenya dal 1957. L’acquedotto di Tuuru, realizzato da fratel Argese, acquista notevole risonanza: – Il Corriere della Sera, 11 gennaio 1998, titola: «Il missionario dell’acqua. Un’impresa colossale»; – nel 1999 Daniele Giolitti si laurea in ingegneria idraulica, al Politecnico di Torino, presentando l’acquedotto ed evidenziandone il rispetto dell’ambiente; – Geo & Geo, di Rai 3, trasmette quest’anno il documentario «Missione acqua», realizzato dalla Società Generale dell’Immagine (SGI) di Torino; – Valeria Bianchi cura Il nostro Kenya, SGI, Torino 2004 (volume cartonato, formato 28 x 28, che raccoglie 97 splendide foto); esiste pure un CD. Altri riconoscimenti al missionario: la nomina di «Cavaliere al merito della Repubblica Italiana» e il conferimento della onorificenza «Servitor Pacis» delle Nazioni Unite.

Francesco Bernardi
foto: Valeria Bianchi, 2004




LETTERE Stupenda Eleonora

Carissimo direttore,
sono un antico lettore di Missioni Consolata, amico anche dell’ex direttore, padre Francesco Beardi, con il quale ho lavorato in Tanzania: lui a Madibira ed io a Mdabulo. Sono stato un «aggregato» per qualche anno ai missionari della Consolata. Ora sono parroco a Potenza.
Ti ringrazio della stupenda foto di Eleonora, apparsa su Missioni Consolata di dicembre, con la quale abbiamo partecipato al Convegno missionario di Montesilvano (Pe). Eleonora fa parte del gruppo giovanile parrocchiale.
Su Popoli e Missione è comparso pure Francesco, anche lui della mia parrocchia, volontario a Montesilvano. Ora è ospite della Consolata a Lisbona, dove impara il portoghese. Poi partirà come laico missionario per la Guinea Bissau.
Io mi faccio vecchio e non posso andare più dove voglio. Mi sostituiscono i giovani…
don Mario Natalini
Potenza

I vescovi italiani in Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia scrivono: «La missione ad gentes non è soltanto il punto conclusivo dell’impegno pastorale [che diventerebbe appendice, con delega completa ai missionari], ma il suo costante orizzonte e il suo paradigma per eccellenza [un modello cui ispirarsi]» (32). Ed è quanto il carissimo don Mario sta facendo a Potenza.

don Mario Natalini




Africa occidentale – Sabbie che scottano

I confini del Sahel sono «porosi» e lasciano passare
di tutto: dal contrabbando ai terroristi.
In quest’angolo di deserto, ricco di petrolio, gli Usa hanno lanciato la Trans Sahara Counter Terrorism Initiative e hanno iniziato ad addestrare i militari
di Mali, Mauritania, Niger e Ciad. Ma tale iniziativa
si sovrappone a una serie di conflitti, più o meno latenti, che fanno dell’Africa occidentale,
a maggioranza musulmana, una zona complessa
e delicata. E rischia di causare un incendio.

La strada sembra allungarsi a ogni passo, come se scivolasse verso l’orizzonte tremolante, disciolta dalla canicola. Basta fermarsi e distrarsi un attimo per non avere più chiaro da dove si viene e in che direzione si sta andando.
«È come essere nel bel mezzo del nulla» spiega Amaka Megwalu, ragazza statunitense di origine nigeriana, che si trova in Senegal per un tirocinio estivo presso un’organizzazione non governativa con sede a Dakar. Accompagna le parole con ampi gesti del braccio, indicando un punto lontano nel deserto, che lei ha potuto solo immaginare. Perché quello che ha avuto nel nord del Senegal non è che un assaggio, innocuo e circoscritto, della landa polverosa che si estende dall’Atlantico al sud dell’Egitto, passando per la Mauritania, Mali, Niger, Ciad e Sudan.

