SPECIALE 100 ANNI – I martiri

PER LA PACE
padre Quinto Gardetto (1911-1941)

Ne avrebbe fatto volentieri a meno; ma, educato all’obbedienza senza discutere, fu tra i primi missionari della Consolata a vestire la divisa coloniale. A 24 anni (era nato nel 1911 a Bosconero, Torino) padre Quinto Gardetto raggiunse Mogadiscio (Somalia), cappellano della sezione di sanità nelle truppe che si preparavano a invadere l’Etiopia. Insieme ai soldati, nel 1936, entrò in Harrar, dove fu incaricato di dirigere la scuola della cittadina etiopica, che contava 235 allievi. L’anno seguente era a Lekemti, nel vicariato apostolico di Gimma. Così scriveva ai superiori: «Sono contento di essere giunto finalmente in terra della nostra missione».

Capitale della regione del Wollega, centro carovaniero a 330 km da Addis Abeba, Lekemti era stata adocchiata fin dai «tempi di camuffaggio missionario» come centro ideale di evangelizzazione; ma per non dare nell’occhio, i missionari si erano stabiliti a Comto, 5 km dalla cittadina. Dopo la conquista italiana (1936) si poté iniziare a costruire la stazione missionaria.
Padre Gardetto, prima viceparroco e poi superiore, diede grande impulso allo sviluppo della missione: in pochi anni furono costruite le case per i padri e per le suore, scuole governative per 230 alunni, collegio maschile, asilo per 70 bambini, ambulatorio e «scuola clandestina di amarico», senza trascurare la catechesi, visite ai villaggi, cura degli ammalati.
Sopraggiunta la seconda guerra mondiale, le truppe italiane furono impegnate a combattere gli inglesi: i ribelli abissini ne approfittarono per rialzare la testa. Capi e sottocapi della zona di Lekemti, che si erano impegnati a garantire l’incolumità dei missionari, cominciarono a manifestare risentimenti contro l’occupazione coloniale. Il malcontento si trasformò in ribellione.
Il capo Maconnen, fino al 1941 impiegato dal governo per domare i ribelli di altre regioni, si mise alla testa degli insorti. Ai loro massacri e devastazioni, gli ascari assoldati dal governo coloniale rispondevano con rappresaglie indiscriminate, bruciando capanne e raccolti.
Benvisto da tutta la popolazione e dallo stesso Maconnen, padre Gardetto cercò di fare opera di pacificazione tra i ribelli e il presidio di Lekemti, fino a sottoporre ai più alti livelli un disegno di pacificazione, concordato col presidio e il capo degli insorti.

Il 1° aprile 1941, insieme a due autisti italiani e a suor Teodora, il padre partì in auto alla volta di Addis Abeba, per sottoporre l’accordo di pace al governo coloniale. Il rischio era grande: il giorno precedente, a Sirè, c’era stata una feroce repressione e il capo locale aspettava l’occasione per vendicarsi. Infatti, giunta in quella località, a 30 km da Lekemti, l’auto fu bersagliata da una banda di rivoltosi che, ignari della missione che il padre stava compiendo, spararono a vista e uccisero tutti e quattro gli occupanti. Padre Gardetto morì sul colpo, con una pallottola in fronte. Aveva 30 anni. Martire per un atto di alta carità: promuovere la pace e riconciliazione.

DESERTO
INSANGUINATO
padre Michele Stallone (1921-1965)

Anche quel mattino, il 19 novembre 1965, approfittando del passaggio del camion diretto a un club turistico costruito sulla sponda meridionale del lago Turkana, padre Michele Stallone lasciò Baragoi per raggiungere la stessa località. Seduto accanto all’autista, l’italiano De Luca, arrivò a destinazione sull’imbrunire. Il giorno dopo avrebbe dovuto prendere le ultime misure per costruire, secondo le direttive del vescovo di Marsabit, mons. Carlo Cavallera, una scuola e un dispensario a favore della popolazione ol molo, minacciata di estinzione.
Alle nove di sera, terminata la recita del breviario, padre Stallone era seduto a tavola con mister Poole, direttore del club, quando una banda di una trentina di predoni (shifta), armati di fucili, assaltarono il campo, chiusero i due in bungalow e fecero man bassa di tutto ciò che trovarono. Finita la razzia, tornarono dai due prigionieri: li freddarono a colpi di fucile. Risparmiarono De Luca, costringendolo a trasportarli con una Land Rover insieme al bottino. Di lui non si seppe più nulla.
Il pomeriggio del giorno dopo, la notizia dell’assassinio arrivò a Baragoi. Alle 3,30 del mattino seguente, padri e polizia raggiunsero il luogo dell’eccidio: padre Stallone giaceva a terra in una pozza di sangue, le mani ancora legate e due colpi di fucile nella schiena; aveva accanto il breviario; ogni altro oggetto era scomparso.

Aveva 44 anni. Era nato il 13 settembre 1921 a Giovinazzo (Bari). A 13 anni Michele entrò nella casa dei missionari della Consolata di Parabita (Lecce); compì gli studi in varie case dell’Istituto e fu ordinato sacerdote a Casale Monferrato (AL) nel 1947. L’anno seguente raggiunse la diocesi di Nyeri (Kenya) e cominciò il tirocinio missionario a Gatanga.
Di piacevole compagnia, volontà energica e spiccata attività, nel 1953 fu destinato da mons. Cavallera, in quegli anni vescovo di Nyeri, in aiuto ai confratelli che avevano da poco aperto la missione di Baragoi, avamposto nell’immensa e arida «frontiera» a nord del Kenya.
«Dall’infuocata sabbia – scriveva nel 1954 -, come per incanto, uno dopo l’altro si sono innalzati i fabbricati: tre aule scolastiche, case dei padri e delle suore, collegi per ragazzi e per ragazze, magazzino, tre cistee per l’acqua piovana, un ospedale con 30 letti. I lavori non sono ancora ultimati, ma possiamo già dedicarci all’apostolato diretto. Mi è stata affidata l’educazione di 38 piccoli samburu e turkana: due etnie con lingue del tutto differenti. Unico sussidio, finora, è un abbozzo di dizionarietto samburu di circa 1.500 vocaboli da me compilato».
«La chiave per penetrare nell’animo di queste popolazioni è la scuola – scriveva l’anno seguente -. Sebbene ancora indolenti nel lavoro, queste etnie ci danno molte consolazioni. In pochi mesi i miei scolaretti hanno imparato a cantare, a perfezione, la Missa de angelis e altri inni latini e swahili. A sentirli pregare e cantare si crederebbero altrettanti seminaristi, anziché selvaggetti strappati alla brughiera solo ieri».
Diventato superiore (1957), padre Stallone continuò a sviluppare la parrocchia, organizzando la scuola secondaria e disseminando di scuole-cappelle i punti strategici del vasto territorio.

«Il deserto fiorisce» era intitolato un articolo che padre Stallone aveva scritto per Missioni Consolata un anno prima di morire. Quando, infatti, venne costituita la diocesi di Marsabit (1964), Baragoi era ormai la missione più adulta e sviluppata del territorio, centro propulsore di nuove fondazioni, come la missione di South Horr, al cui sviluppo padre Stallone lavorò per vari anni.
Il suo sacrificio ha ritardato di alcuni mesi la fioritura della missione a Loyangalani, ma ne ha fecondato il terreno. Il suo sangue ha irrorato le speranze in cui, lui per primo, aveva fermamente creduto e per le quali aveva dato con entusiasmo tutto se stesso.

TUTTO PER GLI INDIOS
padre Giovanni Calleri (1934-1968)

Bello, alto, forte, spiritoso, estroverso, con una carica che ispirava fiducia a prima vista. Chi lo incontrava per strada o in una riunione lo definiva uno sportivo o un artista. E vedevano giusto.
Nato a Carrù (Cuneo) nel 1934, prete per cinque anni nella diocesi di Mondovì, Giovanni Calleri entrò tra i missionari della Consolata nel 1962. Tre anni dopo partì per il Brasile e raggiunse il territorio di Roraima. E cominciò a organizzare la missione del Catrimani, tra gli indios yanomami.
«Quando giunsi in Brasile non mi importava di morire – scriveva nel 1966 -. Ora no, voglio vivere per amore degli indios. Mie compagne sono a volte la fame e sempre tanta solitudine». Invece morì a 34 anni, per amore degli indios.

Per l’esperienza tra gli yanomami e la ricca personalità, nel 1968 padre Calleri fu scelto dal governo brasiliano per dirigere una spedizione per pacificare gli indios waimirí-atroarí. Dal 1961 era in costruzione la strada BR-174 che, attraverso la foresta dell’Amazzonia, doveva collegare Manaus e Boa Vista a Caracas (Venezuela). Ma per attuare il progetto bisognava fare i conti con gli indigeni che si ritenevano, a diritto, padroni della regione e non intendevano rinunciare al loro sistema di vita.
La spedizione fu preparata seriamente e il piano approvato dal governo. Si doveva adottare la tattica di «avvicinamento indiretto»: cioè accostare prima gli indios non irritati con i bianchi, per farli mediatori presso quelli sul piede di guerra, vicini allo sconquasso prodotto dai lavori della strada. Il piano fu ritenuto da qualcuno troppo lento. Per non fermare i lavori, poteri militari e minerari, nazionali e stranieri, premevano per il confronto diretto con i ribelli waimirí-atroarí, che in fatto d’imboscate sapevano il fatto loro.
All’ultimo momento il piano fu accantonato e padre Calleri dovette accettare, anche sotto minacce, di portare la spedizione su un altro luogo. È l’aspetto più misterioso della faccenda, perché con il cambiamento i rischi di fallimento e morte risultavano enormemente aumentati. Nella spedizione, poi, fu inserito Alvaro da Silva, esperto della foresta, ma ambiguo e senza scrupoli, legato alla Missione evangelica dell’Amazzonia (Meva).
I dipendenti di questa missione protestante, con residenza in Guyana, svolgevano una doppia attività: evangelizzazione e ricerca di miniere per conto degli Stati Uniti. Per cui essi erano troppo interessati che la spedizione diretta da un prete cattolico fallisse.
E così avvenne: il 1° novembre 1968 la spedizione fu massacrata nel cuore della foresta. Delle 10 persone, comprese due donne, si salvò solo Alvaro da Silva. La colpa fu sempre attribuita alla ferocia degli indios.
A 30 anni di distanza, dopo faticose ricerche, padre Silvano Sabatini, che ebbe un ruolo importante nel preparare la spedizione, ha fatto luce sul mistero. Dalle innumerevoli testimonianze da lui raccolte e pubblicate nel libro Massacre, risulta che la spedizione-Calleri fu massacrata da alcuni indios waimirí-atroarí e wai wai, istigati da un manipolo di bianchi, in particolare Alvaro da Silva e lo statunitense Claude Leawitt, funzionario della Meva. I due imposero agli indios, sotto terribili minacce, un assoluto silenzio.
Padre Sabatini denuncia che la BR-174 fu condotta a termine, dopo il massacro della spedizione, con la decimazione degli indios: i waimirí-atroarí, circa 3 mila nel 1968, nel 1982 erano ridotti a qualche centinaio.

CONTESTATORE GLOBALE
padre Guerrino Prandelli (1943-1972)

«Sono molto felice di essere prete – aveva scritto poco tempo dopo l’ordinazione -. Mi piacciono lavoro duro e tempi difficili. In un’epoca in cui il sacerdote è fuori moda, per un giovane come me diventare “servo” fa parte di una “contestazione globale”, la più profonda: quella dell’amore».
Era nato a Brescia nel 1943. Temperamento vivo e quasi scatenato, forte e a volte rude, Guerrino Prandelli lottò contro tutto e tutti per restare fedele alla chiamata della missione. Ordinato sacerdote (1969), gli fu proposto di lavorare un po’ in Italia. La controproposta non lasciava scampo: «O mi mandate in missione, o mi sposo». Fu spedito in Mozambico.
N el 1970 padre Guerrino era nel Niassa. Da Unango passò come vice parroco a Nova Esperança. Lavorava come un forsennato, quasi presago del pochissimo tempo a disposizione. Coglieva al volo esigenze e bisogni della gente, dei più poveri soprattutto, come i lebbrosi. Per questi costruì varie casette, perché avessero un’abitazione più igienica e vita più dignitosa.
Aveva il dono delle lingue: dopo solo due anni di permanenza nel Niassa, padre Guerrino si mise a tradurre in lingua ciyao alcuni testi della messa, per facilitae la partecipazione della gente.
Era felicissimo, nonostante le difficoltà provocate dalla guerriglia anticoloniale. «Nova Esperança è la missione più isolata del Niassa – scriveva -. Ciò è dovuto alla guerriglia. Ultimamente sulle nostre strade hanno messo molte mine. Viaggiare è diventato estremamente pericoloso. Nei villaggi o nella missione non c’è pericolo; ma non possiamo stare sempre fermi; nessuno viene a portarci niente. Abbiamo bisogno di viveri e medicinali; la gente non ha sale, zucchero, olio, sapone, petrolio. Il pericolo di imbattersi in una mina sussiste; chi vi incappa finisce sbriciolato».

A metà ottobre del 1973, i confratelli lo chiamarono a Nova Freixo (oggi Cuamba), per aiutarli in alcuni lavori di traduzione. Terminato il lavoro, padre Guerrino volle tornare subito alla sua missione. Gli fu consigliato di attendere un momento più sicuro. Rispose che non poteva lasciare i suoi lebbrosi senza cibo: i poveri non possono aspettare tempi sicuri. E partì da solo.
Ma a 20 chilometri da Belém, una ruota dell’automezzo urtò una mina anticarro, nascosta nella carreggiata. Lo scoppio violento distrusse l’auto e causò la morte fulminea del missionario.
Un mese prima aveva scritto a un compagno di studi: «Vale più un anno di missione, che cinquant’anni trascorsi nella mediocrità in Italia». Padre Guerrino è morto a 29 anni; in missione ne ha spesi appena tre: una «contestazione globale» a tanta mediocrità.

UNA VITA
PER L’AFRICA
padre Luigi Graiff (1921-1981)

«Un giorno o l’altro mi accopperanno» ripeteva da un anno come un ritornello. Anche quel venerdì padre Luigi Graiff si recò a Parkati con cibo e medicinali: sentiva il fiato della morte ormai sul collo. Lasciando 40 metri di cotonata blu a una famiglia turkana, disse alla signora Veronica: «Taglia dieci pezze per adulti e bambini, ma tieni da parte una misura grande per avvolgere il mio cadavere».
Due giorni dopo, domenica 11 gennaio 1981, finita la messa a Parkati, padre Luigi caricò sulla Land Rover il catechista anziano, cinque ragazzi e un diciottenne aspirante catechista, per celebrare l’eucaristia a Tum, a una ventina di chilometri. A metà strada vide all’orizzonte una ciurma di uomini, oltre duecento, armati di panghe (coltellacci), lance e fucili automatici. Intuì subito il pericolo: erano gli ngorokos, bande di razziatori, che da tempo infestavano la zona, rubando bestiame, distruggendo villaggi e uccidendo centinaia di persone.
Tentò di invertire la marcia, ma alcuni spari bloccarono la Land Rover. Il padre e il catechista corsero ad aprire lo sportello posteriore dell’auto, perché i ragazzi si mettessero in salvo. Furono subito accerchiati. «Non ci resta che pregare» disse il missionario. S’inginocchiarono. Il tempo di iniziare il Padre nostro e il padre stramazzò a terra in una pozza di sangue, insieme al giovane e un ragazzo; gli altri quattro, approfittando del trambusto, riuscirono a fuggire, inseguiti dalle fucilate.
Il catechista riconobbe alcuni degli assalitori e implorò pietà. Percosso e spogliato di tutto, fu mandato ad avvertire la missione. La notizia del massacro arrivò a South Horr alle cinque della sera. I confratelli partirono immediatamente; arrivarono sul luogo dell’eccidio a notte fonda e trovarono una scena raccapricciante: tre corpi ignudi, orrendamente crivellati di proiettili e sfigurati dai colpi di panga, cotti e tumefatti, giacevano accanto alla carcassa dell’auto ancora fumante.

A veva 60 anni, metà dei quali spesi in Africa: era nato a Romeno (Trento) nel 1921; in Kenya dal 1951. Destinato alla diocesi di Nyeri, padre Graiff lavorò a Gatanga, poi a Mugoiri, durante gli anni difficili della rivolta mau mau.
Nel 1964 chiese di passare alla nuova diocesi di Marsabit. Mons. Carlo Cavallera lo accolse volentieri e lo nominò parroco di Laisamis: una savana desolata, tutta pietre, sabbia e cespugli spinosi. Per 10 anni padre Luigi lavorò come un forsennato, costruendo uno dei più bei complessi della diocesi: chiesa, case per padri e suore, ospedale, scuole e… cristiani.
Gli anni 1965-70 furono particolarmente duri e pieni di tensione: gli shifta imperversavano; una notte assaltarono la missione; il padre scampò dalla morte per miracolo. Ma continuò a lavorare, nonostante la paura.
Coraggioso e spavaldo solo in apparenza, padre Graiff aveva paura della morte: la notte si svegliava di soprassalto al minimo rumore; imbracciava il fucile e correva da una finestra all’altra, pronto a respingere gli intrusi.
Dietro una scorza ruvida e autoritaria si nascondeva un cuore di bambino. Lo avevano capito subito gli africani: venivano a chiedere aiuto nei momenti più importuni. Egli si arrabbiava, ma poi cedeva, soprattutto se dicevano di avere fame. Ottenuto un po’ di cibo, i questuanti si nascondevano dietro un cespuglio, mangiavano felici e ridevano a crepapelle, imitando gesti e boccacce del burbero benefico.
Come un bambino odiava stare solo. Eppure la solitudine fu il suo pane quotidiano: prima a Laisamis, poi a Loyangalani (1973-78); gli ultimi due anni a Parkati, avamposto della missione di South Horr. In quella squallida regione abitavano i nomadi turkana, minacciati periodicamente da fame, malattie e, ultimamente, dalle razzie dei banditi. Nonostante il pericolo, padre Graiff vi si recava tutte le settimane, portando viveri, medicinali, vestiario, materiale da costruzione e tutto ciò che poteva servire alla sopravvivenza della gente. Era riuscito ad aprire la scuola e avviare piccole comunità cristiane.
Per gli ngorokos quella di padre Graiff era una presenza scomoda, quasi una sfida. Il loro banditismo era fomentato da rivalità etniche e politiche, con misteriose ingerenze straniere: lo dimostravano le armi sofisticate in dotazione. Il governo non interveniva; le forze di polizia stavano alla larga per paura. Solo i missionari avevano il coraggio di stare accanto a quelle popolazioni martoriate e prendee le difese. Per questo padre Graiff fu messo a tacere barbaramente.

CON LA GENTE
PER SEMPRE
padre Ariel Granada Sea (1941-1991)

Non aveva compiuto 50 anni. Era nato a Marulanda (Colombia) nel 1941. Dopo l’ordinazione (1968), padre Ariel Granada lavorò per alcuni anni nel vicariato di Florencia; poi svolse vari incarichi nelle case di formazione. Nel 1988 fu destinato al Mozambico. Partì sereno, contento di cominciare, a 47 anni, una nuova avventura missionaria.
Si trovò catapultato a Mecanhelas, una sperduta missione nel sud del Niassa. «Mancano luce elettrica, posta, telefono, acqua – scriveva a un amico -. Stiamo scavando un pozzo con la speranza di trovae un poco. Sono contento e sto facendo programmi per aiutare questa povera gente. Ma la guerra non vuole cessare. Sembra che ai guerriglieri arrivino armi sufficienti per uccidere tutti se volessero».
Imperversava la guerra civile tra l’esercito regolare del Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico) e i ribelli della Renamo (Resistenza nazionale mozambicana). Attoo alla missione si erano ammassati migliaia di sfollati. Costante e metodico, padre Ariel stava loro vicino, con iniziative materiali e spirituali, per riaprire un futuro di speranza. Altrettanto faceva con le comunità che poteva visitare. Intanto continuava a ritmo serrato la formazione di animatori e catechisti. Aveva iniziato la costruzione di una decina di belle capanne per i lebbrosi.

Tanti segni di consolazione furono troncati il 15 febbraio 1991. Padre Ariel stava per tornare in Colombia, per le vacanze e per la morte della mamma. Era in viaggio verso Lichinga, con padre José Rocha Martins, una suora indigena, una ragazza e una donna con tre bambini, quando la vettura fu bersagliata da una furia di proiettili.
«Non sparate! Siamo missionari!» gridarono i padri. Troppo tardi! Ariel fu colpito in fronte e morì all’istante. José fu ferito a una gamba. Pur riconoscendo i missionari, gli assalitori cominciarono a rubare quanto trovarono nella vettura; cavarono perfino le scarpe ai padri e un maglione alla suora. Quando videro il sacco di pane, cominciarono a divorarlo avidamente. Alle proteste di padre José e della suora, restituirono qualche oggetto e liberarono la ragazza, che volevano portare nella foresta.

Padre Ariel è morto sulla strada, accanto a un confratello ferito e alcune delle tante persone fatte oggetto di violenza indiscriminata. Egli sapeva che, per camminare insieme alla sua gente, doveva mettere in conto la condivisione degli stessi rischi, compreso quello della morte senza un apparente perché. Il suo sacrificio è solo l’ultimo atto di una presenza di speranza e solidarietà, con la conseguenza drammatica ma logica che tale scelta evangelica comporta.

UNA MARCIA IN PIÙ
padre Luigi Andeni (1935-1998)

Sono le 22.30 del 14 settembre 1998, festa dell’«Esaltazione della croce». Terminato l’incontro di programmazione pastorale, le suore tornano a casa, 200 metri distante, e spengono il generatore di elettricità. Padre Luigi Andeni e il diacono africano Williams Othieno si fermano sotto la veranda per una boccata d’aria fresca.
Cinque minuti dopo, tre loschi figuri sbucano dalle tenebre, travestiti da militari. «A terra!» ordinano imperiosi, puntando i fucili e facendo cigolare i caricatori. Padre Andeni si alza e domanda: «Chi siete? Cosa volete?». I malviventi indietreggiano. Inizia una colluttazione. Uno sparo lo ferisce di striscio al braccio destro; il polso sinistro è colpito ripetutamente con la panga; un’altra pallottola dirompente lo colpisce alla schiena ed esplode sul davanti. Gli assassini fuggono.
Stringendosi il ventre con le mani e aiutato dal diacono, padre Luigi riesce a rialzarsi e raggiungere la casa delle suore. Gli aprono la porta; cade a terra in una pozza di sangue. Alla luce di una torcia, suor Matilde cerca di tamponare la ferita, mentre il padre recita l’Atto di dolore; la voce si indebolisce, fino a diventare un impercettibile bisbiglio.
Vista la gravità delle ferite, le suore caricano il ferito sulla loro auto e lo portano all’ospedale di Wamba. I 70 km di strada ghiaiosa e sconnessa diventano un autentico calvario. «Pole!» (adagio) invoca il padre a ogni sobbalzo, mentre non cessa di pregare. Dopo tre ore di via crucis, a 5 km da Wamba, padre Andeni affida la sua vita nelle mani di Dio e della Madonna: sono le prime ore della festa dell’Addolorata.