CONFINI DA… «RIPULIRE»
Il Sahel, che significa «al limite del deserto», è l’anticamera del Sahara: la cintura che separa l’Africa tropicale dal mare di sabbia. Una terra dai «confini porosi», come l’ha definita il cornordinatore dell’antiterrorismo del dipartimento di Stato Usa, Karl Wycoff. Su tali confini vegliano soldati infiacchiti e mal equipaggiati, che si contendono gli spiccioli estorti ai viaggiatori.
Attraverso queste frontiere passano ogni giorno, e da secoli, carovane e contrabbandieri, che ai cammelli hanno ormai affiancato camion traboccanti di merci, che portano da un capo all’altro del Sahel storie e notizie raccolte lungo la strada.
Ma ciò che ha attirato l’attenzione di Washington non sono i tradizionali viaggiatori del deserto, bensì i nuovi carovanieri che da qualche anno attraversano queste stesse frontiere: mercanti di droga, schiavi, armi e diamanti, immigrati clandestini all’inseguimento del sogno europeo, ma soprattutto terroristi, impegnati in scorribande o alla ricerca di luoghi remoti e sicuri per costruire campi di addestramento dove dedicarsi al reclutamento di nuovi combattenti.
I membri dell’intelligence statunitense sono convinti che i terroristi responsabili dell’attentato a Madrid dell’11 marzo 2004 abbiano «un legame con il Nord Africa» e che il limitrofo Sahel si stia trasformando in un nuovo Afghanistan. «Vogliamo prevenire il rischio – dichiara il capo dell’antiterrorismo del Comando militare statunitense in Europa, il colonnello Powl Smith – per evitare di dover intervenire direttamente in Nord Africa come abbiamo fatto in Afghanistan». Per questo il dipartimento di Stato Usa ha deciso di irrompere nella millenaria immobilità del deserto, lanciando, nel novembre del 2002, la Pan Sahel Initiative, ora ribattezzata Trans Sahara Counter Terrorism Initiative. La sua messa in atto è cominciata nei primi mesi del 2004 e prevede l’addestramento di truppe scelte degli eserciti di Mali, Mauritania, Niger e Ciad, per aumentare l’efficienza nel controllo dei confini e «ripulire» la regione dagli islamisti radicali.
«Mettendo gli eserciti locali in grado di combattere da soli – prosegue il colonnello Smith – gli Usa non potranno essere usati come un parafulmine per la rabbia popolare della quale gli estremisti potrebbero approfittare».

OCCHIO AL PETROLIO!
Washington ha ottimi motivi per preoccuparsi dell’Africa occidentale: secondo le stime dello stesso dipartimento dell’energia Usa, entro dieci anni un quarto del fabbisogno statunitense di greggio sarà soddisfatto proprio dai barili provenienti da questa regione del mondo.
Ma questa milionaria operazione di Washington (il budget iniziale di 6,25 milioni di dollari ha raggiunto i 125 milioni in 5 anni) si svolge su un terreno reso instabile proprio dai fiumi di petrolio che scorrono nel sottosuolo. La presenza dell’oro nero, infatti, provoca precarie alleanze e una costante imminenza di conflitti, legata a una logica immutabile che tuttora informa l’agire dei governi della regione, combinando la legge del più forte con la tendenza a vendersi al miglior offerente.
«Noi senegalesi non abbiamo niente: né oro, né petrolio, né diamanti. Solo arachidi e spiagge – constata con amara ironia madame Diakhoumpa, ricca dakaroise che affitta case ai funzionari inteazionali -. È per questo che ci hanno lasciato in pace. Ma tutto intorno a noi c’è guerra, fame, miseria».
La scoperta di nuovi giacimenti petroliferi in Africa occidentale rischia di replicare in tutta la regione le tensioni che da anni fanno della Nigeria, sesto produttore mondiale di petrolio, uno stato altamente instabile e percorso da conflitti che appaiono sempre più insanabili.
Accanto ai massacri nello stato federale centro-orientale del Plateau (effetto di reciproche rappresaglie tra le etnie di agricoltori stanziali tarok, di fede cristiana, e i pastori nomadi musulmani hausa fulani), la Nigeria paga un elevato tributo in termini di vite umane anche a causa della lotta senza quartiere che oppone l’esercito nigeriano ai pirati del petrolio: secondo le stime del colosso energetico Shell, viene sottratta una quantità di greggio pari a 60 mila barili al giorno.
«I gruppi criminali stanno aumentando di dimensioni e sono sempre meglio organizzati» rivela un abitante della città costiera Port Hancourt a Katharine Houreld del Guardian. «Ora non hanno più bisogno dell’appoggio dei politici, rubano oro nero e comprano armi autonomamente, e si stanno trasformando in vere e proprie milizie. Se le cose continuano così, il delta del Niger sarà una zona di guerra durante le prossime elezioni».
Visto il tragico precedente rappresentato dalla Nigeria, è ovvio che l’entrata in funzione dell’oleodotto, che collega il Ciad ai porti atlantici del Camerun, sollevi più di qualche perplessità quanto agli effetti che la sua presenza produrrà sulla stabilità della regione.
Il progetto, costato 3,2 miliardi di euro, rappresenta il più grande investimento della Banca mondiale nell’Africa sub sahariana: voluto nel 1996 dall’amministrazione statunitense del presidente Bill Clinton, l’oleodotto è stato sviluppato da un consorzio internazionale guidato dal gigante petrolifero Exxon Mobile, con la partecipazione di Petronas e Chevron Texaco.
Nel corso dei prossimi 25 anni, i proventi della produzione di greggio dovrebbero fruttare 2 miliardi di dollari al Ciad e 500 milioni al Camerun, risorse che i due stati si sono impegnati a investire nel miglioramento del sistema sanitario ed educativo, oltreché nello sviluppo di progetti agricoli.
IL CIAD INSEGNA…
Ma dare per scontato che queste promesse saranno mantenute significa sottovalutare le complessità delle dinamiche politiche africane e non tenere in considerazione l’intreccio contraddittorio e la volatilità degli equilibri politici della regione.
Il presidente ciadiano Idriss Déby, per esempio, si trova attualmente nel bel mezzo di una impasse le cui conseguenze possono travalicare i confini del suo paese e rischiano di mettere in discussione la sua stessa autorità.
La confinante zona del Darfur, regione occidentale del Sudan, è infatti da tempo insanguinata dai massacri compiuti dalle milizie arabe e musulmane janjaweed ai danni della popolazione nera, anch’essa di fede islamica. Più di un’autorevole fonte sostiene che sia proprio il governo sudanese a sostenere i «fucilieri a cavallo» (questa la traduzione del nome janjaweed) contro i gruppi ribelli presenti nel Darfur. Senonché la furia dei miliziani arabi si è scagliata sempre più spesso contro la popolazione civile, in particolare contro l’etnia zaghawa.
Ed è a questo punto che il Ciad entra in scena nel conflitto sudanese: il presidente ciadiano Déby, infatti, appartiene proprio all’etnia zaghawa, che vive in una zona a cavallo del confine tra i due paesi.
Secondo un recente rapporto della Banca mondiale, Déby sta subendo forti pressioni da parte della sua élite militare (anche questa di etnia zaghawa), affinché invii l’esercito ciadiano a difendere i «fratelli» sudanesi dalla ferocia dei janjaweed.
Si tratterebbe, dunque, per il presidente Déby, di lanciarsi in un clamoroso voltafaccia a Khartoum, nonostante il debito di riconoscenza nei confronti del presidente sudanese Omar Hassan Al Bashir, grazie all’appoggio del quale Déby era arrivato al potere in Ciad nel 1990.
La Pan Sahel Initiative, dunque, al di là delle parole e delle intenzioni del colonnello Smith, si innesta in una realtà tutt’altro che trasparente, dove l’addestramento militare viene fornito a eserciti di paesi percorsi da profonde contraddizioni politiche, inclini ai reciproci regolamenti di conti e propensi a interferire l’uno negli affari interni dell’altro, in maniera spesso sotterranea e incontrollabile. Tanto più che, paradossalmente, il più grande successo, per quanto riguarda la lotta ai gruppi terroristici che operano nel Sahel, lo ha ottenuto finora non l’esercito regolare ciadiano, bensì i ribelli di un brancaleonesco «Movimento per la democrazia e la giustizia in Ciad», che ha catturato, nel marzo del 2004, un gruppo di appartenenti all’algerino «Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento» (Gspc), sedicente affiliato di Al Qaeda e bersaglio dichiarato della Pan Sahel Initiative.