N ato nel 1935 a Barbariga (Brescia), è in Kenya dal 1970. Gioviale ed entusiasta, semplice e tenace, pieno d’iniziative e generoso, padre Andeni sembra avere una marcia in più. Dovunque passa (Moyale, Sololo, Archer’s Post, Sukuta Marmar, di nuovo Archer’s Post), lascia la sua impronta: forma catechisti responsabili; costruisce chiese e cappelle con fiorenti comunità cristiane e folti catecumenati; stimola la gente a contare sulle proprie forze, aiutandola a costruire asili, scuole elementari e secondarie, laboratori di arti e mestieri, dispensari medici, pozzi e un’infinità di altri progetti di sviluppo economico e sociale. Dappertutto si fa apprezzare per il cuore aperto a tutti: aiuta centinaia di studenti poveri a pagare le tasse scolastiche; procura cibo a migliaia di affamati, senza distinzione di etnia o religione; semina la pace nei momenti di tensione e lotte tribali.
Perché lo hanno ucciso? Le autorità civili cercano di ridurre la sua morte a una rapina finita male, anche se non gli è stato rubato neppure l’orologio. Ma la gente è convinta che si tratti di un delitto su commissione. Il mandante sarebbe un pezzo grosso del villaggio, politicamente molto influente: uno che, pochi giorni prima del crimine, aveva avuto un’accesa discussione col padre, che accusava il capoccione di aver intascato i milioni raccolti dalla gente per lo sviluppo della scuola locale.
Dietro il sorriso cameratesco, padre Andeni nasconde un carattere forte, trasparente, senza compromessi. Ama e aiuta tutti, senza distinzione; ma non sopporta pigri, lazzaroni e imbroglioni. Rispettoso e cornoperativo con l’autorità, non ha peli sulla lingua di fronte a ingiustizie e corruzione. I cristiani lo conoscono e lo capiscono; i leaders politici, suscettibili e gelosi, sentono i suoi rimproveri come una minaccia alla loro autorità. Da qui la decisione di cucirgli la bocca.

Benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti




Nell’occhio dei cicloni

Gioviale e sincero, cuore grande e sensibile, la vita di padre Calandri fu tutta in salita, costellata di difficoltà
e incomprensioni, senza mai arrendersi. Definito pioniere, eroe, artista, antropologo…
fu educatore, difensore e padre di migliaia di africani.

Da grande voleva fare il «bandito», diceva ai compagni delle elementari. Un palmo più alto dei coetanei, il collo oltremodo lungo, nel seminario di Giaveno (TO) lo chiamavano «cammello». Il nomignolo non gli dispiaceva; anzi, aumentava i suoi sogni di avventure per deserti e savane sconfinate. Voleva essere prete; ma non intisichire tra le mura di una canonica. «Come conciliare sogni e vocazione? – racconterà più tardi -. Eccoti saltar fuori la chiamata alla missione».
SOGNANDO LA MISSIONE
A 18 anni (era nato nel 1893 a Moretta, Cuneo), Pietro Calandri ottenne dal vescovo il permesso di entrare tra i missionari della Consolata. Il 3 marzo 1917 fu ordinato prete. Non scordò mai quel giorno, anche per un curioso extra rituale: dubitando di avergli imposto le mani sul capo, alla fine dell’ordinazione il vescovo ripeté tale cerimonia. «Mai avuto dubbi sul mio sacerdozio: sono stato ordinato due volte» raccontava spesso.
Per realizzare i suoi sogni bisognò aspettare il ritorno dei missionari mobilitati come cappellani militari nella guerra mondiale. Padre Pietro doveva dare una mano nei vari servizi della casa madre: formazione degli studenti e insegnamento di materie pratiche: fotografia, pittura, arti e mestieri.
Come ogni artista che si rispetti, era soggetto a madoali distrazioni: iniziare la messa senza paramenti; andare in tram con uova fresche in tasca e conseguente frittata. E rideva volentieri di tali disavventure.
Nel 1920 Calandri raggiunse il Kenya. Si buttò nel lavoro con tutto il suo entusiasmo. Ma ben presto si accorse che le savane e foreste dei sogni giovanili erano popolate da ingiustizie e soprusi da fargli ribollire il sangue, fino a definire la missione di Kanjo (ora Turu) «selvaggia e crudele» (vedi riquadro).
Nel 1925 fu scelto per formare il primo gruppo di missionari della Consolata destinati al Mozambico.
ORDINI E CONTRORDINI
Secondo gli accordi presi con il prelato del Mozambico, dom Rafael Assunção, il drappello era destinato a Miruru, missione ai confini con lo Zimbabwe, fondata dai gesuiti e da vari anni senza preti. Ma a Torino i superiori avevano messo gli occhi sul Niassa, dove si poteva cominciare da zero, poiché nessun missionario cattolico vi aveva ancora messo piede.
Fu così che padre Calandri, con in tasca l’ordine segreto di andare nel Niassa, si staccò dal gruppo di Miruru e, insieme a padre Amiotti, raggiunse Mandimba, ai confini col Nyassaland (oggi Malawi). Nel frattempo i superiori avrebbero richiesto i permessi necessari alle autorità ecclesiastiche e civili . Di fronte al fatto compiuto, pensavano, sarebbe stato più facile ottenerli.
I due missionari cominciarono subito la costruzione di un capannone, una cappellina di canne di bambù e una casetta per accogliere una dozzina di orfanelli, figli di europei, impiegati del governo inglese in Malawi.
Secondo le istruzioni dei superiori, padre Calandri fece una bella relazione sulla situazione e la inviò a dom Rafael, dichiarandosi disponibile all’evangelizzazione del Niassa. La risposta giunse come una mazzata: «Uscire dal territorio entro un mese, dopo il quale scatterà la sospensione a divinis». Il che significa: proibizione di amministrare qualsiasi sacramento.
Da Torino arrivò l’ordine di restare, perché tutto si sarebbe aggiustato. Pure il vicario apostolico del Nyassaland, il monfortano francese mons. Auneau, consigliò di rimanere. I due missionari celebravano la messa di nascosto e ogni settimana passavano la frontiera per confessarsi e assolversi a vicenda nel territorio del vescovo amico. Per non dare nell’occhio degli ispettori della colonia portoghese, vari amici consigliarono loro di tagliarsi la barba e spacciarsi per coltivatori di tabacco.
Padre Pietro si lasciò un paio di baffetti e, oltre a coltivare tabacco, impiegò quel «tempo d’inedia» per esplorare il Niassa, studiare i posti più idonei per le future missioni, incontrare la gente e imparare la lingua ciyao. Scriveva ogni nuova parola su un pezzetto di carta, che infilzava in un ferro e, tornato a casa, ordinava i foglietti in ordine alfabetico. Ne risulteranno 13 volumi, confluiti nel dizionario italiano-ciyao, poi in quello portoghese-ciyao.
Ma per il cuore sensibile del Calandri fu «una situazione così terribile», da farlo piangere giorno e notte.
«TEGOLE» IN TESTA

Dopo due anni di «purgatorio», il 1° maggio 1928 arrivò un telegramma dal Nyassaland: «Concessa giurisdizione. Cominciare i lavori». Calandri era felicissimo, ma a tasche vuote: gli ultimi due scellini li aveva dati al fattorino che aveva recapitato la bella notizia. Un amico, salvato dal padre da una febbre micidiale con un drammatico bagno freddo, gli infilò in tasca 500 scudi portoghesi, con cui organizzò subito una carovana per raggiungere Massangulo, 60 km a nord-est di Mandimba.
Gli orfanelli più grandi a piedi, gli altri in spalle ai portatori, a passo di lumaca, giunsero a destinazione il 20 maggio 1928; furono piantate le tende e si cominciò subito la fabbricazione di tegole e mattoni.
Passò un mese e un’altra «tegola» si abbatté sulla testa di Calandri: il governatore del Niassa ritirava ogni permesso, finché dom Rafael non avesse comunicato anche a lui l’autorizzazione ecclesiastica consegnata ai missionari. Era una ripicca contro il prelato; ma per aggiustare la faccenda il padre dovette correre a Porto Amelia: 1.600 km di andata e ritorno, con mezzi sgangherati, per sentirneri da capre.
Altre minacce pesavano sulla missione: ladri, leoni, ostilità dei capi musulmani. Contro i leoni aveva il fucile e una mira infallibile, tanto da essere chiamato in tutti i villaggi per liberare la gente dalle bestie feroci. Più dura fu con i musulmani: prima cercarono di depredarlo, poi gli ordirono trabocchetti per eliminarlo.
«La lotta è il mio pane quotidiano» diceva spesso. I lavori continuarono frenetici per costruire le case dei padri, bambini e suore prima della stagione delle piogge. Alla fine dello stesso anno, infatti, arrivarono due padri, tre fratelli e otto suore.
Col nuovo personale fu aperta la scuola; si cominciò la visita sistematica ai villaggi, a curare gli ammalati nella missione e a domicilio. In poco tempo la situazione fu rovesciata come un calzino: la gente nutriva grande simpatia per i missionari; perfino i capi musulmani erano affascinati dalla carità delle suore.
Nel giugno 1930 padre Calandri fu chiamato a Beira dal delegato apostolico mons. Hinsley che, nervoso e imbarazzato, gli ordinava di chiudere immediatamente la missione. «Mi sentii cadere dalle nuvole – racconta il missionario -. Fatiche andate in fumo. Orfani ributtati sulla strada. Scoppiai in un pianto dirotto e irrefrenabile».
Per calmarlo il delegato gli chiese di Massangulo; sentendolo parlare di scuole e collegi per bambini e bambine, orfanotrofio per meticci, monsignore tirò un sospiro ed esclamò: «Se è così, è tutt’altra cosa. Vada pure avanti con la costruzione dei collegi; io le manderò i mezzi. Bisogna dare molta importanza a scuole e collegi».
BURRASCA… MAIUSCOLA
Alla fine del 1930 dom Rafael arrivò a Massangulo in visita pastorale. Padre Calandri era a caccia per procurare un po’ di carne per fare festa al visitatore. Il prelato ne approfittò per domandare agli alunni i nomi della capitale d’Italia, del re e primo ministro. I ragazzi cascavano dalle nuvole. Il prelato sospettava che i missionari fossero la «lunga mano» di Mussolini.
A pranzo padre Calandri presentò al vescovo i progetti per aprire altre missioni: una al lago Niassa e un’altra a sud, a Mepanhira, dove un laico convertito in Malawi aveva costruito una bella comunità cristiana e faceva battezzare i catecumeni oltre confine. La risposta fu glaciale: «Nessuno ti incarica delle anime di Mepanhira».
La sera, a quattrocchi, dom Rafael scaricò tutta la bile che aveva in corpo. Rivangò la disobbedienza del 1926 e accusò il padre di non aver creduto alla sua buona fede. Accusò i superiori di Torino di collaborare col fascismo, perché avevano mandato in Mozambico troppo personale; se la prese con vari missionari, rei di averlo denigrato. Padre Pietro pianse tutta la notte. Ricorderà quel fatto come «il giorno di burrasca con la B maiuscola».
Prima di partire, dom Rafael scrisse sul registro dei visitatori una mezza pagina di lodi sperticate per il lavoro dei missionari e missionarie.
In fondo il prelato era d’animo buono e nutrì fino alla morte grande stima per i missionari della Consolata. Ma in quegli anni si trovava tra l’incudine e il martello. Unico vescovo del Mozambico, aveva bisogno di personale per evangelizzare immense regioni che non avevano mai visto un prete cattolico. Pio XI aveva definito il Mozambico «arretrato di 300 anni; macchia nera nella storia delle missioni». Al tempo stesso egli non voleva apparire troppo facilone agli occhi del dittatore portoghese Salazar, sospettoso verso tutti i missionari stranieri, specie se italiani.
Da parte sua, padre Calandri era fatto così: per difendere giustizia e verità non guardava in faccia nessuno; a volte rispondeva senza peli sulla lingua; altre volte reagiva col pianto. Ma non si arrendeva mai, specie quando la gente più indifesa gli chiedeva aiuto contro le prepotenze dei capi e capetti locali: se non riusciva a farli ragionare, egli ricorreva ad autorità sempre più alte, fino a ottenere giustizia. Si procurava qualche nemico; ma la gente lo chiamava bwana cilima (signore forte).
Anche le autorità civili lo ammiravano. Il dottor Oliveira, che visitò più volte Massangulo, descrisse così padre Calandri: «Un misto di eroe e artista, che incarna in sé tutta l’anima di un romano. Lavoratore instancabile, tutto prevede, a tutto arriva. Ha sempre una soluzione per le maggiori difficoltà, che sono enormi in un luogo così lontano dai mezzi civilizzati e con poco denaro».
ESILIO BRASILIANO
Nonostante la diminuzione del personale, padre Calandri riuscì a terminare i lavori programmati: collegi e scuole per oltre 200 alunni delle elementari; avvio dei corsi di arti e mestieri; elettricità in tutta la missione; trapianto di migliaia di piante coltivate nei vivai; frutteto e orto, campi di caffè e grano; scuole-cappelle in molti villaggi, affidate a maestri formati alla missione; nascita dei primi nuclei di famiglie cristiane.
Nell’agosto 1936 da Torino arrivarono nuovi rinforzi con una lettera del superiore generale, mons. Gaudenzio Barlassina, in cui era scritto: «Conveniente a padre Calandri andare a riposarsi in Italia».
La vacanza si trasformò presto in dramma: il superiore generale, senza tanti preamboli, lo destinò al Brasile per pitturare una grande chiesa. Calandri rimase impietrito; non riuscì ad aprire bocca per chiedere spiegazioni. Ma intuiva le ragioni: per risolvere il pasticcio del Mozambico, Roma aveva sostituito dom Rafael con dom Teodosio de Gouveia; Torino mandava padre Calandri in capo al mondo. «È l’obbedienza più costosa richiestami nella mia vita religiosa» racconterà più tardi.
Padre Calandri raggiunse il Brasile nel maggio 1937 e cominciò a pitturare la chiesa di Santa Teresina a São Manuel. Al tempo stesso si dedicava anima e corpo al lavoro pastorale, attirandosi la benevolenza della gente, dei poveri soprattutto. Esteamente era entusiasta e ottimista, ma quando era solo ritornava a galla la domanda: «Cosa ho fatto di male?». Sentiva quella destinazione come un castigo immeritato.
A moltiplicare i crucci contribuiva una certa telepatia; i presentimenti venivano confermati dalle lettere di alcuni orfani: ragazze e ragazzi, ormai cresciuti, erano stati allontanati dalla missione e mandati allo sbaraglio. «Tali notizie sono spine acute che mi fanno tanto male – scriveva. – I superiori non potevano trovare un supplizio più grande per farmi scontare le loro vendette personali».
Quattro anni di lotta interiore lo fiaccarono fisicamente, fino ad ammalarsi e cadere in una depressione spirituale, paragonabile alla notte oscura di cui parlano i mistici: si sentiva abbandonato dal Cuore di Gesù, di cui era devotissimo; cominciò a dubitare della sua vocazione; pensava di ritirarsi in un ordine religioso di aspre penitenze «per dimenticare tutti e tutto il passato burrascoso».
A salvarlo dalla disperazione contribuì l’amicizia dei confratelli, Fiorina e Bisio soprattutto. Questi scrisse ai superiori in Mozambico e a Torino perché intervenissero con un gesto di umanità, una lettera di stima e comprensione, per liberare Calandri dall’«agonia e terribile oppressione» che lo stavano consumando.
RICOMINCIA LA LOTTA
Nel 1940 arrivò il permesso di tornare a Massangulo. Un mese dopo Calandri era a Lourenço Marques. Dom Teodosio lo accolse con affetto: «Questo abbraccio serva, caro padre, a riparare quanto le ha fatto il mio predecessore».
Intanto nel Niassa erano sorte altre missioni: Mepanhira, Maua, Mitucué. Massangulo, però, navigava in cattive acque: orti, piantagioni e campi erano divorati dalle erbacce; gli orfani allontanati gettavano discredito sulla missione. Padre Calandri riprese la direzione della barca, ma la barra non rispondeva ai suoi comandi, ma a quelli del superiore provinciale, Domenico Ferrero. Era costui una tempra di missionario pari a Calandri, ma di mentalità totalmente differente. Ne scaturirono scontri e arrabbiature indescrivibili.
Finalmente il superiore provinciale ebbe la bella idea (o l’ordine) di stabilirsi a Mitucué. Padre Calandri rimase a Massangulo con i suoi collaboratori, lavorando in armonia e frateità. Massangulo cresceva fino ad accogliere oltre 500 alunni.
NUOVO TORNADO
Alla fine di maggio 1948 il vescovo di Nampula, dom Teofilo de Andrade, ricevette da Torino un telegramma firmato dal superiore generale: «Imbarcare padre Calandri sul primo bastimento. Se ricusa, applicare sanzioni canoniche». Il vescovo girò il messaggio all’interessato che, appena lesse la missiva stramazzò a terra come un sacco di patate. In calce, però, il vescovo aveva scritto: «Restare fino a nuovo ordine; inviterò il superiore a visitare le missioni del Niassa; dopo si deciderà».
«Che cosa ho fatto per trattarmi così?» si domandava il padre. A parte il parlare a ruota libera per difendere giustizia e verità, non si sentiva colpevole di nulla. Da tempo, però, circolavano critiche poco benevoli: la scelta del posto in cui era stata costruita la missione era in una zona totalmente musulmana; perdeva tempo con gli orfani meticci, da qualche testa fasciata definiti «figli del peccato»; la sua ospitalità aveva trasformato la missione in un albergo… Critiche che, a distanza e senza vedere la realtà, diventavano macigni.
Altri confratelli, però, lo ammiravano, felici di lavorare con lui. Le autorità civili e religiose lo portavano in palmo di mano. Un giorno dom Teofilo non esitò a dire in faccia al superiore: «Se i missionari della Consolata sono conosciuti e rispettati in Mozambico lo si deve a padre Calandri».
Nei primi di dicembre 1948 arrivò il superiore generale: era la prima visita canonica alle missioni del Mozambico. E fu «una bufera con tuoni e lampi». Chiamato a Mitucué, padre Calandri si sentì definire «testardo, prepotente, dispotico». Per ritornare nella sua missione gli fu chiesto di firmare un documento in cui, tra i vari punti, figurava l’ammissione di aver disubbidito all’ordine di tornare in Italia.
Calandri spiegò che l’ordine era diretto al vescovo: sarebbe toccato a lui spedirlo in Italia. Rifatto il documento e tolta la condizione incriminata, il padre era talmente stufo che firmò la copia originaria. Il giallo diventò disperazione: padre Pietro era deciso a recarsi a Nampula e chiedere al vescovo di accettarlo come prete diocesano. Il suo autista, però, conoscendo il padre e visto come si erano messe le cose, era scappato nella foresta con le chiavi dell’auto.
Il giorno seguente mons. Barlassina raggiunse Massangulo, accolto con addobbi, luci, canti e danze. Rimase sbalordito e non finiva di ripetere: «Che bello! Meraviglioso! Che bei viali! Ma questa è una città…». Passando in rassegna le opere della missione continuava: «Non sapevo che esistesse tutto questo ben di Dio». E quando padre Calandri lo portò a visitare alcune famiglie di mulatti, raccontando la storia di ciascuna, il superiore concluse: «In tutto il tempo passato in Abissinia non ho mai visto famiglie così bene educate». E per il resto della vita continuò a definire Massangulo «una meraviglia».
E FU BONACCIA FINALMENTE
Padre Calandri continuò a lavorare con il solito entusiasmo, determinazione e cuore rappacificato. Finalmente poteva realizzare sogni coltivati da tanti anni: la missione sul lago Niassa, a Cobué, posto strategico e, a quei tempi, quasi inaccessibile; un seminario «catacombale», poiché il nuovo vescovo di Nampula, dom Manuel de Medeiros, non era d’accordo; soprattutto la costruzione di una bella chiesa alla Consolata. «Cobué mi ha tolto dieci anni di vita» dirà più tardi. Nella costruzione della chiesa investì tutto il suo talento di architetto, artista e pittore: fu subito definita «la cattedrale del Niassa».
Intanto continuava a battagliare contro le ingiustizie, prima con i produttori di cotone, che sfruttavano la gente in modo vergognoso; poi con le autorità coloniali che, scoppiata la guerriglia indipendentista, vedeva terroristi dappertutto e molti innocenti venivano uccisi o torturati.
Ma gli acciacchi dell’età si facevano sentire. Diabete e una ferita al piede lo convinsero a tirare i remi in barca: nel 1962 chiese e ottenne di essere sostituito dalla responsabilità di superiore. Cominciò a passare ore e ore in contemplazione sia nella sua bella chiesa, sia di fronte alle meraviglie del Niassa, trasfigurandole nelle sue pitture.
Furono anche gli anni della gloria: il presidente del Portogallo in persona, Amerigo Tomas, volle appuntargli al petto la medaglia dell’Ordine di Cristo; dal governo italiano fu nominato Cavaliere della Repubblica; il Vaticano gli conferì la medaglia Pro Ecclesia et Pontifice. «Brutto segno – commentava -. Ti danno le medaglie quando stai per morire».
Nel 1967 celebrò il 50° anniversario di sacerdozio. Fu l’ultimo trionfo. Tre mesi dopo cadeva ammalato e il 12 agosto moriva nell’ospedale di Nampula. «Voglio che la mia anima scenda dal cielo a prendere il mio corpo a Massangulo» disse prima di morire. Fu sepolto nella sua «cattedrale». E lì riposa ancora, venerato come un padre da tutta la popolazione del Niassa, cristiani e musulmani.

Benedetto Bellesi




Il silenzio è complice del male

Una «nuova colonizzazione» per l’Africa? Nonscherziamo, per favore!
Il problema del continente africano e del mondo intero è un sistema economico dove detta legge una «trinità satanica», formata da «Fondo monetario
internazionale», «Banca mondiale» e «Organizzazione mondiale del commercio». Un mondo unificato sotto le insegne dell’«impero del denaro» (il cui cuore pulsante è la speculazione finanziaria), dove la politica è al guinzaglio dell’economia, totalmente asservita ad essa. Parole di fuoco (e, a volte, anche discutibili) quelle di Alex Zanotelli, missionario scomodo.

LA «TRINITÀ SATANICA»

È riduttivo dire che l’Africa è in pasto alle multinazionali. Non si tratta solo di questo. La cosa è molto più sofisticata. Le multinazionali, essendo molto intelligenti, usano le strutture inteazionali per fare la loro politica. In particolare, usano il «Fondo monetario», la «Banca mondiale» e l’«Organizzazione mondiale del commercio» (io li chiamo la «trinità satanica» dell’impero del denaro) per portare avanti i loro interessi.
Ricordate il Mai, l’«accordo multilaterale sugli investimenti», che (per ora) siamo riusciti a bloccare? Esso non è altro che la politica delle multinazionali per entrare negli stati e prendersi i mercati senza colpo ferire.
Il Mai è stato poi tradotto e affinato dagli Stati Uniti nel «Nafta for Africa» («African Growth and Opportunity Act», approvato dal congresso nordamericano lo scorso maggio).
Qual è la filosofia che sottende? In pratica la seguente: diminuire il potere degli stati, perché «meno stato c’è, meglio si va»; abbattere tutte le barriere, affinché i potentati economici siano facilitati ad investire e comperare ovunque. Una multinazionale può comperare quello che vuole.
Guardate quello che sta avvenendo in Mozambico, dove le multinazionali (magari attraverso i boeri del Sudafrica) si spostano là per acquistare migliaia di ettari di terreno. Lo comperano in chiave agricola, con un occhio di riguardo per il sottosuolo.
La politica è quella di favorire una agricoltura da esportazione e non per la sussistenza. Il Kenya produce tè e caffè, ma il caffè buono lo potete bere solo in Italia e il tè buono solo a Londra. I kenyiani o non lo bevono o hanno il peggiore. Questo è il tipo di logica.
Pensate al Congo, con una guerra voluta, ma voluta fino in fondo e andrà avanti così. Perché meno stato c’è in Congo, meglio le multinazionali funzionano. Le multinazionali dell’oro, dei diamanti, del cobalto hanno i loro eserciti.
Pensate al ruolo del Sudafrica (e qui Mandela si è fatto… fregare). Nella guerra del Congo sono coinvolte 11 nazioni, una vera guerra mondiale o continentale almeno. Ho visto le statistiche: si parla di 1 milioni e 700 mila morti in 22 mesi di guerra. Ma sui nostri giornali e le nostre televisioni non se ne parla…
Ora sto a guardare cosa farà la politica nordamericana nel Sudan, perché, da quanto mi dicono, i giacimenti di petrolio sudanesi sono i più grandi del mondo. Si dice che gli Stati Uniti potrebbero fare a meno del petrolio mediorientale se il petrolio del Sud Sudan andasse a Mombasa…
Nel 1998 Clinton fece un lungo viaggio africano proprio per promuovere la filosofia americana del «trade, not aid» (commercio, non aiuto). Chiarissimamente per favorire gli Stati Uniti (utilizzando la potenza amica e subalterna del Sudafrica) nella conquista di un grande mercato potenziale di 700 milioni di consumatori! È questo in fondo quello che sta dietro a tutto. Ormai i mercati sono saturi. Non sappiamo più a chi vendere, continuiamo a produrre, ma alla fine dobbiamo domandarci per chi produrre. L’Africa è un mercato nuovo, perché non aprirlo?, si sono detti gli americani. Sapete che, durante il suo ultimo viaggio in Nigeria, Clinton aveva con sé 1.000 uomini d’affari statunitensi?
Questo è lo scopo essenziale. Questa legislazione permetterà ai presidenti americani di stipulare accordi bilaterali con i presidenti degli stati che risponderanno ai requisiti di «elegibility». È chiaro che le nazioni africane desiderano moltissimo entrare nell’accordo. Perché vedono arrivare i soldi americani. È una maniera per salvarsi dal suicidio collettivo in cui l’Africa sta sprofondando.
E ora che gli Stati Uniti si stanno preparando per un altro grande trattato: quello con la Cina. Quello con l’Africa è soltanto l’antipasto, dopo c’è la Cina. Con il Nafta per l’Africa gli Stati Uniti stanno entrando (ma entrando alla brutta o alla grande) nel continente.
Dal Nafta per l’Africa sta emergendo chiaramente che la politica americana è di un imperialismo incredibile. Mi fa un male boia ammettere questo, perché gli Stati Uniti partirono (solo 200 anni fa) ribellandosi contro il colonialismo britannico. Tredici repubbliche che volevano la loro dignità e che sognavano un mondo alternativo. Guardate in 200 anni come si può cambiare.
PRIVATIZZARE… LA MISERIA
Altrettanto importante è la logica delle privatizzazioni. Osservate l’insistenza sul privatizzare l’educazione, la sanità… Sapete cosa vuol dire questo per l’Africa? Cosa significa per 300 milioni di persone che vivono con meno di 1 dollaro al giorno? Significa privatizzare la miseria. Anche in Italia questo tipo di politica la pagano i poveri. Negli Stati Uniti oggi siamo arrivati a 40 milioni di poveri. Mai il paese più potente del mondo era arrivato ad avere un tale numero di poveri…
Io non ho bisogno delle statistiche per capire la sofferenza della gente. Basta che guardi Korogocho e il Kenya. La scuola è un macello: i ragazzini non riescono più ad entrarvi, perché i genitori non hanno soldi per pagarla. E mi riferisco alla scuola pubblica! Fra qualche anno a Nairobi ci sarà il 50 per cento di ragazzi che non potranno entrare in prima elementare. Sapete cosa vuol dire il 50 per cento in una città di 4 milioni di abitanti? È una bomba! Ecco il risultato delle privatizzazioni.
Vedo la sofferenza della gente che non può più andare a curarsi all’ospedale, perché non ci sono soldi. Vedo sempre più gente che abbandona i cadaveri al governo o che cerca di seppellirli di nascosto…
Una volta vidi un uomo disperato, perché gli era morto il bambino. Questo padre era andato al fiume per cercare di seppellire il figlio, ma la gente lo aveva notato. Da tre giorni teneva il bambino morto in casa, perché non aveva i soldi per seppellirlo. Alla fine, l’uomo chiese una cosa soltanto: essere aiutato per tornare al suo villaggio, dove la sepoltura gli sarebbe costata molto meno. Pose il corpicino in un sacco e con esso si mise in viaggio.
Questi sono i drammi quotidiani che viviamo in Africa.
Lo stesso Fondo monetario internazionale dice che 1 su 5 bambini in Africa muore prima dell’età di 5 anni. Il 50 per cento degli africani vive sotto la linea della povertà assoluta e il 40 per cento con meno di un dollaro al giorno. L’interesse sul debito assorbe già oggi l’80 per cento di tutto quello che le nazioni africane ottengono vendendo i loro prodotti sul mercato. Il 40 per cento degli africani soffre di malnutrizione e di fame; oltre 42 milioni di bambini non riescono ad entrare in prima elementare. L’Africa è il solo continente al mondo dove l’immatricolazione nelle scuole è in declino, è l’unico continente dove l’educazione perde di qualità perché non ci sono più soldi per investire.
Quando avete una situazione economica del genere e fate passare una legislazione come quella del Nafta per l’Africa, io non ho dubbi nel dire che si tratta di un genocidio pianificato.
Però, sento gente come Indro Montanelli e Sergio Romano, ma anche padre Piero Gheddo, che invocano una nuova colonizzazione per l’Africa. Fare affermazioni di questo tipo è scandaloso, dopo tutto quello che abbiamo fatto a quel continente.
LA VERGOGNA DELLE ARMI ITALIANE
In Italia, a tutte le manifestazioni cui partecipo, continuo a ripetere: ma voi sapete da dove vengono molte delle armi (soprattutto le cosiddette «armi leggere») delle guerre africane? Dal nostro paese. Però, un silenzio incredibile è calato su questo problema. È scandaloso che si vada avanti a spendere quello che spendiamo in armi, a produrre quello che produciamo in armi.
L’altro giorno ero a Quarrata (Pt) con il capogruppo di rifondazione della Camera, Giordano. Questi mi ha detto: «Alex, hai saputo le ultime novità?» No, dico, vengo da Korogocho e le ultime novità non le so. Cosa c’è? «L’Italia ha appena comperato l’Eurofighter, un aereo da guerra del costo di 120 miliardi. E ne ha ordinati 100».
È possibile che debba venire un imbecille da Korogocho per ricordarvi questo? Questo è un fatto di una gravità estrema. Non so perché Pax Christi non protesti immediatamente. Non si trovano soldi per le scuole, per la sanità e li trovano per 100 aerei militari. Ma per fae che cosa? Domandatevelo.
Voi sapete tutte le armi che si producono in questo paese? Ma è possibile che in Parlamento dorma ancora la norma sulle armi leggere? C’è una proposta per mettere al bando la loro produzione e l’export. Ma la legge non va avanti.
Però quello che più mi preoccupa è il vostro silenzio. Quando sento queste cose io mi sento male e mi domando perché nessuno protesti. Sulle armi vi prego di tornare agli anni Ottanta; allora c’era molta più vivacità in questo paese, c’era molto più senso della lotta.
Ronald Reagan (un presidente che io metto a fianco di Stalin, per tutti i massacri che, coscientemente, ha perpetrato nel Centro America) per primo parlò di guerre stellari. Poi però rinunciò a quel folle progetto. È concepibile che ora se ne torni a parlare? Può darsi che Gore abbia qualche idea più liberale di Bush, ma alla fine chiunque vinca deve fare quello che la logica del mercato richiede. Altrimenti non vanno avanti.
NO AL «DIO» DEL SISTEMA
Davanti a noi non c’è soltanto l’Africa, ma è l’intero mondo che è minacciato, gravissimamente minacciato di morte. Tutti noi siamo minacciati. Questo è un sistema che crea morte a tutti i livelli.
L’Africa è emblematica come continente e su di essa scende sempre il silenzio e il non parlarne accresce ancora di più l’impressione. L’Africa è un paradigma dove impegnarsi.
Io ho come riferimento la tradizione profonda della bibbia e del giubileo. Il quale, per favore, non è roba da pellegrinaggio, soprattutto in questo tipo di società. Sono tutte cose che facciamo, ma il giubileo biblico è un’altra cosa. Non lo possiamo dimenticare. Il giubileo biblico è «il sogno di Dio».
Il problema di oggi non è l’ateismo. Per me l’ateismo è il primo passo verso la fede. Quando abbiamo ridotto Dio al dio del sistema, al dio degli Stati Uniti, al dio di questa società, l’unica maniera per riscoprire la fede è l’ateismo perché devi sbarazzarti di «questo» dio.
Il vero problema è il materialismo quotidiano, l’idolatria. Anche noi come chiesa abbiamo adottato tutti gli idoli di questa società dal massimo profitto: soldi, successo e via di questo passo.
Fare giubileo vuol dire ritornare al «sogno di Dio», legare economia e vangelo. Un gesuita inglese dice: noi leggiamo il vangelo come se non avessimo soldi in tasca e usiamo i soldi come se non conoscessimo nulla del vangelo. E questa è la nostra realtà. Ecco perché siamo così integrati, così parte del sistema. Il giubileo è una cosa seria, è ritornare all’ideale che ci può essere una economia di uguaglianza dove i beni di questo pianeta servano a tutta la gente del mondo. Significa ritornare a una politica di giustizia, perché solo questa permetterà una economia di uguaglianza. Significa ritornare ad una esperienza di Dio, dove Dio è sentito come il Dio di schiavi, oppressi, marginalizzati, forestieri, immigrati. Di tutta la gente, insomma.
LA BOMBA DEI POVERI
Io dico a tutti di svegliarsi, perché l’altra bomba atomica è proprio quella dei poveri. Può scoppiare in qualsiasi momento. E, se scoppia, sorrideremo sul macello del Rwanda.

IL CAMMINO DI LILLIPUT

Oltre mille persone si sono ritrovate nel primo incontro nazionale della «Rete di Lilliput». Questa è la dichiarazione finale preparata dal Tavolo intercampagne e letta da Alex Zanotelli.

Marina di Massa, 6-7-8 ottobre 2000.

Nel momento in cui le leggi del profitto pretendono di dominare ogni ambito del vivere umano distruggendo la base naturale su cui si fonda la vita sul Pianeta e la politica è incapace di contrastare lo strapotere dell’economia dominante, noi oltre mille tra semplici cittadini, associazioni e gruppi, riuniti a Marina di Massa per il primo incontro della Rete di Lilliput, rivendichiamo il diritto di riappropriarci della facoltà di decidere sul nostro futuro e ci sentiamo parte integrante di una nuova forma di cittadinanza sociale che sta prendendo corpo nel Pianeta e che ha avuto una sua prima manifestazione a Seattle.
Nel contempo affermiamo che non basta battersi contro le principali storture del sistema, ma che dobbiamo ricercare delle alternative eque e sostenibili a questo assetto economico che genera esclusione, ingiustizie e distruzione del Pianeta.
I tratti fondamentali dell’alternativa che noi ci impegniamo a costruire si basano sulla sobrietà, la riduzione dell’impronta ecologica e sociale, l’esaltazione dell’economia locale ed il riconoscimento che i bisogni fondamentali sono diritti da garantire a tutti gli abitanti del Pianeta. Noi ci impegniamo fin d’oggi a costruire questa prospettiva organizzando gruppi di lavoro e campagne:
– per riaffermare la dignità del lavoro e la democrazia economica, costringendo le multinazionali alla trasparenza e alla responsabilità sociale e ambientale
– per ottenere una radicale riforma dell’Organizzazione mondiale del commercio, della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale che fino ad oggi hanno generato disuguaglianze e oppressione sociale
– per l’annullamento del debito e il riconoscimento del debito ecologico dei paesi del Nord verso quelli del Sud
– per ridurre l’impronta ecologica e sociale dell’Italia proponendo alle famiglie un diverso modo di consumare, e spingendo gli enti locali e le istituzioni nazionali alla costruzione di filiere produttive alternative
– per promuovere la riconversione dell’industria bellica, per spingere le banche a non finanziare i traffici d’armi, per promuovere la tutela e i diritti dei migranti.
Sul piano della vita intea della Rete vogliamo costruire dei rapporti che esaltino la partecipazione, l’identità dei gruppi locali e il loro radicamento sul territorio, la costruzione di campagne comuni proponibili da tutti i punti della Rete, la costruzione di una struttura leggera di riferimento nazionale con compiti di informazione e servizio. Sappiamo che la nostra Rete costituisce una sfida per tutti perché è una novità assoluta che rompe con gli schemi del passato. Per questo ci impegniamo ad avviare un approfondimento interno a tutti i livelli per individuare forme ottimali di aggregazione e dilazione. Un segnale importante che va in questa direzione è la nascita di gruppi tematici emersi durante lo svolgimento dell’assemblea. Il primo passo di questo cammino è la costituzione di un gruppo di lavoro composto dal nodo locale genovese e dal tavolo intercampagne per organizzare la nostra opposizione alle politiche del G8 che si riunirà a Genova nel 2001.

L’IMPERO DEL DENARO

Caro onorevole, jambo! Penso che il viaggio in Africa e la visita a Korogocho sia stato un evento importante per te. Ti sarai accorto che vedere con i tuoi occhi e sentire con il tuo naso è tutt’altra cosa che guardare gli esclusi, in televisione o leggerli nelle statistiche.
Penso che le sofferenze dei poveri hanno cominciato a cambiarti come uomo: in questo ti sento vero e sincero.
Come leader politico ti ringrazio perché stai tentando di mettere l’Africa e la povertà globale al centro del dibattito. Non vorrei però che le sofferenze dei poveri diventassero semplicemente oggetto di manipolazioni, tatticismi e furbizie per ottenere consensi elettorali.
Per questo ho sentito il dovere di scrivere questa lettera aperta in cui esprimo la mia maniera di guardare alla realtà e ciò che da questo sguardo ne consegue.
Io guardo il mondo stando dalla parte degli impoveriti, cioè dalla parte dell’80% dell’umanità. Lo faccio come credente, perché tutta la tradizione biblica, ebraica e cristiana, da cui provengo sta dalla parte degli esclusi, perché il Dio di Mosé non è il Dio dei faraoni o di Clinton, ma il Dio dei crocefissi. Per la prima volta nella storia, il mondo è retto da un unico sistema: l’impero del denaro, il cui cuore è la speculazione finanziaria. Mai nella storia si era visto un impero tanto vittorioso e suadente, grazie alla forza dei mass media, da prenderci tutti nella sua ideologia.
Viviamo in un sistema economico dove il 20% degli uomini si pappa l’82% delle risorse a spese del resto dell’umanità. Il 20% dei più poveri ha a disposizione solo l’1,4% dei beni. Per me questo è un sistema di peccato. E la politica che cosa fa? Oggi la politica è al guinzaglio dell’economia, totalmente asservita ad essa.
Questo sistema di oppressione si regge sullo strapotere delle armi: spendiamo ogni anno 800 miliardi di dollari in armamenti (ma il muro di Berlino non era crollato?). A che cosa ci servono? Per difendere i nostri privilegi dalla minaccia dei poveri.
Non dimentichiamo che chi vive nell’opulenza e la difende a denti stretti pone anche una gravissima ipoteca ambientale. Molteplici studi ci dicono che abbiamo non più di 50 anni per cambiare: è in ballo la vita del pianeta. L’impero del denaro uccide, quindi, con la fame (30 milioni: un «olocausto» ogni anno), con le armi (conflitti africani, regimi repressivi, guerre stellari), con la distruzione dell’ambiente, con l’annientamento delle culture.
È un sistema di morte che ci interpella tutti, credenti e non, perché mina la vita stessa. Se questa analisi è vera e condivisibile, dobbiamo smetterla di raccontarci la storia di uno «sviluppo sostenibile». O cambiamo rotta o cadiamo nel baratro.
Tocca alla politica reinventare la politica e anche lo stato, perché l’economia torni a servire la polis. La politica e il far politica devono rispondere alle esigenze della gente e soprattutto della vita, della vita per tutti.
Alex Zanotelli

(*) Sintesi di una lettera aperta indirizzata da padre Zanotelli a Walter Veltroni. La scorsa estate il segretario dei Ds aveva effettuato un lungo viaggio in Africa, visitando anche Korogocho. Quell’esperienza è stata raccontata nel libro Forse Dio è malato (Rizzoli, 2000).

IL DIVERSO E’ VERAMENTE UNA MINACCIA?

Le affermazioni del card. Biffi sull’immigrazione islamica sono di una gravità estrema. Ne sono rimasto esterrefatto, perché se incominciamo a dividere la gente così, non usciamo più dallo scontro. E potremmo davvero muoverci verso forme di pulizia etnica.
La grande domanda posta da Susan George è semplicissima: il miliardo e mezzo di persone, i poveri, gli inutili per il sistema attuale, hanno diritto sì o no di vivere? Sapete voi quanti episodi di razzismo ci sono in giro? È chiaro che c’è un rifiuto dell’altro. E guardate che qui anche Marx (che pure ha indovinato tante cose) si è preso una bella sventola. La teoria marxista, riprendendo quella di Rousseau, afferma che l’uomo è buono: è la società che lo rende cattivo. Purtroppo altri hanno dimostrato che la violenza non viene dalle istituzioni, ma da ogni uomo. Il rifiuto dell’altro ce lo portiamo dentro. Me lo trovo anch’io, a Korogocho, tra i derelitti.

Un giorno incontrai una ragazza di 23 anni. La salutai, chiedendole come si chiamasse. Lei rispose: «Mi chiamano Omarì». Come – dissi – ti chiamano, ma tu come ti chiami? «Mi chiamano». E io: non prendermi in giro! «Mi chiamano Omarì» insistette. Allora chiesi: a che etnia appartieni? «Non lo so». La guardai stupefatto: sei il primo africano che non sa a che etnia appartiene; l’appartenenza è talmente forte per un africano! «Tu non mi conosci, Alex. Io sono una ragazza che, piccolissima, si è ritrovata sulle strade di Nairobi insieme ad altri ragazzi e loro mi chiamavano Omarì. Non so quale sia il mio vero nome, non so chi sia mio padre, mia madre, non so niente. Sono cresciuta sulle strade. Un giorno, verso i 12-13 anni, un uomo mi violentò ed ecco il mio primo bimbo. Andai avanti così. Poi un secondo uomo mi fece violenza ed ecco il secondo bimbo. A quel punto, vinta dalla città, scappai nella discarica vicino a Korogocho. Qui la gente mi guardava e chiedeva da dove venivo, cosa facevo, perché non ero dei loro. Alla fine mi hanno sbattuta fuori. Fuori dalla discarica».
Le domandai dove era andata a vivere. «Vivo nella parte estrema di Korogocho, raccogliendo frutta marcia per me e i miei bambini e, di notte, dormendo anche sotto le bancarelle che di giorno vendono frutta. Alex aiutami!». La mandai nel gruppo della discarica dove per un po’ fu aiutata. Poi sparì.
Poche settimane fa Omarì è ritornata. Con tre ragazzi… Ho guardato la bambina più grande e le ho chiesto: e questa chi è? La ragazza mi ha risposto: «L’ho incontrata l’altro giorno per strada. Le ho chiesto chi fosse e dove erano i suoi genitori. Lei mi ha detto: non li conosco, non ho nessuno, posso venire con te?». Insomma, oggi Omarì è una donna di 23 anni con tre bambini… Non ho potuto fare altro che dirle: «Vieni, vieni con noi, Dio provvederà!».
Una storia assurda per una logica assurda che esclude, perché «non è una di noi, non è dei nostri».

Oggi in Italia è importante uscire da questa logica dell’altro. Provo una grande sofferenza nel vedere il razzismo crescente, il rifiuto dell’altro, anche in chiave religiosa. Io dico a tutti: perché abbiamo paura dei musulmani? Ho studiato teologia musulmana, corano, arabo classico, storia, e ne sono rimasto profondamente impressionato. Quando, per esempio, leggevo i mistici musulmani, non ci trovavo nessuna differenza con Giovanni della Croce o Teresa d’Avila. Quanto più entriamo nella realtà e le situazioni si rivelano complesse, tanto più i nostri slogan diventano semplicistici. Perché tutto ciò che non è bianco non è nero. Tutto ciò che non ci appartiene non è contro di noi, tutto ciò che non è cristiano non è marxista, tutto ciò che non è musulmano non è imperialista o diabolico, tutto ciò che non ci rassomiglia non è una minaccia. Le generalizzazioni, alimentate dalla propaganda politica e religiosa, sono un pericolo.
Al.Za.

Alex Zanotelli




I neri, ancora incatenati – Speciale BRASILE

Il conto è presto fatto: tre secoli
di schiavitùe uno di libertà, fanno
quattrocento anni di sfruttamento. Cosìi neri brasiliani riassumono la loro storia… in attesa di riscatto.