L’OMBRA DI BIN LADEN
Che i membri di Al Qaeda siano presenti in Africa occidentale non è una novità; così come sono da tempo noti i legami del Gruppo salafita con gli uomini di Osama bin Laden. «Fu l’allora capo del Gspc, Nabil Sahraoui – scrive il giornalista algerino Cherif Ouazani – che negli anni ’90 favorì l’infiltrazione in Algeria del messo di Bin Laden, Abdelaziz el Moukrine, e che lo aiutò a lasciare indisturbato il paese, quando Moukrine fu incaricato di organizzare il jihad in Arabia Saudita».
Il Gruppo salafita aveva goduto momenti di effimera notorietà, nel 2003, dopo essersi reso responsabile del sequestro di una trentina di turisti europei nel Sahara. I turisti furono rilasciati dietro il pagamento di un riscatto di 8 milioni di dollari, corrisposto dal governo tedesco, grazie al quale il Gspc aveva potuto rimpinguare il proprio arsenale.
Il protagonista dell’operazione fu Amari Saifi, ex paracadutista delle forze speciali algerine, convertitosi al terrorismo con il nome di Abderrezak el Parà, figura di spicco del Gspc, divenutone l’emiro dopo la morte di Sahraoui.
Proprio El Parà era alla guida del manipolo catturato nel marzo 2004 dai ribelli ciadiani. La sua cattura ha dato origine a una serie di trattative incrociate tra i governi di Ciad e Algeria, in cui è intervenuto anche il presidente della Libia Muhammar Gheddafi, da mesi impegnato a compiacere i governi occidentali, che gli hanno di recente concesso una sorta di riabilitazione internazionale, dopo averlo per anni considerato un nemico irriducibile.
La faccenda della consegna di El Parà aveva assunto i tratti di una telenovela: il governo algerino rifiutava di trattare con i ribelli ciadiani e faceva invece pressioni sul presidente Déby, dal canto suo incapace di imporre la propria volontà ai ribelli; fino alla pirotecnica entrata in scena del colonnello Gheddafi, che minacciò di intervenire militarmente, se El Parà non fosse stato consegnato alle autorità algerine.

TERRORISMO: FINCHE’ DURA…
Il risultato di un tale bailamme, nel corso del quale nessuno ha dato prova convincente di essere davvero interessato a catturare il terrorista, è stato quello di far sorgere dubbi sulle effettive intenzioni dei governi coinvolti, fino a suggerire un loro uso strumentale della campagna antiterrorismo americana.
«Abbiamo finito per pensare che nessuno degli stati africani vuole El Parà e che è nell’interesse di tutti lasciarlo libero di muoversi nel Sahel – ha dichiarato caustico l’incaricato degli Affari esteri del movimento ribelle ciadiano, Brahim Tchouma, alla ricerca di un riscatto per l’ostaggio -. Se venisse arrestato o ucciso, infatti, si interromperebbero anche i crediti americani che sono stati stanziati per combatterlo».
Il paradosso è evidente: se l’interpretazione data da Tchouma è corretta, i governi della regione, che ricevono denaro e mezzi finché esiste una minaccia terroristica da contenere, avrebbero interesse ad alimentare proprio quell’insicurezza che il governo Usa vuole ridurre con la Pan Sahel Initiative.
El Parà è stato rimesso alla custodia algerina nel novembre del 2004. Ciononostante, i vertici militari del Comando statunitense in Europa hanno ammesso che la loro iniziativa stenta a dare i frutti sperati. «Il problema – scrive il giornalista del New York Times Douglas Farah – è che gli Usa non stanno compiendo nessuno sforzo per competere sul piano delle idee». Viene lasciato il campo libero proprio a quei gruppi islamisti che trovano, specie nella rabbia dei giovani africani, terreno fertile per la propria predicazione.