AFRICA ADDIO
All’inizio sono gli indios a essere costretti a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero. Poi qualche colono importa illegalmente alcuni schiavi neri. Forti e muscolosi, danno risultati eccellenti. Le poche gocce diventano un diluvio.
Nel 1539 è inoltrata a Lisbona la richiesta di schiavi africani. Nel 1550 la tratta dei neri diventa sistematica, con tutti i timbri dell’ufficialità. Nel 1570 inizia l’importazione in massa.
A mano a mano che si sviluppano industria zuccheriera e coltivazione del tabacco, industrie minerarie e piantagioni di caffè, il traffico negriero aumenta di anno in anno con un crescendo vertiginoso. In tre secoli arrivano in Brasile quasi 4 milioni di africani. Nella tabella seguente sono riportate le cifre più attendibili, calcolate per difetto.
Africa-Bahia, viaggio diretto, ma terribile: metà degli schiavi periscono in alto mare. Solo i più giovani e forti sopravvivono alle burrasche della traversata, con poco cibo e acqua rancida. «Ne muoiono troppi sulle navi negriere. Sotto sotto non ci sarà un imbroglio?» si lamentano i sovrani portoghesi; non per compassione, ma perché riscuotano le tasse per ogni nero che sbarca vivo.
I neri sbarcati in Brasile appartengono a due gruppi principali: bantu e sudanesi. Il primo proviene dal Mozambico (angico), Congo e Angola (cabinda, bakongo, benguela). Il secondo è composto da etnie e regni affacciati sul Golfo di Guinea: minas, jeje, ewe, nagô (di lingua youruba, Nigeria), haussá e tapa. Gli ultimi tre gruppi sono islamizzati, per cui sono detti muçulmis o più comunemente malês.
Portati al mercato, gli schiavi sono subito sottoposti al processo di distruzione d’identità e memoria storica: i preti li battezzano per farli cristiani; i compratori li dividono: marito dalla moglie, genitori dai figli; quelli di una stessa cultura sono mescolati in altri gruppi etnici; così non avranno la possibilità di fare combutta e ribellarsi.

A SUON DI FRUSTA
Una certa letteratura brasiliana parla di «schiavitù soave» e «signori buoni». La schiavitù è crudele per natura; se cessa di esserlo, non è perché il padrone diventa migliore, ma perché il servo si rassegna all’annullamento della sua personalità. Di fatto la giornata non ha nulla di «soave» per i neri brasiliani: lavorano dalle quattro del mattino fino a tarda sera. Toati alla senzala trovano altri lavori da sbrigare. Alle nove vanno a dormire: le porte sono chiuse; chi ha grilli per la testa viene incatenato.
Disobbedienza e impertinenza sono pagate a colpi di chicote (frusta). Legati al pelourinho (palo della gogna), i colpevoli vengono fustigati in pubblico, perché gli altri schiavi imparino la lezione. A volte essi vengono consegnati al calabouço, luogo di tortura istituzionale, dove altri fanno il lavoro sporco: il padrone deve solo stabilire il numero di frustate e avrà la coscienza a posto.
Se il servo alza la mano contro il padrone o un familiare, gli può essere tagliata una o tutte e due le mani, o subire torture ancor più sadiche, secondo le Ordenações Filipinas (1603). Un editto reale del 1741 ordina che lo schiavo fuggitivo sia marchiato con una grande F sulle spalle, impressa con un ferro rovente; di tagliargli un orecchio se recidivo.
Di fatto il signore ha sullo schiavo potere assoluto, compreso quello di vita o di morte. Lo può vendere, torturare o liberare. La legge lo protegge in ogni caso. Agli schiavi, invece, considerati come cose o bestie da soma, non è riconosciuto alcun diritto; neppure quello di fondare una famiglia. La proibizione di separare i coniugi e le madri dai figli minorenni arriverà solo nel 1871, 17 anni prima dell’abolizione della schiavitù.
Naturalmente tutto dipende dal buon cuore del padrone. In generale, però, i signori sono pomposi e ignoranti; spesso più ignoranti di certi schiavi, come i malês: poliglotti e matematici, contabili maliziosi, essi tengono i conti e fanno da precettori ai figli del padrone.

RESISTENZE
Molti neri portati in Brasile sono guerrieri e figli di re: nessun castigo può piegare la loro fierezza. La maggioranza fa finta di sottomettersi; ma poi, lontana dall’occhio del padrone, estrae dalla memoria riti e feticci per riaffermare la propria cultura e gettare il malocchio sugli oppressori.
Le forme di resistenza alla schiavitù sono molte e variegate: dall’assassinio del padrone e suoi attendenti al suicidio individuale e collettivo, al banzo, tragica nostalgia che approda alla morte. Con la propria fine lo schiavo sa di privare il padrone di un importante capitale.
La forma di protesta più frequente, però, è la fuga per rifugiarsi nei quilombos: villaggi fondati nel cuore della foresta per riconquistare la propria libertà. Ne sorgono a migliaia, dappertutto e di ogni dimensioni. Spesso vi confluisce tutta la gamma degli oppressi della società schiavista: indios, meticci, bianchi impoveriti, giovani che fuggono il servizio militare. Nei villaggi più consistenti i neri organizzano tutti gli aspetti della vita: sociale, politica, economica, religiosa e militare, soprattutto per respingere i tentativi di riportarli in cattività.
Il quilombo più famoso è quello di Palmares. Iniziato prima del 1600, tra i monti della Serra Barriga, nell’attuale stato di Alagoas, raggiunge il massimo splendore verso il 1630, quando gli olandesi occupano Peambuco. Palmares si organizza in repubblica confederale di 18 villaggi, presieduta da un capo, chiamato «re», e da un consiglio. Lo sviluppo agricolo permette di vendere il surplus ai bianchi circostanti.
Espulsi gli olandesi (1654), per quasi 70 anni il governo di Peambuco e i signori dello zucchero cercano inutilmente di distruggere Palmares. Nel 1695 il quilombo viene spazzato via da un’armata di 11 mila uomini, il più grande esercito organizzato in periodo coloniale.
Nella resistenza si distingue il capo Zumbi. Nato libero a Palmares, egli rifiuta di barattare la libertà e indipendenza del suo popolo col perdono e terre, offertegli dal governatore di Peambuco e dallo stesso re del Portogallo, a patto che cessi di difendere la causa degli schiavi.
Tradito dai collaboratori, Zumbi è catturato e decapitato a Recife il 20 novembre 1695. Oggi egli è una bandiera per tutti gli emarginati brasiliani, simbolo di lotta per la libertà e la costruzione di una nazione senza padroni e senza schiavi.
Intanto le rivolte dei neri si propagano anche alle città. Le più note scoppiano a Salvador de Bahia: nel 1807, 1809, 1813 si ribellano gli haussás islamizzati; nel 1826-30 si rivoltano i nagôs, che finiscono in un bagno di sangue; nel 1835 ancora gli haussás: sono massacrati tutti, dai bambini appena nati ai vecchi cadenti. Non minore sconcerto suscita la rivolta di Tupá (São Paulo, 1813), dove 600 neri attaccano tutte le proprietà della regione e vengono eliminati senza misericordia.
PADRONI «LIBERATI»

Nel secolo XIX la condizione disumana degli schiavi è denunciata con veemenza in tutto il mondo. Le motivazioni umanitarie si mescolano a quelle di pura convenienza. José Bonifacio de Andrada, «padre dell’indipendenza» del Brasile, dimostra come la schiavitù sia un’assurdità economica e causa di corruzione sociale: «Venti schiavi richiedono 20 zappe, che si possono risparmiare con un solo aratro… Colui che vive del sudore degli schiavi, vive nell’indolenza e l’indolenza porta al vizio».
Sotto le pressioni intee e inteazionali, nel 1850 il Brasile proibisce la tratta degli schiavi (legge Eusebio de Queiroz). Questi vengono importati di contrabbando; ma i prezzi sono proibitivi. Inoltre, nell’economia capitalista, il lavoro salariale è ormai più conveniente della schiavitù, che comporta il mantenimento di africani tristi e ribelli, di «merce» improduttiva come vecchi e bambini.
Ci pensa il governo a «liberare» i padroni dal mantenere tante bocche «inutili»: nel 1871 la «legge del ventre libero» affranca tutti i nati dopo tale data; nel 1885 è la volta degli schiavi sessantenni. Nel 1888, quando la regina Isabella firma la «legge aurea», che abolisce definitivamente la schiavitù, appena il 5,6% della popolazione nera beneficia di tale evento. Ormai di veri schiavi ne sono rimasti pochi: molti sono già affrancati, altri si sono liberati da soli, con la fuga.

RAZZISMO ALLA BRASILIANA
La «legge aurea» introduce il Brasile nel consesso delle nazioni civili; ma non cambia nulla per i neri. A suo tempo José Bonifacio aveva suggerito come procedere all’affrancamento: «Fate dei neri degli uomini liberi e fieri; offrite loro incentivi, proteggeteli, ed essi si riprodurranno e diventeranno cittadini preziosi».
I neo-liberti, invece, restano senza casa, né terra, né famiglia (0,8% di sposati). Per loro non c’è nessuno degli incentivi concessi agli immigrati. Analfabeti al 99%, buttati senza alcuna preparazione nel mondo competitivo del capitalismo, i neri costituiscono da subito un serbatornio di manodopera usa e getta, in balia del mercato del lavoro e della miseria più nera: cessano di essere schiavi e diventano «il problema» del Brasile, da rimuovere al più presto.
La società brasiliana pensa di risolvere «il problema» con lo «sbiancamento» della popolazione, favorendo l’entrata massiccia di immigrati europei dalla pelle più chiara possibile. L’idea è bene illustrata da Roosvelt, presidente Usa, in visita al paese nel 1914: «In Brasile l’ideale principale è la scomparsa del nero, gradualmente assorbito nella razza bianca. L’enorme immigrazione europea tende, decenni dopo decenni, a rendere il sangue nero un elemento insignificante in tutta la nazione».
Qualcuno calcola il tempo necessario per completare tale processo di sbiancamento. Così scrive, e prega, Afrânio Peixoto nel 1923: «Forse impiegheremo 300 anni per mutare l’anima e sbiancare la pelle… per depurare questo immane miscuglio umano. Avremo albumina sufficiente a raffinare tutta codesta scoria? Dio ci assista, se è brasiliano».
La preghiera è rimandata al mittente: i brasiliani di pelle nera aumentano di anno in anno, fino a formare oggi il 70% della popolazione del paese; e non hanno intenzione di sbiancarsi, né di continuare a essere dominati.
Per spezzare le catene dei meccanismi di oppressione e rivendicare i loro diritti, i neri si organizzano: nel 1931 nasce il Fronte brasiliano nero e promuove una forte presa di coscienza economica e politica. Il dittatore Vargas lo sopprime nel 1937.
Negli anni ’70 sorgono altri movimenti di «coscientizzazione» della gente di colore e della società brasiliana in generale: Unione e coscienza nera, Movimento nero unificato, gruppi di agenti pastorali neri… Arriva qualche risultato: i primi deputati neri entrano in parlamento; a scuola, radio, televisione e nei giornali vengono dibattuti i problemi della popolazione di colore.
Matura così una duplice presa di coscienza: la popolazione nera, da una parte, riacquista la memoria del ruolo storico giocato nello sviluppo del paese e rivendica il proprio posto nella situazione presente. Dall’altra parte, i brasiliani nel loro insieme prendono coscienza che, senza i neri, il Brasile non sarebbe il Brasile.
Da decenni si parla di «democrazia razziale»; a cento anni dall’abolizione della schiavitù il paese ha riscritto la costituzione, affermando che «la pratica del razzismo costituisce un crimine imprescrittibile, soggetto alla pena di reclusione»; ma il nero continua a essere discriminato in tutti i campi della vita sociale, politica, economica e religiosa.
«Il Brasile resta uno dei paesi più razzisti del mondo – afferma José de Souza Martins, docente di sociologia -. È un razzismo diverso da quello nordamericano; non si vede; la gente tace, ma discrimina. I ghetti sono sempre neri. Nelle università pochi neri e tanti bianchi; il rapporto si rovescia nelle prigioni. E quando un nero ce la fa, diventa campione di calcio o re del samba, ripetono quello che dicevano di Pelé: “Ha tanto buonsenso che sembra un bianco”».

Benedetto Bellesi




Pellirosse e mandarini

Per liberare l’evangelizzazione dai laccioli del «patronato», il papato istituisce un dicastero speciale: la Congregazione «de propaganda fide».
Le nuove direttive e l’istituzione dei «vicariati
apostolici», dipendenti direttamente da Roma,
vengono attuate nelle nuove frontiere
aperte dalla colonizzazione
francese in Nord America
e nella regione indocinese,
mentre nelle colonie
portoghesi e spagnole
ci sono forti resistenze.
Ma ormai la nuova strategia
missionaria è avviata
e Propaganda fide riprenderà in mano
le redini dell’attività missionaria
in tutto il mondo.

Nasce Propaganda Fide

L’aveva suggerito Raimondo Lullo nel 1373; Ignazio di Loyola era ritornato alla carica, come pure eminenti personalità del tempo: la Santa Sede deve prendere in mano le redini dell’azione missionaria. Nel 1622 Gregorio XV istituisce finalmente la Congregazione de Propaganda Fide (dal 1968 «Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli»).
Con questo dicastero la chiesa assume in proprio e in esclusiva, per la prima volta nella storia, tutta l’opera di evangelizzazione. Non più patronati né deleghe a re o imperatori, non più interferenze di carattere politico. Nessun missionario può predicare il vangelo senza la missio o investitura, diretta o indiretta, di questa Congregazione.
Vengono emanate direttive precise: l’evangelizzazione deve essere apolitica e adattata al carattere dei popoli evangelizzati; sono proibiti metodi coercitivi; dare priorità assoluta alla formazione del clero locale. Per liberare l’attività missionaria dai patronati, si propone l’erezione dei vicariati apostolici, dipendenti direttamente da Roma.
Tali innovazioni non si attuano di punto in bianco. In alcuni territori, soprattutto portoghesi, il dualismo giurisdizionale di Roma e dei patronati durerà ancora a lungo (in Mozambico fino al 1975!) e sarà causa di tanti conflitti; ma ciò non impedisce all’evangelizzazione, dopo 150 anni di patronato, di rientrare a poco a poco sotto la guida della chiesa.
Come sostenere l’attività missionaria senza l’aiuto economico delle potenze coloniali? Dove pescare nuovi vescovi e vicari fuori di Spagna e Portogallo? Per Propaganda è un rompicapo. Al primo problema si comincia a rispondere con la vendita degli anelli cardinalizi, eredità, offerte di privati, elargizioni straordinarie di principi e pontefici. In seguito si farà appello alla responsabilità di tutto il popolo cristiano.
Nel 1627, cinque anni dopo la fondazione di Propaganda, Urbano VIII erige il collegio Urbano di Propaganda Fide con lo scopo di formare alunni «di qualsiasi popolo e nazione, da inviarsi, per mandato del sommo pontefice, in tutto il mondo a diffondere la chiesa cattolica». Tale Collegio (oggi Università) formerà nei secoli posteriori migliaia di missionari d’ogni lingua e colore, e sussiste tuttora sul Gianicolo.
Intanto la Francia, esclusa dalla spartizione del mondo, si sta lanciando nell’avventura coloniale e missionaria. È un’occasione per liberarsi dai patronati. Nel 1663 a Parigi viene fondato il seminario delle Missioni estere, con lo scopo di reclutare sacerdoti secolari e prepararli alla missione. Il papa vi attingerà a piene mani, pur continuando a servirsi dagli ordini religiosi.

Evangelizzazione del Nordamerica

«Il sole splende per me come per gli altri – protestava Francesco I, re di Francia, di fronte alla papale spartizione del globo tra Spagna e Portogallo -. Vorrei proprio vedere la clausola del testamento di Adamo che mi esclude dalla spartizione del mondo». Allo stesso modo la pensano i paesi protestanti di Inghilterra, Olanda, Svezia. Tutti vogliono il loro pezzo al sole.
Siccome l’America centro-meridionale è già in mano a spagnoli e portoghesi, i nuovi contendenti puntano più a nord: i francesi occupano il Canada; inglesi e olandesi si contendono le zone sottostanti. I primi hanno la meglio e fondano tredici colonie lungo la fascia atlantica. Gli olandesi hanno più fortuna in Estremo Oriente e Sudafrica.
Varietà di colonie, varietà di religioni. Nella Nuova Francia (che all’inizio comprende l’attuale Canada e vari territori ora sotto gli Stati Uniti) arrivano i missionari cattolici; con i coloni inglesi sbarcano i pastori protestanti: anglicani, luterani, calvinisti, quaccheri e via dicendo.
In ritardo di oltre un secolo rispetto a Spagna e Portogallo, intralciata da inglesi e olandesi, che vedono come fumo negli occhi la formazione di una colonia cattolica alle loro spalle, l’evangelizzazione in Canada sfocia in autentica crociata mistica a partire dal 1632. Nel giro di cinque anni arrivano 54 gesuiti, tre suore orsoline e tre ospedaliere, le prime nella storia delle missioni. Coniugando azione e contemplazione, le religiose curano gli infermi, istruiscono i fanciulli, raccolgono anziani e malati, tutti pesi morti della tribù durante il periodo della caccia. Numerosi volontari laici (medici, artigiani, gentiluomini e dame dell’aristocrazia) si lanciano a briglia sciolta nell’avventura missionaria.
I gesuiti seguono gli indiani nel loro nomadismo. Poi, lungo le rive del fiume San Lorenzo e dei Grandi Laghi, costruiscono comunità stabili, con chiese, scuole, campi e strutture varie. In pochi anni migliaia di famiglie di algonchini e uroni sono battezzate. In tempo di caccia i cristiani diventano apostoli presso i fratelli ancora nomadi; per questi i missionari organizzano missioni volanti.
Un lavoro esaltante, ma rischioso. Gli stregoni, sentendo minacciata la loro autorità, sobillano la gente contro i «veste-nera». Ma il pericolo più grave viene dagli irochesi: aizzati dagli inglesi, muovono guerra agli uroni, che nel giro di otto anni (1642-50) vengono sterminati insieme ai missionari: i martiri canadesi.
Ufficialmente sono 8 gesuiti: 6 padri e 2 fratelli laici, canonizzati nel 1930. Numero simbolico, rispetto ai tanti missionari e fedeli, europei e indiani, che, con fede eroica, hanno scritto in pochi anni una delle pagine più gloriose della storia della chiesa. Immensità del territorio e rigori del clima, ferocia e lotte tribali, conflitti politici e religiosi, solitudine nei deserti di ghiaccio, martirio fisico e spirituale… costituiscono un’epopea indimenticabile.
Ma il sangue dei martiri non cade invano. Dieci anni dopo comincia un’altra crociata missionaria: gesuiti, sulpiciani, cappuccini fondano missioni tra gli irochesi. Cristiani algonchini, uroni e irochesi cominciano a vivere insieme nei villaggi, coltivando i campi comunitari. E fiorisce il «giglio degli irochesi»: Caterina Tekakwitha, prima tra tutti gli indigeni dell’America a salire agli onori degli altari (1980).
Intanto la storia continua. Nel 1658 Québec diventa vicariato apostolico (il primo istituito da Propaganda Fide) affidato al vescovo François de Laval.
Nel 1763 le colonie francesi passano sotto la corona britannica. I cattolici vengono discriminati. Ma nel 1777 nella regione del Québec vengono ristabilite le leggi francesi e garantita piena libertà religiosa.
Con l’indipendenza degli Stati Uniti (1776), la situazione dei cattolici migliora in tutto il Nord America. Cessa a poco a poco l’ostilità riservata ai cattolici durante il periodo coloniale. Con le nuove immigrazioni cresce il loro numero e anche la loro presenza nei quadri direttivi del paese. Nel 1789 con la creazione della diocesi di Baltimora, la prima negli Usa, i cattolici sono poco più di 20 mila, su 5 milioni di americani; ma nei secoli successivi la chiesa cattolica assumerà proporzioni tali, che finirà per diventare la comunità religiosa più consistente del paese.
Nello stesso tempo due grossi problemi affliggono l’America del Nord: i massacri di indiani perpetrati dai coloni, lanciati alla conquista dei territori dell’est; la deplorevole condizione degli schiavi negri, che superano ormai il milione. Sono problemi che l’evangelizzazione affronta solo marginalmente per l’impossibilità di inviare missionari e per l’intransigenza degli stessi coloni, troppo convinti che indiani e negri siano esseri inferiori.

Altre frontiere missionarie

N el 1658, insieme a quello di Québec, Propaganda Fide istituisce altri due vicariati: Tonchino e Cocincina (Vietnam). In queste regioni dell’Indocina avevano lavorato alcuni gesuiti, ma con scarsi risultati. L’evangelizzazione sistematica comincia nel 1624, per opera del gesuita francese Alexandre de Rhodes, e continua, con una presenza a singhiozzo fino al 1645; ma lascia il segno. Egli diffonde la scrittura vietnamita; distanzia il cristianesimo dalla politica portoghese; redige un catechismo in lingua locale e fonda una congregazione di catechisti. Questi esercitano tutte le funzioni che non richiedono il sacerdozio, fanno voto di castità e vivono in comunità con i missionari; in tempo di persecuzione mantengono viva la chiesa. Il sogno della formazione del clero indigeno rimane nel cassetto.
Tornato in Europa per evitare la condanna a morte, de Rhodes accelera la fondazione del seminario delle Missioni estere di Parigi e preme su Propaganda perché istituisca la gerarchia in Vietnam: François Pallu e Pierre Lambert de la Motte vengono nominati rispettivamente vicari del Tonchino e della Cocincina.
Attraversando l’Asia via terra, per consegnare ai vescovi, di nascosto dalle autorità coloniali, le «Istruzioni» di Propaganda Fide, mons. Pallu arriva in Indocina. E poiché nel Tonchino infuria la persecuzione, si stabilisce nel Siam (Thailandia), dove si adopera per la formazione del clero indigeno.
La Motte è più fortunato: riesce a soggioare per qualche tempo nel Vietnam; celebra il primo sinodo del Tonchino e Cocincina; istituisce la «Casa di Dio» per raccogliere missionari, seminaristi e catechisti; ordina i primi preti vietnamiti, crea una congregazione religiosa femminile, fonda il seminario per tutto l’Estremo Oriente.
L’evangelizzazione dell’Indocina continua, tra persecuzioni a momenti di bonaccia. Le cristianità sono esigue, complessivamente 400 mila cattolici, ma ben stabilite e in grado di svilupparsi con le proprie forze.
In Corea, caso più unico che raro nella storia della chiesa, il vangelo arriva prima dei missionari: alcuni membri dell’ambasciata che ogni anno si recano a Pechino a rendere omaggio all’imperatore (la Corea è paese vassallo della Cina) avvicinano i gesuiti, si foiscono di libri cristiani e li diffondono tra gli amici.
Nel 1784 si reca a Pechino un letterato di nome Ni-Seung-houn, che riceve il battesimo con il nome di Pietro Ly. Ritornato in patria battezza altri compagni e con essi continua a diffondere il cristianesimo.
Dieci anni dopo, il sacerdote cinese Giacomo Tiyon, inviato in Corea dal vescovo di Pechino, vi trova una comunità di quattromila cristiani. Arrivano le persecuzioni, ma il cristianesimo coreano non sarà più sradicato.
Il Tibet, invece, è un osso duro. Nel 1630 il gesuita portoghese Antonio De Andrade vi apre una missione, ma è subito distrutta. Ritentano inutilmente altri gesuiti. Più fortunato è il gesuita pistorniese Ippolito Desideri: riesce a stabilirsi a Lhasa, la capitale tibetana, e per cinque anni studia, commenta e traduce i testi sacri del lamaismo.
Nel 1703 Propaganda affida la missione del Tibet ai cappuccini italiani. Sotto la direzione del marchigiano Francesco Orazio da Pennabilli, essi riescono a costruire una chiesa e un convento nella capitale, ma le conversioni sono scarse. Nel 1742 una persecuzione orchestrata dai lama costringe i cappuccini a lasciare il Tibet.
Ci provano ancora i lazzaristi francesi e, a più riprese, i preti della Missione di Parigi, convertendo parecchi tibetani presenti nei territori cinesi; ma anche questi sono raggiunti dall’odio dei lama: i cristiani sono massacrati nel 1905. I preti delle Missioni lasciano sul campo otto martiri, l’ultimo è ucciso nel 1940.

La disputa dei riti

Propaganda Fide è appena nata e si trova tra le mani una delle patate più bollenti nella storia della chiesa: la «questione dei riti cinesi e malabarici». Dopo le dispute trinitarie e cristologiche dei primi secoli, non si è mai visto diatriba più accanita, meschina e devastante per l’evangelizzazione.
Ricci, De Nobili e altri gesuiti riscuotono buoni successi adattando al cristianesimo quegli elementi religiosi e culturali delle popolazioni locali che meglio si prestano per esprimere il messaggio evangelico. Sono tre i punti su cui ruota tale adattamento: 1) la «terminologia» religiosa locale è usata per invocare e parlare di Dio; 2) nella liturgia sono assunti riti secondari tradizionali e omessi certi gesti nell’amministrazione dei sacramenti, come l’uso della saliva nel battesimo; 3) tolleranza di usanze sociali tradizionali, come il culto degli antenati in Cina e certi riti matrimoniali e di fecondità in India. Finché i gesuiti ne discutono tra loro, va tutto liscio. Ma nel 1631-33 arrivano in Cina un domenicano e un francescano spagnoli: partecipando a una cerimonia civile, restano scandalizzati nel vedere che anche i cristiani, con l’accondiscendenza dei gesuiti, compiono riti in onore di Confucio e degli antenati. I due frati avvertono i rispettivi superiori; questi si appellano a Roma e la questione diventa una disputa teologica europea.
Il domenicano Morales pone a Propaganda Fide una domanda a brucia pelo: possono i cristiani onorare gli idoli (intendendo Confucio e antenati)? Evidentemente la risposta è negativa (1645). I riti sono condannati.
Dieci anni dopo i gesuiti domandano: si possono rendere a Confucio onori puramente civili? La risposta è affermativa. I riti cinesi sono riammessi.
Ma la questione non si placa. Gli schieramenti pro e contro i riti cinesi e malabarici spaccano i missionari d’Oriente: domenicani e francescani contro i gesuiti; gesuiti contro gesuiti. Dispute furiose si scatenano anche in Europa, coinvolgendo le Missioni estere di Parigi, vescovi e curialisti, teologi e moralisti, politici e scrittori (Pascal). Quasi tutti contro i gesuiti.
Tra studi e reazioni, condanne e concessioni, accettazioni e rifiuti, interventi canonici e diplomatici, la confusione si protrae fino al 1744, con la condanna senza appello dei riti cinesi e malabarici. Solo nel 1939 Roma cancellerà quelle posizioni intransigenti. Ma ormai il guaio è fatto: la mentalità estremorientale non farà più differenza tra cristianesimo e potenze coloniali; la missione continua vivacchiando.

La missione segna il passo

Lo chiamano il «secolo dei lumi». Per la chiesa e l’evangelizzazione, il 1700 è un secolo disgraziato. Lo scontro tra l’assolutismo di stato e la chiesa si fa ogni anno più aspro. Il conflitto tra patronati e Propaganda Fide incancrenisce. Nuovi sistemi di pensiero minacciano di spazzar via il cristianesimo in blocco. Le vocazioni entrano in crisi. L’anticlericalismo si abbatte su chiesa, papato, ordini religiosi.
Vittime illustri del secolo dei lumi sono i gesuiti. Già bersagliati all’interno della chiesa per la «questione dei riti», incappano nelle ire dell’intellighenzia europea, che vede in essi il più forte baluardo del papato e dell’ortodossia. Uno dopo l’altro i paesi cattolici li cacciano, ne confiscano i beni e ne chiedono al papa la soppressione. Nella speranza di avere un po’ di tregua, nel 1773 Clemente XIV sopprime la Compagnia in tutta la chiesa: 30 mila missionari devono lasciare le loro opere e non sono rimpiazzati. A corto di personale, Propaganda è impotente a tamponare tale emorragia. Con la rivoluzione francese e l’impero napoleonico, Propaganda viene soppressa, insieme alle istituzioni che le foiscono missionari.
In Cina, dove 3 diocesi e 3 vicariati coprono un territorio immenso, il personale missionario è dimezzato. All’inizio del ’700 i cristiani sono circa 300 mila; alla fine del secolo scendono a 200 mila e cercano di sopravvivere con le proprie forze.
In India, ai francescani, domenicani, agostiniani, gesuiti, si aggiungono carmelitani spagnoli, cappuccini francesi e teatini italiani. Alle numerose diocesi del patronato portoghese, si affiancano i quattro vicariati istituiti da Propaganda. Nei primi 50 anni del 1700 i cattolici indiani passano da 800 mila a un milione. Ma nella seconda metà del secolo l’evangelizzazione avanza a passo di lumaca. Alla controversia dei riti malabarici e alla cacciata dei gesuiti, si aggiunge il crollo del patronato portoghese sotto i cannoni degli olandesi, francesi e inglesi. Nel 1763 l’India passa nelle mani della Compagnia inglese delle Indie Orientali. E comincia la concorrenza delle missioni protestanti.
In America, le missioni dei territori soggetti a Spagna e Portogallo sono ormai quasi tutte assorbite da un regolare ordinamento territoriale, articolate in arcidiocesi e diocesi. Ma con l’espulsione dei gesuiti le «riduzioni» cadono in rovina. Quello splendido processo di salvaguardia fisica e culturale delle popolazioni e di graduale integrazione nella nuova società viene bloccato e si ripropone daccapo il problema indigenista, ancora attuale ai giorni nostri.

EPOPEA CANADESE

I Martiri canadesi (1642-49). Sono otto gesuiti: sei padri e due fratelli. Renato Goupil: dottore, cura i suoi carnefici prima di spirare. È il primo martire, spirato per le torture subite (1642). Isacco Jogues: catturato e torturato insieme a Goupil, se la cava con le dita mozze e un anno di schiavitù. Ritorna a convertire gli uroni, suoi carnefici e viene ucciso con un colpo d’ascia (1646). Giovanni La Lande: fratello coadiutore, muore insieme a padre Jogues. Antonio Daniel: bersaglio di frecce e di archibugi, viene gettato nella chiesa in fiamme (1648). Giovanni de Brébeuf: in Canada dal 1625, è l’animatore della missione gesuita in Canada. Evangelizza algonchini e uroni: è bruciato vivo nel 1649. Gabriele Lalemand: muore insieme a Brébeuf, con le mani mozze. Carlo Gaier: colpito da archibugio, è finito a colpi d’ascia (fine 1649). Natale Chabanel: ucciso da un urone rinnegato e gettato nel fiume (1649).

Maria dell’Incaazione (1599-1672). Sposa, madre, vedova, a 31 anni diventa monaca orsolina. Prima missionaria nella storia della chiesa dell’era modea, approda a Québec nel 1639. Maestra e mistica, è definita «Teresa del Nuovo Mondo»; educatrice di generazioni di giovani indiane ed europee, è venerata come: «Madre della chiesa canadese».
Beatificata nel 1980, insieme a Caterina Tekakwitha.

MISSIONARI DI PROPAGANDA FIDE

Alexandre de Rhodes (1591-1660). Gesuita francese, missionario in India, Molucche e Macao: fluente in 12 lingue. Fonda la chiesa nel Tonchino e Cocincina (Vietnam), adattando il vangelo alla cultura locale e preparando ministri locali. Più volte cacciato, altrettante volte vi ritorna, finché è preso, condannato a morte ed espulso. Nel 1655 è in Persia, dove morirà.

François Pallu (1626-1684). Confondatore della Società per le Missioni Estere di Parigi. Vicario apostolico del Tonchino e amministratore in Cina, si stabilisce nel Siam, ma l’opposizione portoghese e la necessità di visitare i territori a lui affidati lo costringono a girare mezzo mondo, senza mettere piede nel Tonchino. Fonda un seminario per il clero locale. Muore in Cina.

Pierre Lambert de la Motte (1624-1679). Confondatore delle Missioni Estere, vicario apostolico della Cocincina e amministratore del Siam: perseguitato dall’inquisizione portoghese, difende i diritti di Propaganda Fide; fonda un seminario per il clero locale e una congregazione religiosa per donne indocinesi.

Ippolito Desideri (Pistornia 1684 – Roma 1733). Gesuita, esploratore e missionario in Tibet nel 1716. Stimato da re e Dalai-Lama, predica il vangelo, scrive vari volumi su lingua, cultura e religione tibetana e compone opere apologetiche accolte con favore. Nel 1721 passa in India, quando Propaganda Fide assegna il Tibet ai cappuccini.

Francesco Orazio da Pennabilli (1680-1745). Il più illustre missionario cappuccino in Tibet (1716-45), guida due spedizioni missionarie nel paese. Propaganda Fide lo nomina prefetto della missione di Lhasa. Lavora fino allo spasimo nella predicazione, compilazione di dizionari italiano-tibetano, italiano-hindi, opere etnografiche e traduzioni di libri biblici e di catechesi.




La politica del “pombe”


Il 14 ottobre 1999 scompariva
una delle figure più significative dell’Africa. I detrattori
gli rinfacciano insuccessi e contraddizioni.
Eppure Julius Nyerere passerà alla storia come statista esemplare per coerenza morale e incrollabile fede in un futuro migliore per tutti gli africani

«Non siamo qui per ingannare la nostra gente, ma per dichiarare al paese ciò in cui crediamo». Con queste parole, rivolte al parlamento tanzaniano alla vigilia dell’indipendenza (1961), Julius Nyerere, capo del governo di transizione, indicava lo spirito con cui bisognava scrivere la nuova Costituzione e poi governare.
Con tale spirito di servizio ha guidato il paese all’indipendenza senza spargimento di sangue, ha amalgamato 130 etnie in un’unica nazione, ha garantito 30 anni di stabilità politica e di pace. E questo a differenza di quasi tutti i paesi dell’Africa.
Insuccessi economici e contraddizioni politiche non ne sminuiscono il prestigio. Per rettitudine e coerenza morale la sua figura si eleva al di sopra di quasi tutti i leaders dei paesi africani usciti dal colonialismo.
LA PERSONA
Era nato nel 1922 a Butiama, sulle sponde orientali del lago Vittoria, nella minuscola etnia zanaki. «Figlio di un capo – riderà un giorno di sé – indossai per la prima volta un vestito a dodici anni, quando mi portarono a scuola».
Recuperò in fretta gli anni perduti; si diplomò all’università di Makerere (Uganda) e, primo tanzaniano a studiare in una università britannica, si laureò a Edimburgo.
Fu a lungo insegnante di scuola secondaria nella missione cattolica di Pugu, dove affinò la sua dote più caratteristica: l’arte di comunicare con la gente con chiarezza e convinzione. Per tutta la vita vorrà essere chiamato mwalimu (maestro), definendosi tale per scelta, politico per caso.
A spingerlo nell’impegno politico furono i valori acquisiti con l’esperienza personale, la visione delle condizioni della sua gente, la profonda fede religiosa, le letture eclettiche fatte durante gli studi universitari.
Lavoratore instancabile, semplice e senza esigenze, Nyerere godeva di incontrare la gente; parlatore convinto ed efficace, la elettrizzava per ore con una loquela ricca d’immagini appropriate, proverbi e battute.
Il suo costante sorriso esprimeva affabilità, disponibilità e rispetto verso ogni persona che incontrava. Durante i festeggiamenti del saba saba (7 luglio, anniversario della fondazione del Tanu -Tanganyika African National Union), svoltisi a Iringa nel 1976, lo vidi lasciare il corteo presidenziale per salutare due missionarie della Consolata, conosciute anni prima in una scuola governativa: si fermò così a lungo che anche Samora Machel, presidente del Mozambico da poco indipendente e ospite d’onore, lasciò il corteo per parlare anche lui con le suore.
Cattolico praticante, confessione frequente e comunione spesso quotidiana, Nyerere si è fatto stimare per il rispetto verso ogni credo religioso. Parlando della sua fede, affermava che la scelta era maturata dopo un’attenta ricerca sulle varie religioni, finché si convinse che la chiesa cattolica rispondeva meglio alle sue esigenze spirituali.
Padre di otto figli, il mwalimu non spese mai una parola per assicurare loro alcun privilegio.
Non si riteneva un profeta; eppure si attribuiva una missione da vivere con onestà e passione. La componente cattolica non prevalse mai nella funzione di presidente; ma la forte componente ascetica lo portò, forse, a illudersi di poter chiedere alla sua gente livelli evangelici di dedizione irraggiungibili per la massa.
IL PARTITO UNICO
Accusato di essere antidemocratico, Nyerere affermava che il partito unico era una scelta obbligata: culturalmente impreparato alla democrazia, il paese avrebbe rischiato l’isterismo politico di altri stati africani, diventando facile preda di demagoghi abili nel cavalcare i malumori tribali o religiosi.
Il «serrate le file» del mwalimu trovava nel partito unico i presupposti per la stabilità del governo e l’accelerazione dello sviluppo economico. «Il modello tanzaniano per migliorare la qualità della vita della gente – sottolineava J. Marensin – è anzitutto un progetto politico, teso a creare l’indipendenza e unità del paese, per passare alla soluzione dei problemi a mano a mano che si presentano».
La democrazia vissuta in Tanzania non soddisfa certo i canoni di quelle occidentali, specie in fatto di libertà di stampa e opinione. Il modello di socialismo africano ha imbrigliato la democrazia tanzaniana con morse molto strette, ma l’ha anche tenuta in piedi. L’unione con Zanzibar (1964) non passò al vaglio di alcuna consultazione popolare, tuttavia riuscì a fermare i disordini cruenti provocati dall’odio fra diverse etnie. L’apparato del partito ha inevitabilmente influenzato le consultazioni popolari, ma esse si sono sempre svolte in un clima sereno e festoso.
Una macchia della democrazia tanzaniana furono le leggi sulla «detenzione preventiva», varate dopo un tentato colpo di stato; ma «anche nel periodo di maggior rigore non hanno toccato più di qualche centinaio di persone» (Marensin). Candidato presidente per la terza legislatura, Nyerere accettò con riluttanza, dichiarando che a renderlo perplesso era proprio quella legge antidemocratica, che non poteva ancora permettersi di abrogare.
Nel 1985 rinunciò volontariamente a ricandidarsi alla presidenza e nel 1990 si dimise da capo del partito, per dare spazio a idee ed energie nuove. Un gesto esemplare per il continente africano, dove autoproclamatisi presidenti a vita continuano a mantenere il potere mediante elezioni più o meno democratiche.
UJAMAA: FAMIGLIA ESTESA
Imposta al paese negli anni ’70, l’ujamaa era la traduzione tanzaniana del concetto di «socialismo» nella sua forma più accettabile, codificato nella «Dichiarazione di Arusha» (1967), magna charta del socialismo africano professato da Nyerere e dal partito unico. Alla base di tale scelta ideologica vi erano motivi politici, economici e culturali.
Motivo politico. Primo paese dell’Africa orientale ad avventurarsi sulle sabbie mobili dell’indipendenza, il Tanzania si sentiva accerchiato dal colonialismo portoghese e britannico ancora operante nei paesi limitrofi. In Sudafrica e Rhodesia cresceva l’oppressione dell’apartheid, con la copertura e connivenza del mondo occidentale. Sperare in un appoggio disinteressato dell’occidente era più che improponibile.
Motivo economico. Al momento dell’indipendenza, commercio e industrie del paese erano monopolio di asiatici, poco più di 100 mila, europei e un’esigua e ininfluente frangia africana. Per i militanti del Tanu la scelta socialista sembrava l’unica via per rompere tale accerchiamento economico.
Motivo culturale. Oltre che dalle letture sul capitalismo moderato e socialismo a sfondo cristiano, tale motivazione nasceva dalla personalità stessa di Nyerere. «Gli erano naturali l’etica aristocratica e la scarsa stima del denaro, propria delle etnie guerriere e pastorali da cui proveniva» (Marensin). Per questo trovò nell’ideale socialista la carica profetica che lo spingeva a guidare il paese verso l’indipendenza, l’unità, il progresso e il sistema socio-politico più vicino alla cultura e coinvolgimento comunitario della tradizione africana.
«Il socialismo, come la democrazia, è un atteggiamento dell’animo – scriveva nel suo libro Freedom and Unity -. Nella società socialista il requisito essenziale, perché la gente abbia a cuore il benessere vicendevole, è l’atteggiamento della mente, non la rigida adesione a un modello politico definito. Il fondamento e l’obiettivo del socialismo è l’estensione della famiglia. Il vero socialista africano non guarda a una classe di uomini come fratelli e all’altra come naturali nemici; egli guarda piuttosto a tutti come suoi fratelli, membri di una famiglia estesa».
CAMMINO DIFFICILE
«Secondo la Dichiarazione di Arusha – afferma Nyerere in Freedom and Socialism – scopo di ogni attività sociale, economica, politica deve essere l’uomo, il cittadino e tutti i cittadini di questa nazione. Produrre ricchezza è cosa buona e dobbiamo sforzarci di accrescerla. Ma non sarà più buona, appena la ricchezza cesserà di essere a servizio dell’uomo».
Strumento privilegiato per attuare questi ideali fu l’istruzione: per vari anni le venne destinato il 12% del bilancio statale. Il Tanzania diventò uno dei paesi africani col più alto livello di alfabetizzazione. Ma quando le scuole furono nazionalizzate, cominciò il degrado di strutture e standard d’insegnamento.
La ricerca di equilibrio fra privato e comunitario fu un problema spesso contraddittorio, come dimostra la storia delle cornoperative private. Incoraggiate fin dalla nascita del Tanu (1954) come strumento di progresso e dichiarate da Nyerere parte integrante della vita nazionale, all’inizio del 1970 Derek Bryceson, ministro dell’agricoltura, le definì strutture di latifondismo e fonti d’ineguaglianza. Abolite nel 1976, furono risuscitate nel 1983, per essere definitivamente smantellate dal processo di nazionalizzazione insieme alle banche, compagnie assicurative e grandi aziende.
Per Nyerere la «cornoperativa» dell’ujamaa restava la pietra angolare della politica di autosufficienza, strumento privilegiato di progresso economico. Negli anni 1967-69, il governo fece uno sforzo impressionante per dotare i villaggi di macchinari agricoli modei, che diventarono presto inutile ferraglia, per mancanza di tecnici e manutenzione. E per assicurare un adeguato guadagno ai contadini, fu creato l’ammasso dei prodotti agricoli di consumo ed esportazione; iniziativa scaduta a strumento fiscale a vantaggio del governo e del partito.
L’ujamaa doveva realizzarsi mediante l’adesione volontaria, nell’intenzione del mwalimu, convinto che si possa obbligare la gente a vivere in uno stesso villaggio, ma non a lavorare assieme. A partire dal 1974, però, il processo di «villaggizzazione», già avviato in alcune regioni, fu esteso forzatamente a tutto il paese.
Tale operazione non mancò di produrre effetti positivi, rendendo accessibili a tutti i servizi primari: acqua, scuola e dispensari. Ma sul momento impose notevoli sacrifici alla popolazione, in maggioranza riluttante alle fattorie collettive. Sotto l’aspetto economico fu un fallimento. La produzione agricola diminuì sensibilmente: molti terreni fertili furono abbandonati, perché troppo lontani dai nuovi insediamenti e quelli vicini richiedevano tempi lunghi prima di diventare produttivi.
La stagnazione economica fu aggravata da persistenti siccità e dalla crisi petrolifera: Nyerere dovette dar ordine di vuotare le banche per comprare le derrate.
Le difficoltà economiche sperimentate dagli anni ’70 in poi, mettono in dubbio la validità della politica economica di Nyerere, ma non sembra ci fossero valide alternative in un paese come il Tanzania, ricco di fauna e bellezze naturali, ma terribilmente avaro di risorse che permettano una rapida crescita economica.
GUERRA CONTRO AMIN
Verso la fine del 1978 il Tanzania fu inaspettatamente invaso dai soldati ugandesi di Idi Amin. La risposta di Nyerere fu immediata. L’esercito tanzaniano, insieme agli esuli ugandesi, cacciarono gli invasori, passarono le frontiere e conquistarono la capitale, Kampala, per liberare il paese dal regime del sanguinario dittatore.
La guerra contro l’Uganda è l’episodio più sconcertante della vita del mwalimu: uomo di pace, fu il primo statista africano dell’era postcoloniale a invadere un paese africano e conquistae la capitale. Più sorprendente fu la reazione internazionale: nonostante l’universale condanna delle atrocità commesse da Amin, il Tanzania fu lasciato solo nella dispendiosa impresa per sloggiare il dittatore. Anzi, molti paesi africani presero subito le distanze da Nyerere, rimproverandolo di violare i principi dell’Organizzazione di unità africana, e le potenze occidentali lo isolarono, considerando la sua avven- tura senza infamia e senza lode.
Eppure Nyerere diede al mondo un’esemplare lezione di affermazione dei diritti umani, come aveva fatto negli anni precedenti, offrendo asilo ai movimenti di liberazione in lotta contro il colonialismo portoghese e schierandosi in prima linea con i paesi contrari ai regimi razzisti del Sudafrica e Rhodesia.
Più che l’immagine di Nyerere, fu il paese a pagare il prezzo della guerra ugandese: il Tanzania ne uscì economicamente dissanguato e dovette chiedere aiuti al Fondo monetario internazionale (Fmi). La nazione cominciò a dipendere dagli aiuti stranieri più di ogni altro paese africano.
Tale richiesta fu dibattuta con acrimonia nel paese, poiché minava l’indipendenza autarchica per cui Nyerere si era battuto. Le drastiche misure imposte dall’Fmi (svalutazione monetaria, liberalizzazione dei prezzi e apertura delle frontiere alle importazioni) avrebbero aggravato la situazione dei più poveri, contadini soprattutto, a vantaggio dei soliti faccendieri.
Con la liberalizzazione saltò anche il codice etico del partito, ratificato dalla Dichiarazione di Arusha, che impediva a ministri e dirigenti di partito di approfittare del potere per scopi privati. La corruzione, poco appariscente sotto la presidenza del mwalimu, diventò sempre più rampante a mano a mano che la politica economica si apriva al libero mercato.
TANZANIA OGGI
Il potere d’acquisto del salario minimo rimane inchiodato a 12 dollari, come 20 anni fa. Con un reddito pro capite inferiore a 120 dollari l’anno, il Tanzania è tra i paesi più poveri del mondo. Tuttavia non bisogna dimenticare che buona parte delle esportazioni sfugge alle statistiche ufficiali: nel 1986 il 40% era l’esportazione del caffè e, a suo tempo, l’80% dell’avorio; oggi sono oro, cuoio, pelli a evadere il controllo statale.
Il paese ha accumulato un debito estero di circa 8 miliardi di dollari: cifra imponente per un paese di 30 milioni di abitanti con salari minimi tanto bassi. Tra i progetti controversi, realizzati con tale indebitamento, c’è la nuova capitale, Dodoma, costruita al centro geografico del paese: operazione più di facciata che di reale sviluppo. Eppure i mille chilometri di asfalto e altrettanti di ferrovia verso lo Zambia, a suo tempo contrastati dai paesi occidentali, si sono dimostrati provvidenziali per l’indipendenza dello Zimbabwe e, ancora oggi, indispensabili per il progresso del paese.
Alcuni progetti industriali, purtroppo, non sono mai entrati in funzione; altri non superano il 30% del potenziale produttivo. Colpa della corruzione intea, certamente; ma più colpevoli quei funzionari occidentali che hanno intascato buona parte delle somme destinate allo sviluppo di una nazione così povera.
La liberalizzazione sta trasformando Dar Es Salaam in un paese di cuccagna per addetti alle ambasciate, tecnici stranieri e pochi «fortunati» locali; vi si trova di tutto: fuoristrada, televisori, elettrodomestici, alcornolici e articoli di lusso. Ma per la gente povera non restano neppure le briciole di tanto benessere.
EREDITÀ DEL MWALIMU
Ritirandosi dalla vita politica, Nyerere aveva dichiarato: «Nonostante il fallimento, rimarrò sempre socialista, perché il socialismo è la migliore politica per un paese povero come il Tanzania». I suoi successori hanno sposato capitalismo e libero mercato; ma i benefici non si vedono.
Nonostante tutto, l’esperienza dell’ujamaa ha consolidato il senso di unità e solidarietà del popolo tanzaniano e rimane l’humus naturale per sperare in un futuro migliore. È il senso «della famiglia estesa» a far sì che un nucleo familiare di otto persone, con un unico stipendio, in una capanna di fango alla periferia di Dar Es Salaam, accolga e curi un parente tisico venuto dall’interno del paese.
Lo stesso spirito comunitario tiene viva la tradizione del pombe ya kulima (birra indigena per la coltivazione) nei villaggi, dove tutti gli abitanti si aiutano a vicenda nel lavoro agricolo e la famiglia proprietaria dei campi prepara il pombe in abbondanza, da consumare fra tutti in un clima di festa.
La solidarietà comunitaria rende naturale la partecipazione di tutti alla gioia o al lutto del singolo. È altrettanto spontaneo, passando accanto al vicino, togliergli la zappa di mano e sostituirlo per un momento nel lavoro.
L’ujamaa è morta… Viva l’ujamaa!