FANATISMO E CORRUZIONE
Da mesi, ormai, c’è un regolare afflusso verso l’Arabia Saudita di studenti coranici, nigeriani e non solo, che vanno a perfezionare la propria preparazione in Medio Oriente e poi rientrano in Africa per fare proseliti. E il livello di fanatismo ha raggiunto vette preoccupanti proprio in Nigeria, dove gli estremisti musulmani avevano diffuso la voce che i vaccini antipolio, messi a disposizione dagli operatori umanitari occidentali, fossero in realtà un veleno, che avrebbe reso sterili i maschi musulmani, esortando così i genitori a non far vaccinare i propri figli.
Il fanatismo religioso e la corruzione dilagante in Africa occidentale finiscono poi per intrecciarsi con reciproca soddisfazione: celebre è l’episodio, riportato da Douglas Farah, del sodalizio tra l’ex presidente della Liberia Charles Taylor e gli emissari di Al Qaeda: questi avrebbero potuto contare sull’appoggio del liberiano per avviare un florido commercio di diamanti provenienti dalla Sierra Leone.
La compravendita di gemme aveva lo scopo di permettere ad Al Qaeda di diversificare le proprie risorse finanziarie e di svuotare i conti correnti non ancora scoperti e fatti congelare da Washington, come rappresaglia agli attacchi alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nel 1998.
Si trattava di una colossale manovra di pulizia di denaro sporco, attraverso gli stessi canali usati dal movimento sciita libanese hezbollah, la cui presenza in Africa occidentale è di ben più vecchia data. A fare da intermediario a tutta l’operazione c’era il senegalese Ibrahim Bah, mercenario addestrato in Libia, che aveva combattuto negli anni ’80 in Afghanistan contro i sovietici e poi in Libano al fianco degli hezbollah. Lo stesso Taylor ottenne per il disturbo una notevole somma di denaro.

Non stupisce che, inserita in una rete di relazioni così fitta e insidiosa, la Pan Sahel Initiative non decolli: presidiare un mare di sabbia è una contraddizione in termini. Specialmente quando quel mare è solcato da flotte di combattenti della religione e del petrolio, che si alleano e si tradiscono in modo del tutto imprevedibile e sotterraneo. Viene da chiedersi se gli Usa hanno davvero imparato la lezione dell’Afghanistan: quella di non armare i loro futuri nemici.


Mercella Federici




È partita «salute Africa»

 Secondo le stime del Rapporto Unaids 2004, a fine 2003 l’epidemia Hiv/Aids mostrava queste drammatiche cifre:
• 37,8 milioni di persone affette dal virus, di cui 17 milioni di donne e 2,1 milioni di bambini sotto i 15 anni
• 4,8 milioni di nuovi casi di infezione
• 2,9 milioni di morti nell’anno
• 15,1 milioni di bambini orfani.
L’Africa sub-sahariana, con appena il 10% della popolazione mondiale, presenta la situazione più drammatica:
• 25,1 milioni di persone affette dal virus, di cui 13,1 milioni di donne e 1,9 milioni di bambini
• 3 milioni di nuovi casi di infezione
• 2,2 milioni di morti nell’anno
• 12,1 milioni di bambini orfani.