Giulio Belotti




I bambini della pace

Con alcuni studenti veneti e all’Assemblea dei popoli di Perugia, per rivendicare vita e serenità.

M onica Godoit, 17 anni, vive a Bogotá e con altri coetanei anima il Movimiento de los niños por la paz: un’organizzazione che si sforza di estirpare le radici culturali della violenza che sconvolge la Colombia. Sorto nel 1996, in quattro anni il Movimiento ha mobilitato qualche milione di minori, dai 6 ai 18 anni.
Insieme a Nydia Quiroz, responsabile in Colombia del Programma dell’Unicef «pace e diritti dei bambini», Monica è stata ospite del comune di Nervesa della Battaglia (TV). Ha poi partecipato alla III Assemblea dell’Onu dei popoli, svoltasi a Perugia il 23-25 settembre 1999, e alla marcia per la pace e giustizia «Perugia-Assisi» del 26 settembre.
Nydia e Monica sono state ospiti del nostro comune, anche perché a Nervesa opera padre Angelo Casadei. Questi ha studiato teologia a Bogotá, è stato animatore della campagna «Non di sola coca» e cornordina i «Laici Missioni Consolata» (Milaico).
Negli scorsi anni Milaico ha organizzato alcune esperienze missionarie in Colombia, ponendo i presupposti per un incontro con los niños por la paz.

Monica, dolcissima
nel suo spagnolo, ha incontrato gli studenti delle scuole medie di Nervesa e Giavera, mettendoli bruscamente a confronto con la tragedia quotidiana dei loro coetanei colombiani. Ragazzi che non possono giocare all’aperto per paura di sparatorie e sequestri, arruolati con forza nelle formazioni guerrigliere, straziati da mine, sfollati con le loro famiglie per non creare ostacoli al lucroso traffico della cocaina e degli smeraldi.
I bambini, fino al 1996, non hanno avuto l’opportunità di far sentire la loro voce; oggi, grazie al Movimiento, sono diventati interlocutori del presidente Andrés Pastrana, del segretario dell’Onu Kofi Annan, dei premi Nobel per la pace Rigoberta Menchú e José Ramos Horta. Bambini che, a loro volta, sono candidati al Nobel.
L’arma vincente del Movimiento è la fantasia. Nel 1996 i bambini si sono imposti all’opinione pubblica inventandosi una autentica consultazione elettorale, con la quale oltre 2.700.000 minori hanno impegnato il governo colombiano nell’attuare i diritti sanciti dalla Dichiarazione universale del fanciullo. Mette i brividi pensare che i diritti più invocati (perché più calpestati) sono quelli alla vita e alla pace.
L’esempio è stato contagioso. Alle elezioni del presidente del 1997 ben 10 milioni di adulti hanno accettato di inserire nell’ua, insieme alla scheda ufficiale, un foglio verde che invocava la pace e lo stop all’uso dei minori nei conflitti. Nel clima di intimidazione che si respira in Colombia, l’opinione pubblica non aveva mai così massicciamente detto no alla violenza.
Negli incontri a scuola e in quello pubblico a Treviso, Monica ha ripetuto che i mali del suo paese sono la paura e l’indifferenza. La paura è dei colombiani, nella stragrande maggioranza stanchi della situazione, eppure incapaci di contrastare chi della violenza ha fatto un business; l’indifferenza è del nord del mondo, che fa troppo poco per aiutarli ad uscire dal vicolo cieco.
L’innocenza dei bambini costringe al confronto con verità scomode. Monica ha paragonato la Colombia ad un dedito machucado, un ditino del piede calpestato. La sofferenza dovrebbe ripercuotersi sul corpo intero, ossia sulla comunità internazionale. Invece, inspiegabilmente, il ditino soffre da solo!

Con Gianni De Lorenzi,
ho accompagnato Monica a Perugia per la III Assemblea dell’Onu dei popoli, incentrata su «Il ruolo della società globale e delle comunità locali per la pace, l’economia di giustizia e la democrazia internazionale».
L’Assemblea ha offerto spunti preziosi di riflessione sul ruolo che anche un piccolo comune può assumere nella cooperazione decentrata. Dall’Afghanistan al Tibet, dal Sahara spagnolo al Nicaragua, dalla Cecenia all’Algeria, oltre 140 rappresentanti (insegnanti, sindacalisti, attivisti per i diritti umani, amministratori, ecc.) hanno presentato uno spaccato desolante del fardello di ingiustizie che il mondo porta con sé. Partecipando al gruppo di lavoro sulla pace, abbiamo trovato conferma alle nostre perplessità sull’intervento della Nato in Kosovo.
Oggi le guerre sono prevalentemente intee agli stati. Guatemala e Rwanda (per citare due casi) insegnano che imporre il «cessate il fuoco» con la forza non basta.
Indispensabile è il processo di pacificazione nazionale, stabilendo la verità su quanto è successo e individuando le responsabilità. È un processo lungo e difficile (che nemmeno il Sudafrica di Mandela ha del tutto completato), che non ha nulla a che fare con i bombardamenti indiscriminati descrittici dal sindaco di Panchevo (Serbia).
Non sono mancati segnali di speranza: ad esempio, vedere il rappresentante di Timor Est e quello dell’Indonesia condividere ogni momento della manifestazione.
Monica ha seguito i lavori dell’Assemblea con grande responsabilità. Con l’orgoglio di un padre, l’ho sentita affermare le sue ragioni davanti al presidente della Camera Luciano Violante e ai delegati inteazionali. Ha ottenuto emendamenti al documento finale, da presentarsi all’Assemblea generale dell’Onu, affinché sia chiaro che i bambini non rappresentano solo il futuro, ma anche il presente. Pertanto rivendicano subito un’esistenza dignitosa.

Nydia Quiroz ha vigilato
su Monica come una mamma, verificando la destinazione delle interviste che la ragazza ha rilasciato, perché «in Colombia chi lavora per la pace diventa un obiettivo militare».
Nydia, psicologa, in passato si è occupata dei bambini coinvolti nei conflitti del Mozambico e Salvador. Passeggiando fra i viottoli di Assisi abbiamo parlato, in stridente contrasto con la pace circostante, dei bambini sconvolti per avere assistito al massacro della propria famiglia, utilizzati come cavie per scoprire i campi minati o costretti ad uccidere per dimostrarsi utili alla guerriglia, e non essere a loro volta uccisi.
Nydia ha illustrato le tecniche di riabilitazione: si impiegano giocattoli e disegni per dar sfogo all’angoscia nelle coscienze dei ragazzi. Ma esistono coetanei che, in mancanza di strutture e personale specializzato, si improvvisano essi stessi terapeuti per confortare i traumatizzati.
Abbiamo scelto per il commiato la sacralità di san Damiano, con la speranza che la pace di «Francesco» possa giungere anche in Colombia.
Monica ha ripetuto la richiesta fatta ai ragazzi di Nervesa e Giavera: «Non lasciate che la Colombia sia dipinta solo in termini di violenza e narcotraffico. Aiutateci a testimoniare che c’è anche tanta gente meravigliosa che vuol vivere in pace».
Buena suerte niña.

Francesco Tartini




DOSSIER GIUDIZI E PREGIUDZITu pensi e io penso. Ma chi ci crede?

Dunque il 24 ottobre 1998 la rivista
«Missioni Consolata» ha compiuto 100 anni.
L’anniversario è stato celebrato a Torino con il Convegno«Il Sud del mondo fra giudizi e pregiudizi».

I relatori:un economista di Torino,
una pedagoga del Brasile,un esponente
della Comunità sant’Egidio (Roma),
un opinionista de «La Stampa»,
un rettore di università (Mozambico).
Offriamo una sintesi dei loro interventie del dibattito
con il pubblico.

Daniele Ciravegna,
preside di «Economia e commercio» (Torino)

I CIRCOLI del VIZIO

È necessaria una rivoluzione culturale.

C’ è una frattura fra Nord e Sud del mondo, perché il primo è sviluppato e il secondo sottosviluppato. Esiste una soluzione del problema? Si stenta a trovarla, perché nei paesi sottosviluppati «la povertà si autornalimenta».
Siamo di fronte ad una situazione in cui le nazioni povere sono incapaci di produrre beni sufficienti per avere un buon tenore di vita. Quando la bassa produzione pro-capite non permette di ottenere nemmeno il minimo per sopravvivere, è evidente che scarseggino le risorse per gli investimenti.
E, se non si investe o si investe poco, si ottiene pure poco e lo si consuma tutto. Quindi non resta nulla da investire.
Come uscire dal circolo vizioso? Attraverso accordi inteazionali di cooperazione allo sviluppo o l’entrata di risorse per creare investimenti, senza deprimere i consumi interni già bassi.
E come pagare le risorse estee? Con l’esportazione di propri prodotti. Però, così facendo, non si risolve il problema: infatti, se non si possono comprimere i consumi interni, c’è poco da esportare. Allora l’unico modo per avere risorse è di non pagarle o di non pagarle subito: quindi ottenere trasferimenti di beni e regalie del Nord. Ma anche questo non è facile, perché il Nord non ha acquisito la mentalità di dover contribuire alla sviluppo del Sud, senza chiedere una contropartita. Il Nord si è proposto di destinare lo 0,7% del prodotto interno lordo allo sviluppo del Sud. Ma ciò non avviene.
Stando così le cose, si è imboccata un’altra strada: permettere ai paesi del Sud di acquisire risorse senza pagarle subito, cioè indebitandosi. Qui sorge un ennesimo problema: se il debito non verrà cancellato, fra 5-10 anni bisognerà trovare dei beni per restituirlo.
Se le risorse ottenute vengono investite nel Sud in modo produttivo, fra 5-10 anni esse potranno essere pagate; ma, se il loro impiego è stato improduttivo (si pensi agli sprechi in armamenti), il debito contratto non potrà essere rimborsato al tempo stabilito. Allora si rinvia ancora il pagamento. A questo punto si può intervenire cancellando tout court i debiti: ciò significa regalare i beni, anziché subito, dopo alcuni anni. Qui pure c’è un limite, perché il Nord non è disponibile a investire risorse a fondo perduto.
Come si situa la globalizzazione
economica in questo contesto? Essa ha aspetti positivi e negativi. È positivo che i beni si vendano e si comprino liberamente. Ma questo riguarda soprattutto le economie a un buon livello di sviluppo, che possono cedere beni per acquisie altri. Ne ricavano vantaggi le economie specializzate.
La globalizzazione crea anche difficoltà, perché l’apertura economica internazionale può causare il fallimento delle attività intee non sufficientemente protette. Se globalizzazione vuol dire «liberalizzazione selvaggia», le economie povere ne fanno le spese. Quindi la globalizzazione deve essere controllata.
Questo è evidente nel campo finanziario. Qui gli scambi sono cospicui; ciò di per sé non è negativo, ma lo diventa se si evade ogni controllo delle autorità governative. Gli effetti deleteri si verificano quando ci si avvale dei «paradisi fiscali», che proteggono scambi finanziari illeciti. Esistono «paradisi fiscali» anche nei paesi in via di sviluppo, dove è facile pulire o riciclare i «soldi sporchi» del narcotraffico o del commercio di armi.
Se la circolazione di denaro è senza controlli, è facile corrompere la classe politica. Alcuni narcotrafficanti hanno dichiarato di aver finanziato (furbescamente) sia il partito A sia il partito B: quindi, qualunque partito vinca, per loro va sempre bene.
Senza un controllo super-nazionale (e qui l’Onu è chiamata in causa), si crea una spirale perversa: si ricicla denaro sporco in un paese, si corrompono le persone influenti, per continuare a livelli sempre più alti, complice il sottosviluppo.
Come spezzare la spirale?
Soltanto in un modo: puntare sulla qualificazione morale e culturale della gente. In altre parole: bisogna investire sul capitale umano.
Se consideriamo solo il risultato finale materiale («ho prodotto tanto», «ho prodotto poco»), non abbiamo capito l’essenza della questione: questa non sta nel produrre tanto o poco, ma nel compiere una «rivoluzione culturale». È una rivoluzione fatta di investimenti nella formazione morale, sociale, economica.
Cito il caso della Colombia, con l’azione dei missionari della Consolata contro «la cultura della coca» attraverso le fattorie familiari amazzoniche e il progetto dell’università «Allamano». Il comune denominatore di queste iniziative è: un programma educativo, morale ed economico.
Se non si investe in questo modo, non si pone fine al problema scandaloso del sottosviluppo nel Sud del mondo.

Theí de Almeida Vianna,
rifugiata politica e pedagoga (Brasile)

POVERTÀ o INGIUSTIZIA?

Missionari per i politici.

Io vengo dal Brasile, un paese di 8.511.000 chilometri quadrati e 170 milioni di abitanti. È l’ottava potenza economica del mondo: primo in caffè, frutta e soia; secondo in apparati di aria condizionata; sesto in riso; settimo in oro, ventesimo nel petrolio e gas naturale. Dunque vengo da un paese ricco, dove la gente vive in case con bagni faraonici. E come mai ci sono i bambini di strada? Perché le favelas? Perché la vita vale zero?
Quando il professore Ciravegna parlava del Nord e Sud del mondo, io pensavo al mio paese, dove le zone di ricchezza e povertà sono capovolte: il sud è ricco, mentre nel nord la gente dorme anche per strada e, talora, muore di fame. Allora il Brasile non è sottosviluppato: è un paese ingiusto. Chi ha detto questo è il presidente Enrique Cardoso.
Io, però, devo badare a come parlo, perché sono una rifugiata politica e ho intenzione di ritornare in patria.
Un aneddoto.
Dio, nel creare il mondo, disse ad un angelo: «Fa’ scorrere questo fiume maestoso in Brasile». Poi: «Scarica i terremoti e le gelate in Europa, ma pianta questi alberi maestosi in Amazzonia e riempi la terra di minerali preziosi…». L’angelo interruppe: «Scusa, Signore! Perché al Brasile dai solo cose belle e agli altri cose brutte?». E Dio: «Ma tu non sai che razza di politici io metterò in quel paese!». Ecco perché il problema del Brasile non è la povertà, ma l’ingiustizia.
Giunta in Italia, ho notato tanti pregiudizi, anche perché non si conosce il Brasile. Numerosi italiani dicevano: «Tu sei proprio brasiliana? Non sei mica nera!». Oppure: «Voi mangiate sempre con le mani, senza posate?».
Però perché l’ingiustizia fra nord e sud del Brasile? Perché siamo stati una colonia del Portogallo. Quando il Brasile fu «scoperto», il territorio venne diviso in capitanias, in feudi, assegnati agli amici del re. Ancora oggi esistono baroni, colonnelli e politici discendenti dalle prime famiglie: tutti grandi proprietari terrieri.
La colonizzazione del Brasile è stata diversa da quella dell’America del nord: gli inglesi sono emigrati negli Stati Uniti per restarci; invece i portoghesi sono venuti da noi per arricchirsi e poi ritornare a casa. Qui, sì, che si dovrebbe parlare di restituzione: ridare ai brasiliani ciò che fu preso tanti anni fa.
Dopo la conquista, la schiavitù. I portoghesi obbligavano gli indios a lavorare la terra; ma questi, piuttosto, si lasciavano morire. Così si importarono schiavi dall’Africa.
Il 13 maggio 1888 la regina Isabella abolì la schiavitù, perché non era più economicamente redditizia. Così milioni di persone che, fino a poco tempo prima (pur nella schiavitù), avevano una casa e una porzione sicura di cibo, dal detto al fatto si sono trovati sulla strada. E dove sono finiti? Alcuni hanno iniziato le favelas. Chi le ha viste sa che lì i bianchi sono rari. I residenti in favelas sono i nipoti e i pronipoti degli schiavi buttati sulla strada nel 1888. E dire che, talora, gli schiavi avevano più cultura, erano più civilizzati dei loro padroni!
Il contributo economico che l’Africa ha dato al Brasile è stato alto e se ne vedono ancora i risultati. Ad esempio: chi lavora nelle miniere di Minas Gerais? chi raccoglie il cotone nel nord-est? Sono soprattutto gli afrobrasiliani.

Matteo Zuppi,
esponente della Comunità
di sant’Egidio (Roma)

COOPERAZIONE in PANNE

Investire nella pace.
A proposito dei latifondisti,
ricordate Chico Mendes? Egli era contro la strada transamazzonica, che favoriva Olacyr Ribeiro, il «re della soia». Mendes fu ucciso nel 1988, tre giorni prima di natale. Allora presidente del Brasile era Collor De Mello, discendente ricchissimo dei portoghesi. Il 22 dicembre 1988 la tivù Globo di Roberto Marinho (la cui figlia è stata la prima moglie di Collor) trasmetteva la telenovela Valitudo, tutta centrata sull’uccisione del personaggio Odette Reutman. Il giorno seguente tutti i giornali titolavano: «Chi ha ucciso Odette?». E nessuno si chiese chi avesse amazzato Chico Mendes.
Collor De Mello, Marinho e altri fanno parte dell’élite che continua a sfruttare il nord-est brasiliano, l’Amazzonia… ma nessuno dice niente. Anzi, la moglie di Collor ha preso i soldi dalla «Legione di assistenza» e la cugina è sparita con i soldi delle «merende scolastiche».
Il Brasile ha bisogno di una rivoluzione morale. Per farla, si dovrebbe predicare il vangelo specialmente ai politici. Certo, qualcosa si sta facendo. Ma sono ancora troppi i brasiliani che vivono in «una gabbia dorata»: non vogliono vedere ciò che c’è fuori.
Allora ai missionari della Consolata dico: «Andate pure fra gli indios yanomami. Ma, por favor, andate soprattutto a Brasilia, sede del potere politico!».
Grazie a Missioni Consolata, 100 anni fa c’era un sogno: quello di stabilire un rapporto con il Sud del mondo. Oggi, invece, chi sogna di investire energie umane nel terzo mondo?
L’Europa ha ridotto la cooperazione allo sviluppo ai minimi termini. In Italia la cooperazione, in questi ultimi anni, è passata da 5.000 a 500 miliardi di lire. E buona parte di questo denaro viene gestito da organismi inteazionali, che ne spendono il 50-70% per mantenere il loro «baraccone»!
La crisi della cooperazione allo sviluppo è la spia di un disagio più profondo, dovuto anche alla globalizzazione: il liberismo economico ha schiacciato la cooperazione, specie in Africa. Tuttavia il viaggio di Clinton in questo continente, nel 1998, ha ridestato la speranza. Finalmente l’Africa – si diceva – sta invertendo la tendenza e può risorgere dalle ceneri.
Ci sarebbe un’Africa diversa con nuovi dirigenti; i vecchi dittatori, come Mobutu, sono stati cacciati. Ora si può trattare con le nazioni africane da pari a pari. «Se farete funzionare l’economia, saremo vostri partners»: questo in poche parole il succo del discorso di Clinton in Africa.
Ma si è ricaduti nel pessimismo,
perché i nuovi capi africani fanno la guerra come quelli vecchi: si pensi a Kabila in Congo, all’Etiopia, all’Eritrea…
Questo solleva il problema delle guerre, che in Africa sono tante, interminabili e tragiche: 30 dal 1970 al 1996. Solo nel 1996 erano ben 14 i conflitti aperti su 53 paesi, e da allora ne sono sorti altri, senza chiudee quasi nessuno. C’è però il caso positivo (forse unico) del Mozambico, che ha saputo giungere alla pace.
Di fronte alla guerra, c’è l’incapacità della comunità internazionale di occuparsene. L’azione delle Nazioni Unite in Somalia ha fatto passare la voglia di intervenire nei conflitti africani: sono parole del segretario Kofi Annan in un rapporto al Consiglio di sicurezza nell’aprile 1998. Oggi si tenta di delegare agli stessi africani la soluzione dei conflitti. Ed è giusto, perché gli africani devono essere i primi interlocutori dei loro problemi. Però…
Per l’occidente questo potrebbe essere anche un atteggiamento di comodo, perché consente di lavarsi le mani e di… chiudere «la porta del Mediterraneo». Inoltre tale distacco dai conflitti è ipocrita, laddove ci sono stati condizionamenti economici e militari molto pesanti. Ciò vale per l’Africa, come per tanti paesi del terzo mondo.
Una proposta: per vivere in pace, bisogna investire nella pace anche in termini economici. La pace, come la guerra, è un mercato: bisogna investirci affinché diventi un «affare utile». Le repressioni contro le guerriglie non risolvono i problemi che vi si nascondono.
Una guerriglia, in una situazione di povertà, come può diventare un partito politico legale senza un investimento economico contro il degrado sociale? Missioni Consolata lo sa bene, allorché ha lanciato la Campagna contro il narcotraffico in Colombia.
Investire nella pace
significa rilanciare la cooperazione internazionale allo sviluppo con strumenti efficaci e in una luce nuova, che non sia quella del mero profitto economico! Una cooperazione che investa sulla scuola. Al riguardo la cooperazione italiana è assolutamente latitante. Se non si investe nell’educazione, ci sarà sempre un’Africa incapace di soddisfare le esigenze dei suoi abitanti, molti dei quali fuggono altrove.
Ultima considerazione: un comune destino lega il Nord al Sud, e viceversa. Missioni Consolata, 100 anni fa, ha incominciato a guardare al mondo. Oggi, per non essere un’aquila divenuta pollo, ricorda che la giustizia non è un optional, che la restituzione ai poveri non è buonismo, che il condono del debito estero del Sud non è benigna concessione del Nord. È, invece, una esigenza etica che coinvolge il Nord come il Sud.
Dobbiamo essere grati ai missionari che ce lo ricordano. Essi, inoltre, fanno conoscere il Sud del mondo non con giudizi e pregiudizi, ma nella sua realtà.

Igor Man,
opinionista de «La Stampa»

l’ISLÀM è… LEGGE

Bisogno di «tenerezza».

Teheran, 8 settembre 1978. In Iran regnava ancora lo scià. Ma le manifestazioni contro di lui ammassavano gente a centinaia di migliaia. Quel giorno, in piazza Zhalé, arrivò un colonnello in jeep. Ai giornalisti disse: «Se non ve ne andate, do ordine di sparare. Allora assistei ad una scena incredibile: alcuni iraniani si sedettero davanti alla jeep e dissero: «Fratello, se hai coraggio, spara». Sparò. Seguì una strage di 10 mila persone.
Teheran, 29 gennaio 1979. Incalzato da milioni di persone, lo scià aveva lasciato il paese il 17 gennaio. La rivoluzione, teleguidata da Khomeini, aveva vinto una battaglia, ma non la guerra. La cacciata dello scià aveva incattivito gli ufficiali dell’esercito, perché numerosi soldati se ne tornavano a casa.
Quel 29 gennaio, mentre gli studenti protestavano, passò una colonna di pretoriani ancora fedeli allo scià, sparando alla cieca. Io fui ferito. Qualcuno chiamò un’ambulanza. Intanto gli sgherri continuavano a sparare.
Incuranti dei colpi, umili cittadini crearono attorno a me e a un collega francese una sorta di trincea: ci protessero con i loro corpi. Più tardi, nel lasciare l’ospedale, espressi gratitudine, ma anche stupore, a chi aveva rischiato la vita per uno straniero, un cristiano. Un piccolo borghese rispose: «I credenti sono tutti fratelli». Era una citazione del corano, sura 49, versetto 10.
In pieno materialismo,
quando tutti vogliamo subito la ricchezza facile, esiste ancora gente disposta a rischiare la pelle per uno sconosciuto, solo perché «i credenti sono tutti fratelli».
Mi domando: è possibile il dialogo interreligioso? Esso è voluto da Giovanni Paolo II, specialmente dopo l’incontro di Assisi, nel 1987, di numerosi capi religiosi. Il santo padre insiste molto anche sul dialogo fra islàm e cristianesimo.
Non sono poche le consonanze fra le due religioni. Numerose sure del corano riecheggiano il vangelo: si esalta la verginità feconda della Madonna, si riconosce in Isa (Gesù) un santo profeta. Però qui cade la prima mannaia; eccola nelle parole di Raimondo Lullo: «I saraceni credono che il Signore nostro Gesù Cristo è figlio di Dio, ma non credono che egli sia Dio».
Islàm e cristianesimo hanno in comune il Dio unico, trascendente, creatore, retributore. Ma fra cristianesimo e islàm esistono pure linee nette di separazione. Per il cristiano Dio si è rivelato in Cristo Gesù, redentore dell’umanità, che ha fondato la chiesa come suo prolungamento. Da Cristo proviene ogni grazia.
Per l’islam Dio rivela la sua parola, ma non se stesso. Egli resta inaccessibile. L’unica mediazione tra Dio e l’uomo è il corano, dove l’individuo può accostarsi ad Allah, subie la potenza e godee la misericordia. Muhammad è solo un profeta. Ancora: nell’islam solo i puri, gli ortodossi, hanno la verità. C’è l’imam (capo religioso) e, quindi, l’interpretazione della sharia (legge).
Qui cade la seconda mannaia: la sharia appunto. Se infatti, secondo il corano, i cristiani e musulmani potrebbero trovare un punto d’incontro, la sharia blocca ogni sistema di vasi comunicanti. La sharia è un insieme di regole con le quali i califfi, dopo Muhammad, hanno affermato il loro potere. Gli attuali epigoni dei califfi sono alcuni leaders arabi.
Sulla «sharia»
Hussein Hamed Amr, musulmano egiziano, nel 1987 scrisse: «La maggioranza dei musulmani crede che le disposizioni della sharia siano tali e quali a quanto sancito dal corano e dalla sunna, identiche a come le lasciò il profeta; chi invece studia la storia dell’islam comprende che la sharia è un palazzo, i cui molti piani sono stati costruiti, uno dopo l’altro, lungo i secoli in funzione della società e delle esigenze dei califfi o tiranni».
Di più: in molti paesi islamici, accanto alla giurisdizione ordinaria, se ne è formata un’altra extra ordinem dei sovrani. L’indipendenza del giudice non esiste, limitata dal califfo che incarna il potere giudiziario.
Il difficile dialogo tra islam e cristianesimo ha bisogno di un aiuto, che sta nel creare posti di lavoro e nella comprensione.
Una volta i vu’ cumprà in Europa cercavano di farsi assimilare; oggi, dopo il risveglio islamico, sanno di appartenere ad una grande cultura-religione; chiedono rispetto, la moschea…
E la nostra società non è preparata: da ciò incomprensioni, attriti, razzismi. Ritengo che dobbiamo ripensare il nostro modello di vita e rinunziare a molte presunzioni.
Un grande africano, benché controverso, Ben Bella, mi diceva: «Il Sud del mondo ha anche bisogno di tenerezza». Voleva dire: se non lo comprenderemo, un giorno ci chiederà il conto.

Filipe José Couto,
rettore dell’università cattolica (Mozambico)

RICORDO E DIMENTICO

L’università della ricostruzione

Oltre trent’anni fa su Missioni Consolata è apparso un mio articolo… Io, che sono del terzo mondo, ho avuto la possibilità di scrivere quello che pensavo. Successivamente, durante la guerra civile in Mozambico, ho espresso delle opinioni scomode; ma la rivista le ha riportate, pur con la nota: «Quanto affermato da padre Couto non corrisponde in tutto al pensiero della redazione». Questo fa onore a Missioni Consolata, perché non ha avuto pregiudizi: è stata ed è una rivista dove tutti si esprimono liberamente.
Ora dovrei parlare dei pregiudizi che, come africano, ho incontrato in Portogallo, Italia, Germania e Inghilterra, dove ho studiato e insegnato. Dico subito che molti africani non concordano su quanto sto per affermare. Però lo dico ugualmente, perché è la mia esperienza.
Io non ho subìto grandi pregiudizi. Se dicessi che nei paesi sopra ricordati sono stato trattato male, direi il falso. Se sono arrivato ad avere una laurea in filosofia e teologia, lo devo all’Italia e Germania.
Però c’è stato un fatto: quando io ragionavo «in un certo modo», mi sentivo dire: «Tu non sei africano!». Quando il mio ragionamento filava e capivo san Tommaso o Kant, molti commentavano: «Tu non sei africano!».
Questo è stato ciò che più mi ha fatto male. Perché? Perché gli uomini e le donne, in ogni parte del mondo, sono uguali. Non esiste una razza superiore o inferiore all’altra. Devo, però, precisare che la frase «tu non sei africano» non nascondeva malizia: gli italiani o i tedeschi la dicevano solo perché erano abituati ad africani che ragionavano in un modo diverso.
Per loro io rappresentavo un’eccezione.
Anche noi, africani,
abbiamo qualche pregiudizio. Da alcuni anni, sulla bocca di tutti, circola la parola «inculturazione». Ma io non la uso più, perché l’inculturazione può giustificare i nostri ritardi… Non lo dobbiamo accettare, se vogliamo contribuire alla costruzione o ricostruzione di una società africana diversa. Se siamo uguali a tutti (e lo siamo!), dobbiamo anche «correre», perché questo fa parte della vita.
Secondo un poeta del Tanzania, «kukumbuka ni wajibu, kusahau ni faraja», che significa: ricordarsi del passato (quindi dei pregiudizi e di quanto si è sofferto) è un dovere; tuttavia dimenticare è un conforto. Noi africani dobbiamo dimenticare che siamo stati sfruttati e colonizzati, per essere più propositivi. E smettiamola di giocare il ruolo dei «poverini», facendo i mendicanti!
Detto questo sui pregiudizi,
parlo dei missionari della Consolata. Secondo lo stile del fondatore, il beato Giuseppe Allamano, essi sono stati molto concreti nell’emancipazione dei popoli. Giunti in Mozambico nel 1926, hanno incominciato l’attività nel Nyassa, nel nord del paese. Oggi qui si è verificato un fatto meraviglioso.
Dopo la guerra civile, chi ha mediato tra il Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico) e la Renamo (Resistenza nazionale mozambicana)? È stato Brazão Mazula, ex missionario della Consolata. È stato lui il mediatore del processo di pace: don Matteo Zuppi può dirlo. Al presente Mazula è rettore dell’università statale. Poi c’è Carlos Machili, un altro ex missionario della Consolata, che è preside della facoltà di pedagogia. E ci sono anch’io, rettore dell’università cattolica, con padre Francesco Ponsi, vicerettore, e padre Bruno Pipino, professore. Siamo tutti missionari della Consolata.
Questi sono alcuni frutti dell’opera dei nostri missionari, che hanno lavorato e lavorano per la ricostruzione del Mozambico, sfruttato dal colonialismo e dilaniato dalla guerra civile.
L’Allamano diceva: il bene, anche se è poco, bisogna farlo bene affinché cresca. Ebbene, l’università cattolica, dopo tre anni di vita, ha compiuto passi da gigante: c’è la facoltà di economia e commercio a Beira; c’è la facoltà di diritto e educazione a Nampula; si è aperta la facoltà di agricoltura nel Nyassa, dalla quale troveranno giovamento oltre cinque milioni di contadini. Fra poco avremo anche la facoltà completa di medicina.
In questi tre anni gli studenti sono passati da 90 a circa 577: e tutti pagano 500 dollari. All’inizio è stato duro, perché numerosi studenti dicevano: «Signor rettore, noi non possiamo pagare 500 dollari, perché siamo poveri». Al che io rispondevo: «Se siamo poveri, non dobbiamo diventare anche accattoni». Hanno capito.
Nonostante gli errori del passato, credo che la chiesa e i missionari possano e debbano ancora fare molto per la cooperazione tra i popoli del Nord e Sud del mondo, affinché ci sia una società più giusta e fratea.

aa.vv




La pulce penetrante di Gesù

L’ Africa non cessa di sorprendere. Nonostante i crescenti problemi, fa di tutto per sopravvivere, anzi per danzare la vita.
Lo scorso anno, in Etiopia, per un corso di aggioamento ai religiosi e al clero, presi lo spunto da un disegno di un artista africano intitolato: «Il Cristo che ride».
Oggi in Tanzania, per sviluppare il tema della salvezza, mi avvalgo come ispirazione del presepio allestito dai missionari della Consolata nella loro casa-procura di Dar es Salaam. Si tratta di una scultura, che si dispiega in uno stupendo groviglio di corpi scolpiti nell’ebano («maconde»), plasticamente culminante in una culla: vi riposa il bambino Gesù, che si massaggia un piede con il particolare atteggiamento che prelude… al sonno. «Dormire è bello – commenta un giovane africano -, dormire e sognare».
Interessante anche l’osservazione di un missionario della Consolata su quel divino infante: «Si sta togliendo una pulce penetrante. Povero Cristo! Ha sperimentato di tutto sulla terra».
I vangeli canonici non ci parlano di pulci penetranti; forse gli apocrifi… San Paolo afferma che, attraverso la sofferenza, il figlio di Dio ha capito che cosa significa essere figlio dell’uomo. E a tutti ha offerto la salvezza.
Anche alla pulce penetrante? Se questa non viene tolta subito, porta a complicanze irreparabili. Presa in tempo, è facilmente eliminabile, come fosse uno scherzo, un gioco da bambini.

«I l sorriso» e «il massaggio del piede»: due immagini che ci parlano dell’arte di ridimensionare ogni cosa, mantenendo un sostanziale ottimismo. Questo atteggiamento, tipico di molti africani, è riscontrabile anche in Tanzania, paese dai mille problemi, sapientemente affrontati con calma uno dopo l’altro, oppure rimandati in attesa di tempi migliori… quando a Dio piacerà.
L’arte di ridimensionare tutto non va confusa con la superficialità né, tanto meno, con il cinismo. Quando il peso della sofferenza è eccessivo e il lavoro per salvare il salvabile cozza contro una serie di fallimenti, è facile scoraggiarsi e sembrare indifferenti al dolore.
Se nell’ospedale di Ikonda, nel sud del Tanzania, durante il fine-settimana muoiono otto pazienti, in prevalenza giovani e tutti a causa dell’Aids, diventa indispensabile radunare gli infermieri e cercare insieme le ragioni per motivare ancora l’impegno al servizio della vita: anziché contare i decessi, si ricordano perciò i successi ottenuti. In ospedale la gente (non abituata agli antibiotici), con poche pastiglie ritrova condizioni di vita accettabili, mentre se fosse rimasta al villaggio, priva di medicinali o con le sole cure del «dottore tradizionale» (stregone), sarebbe morta in tempi brevissimi.
Ridimensionare, in questo caso, significa trasferire tutto in una nuova dimensione: non lasciarsi sopraffare dall’angoscia e dal senso d’impotenza, ma sentirsi orgogliosi delle vite salvate o che si è tentato di salvare.
L’arte del ridimensionare è teorizzata dall’arcivescovo di Dar es Salaam, Polycarp Pengo, ed è vissuta da lui con la spontaneità di un bambino. Dice: «Bisogna ridimensionare ogni cosa, sforzandosi di vedere prevalentemente le cose belle».
Il bambino attualizza il ridimensionamento e lo mette in pratica attraverso un rito che non ho mai visto in altre parti dell’Africa. Dai tre ai sette anni, i piccoli salutano i grandi ponendo la manina sulla testa degli adulti e ripetendo più volte: «Sono ai tuoi piedi». Per lasciarsi toccare la testa, il grande deve abbassarsi al livello del piccolo e, così facendo, si ridimensiona. Forse chi è coinvolto in questo gesto non ne apprezza a sufficienza la portata. Ma, visto dall’esterno, è molto significativo.
I bambini della scuola matea l’hanno ripetuto più volte anche con me e mia nipote Maria Rosa Lorini, coautrice di questo dossier. C’è da augurarsi che non vada perduto con il passare del tempo e il sovrapporsi delle culture.

C’ è pure da sperare che i tanzaniani mantengano inalterati i valori, ribaditi con forza da Julius Nyerere, il «maestro» per antonomasia del Tanzania.
Visitiamo questo paese ad un anno circa dalla sua morte, anche con l’intento di capire quale ricordo abbia conservato la gente di quest’uomo amante della giustizia, cattolico, convinto del valore della fede, vista pure come mezzo per motivare ulteriormente l’impegno politico.
Anche Nyerere è stato un esperto nel coinvolgere i suoi concittadini nell’arte di ridimensionare tutto: per lui si basava sulla familiarità con il pensiero di Dio, la nascita e la morte. Dava per scontata la vita eterna; considerava quella terrena il bene più grande, affidatoci dal Creatore, e aiutava il suo popolo a vedere ogni realtà nella giusta prospettiva.
E, mentre non usava mezzi termini nel denunziare lo sfruttamento dell’occidente nei confronti dell’Africa, invitava i popoli del continente a convivere in pace, senza sognare l’impossibile, ma vivendo una povertà dignitosa, cercando di essere liberi, autosufficienti e capaci di governarsi gestendo con intelligenza le risorse a loro disposizione.

P iù che riportare le mie impressioni o analisi, nel presente dossier preferisco, con Maria Rosa, cedere la parola ai missionari che stanno spendendo la vita al servizio dello sviluppo integrale del Tanzania.
Abbiamo incontrato parecchi preti e suore anche avanzati in età. Ma nessuno di loro sembra preoccuparsene, e continuano a rimanere sulla breccia: annunciano il vangelo, insegnano, guidano la jeep, fanno operazioni chirurgiche, programmano costruzioni di case e ponti come se non dovessero mai morire.
Vivendo in missione, hanno imparato a ridimensionare anche la morte.
Valentino Salvoldi
Padre Giuseppe, hai potuto girare il mondo fin da giovane. Che cos’è stato più consono alle tue aspettative?

Ho studiato teologia per quattro anni a Washington D.C. e ho lavorato per altri nove negli Stati Uniti. So di aver ricevuto molto dall’America e le sono grato delle opportunità che mi ha dato. Ma non ho mai desiderato di diventare cittadino americano. Il mio ha voluto essere un atteggiamento di apertura al mondo, un desiderio vivo di «partire», perché il mio sogno era l’Africa, senza escludere altri continenti.
Ho sempre desiderato la dimensione pastorale della missione; ma solo per due anni e mezzo ho potuto viverla in Kenya e per cinque in Tanzania. Spesso ho avuto incarichi di altro genere, fino ad oggi che ho 62 anni. Però non mi sono mai sentito frustrato. Mi ha sorretto la convinzione che la missione non è né il posto né l’attività, ma il cuore, e che essa è al «plurale»: cioè, compiuta nella diversità e organicità dei servizi.
Nel tuo servizio di superiore generale che cosa hai imparato?

Ho incontrato molte persone significative e profetiche, ad esempio: gli arcivescovi Paulo As e Luciano Mendes in Brasile, madre Teresa di Calcutta, i cardinali Joseph Malula e Edoardo Pironio (rispettivamente in Congo e Argentina), teologi di fama internazionale. E la lista potrebbe allungarsi. Il contatto con queste e altre persone ti consente un’analisi nuova della realtà, ti apre orizzonti sconfinati e ti lascia un’impronta. Sono ricordi indimenticabili.
Ho partecipato a numerosi incontri importanti, inclusi quelli dei superiori generali degli istituti missionari. Uno tra i più emozionanti: l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo in Mozambico, presso la comunità di S. Egidio a Roma… Ho conosciuto la complessità delle situazioni dei paesi visitati e del mondo in generale. Ho avvicinato e apprezzato culture e popoli diversi, nonché una chiesa cattolica dalle espressioni più varie.
Ovviamente il mio ministero era rivolto soprattutto ai fratelli missionari, ai quali riservavo il mio tempo. Da loro ho imparato che cosa significa essere evangelizzatori nelle situazioni più disparate, remote e difficili: la guerra civile e i sequestri di padri e suore in Mozambico, lo snervante stato di apartheid in Sudafrica, lo Zaire defraudato da Mobutu, la lotta continua in Brasile per i diritti degli indios yanomami e macuxí, la guerriglia e il dramma della coca in Colombia, ecc.
Ho capito che l’atteggiamento più valido è la vicinanza, la frateità, la comprensione. Non ho mai preteso di essere maestro di missione: mi sono considerato un alunno, con il desiderio di comprendere la realtà e di amare i missionari. Ho colto il mistero della persona nei risvolti belli e meno belli. Ho appreso che il silenzio è spesso più valido della parola. Ho pure imparato a soffrire per decisioni difficili.

Pensando agli ultimi 30 anni, vedi prevalentemente dei progressi o dei regressi nell’Africa in generale?

Il progresso è visibile: africani intelligenti, capaci e sapienti in posizione di responsabilità a livello nazionale e mondiale; nazioni con più scuole e università, ospedali, città cresciute, strade asfaltate, mezzi di comunicazione più diffusi, gente che veste meglio, una dieta più ricca, più automobili, e così via.
Ma c’è anche un regresso. Il sogno che, con l’indipendenza, le nazioni dell’Africa avrebbero avuto un cammino di continua crescita e di autonomia economica si è infranto, lasciando una sensazione di sfiducia. Oggi esiste la consapevolezza che è impossibile per il continente tenere il passo dei paesi sviluppati. Questa è, forse, la più grave povertà.
Il regresso lo si vede nelle nuove guerre etniche e nelle quasi-dittature, nel numero dei rifugiati, nella decadenza generalizzata delle strutture scolastiche e sanitarie. La capacità di acquisto della moneta locale è minore rispetto ad anni fa. La giustizia è difficile da ottenersi, la corruzione è un cancro dilagante, l’Aids è un flagello con risvolti sociali immensi. Manca la pratica di un’amministrazione seria e onesta. Soldi che vengono deviati e rubati…
Problemi immani nei confronti dei quali ti senti impotente. Se fai qualcosa, avverti che è solo una goccia.