A fine novembre 2004, è partito – con presentazioni pubbliche a Torino, Milano e Roma – il progetto denominato «Salute Africa. Nella giustizia la lotta all’Aids».
Il Comitato di Salute Africa è stato costituito per volontà di: missionari e missionarie della Consolata, Ospedale Koelliker, Associazione Impegnarsi Serve Onlus, Associazione Amici Missioni Consolata con lo scopo di perseguire programmi finalizzati alla lotta contro l’Aids. Per raggiungere questo scopo, il Comitato si propone di
• sensibilizzare alla prevenzione con il coinvolgimento delle comunità locali
• prevenire e ridurre la trasmissione materno-infantile
• ridurre l’impatto socio-economico dell’Aids nelle comunità di riferimento
• assistere i malati terminali con gesti di consolazione, come accoglienza, cura palliativa e sepoltura.

Salute Africa si propone di operare nei seguenti paesi: Congo Rd, Costa d’Avorio, Etiopia, Kenya, Mozambico, Somalia, Sud Africa, Tanzania, Uganda.
Nei prossimi mesi, anche attraverso questa rivista, si darà informazione su tutte le iniziative del progetto.

SALUTE AFRICA E’…

Sede ufficiale:
• c/o Istituto Missioni Consolata – Corso Ferrucci, 14
10138 Torino
Presidente:
padre Giordano Rigamonti
Segreteria: dott.ssa Elisa Franzò (tel. 011.4400610)

Le E-mail:
• sede di Torino: saluteafrica.torino@consolata.net
• sede di Milano: saluteafrica.milano@consolata.net
• sede di Lecco: saluteafrica.bevera@consolata.net
• sede di Roma: saluteafrica.roma@consolata.net

La redazione



LETTERAFiglia… sua !

Carissimi missionari,
ho 23 anni e studio Scienze dell’educazione. Da quando vi conosco, la mia vita e fede sono completamente cambiate e rinnovate. Sono coinvolta nelle vostre attività in Italia, come socia di «Impegnarsi serve Onlus», e all’estero (due anni fa sono stata un mese in Tanzania).
La vostra rivista Missioni Consolata è meglio di qualsiasi telegiornale, perché parla dei problemi dimenticati dal mondo in modo «sconcertante», ossia veritiero. Grazie. Continuate così.
Ora mi trovo incinta al quarto mese di gravidanza e, da poche settimane, sento la mia creatura muoversi dentro di me… Dopo tante difficoltà iniziali (non sono sposata e non lavoro), sto incominciando ad essere grata di questo dono che Dio mi ha fatto. Anche il mio ragazzo, che sta per laurearsi, la pensa così… I padri Giordano Rigamonti e Daniel Bertea mi sono stati molto vicini in questo periodo difficile: a loro va tutta la mia riconoscenza.
Prima avevo dei dubbi circa il modo di conciliare l’impegno missionario e l’avere dei figli; ora, anche se il mio servizio si è naturalmente ridotto, sento che questo non è solo possibile, ma necessario.
Mi sento «figlia della Consolata» e il mio bambino è anche lui un fiore della Consolata!
Cari missionari, ricordate nella preghiera anche il mio bambino.

«Amo i bambini, dice Dio. Voglio che rassomigliate loro. Non amo i vecchi, dice Dio, a meno che siano ancora dei bambini. Così non voglio che i bambini nel mio Regno… Bambini storpi, gobbi, rugosi, bambini dalla barba bianca, ogni specie di bimbi che credete, ma bambini, solo bambini» (Michel Quoist).

Lettera firmata




LETTERA La Sampdoria a Kipengere

Spettabile redazione,
a seguito dell’articolo di padre Francesco Beardi (Missioni Consolata, febbraio 2004) e del colloquio telefonico intercorso tra me e l’articolista, ho il piacere di inviarvi una copia di una pagina della rivista Sampdoria Club, uscita in questi giorni.
Resto con la speranza che il seme gettato possa far nascere qualcosa di bello… Complimenti sentiti per la vostra opera e la vostra rivista.

Il signor Vittorio allude ad alcune foto di Missioni Consolata, che ritraggono dei bimbi sieropositivi nella missione di Kipengere (Tanzania), vestiti con le maglie della Sampdoria. Una vicenda (in questo caso) «simpatica» del calcio.

Vittorio Benvenuti