Nei paesi africani anglofoni ho notato, da parte degli studenti, un calo nella comprensione della lingua matea. Che ne pensi?

In Kenya l’inglese è parlato molto, perché la percentuale di chi frequenta la scuola secondaria è alta. In Tanzania la percentuale è molto bassa; qui inoltre il kiswahili è stato privilegiato: un fattore che ha avuto e ha grande importanza nell’unire la nazione ancora oggi, perché gli studenti e gli ufficiali governativi vengono spostati da un angolo all’altro del paese.
Il kiswahili è un patrimonio irrinunciabile: con la conseguenza, tuttavia, di staccarsi da un mondo globalizzato, che fa sempre più uso dell’inglese. La questione è dibattuta sui giornali. Sarebbe da miopi non guardare al futuro. Non per nulla parecchi mandano i figli a studiare in paesi anglofoni e molte scuole private danno priorità all’inglese come strumento di istruzione e comunicazione.

Che cosa puoi dire della situazione generale del Tanzania?
Colpisce il dato che questo è forse l’unico paese dell’Africa che non ha avuto guerre: il Tanzania è sereno fin dall’indipendenza. Può essere il frutto sia della politica di Nyerere sia del fatto che non c’è una tribù decisamente superiore e più forte delle altre. Ci sono pace e unità.
I missionari spesso commentano: «È persino una pace troppo… pacifica, senza voci che protestano contro le ingiustizie». La giustificazione data è: nel paese i conflitti non vengono risolti con la denuncia e la violenza, ma con il dialogo, l’intesa e la cooperazione tra stato e chiesa.

Ma ci vorrebbero altri «Nyerere»! Come giudichi quest’uomo a poco più di un anno dalla sua morte?

Nyerere ha avuto un grande significato politico nell’unire la nazione, nell’avere una visione e un programma da proporre. Qualcuno ha detto che era troppo idealista ed evangelico. Infatti l’ujamaa, come sistema economico, non ha funzionato e, come ogni forma di socialismo, sembra avere generato una persistente apatia: ancora oggi non è facile parlare di cooperazione, di lavoro d’insieme. Prevalgono individualismi e interessi personali.

La visione di Nyerere era nitida, ma il Tanzania è povero: non ha ricchezze del sottosuolo, un problema grave per una nazione che nasce. Fin dall’indipendenza è stato aiutato dai paesi nordici dell’Europa e da altri. Allo stesso tempo, però, Nyerere sottolineava il kujitegemea o «autosufficienza» e rifuggiva dal gioco capitalistico. Chi è venuto dopo di lui ha cambiato rotta, con il risultato di creare classi sociali in conflitto, specie nelle città.

Indubbiamente la statura politica e morale di Nyerere è grande. Ha lasciato al paese un’eredità di unità e pace. La sua visione andrebbe rivisitata e applicata ai nuovi tempi.

Dopo il cattolico Nyerere, la presidenza è passata al musulmano Mwinyi. Cosa è successo?

C’è stato un netto favoreggiamento degli appartenenti all’islam, che – si afferma – venivano messi in posti di responsabilità, indipendentemente dalla loro preparazione. È seguita una politica di apertura verso i paesi arabi. Forse la gente se n’è accorta poco; ma, se la situazione fosse continuata, oggi avremmo un Tanzania dal volto musulmano, non consono alla realtà numerica dell’islam.

E l’attuale presidente?

Mkapa è cattolico, ed è dello stesso partito di Nyerere, il «Partito della rivoluzione». Govea una nazione tra le più povere del mondo, priva di risorse e indebitata per circa 7 miliardi di dollari. È chiamato ad intervenire con urgenza su tre fronti: sanità, educazione e pagamento del debito estero; ma anche ad eliminare la corruzione. Lo promise qualche anno fa e stabilì una commissione ad hoc. Ma non si vedono i frutti, anzi!
In seguito al giubileo, il Tanzania ha ottenuto il condono di una parte del debito, purché la somma condonata sia devoluta ai servizi sociali. È un processo difficile, che avrà certamente i suoi vantaggi, ma non così immediati come si vorrebbe.

Perché non decolla l’industria?

Forse perché all’inizio Nyerere ebbe dei dubbi sugli investimenti esteri e la sua scelta prioritaria fu l’agricoltura, che oggi è di sussistenza; forse perché il governo pone condizioni troppo pesanti a chi vuol investire… temendo che i profitti volino all’estero. Anche così, circa 20 anni fa, nacquero delle aziende, ma ora la maggioranza di esse sono chiuse.
Il vuoto industriale genera mancanza di lavoro. È uno dei problemi più gravi del Tanzania. Non ci sono prospettive. Per chi studia e si prepara alla vita, anche all’università, questa è un’amara constatazione.

Da chi è maggiormente aiutato il Tanzania e con quale scopo?

Fin dai tempi di Nyerere – come hai ricordato -, i donatori più generosi di personale e mezzi sono stati i paesi del Nord Europa. Sono presenti in tanti campi: salute, agricoltura, ecologia, forestazione, preparazione e aggioamento del personale. Credo che siano due i motivi di tale disponibilità: l’affinità ideologica socialista e il desiderio di venire incontro alla povertà del paese. Poiché dubito che la seconda motivazione sia del tutto pura, sarebbe interessante sapere il prezzo che il Tanzania deve e dovrà pagare in futuro.

Rispetto ai tempi di Nyerere, oggi il paese è ancora più povero. Come vive la gente?
Di un’economia di pura sussistenza. In alcune regioni la siccità è endemica e la carestia è di casa; per cui l’agricoltura non soddisfa i bisogni della gente ed anche la sussistenza molte volte non c’è. Con questa economia è difficile educare i figli. Teoricamente la scuola è gratis, ma in realtà vengono continuamente sollecitati dei contributi: per i banchi, le costruzioni nuove, i quadei, gli esami, ecc. E la percentuale della popolazione scolastica è scesa.
Anche per quanto riguarda la sanità, il servizio dovrebbe essere gratuito. Però, se vai al dispensario governativo, le medicine non ci sono; e, per andare ai dispensari privati, spesso non hai i soldi. Così si vive alla giornata, senza possibilità di risparmio. I salari sono bassi e il governo ha già più volte dichiarato che non può aumentarli, perché lui stesso è il primo a non poterli pagare. Infatti, spesso, per gli impiegati governativi ci sono lunghi ritardi nel percepire il salario.

Nyerere aveva creato i villaggi «ujamaa». Di tali villaggi cosa rimane oggi?

Il mwalimu Nyerere aveva radunato la gente in villaggi per facilitare i servizi a tutti. Ci furono delle forzature ingiuste, che in alcune località resero odiosa l’operazione e crearono malcontento. Oggi rimane una struttura in virtù della quale ogni villaggio ha un’autorità governativa e di partito, la scuola elementare e il dispensario in molti casi. L’alfabetizzazione per tutti è uno dei grandi meriti di Nyerere.

Come funzionano i mass-media?

I giornali principali sono quattro: due in kiswahili e due in inglese. Vi sono altri organi di cronaca, ma senza indirizzo politico. Due giornali e la radio sono espressione del governo. La televisione è molto povera di programmi. Quasi inesistente internet. Il paese è, quindi, tagliato fuori dalla comunicazione globale.

Che percezione ha il tanzaniano del mondo? Come reagisce, ad esempio, vedendo i turisti?

I turisti non sono molti in Tanzania. Mancano infrastrutture, escluso un po’ il nord a motivo dei parchi nazionali. Non c’è una presenza di massa; per cui non si può parlare di impatto sulla gente. Invece a Zanzibar, negli ultimi cinque anni, sono stati costruiti 70 hotel. Il turismo si limita soprattutto a quest’isola e, meno, a Dar es Salaam. Ci sono voli diretti tra le città europee e Zanzibar. L’anno scorso i turisti furono circa 215 mila.
Quello del turismo è, in ogni caso, un mercato incerto. Prima delle elezioni del novembre scorso, i turisti avevano paura di venire; ora il timore continua, perché la situazione politica in generale è molto critica. Ci sono state bombe e almeno due hotel bruciati. Questo è controproducente, perché i turisti si guardano bene dal venire. Come si sa, poi, i profitti ritornano soprattutto alle compagnie di viaggio e ai paesi da dove provengono i turisti stessi.
Le Organizzazioni non governative aiutano il paese?

Ce ne sono molte e il governo cerca di controllarle e cornordinarle. Però si sente dire che tante nascono più per interessi privati che per aiutare la popolazione. Recentemente sono state soppresse una cinquantina di Ong.

Si può dire che la gente vive la povertà in modo dignitoso?

Oso dire che tutto è dignitoso nell’africano… Subisce dignitosamente anche la povertà, perché ha una capacità immensa di sopportazione del dolore e delle traversie varie. Ma ciò non toglie che sia un peso.
È un peso quando i genitori non possono educare i loro figli, quando mancano i denari per le medicine… quando vai all’ospedale e non ti curano, quando giunge il tempo della semina e non hai due soldi per il concime, quando vendi i prodotti a prezzi irrisori, quando i mezzi di trasporto sono scarsi, quando la malaria ti aggredisce più volte e ti debilita!
Per me è un mistero come l’africano possa vivere in certe situazioni e… sorriderti come se nulla fosse. Che le necessità siano innumerevoli, a livello personale e comunitario, lo testimonia il numero di richieste di aiuto.

Quali sono le priorità d’intervento dei missionari della Consolata per venire incontro alle necessità del paese?

Da tempo gestiamo un ospedale a Ikonda, nell’Ukinga, una zona remota. Legata alle esigenze dell’ospedale, è nata una scuola per infermiere, riconosciuta dallo stato. Da tanti anni a Mafinga è attiva un’importante scuola secondaria, che è anche una Boarding School, cioè un collegio.
Ancora: nella città di Iringa sono nati la Faraja House (casa della consolazione) e il Consolata Vocational Centre, che è una scuola professionale. La Faraja House accoglie i ragazzi di strada; la scuola professionale è per loro ed altri ragazzi. Queste opere sono a carattere regionale e assorbono molte risorse, anche finanziarie.
Poi ogni missione ha le sue strutture, che riguardano educazione, salute, acqua… Da sempre consideriamo lo sviluppo parte integrante dell’evangelizzazione. La vicinanza alla gente è una nostra caratteristica fin dagli inizi della nostra presenza in Africa (Kenya).

«Ragazzi di strada»? Pensavo che in Africa un ragazzo, orfano di entrambi i genitori, fosse facilmente assorbito dalla famiglia estesa…

Certamente era così nel passato e in alcuni luoghi continua ad esserlo. Ma, in seguito all’Aids, il numero degli orfani è cresciuto in modo tale da rendere impossibile a molte famiglie di assorbirli, avendo già grosse difficoltà a crescere i propri figli. Pertanto molti orfani fanno della strada la loro casa: vivono in bande, si danno al furto e alla droga leggera.

Quali sono gli aspetti positivi della chiesa in Tanzania?

Ricordo i più evidenti.
1) La struttura delle «piccole comunità cristiane». È una realtà capillare, un’autentica benedizione, feconda di frutti. A differenza delle comunità di base dell’America Latina, quelle tanzaniane non hanno un carattere sociale, ma solo di preghiera e riflessione sulla parola di Dio. Si desidererebbe che avessero anche un impatto sociale. Tuttavia sono una fonte di ministeri, una opportunità di aiuto vicendevole e una sorgente di istanze per l’intera parrocchia. Tutto passa attraverso le «piccole comunità».
2) L’impegno dei laici (incominciando dai catechisti) è ammirevole. I consigli parrocchiali sono presenti anche nei villaggi. E sono i laici che portano avanti tutte le varie attività e stimolano la crescita della comunità. C’è sete di formazione. Anche le associazioni sono vive e attive.
3) L’attività della chiesa nel campo sociale. Nessuna area di bisogno esula dal suo interesse. Si prodiga con generosità e successo.
«Batti il tamburo,
non i bambini!»

Q uesto è lo slogan che padre Franco Sordella e i bambini della Faraja House hanno scelto per l’inaugurazione della loro nuova scuola elementare nel settembre scorso. La Faraja House (casa della consolazione) è un centro nella città di Iringa per ragazzi difficili: in maggioranza provenienti dalla strada e parecchi orfani. Ognuno con il suo bagaglio di abbandono, violenza, miseria.
Il progetto (uno dei tanti realizzati dai missionari della Consolata) è iniziato dal nulla tre anni fa. Oggi consta di due settori: il primo, «ragazzi di strada» per la riabilitazione; il secondo, per l’avviamento professionale anche di minori che non vivono nella Faraja House. Il tutto è quasi un villaggio: comprende dormitori, refettori, cucine, laboratori, dispensario e la scuola tecnica, che annovera 60 ragazzi. Con gli altrettanti bambini della Faraja House, si raggiunge un totale di 120.
Ma ci sono anche i frequentatori della domenica: ragazzini che sopravvivono lavorando al mercato e vivendo in «tane» (ad esempio, presso i mucchi di crusca dietro i mulini). Ad essi, «il dì di festa», viene offerto un buon pasto e la possibilità di lavarsi e di non restare analfabeti.
Oggigiorno anche le scuole governative sono a pagamento: perciò pochi sono i bambini che hanno la possibilità di frequentarle. Nel paese scarseggiano strutture e maestri: così non bisogna stupirsi se, entrando in una classe, si trovano anche 100 allievi, che devono solo rimanere seduti e buoni, presente o meno l’insegnante, se non vogliono essere castigati.
Accanto al «problema scolastico», sta aumentando anche il numero di bambini che, come Issa, rimangono orfani a causa dell’Aids. Issa (Gesù) è stato accolto nella Faraja House a natale.
Visto che Gesù bambino fu rifiutato, perché – si sono detti i missionari – non cercare in città il ragazzo più abbandonato e solo? Uno di quelli che dormono nascosti per paura di essere picchiati o abusati dai più grandi… e dargli una famiglia? È saltato fuori Issa, che ha trovato finalmente casa, ma anche chiesa, scuola e lavoro.
Già, lavoro. Non bisogna stupirsi se, nella Faraja House, la prima cosa che si compra all’inizio della scuola non sono i libri, ma la zappa. L’importante è che il lavoro non diventi l’unico riferimento a scapito dell’istruzione e, soprattutto, che gli insegnanti non costringano i ragazzi a lavorare nei loro campi tutto il giorno sotto la minaccia del bastone.

M entre la Faraja House ospita bambini di strada, per i ragazzi che cercano un lavoro (in particolare le ragazze) è stato creato il Centro «Stella del mattino», anch’esso nel territorio di Iringa. Costruito e gestito dai missionari della Consolata, «Stella del mattino» ospita 60 adolescenti provenienti da villaggi dove non esistono le strutture necessarie per l’istruzione.
Il sistema educativo del Centro è «studio e lavoro»: lo stesso che vige nelle scuole statali fin dai tempi dell’ujamaa. La filosofia pedagogica di base enfatizza «l’importanza di trasmettere ai ragazzi le conoscenze che possano situarli in una buona posizione sociale e renderli cittadini capaci di autoguidarsi e portare il loro popolo fuori dalla povertà e dall’ignoranza» (J.T.K. Ulimwengu, capo editore Rai/Mtanzania).
Nel Centro si punta all’autosostentamento: sia per non dover dipendere da aiuti estei, sia per rendere più consapevoli i giovani. Qui essi possono mantenersi allevando animali, coltivando i campi e, nello stesso tempo, formandosi culturalmente per far fiorire domani tutte le potenzialità che la nazione possiede. In Tanzania nel 1996, durante il seminario organizzato dal «Centro per l’energia, lo sviluppo, la sicurezza e la tecnologia», si discusse sul deterioramento del livello qualitativo dell’educazione. Se nelle scuole primarie il problema maggiore è legato al sovrannumero, alle secondarie (dove il numero degli studenti è contenuto a causa della selezione per merito) la violenza sessuale costituisce il principale fattore di ingiustizia e continua ad essere al centro di dibattiti e della cronaca locale.
Il Ministro dell’educazione ha rivelato che, tra il 1995 e il 1998, 12.721 ragazze furono espulse dalla scuola poiché incinte. Anche da parte degli insegnanti.
«ho visto la bontÀ
liberatrice»

«A bbiamo visto i miracoli dell’amore» potremmo intitolare un libro, se volessimo narrare ciò che uomini e donne di Dio, preti e suore locali, missionari e laici, stanno realizzando a favore dei più poveri nei più remoti angoli della terra, là dove manca tutto: acqua, cibo, strade, ospedali, scuole.
La jeep s’inerpica sui monti a sud della Tanzania, oltre i 2 mila metri: antichi tratturi trasformati in «strade», che si possono affrontare durante la stagione secca, ma che si convertono in rovinosi torrenti durante i sei mesi delle piogge. Nonostante si creda che quattro ruote motrici possano fare miracoli, sovente ci s’impantana al punto da non potersi più muovere.
E quelle zone che sembravano deserte, d’un tratto si animano di persone che sbucano da ogni angolo, si organizzano in breve tempo e rimettono la macchina in condizione di riprendere il viaggio. È uno dei volti della solidarietà africana, una dimostrazione che l’antica massima vale ancora: «Io sono, perché noi siamo». Non si contano i saluti, i complimenti e i ringraziamenti, anche se qualcuno afferma che non è conveniente ringraziare perché, come dicono soprattutto i musulmani, «chi ha una ricompensa in terra non l’avrà in paradiso».
Da Njombe – dove finisce la strada asfaltata – a Ikonda, per percorrere 70 chilometri impieghiamo più di tre ore. Fortunatamente da alcuni giorni non piove. Intoo a noi spazi immensi e verde… verde dappertutto: siamo nella stagione delle piogge. Le poche abitazioni che si scorgono sono in terra rossa e hanno il tetto di paglia, dal quale fuoriesce fumo. Il cibo è cotto in pentole appoggiate su tre pietre, che costituiscono il focolare, per terra, in mezzo all’abitazione «multiuso». E il cibo è tutti i giorni uguale: polenta e fagioli.
Lo stesso cibo ci viene offerto dai parenti degli ammalati nell’ospedale di Ikonda. Quando la struttura venne ultimata, fu chiesto ai capi dei wakinga e wabena (etnie locali) come dovesse essere l’ambiente affinché i degenti si sentissero più a loro agio. Risposta: una grande stanza aerata, dove ognuno posa le sue tre pietre, simbolo dell’unità familiare, sulle quali cuoce la solita farina di mais. È meglio non cambiare troppo le abitudini delle persone. Poi toeranno al loro villaggio…
Ogni tanto suor Magda porta ai bambini un uovo oppure, alle mamme, un po’ d’olio per condire le patate bollite quando ci sono. La malnutrizione non aiuta certamente la guarigione.
L’ospedale è gestito dai missionari della Consolata. Può ospitare 200 ammalati e vi lavorano tre medici africani e tre spagnoli. Attualmente è il governo spagnolo a fornire i fondi per il funzionamento della scuola-infermiere e per la formazione degli assistenti medici; ma il personale competente è insufficiente. L’organizzazione Medicus Mundi cerca costantemente volontari, e si può contare sulla presenza di persone disposte a spendere qualche anno della loro vita per gli altri.

F ra le malattie (che richiedono il ricovero in ospedale) nel 1995 al primo posto c’era la malaria, passata poi al secondo. Oggi è l’Aids che detiene il triste primato: lo è anche nella classifica dei decessi. Nell’ospedale abbiamo sfogliato il voluminoso registro dei pazienti che fanno il test dell’Hiv.
Il fatto che tante persone vi si sottopongono significa che hanno comportamenti a rischio, o che vivono in ambienti dove il contagio può essere frequente, oppure che manifestano già alcuni sintomi. Orbene: ogni pagina del registro reca 18 nomi; quelli scritti in rosso sono «sieropositivi»; solo due (a volte tre) i nomi in nero, cioè i «negativi».
Nella regione di Iringa-Njombe la trasmissione dell’Aids è particolarmente accentuata anche a causa del lavoro «offerto» dalla Brooke Bond, multinazionale del tè. Il lavoro si protrae per 11-12 ore al giorno, anche sotto la pioggia, per una paga mensile che varia da 90.000 a 150.000 lire, a seconda della quantità di foglie raccolte.
I lavoratori, immigrati stagionali per la raccolta, vivono nelle casette degli accampamenti costruiti dalla compagnia, isolati. Ovunque ci sono contadini che non lavorano «in proprio», costretti anche a comprare il cibo (per lo più proveniente dal campo del manager). Non essendoci alcun diversivo, sono facile preda dell’alcornol e della promiscuità.
All’ospedale di Kibao (della Brooke Bond) risulta che 9 operai su 10 sono affetti da Hiv positivo. Quando la malattia comincia a manifestarsi, viene loro corrisposta una piccola liquidazione e sono licenziati. Con l’aggravante che, non essendo stati informati della natura e della pericolosità del male, tornando al villaggio, contagiano chi vi è rimasto. La compagnia del tè ha pensato di risolvere il problema così: un’ora settimanale di istruzione sull’uso di profilattici e sull’importanza di anticoncezionali e abortivi. Nessun accenno viene fatto agli effetti collaterali che, usando i farmaci Depoprovera e Norplan, comportano rischi elevati. Non a caso, nel Nord del mondo, tali farmaci sono stati banditi. E non solo perché, con il passare del tempo, causano sterilità nelle donne.
Se nei centri sanitari governativi non fossero praticate regolarmente «certe» iniezioni, il paese non riceverebbe più gli aiuti dall’estero. E questo sistema sta distruggendo l’«orgoglio delle tanzaniane». Una donna, infatti, diventa tale solo dopo aver partorito il primo figlio: da quel momento sarà «la mamma di…». Col tempo, il ricorso sommario a contraccettivi distruggerà la fertilità di un’intera popolazione.
Inoltre negli ospedali governativi, al momento del parto, soprattutto se c’è stato un cesareo o in seguito a complicazioni, spesso sono i medici a decidere indiscriminatamente, senza chiedere il consenso di alcuno, di chiudere le tube delle giovani madri. Queste vengono a scoprirlo soltanto in seguito quando, vedendo che non arrivano altri figli, effettuano visite di controllo, magari negli ospedali dei missionari.
Una tanzaniana, confidandosi con una missionaria della Consolata, ha commentato: «Noi abbiamo molta più fiducia nei vostri ospedali, perché qui c’è il timore di Dio, mentre in quelli del governo c’è solo il timore della nazione».
Maria Rosa Lorini

Valentino Savoldi e Maria Rosa Lorini